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Overlay: Storia di una ragazza nella Las Vegas degli anni '70
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Overlay: Storia di una ragazza nella Las Vegas degli anni '70

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About this ebook

Ambientato nell'affascinante Las Vegas degli anni Settanta, Overlay è la storia di una bambina nata in un contesto di violenza e abbandono. Mentre gli adulti che dovrebbero occuparsi di lei si sbriciolano via via, vittime delle proprie dipendenze e debolezze, Marlayna sviluppa un forte senso di autoconservazione, che le permette di superare le avversità con forza e determinazione. I personaggi con cui entra in contatto e le situazioni entro cui si muove la protagonista, vengono esplorati in profondità, mentre è costretta a vagare di casa in casa e di famiglia in famiglia, finché non diventa una senzatetto all'età di quattordici anni. 

L'infanzia travagliata dell'autrice rivela una forza interiore che affascinerà il lettore, e che rimarrà nella sua coscienza per molto tempo dopo aver letto l'ultima riga del libro.

Nel 2013 il romanzo si è aggiudicato il Premio per il Miglior Libro Indipendente della Nuova Generazione.

LanguageItaliano
Release dateOct 2, 2016
ISBN9781633397316
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    Overlay - Marlayna Glynn

    Uno

    Apertura: scommettere per primi.

    ––––––––

    - Non berrò e non fumerò, mai, - annuncio a mia madre con una pausa, così da rendere l'effetto di questa affermazione ancora più teatrale. Poi ammutolisco di colpo, e aspetto. Me ne sto seduta comodamente con le gambe incrociate sul lavandino lucido del bagno ad osservarla mentre si trucca.

    Le sue dita eleganti tracciano intorno agli occhi il liquido nero dell'eye-liner. La sua concentrazione pare accanirsi in questa operazione così delicata. Mentre muove sinuosa il pennellino nero tra le lunghe ciglia, la sua piccola figura è protesa in avanti, a cominciare dal girovita sottile. Anche se so che ogni singolo movimento della sua mano la sta portando un poco alla volta più lontana da me, sono come paralizzata di fronte a questo misterioso rituale. Siedo in religioso silenzio, e la guardo mentre tira fuori con cautela le ciglia finte dal loro contenitore di plastica e le preme sulle palpebre superiori. Ad ogni passaggio dello spazzolino del mascara, quando mia madre ammicca, la sua bocca si schiude formando una O scura. Il risultato è una faccia indecifrabile, non dissimile dalla vista deformata attraverso una finestra sporca. Il volto che adesso mi osserva riflesso nello specchio non corrisponde affatto al vero volto di mia madre. Sparito è il volto di sempre, con i grandi occhi blu, la pelle ammorbidita dalla crema Pond e le evidenti fossette che incorniciano un sorriso spesso timido ma perfetto.

    - Un'ottima decisione! - commenta, palesemente indifferente ai miei propositi filosofici. Crede forse che, avendo solo quattro anni, non sappia niente del mondo e dei suoi vizi? Forse è d'accordo con me. Forse non si sta curando affatto di quello che mi passa per la testa. O forse non mi ha neppure ascoltato. Non riesco mai a decifrare i pensieri di mia madre. È silenziosa, seria. Una persona che non concede nulla. Impenetrabile. La sua natura intima è come un rompicapo per me, e ogni volta mi faccio in quattro per cercare di carpire i suoi pensieri più segreti. Spesso sono costretta a programmare le mie affermazioni in modo da dare il via a una conversazione o creare comunque un qualche tipo di reazione. Ma nonostante i miei sforzi, raramente vinco la quotidiana scommessa di riuscire ad ottenere  la sua completa attenzione, o il suo affetto.

    - Bacio della farfalla?

    Esita per un istante, infine si avvicina così tanto che riesco a sentirne il profumo - Tabù. Una volta mi raccontò che la parola Tabù significa qualcosa che è considerato contro le regole, e che perciò va tenuto nascosto. L'idea mi incuriosì subito molto. Accarezza con le lunghe, soffici ciglia le mie, facendomi il solletico. A volte, quando mi sento particolarmente sola, esigo un Bacio eschimese, quindi chiudo gli occhi e strofino dolcemente il mio naso contro il suo. Ma stanotte, quando riapro gli occhi, cerco di allontanare dalla mente le continue trasformazioni del volto di mia madre. Mia madre era sempre la stessa. Eppure adesso non era più lei - come certi oggetti dipinti.

    Mi volto verso lo specchio per fissare la mia faccia, attorciglio intorno alle dita una ciocca dei miei capelli biondo pallido e mi perdo nell'abisso blu dei miei occhi. Il tizio dell'appartamento vicino, Tommy Jenkins, o come lo chiamo io Hamburger dai Capelli Rossi, una volta mi spiegò che la pupilla è come un grosso buco nero che collegato direttamente al cervello, e che se te la senti puoi farci passare attraverso un ago o qualcosa di simile. Io ci credo naturalmente, e questo perché non ho ancora imparato che le persone possono dire delle bugie. Mentre mi allontano dallo specchio, mi accorgo della miriade di lentiggini color arancia intorno al mio naso. Il risultato di quattro estati trascorse sotto il sole bruciante del Nevada. Le facce sono una fonte inesauribile di fascino per me. Esse raccontano storie che spesso le parole e i semplici gesti non riescono a rivelare. Studiando le facce si possono capire tantissime cose riguardo le persone che ci stanno intorno, e questo anche senza che una sola parola venga pronunciata.

    - Che stai facendo? - mia madre sorride e con rapidi colpi del suo pennellino per rossetto mi dipinge le labbra, applicando un colore freddo cosicché si abbini meglio col suo. Schiocco entrambe le labbra nel modo in cui vedo farlo a lei, così da spargere uniformemente il colore. So bene che il rossetto segna l'atto finale del trucco, e che quindi presto se ne andrà. Sento i battiti del mio cuore aumentare.

    Uno sguardo d'addio attraverso lo specchio, un rapido bacio sulla fronte e se ne va, diretta al Casinò dove servirà i drink ai clienti. La porta di ingresso si chiude di scatto e un silenzio pesante cala su tutta la casa. Corro verso la finestra della mia camera da letto e scosto le tenda giusto in tempo per vedere i fari della macchina di mia madre in retromarcia lungo il vialetto diventare dei puntini luminosi.

    Quando non riesco più a vederla mi dirigo in salotto. Mio padre se ne sta disteso sulla sua poltrona reclinabile in pelle scura a guardare un programma in bianco e nero. Sul tavolo accanto a lui ci sono un bicchiere d'acqua e del whisky. La sigaretta che tiene tra le dita si sta consumando, e il fumo volteggia sopra la sua testa formando delle spirali viola. Mi siedo tranquilla. Voglio guardare la tv insieme a mio padre. Ma lui si stanca dei miei tentativi di conversazione e alla fine mi ignora del tutto oppure ci mette così tanto a rispondere che decido di arrendermi. Mi faccio forza e corro verso la mia cameretta lungo il buio corridoio prima che i mostri che si trovano alla sua estremità possano piombarmi addosso e afferrarmi, quindi sbatto la porta contro il fumo e il suono della tv. Dopo qualche minuto sento un sibilo provenire dal salotto. È la tv, segno che mio padre si è addormentato sulla poltrona. Dico questo a me stessa nonostante sappia che non si è semplicemente addormentato, ma è svenuto. Una circostanza abituale.

    I programmi televisivi terminano ad un'ora considerata ragionevole. Io penso che i bambini più ragionevoli debbano dormire nei loro letti nel momento in cui si conclude l'ultimo spettacolo della sera. Questi bambini probabilmente non hanno mai la possibilità di vedere le cinque barre colorate che compaiono sullo schermo del televisore una volta che sono terminate le programmazioni. Ma noi siamo una famiglia irragionevole con orari irragionevoli, per cui ho il privilegio di bearmi di questa visione colorata ogni volta che sguscio fuori della mia stanza per dare un'occhiata a mio padre.

    Come mia madre, anche mio padre cela un volto segreto. Fisso la sua faccia priva di rughe che giace abbandonata contro la pelle nera della poltrona, e mi pare un'altra persona. I colori intermittenti della tv creano degli affossamenti sul suo volto cereo. Spengo la tv e torno correndo verso la mia cameretta, ancora una volta cercando di evitare le creature che abitano le tenebre alla fine del lungo corridoio.

    Balzo poi sul letto, in modo da sfuggire alla cattura da parte dei mostri sotto di esso. Mi sdraio e aspetto che il sonno arrivi. Provo a non guardare gli angoli bui della stanza. Se i miei occhi si posano troppo a lungo su di essi, vedrò i mostri che vi si nascondono prendere forma, diventando più grandi e minacciosi. So che è meglio non farlo. Non devo guardare. So di essere sola, e so che non c'è nessuno a proteggermi. Ma nonostante tutto, guardo. Li guardo fissi. Senza aprir bocca sfido i mostri ad uscire fuori dai loro sicuri angoli oscuri.

    Siamo in parità, i mostri e io. Loro se ne restano nascosti nei quattro angoli della mia stanza, imponenti e terrificanti. Io non mi muovo risolutamente dal mio letto.

    So di essere io ad aver ottenuto un overlay[1]. Ho il vantaggio di essere reale, io.

    Due

    ––––––––

    Carte da gioco: Il Jack, la Regina e il Re di qualunque seme.

    ––––––––

    Me ne sto seduta sul pavimento della mia camera. Tiro fuori uno dei tanti libri dal piccolo scaffale giallo che mia madre ha dipinto appositamente per me la scorsa estate. A lei piace andare a fare compere al mercatino dell'usato e portare a casa oggetti che nessuno usa più per poi aggiustarli e farli tornare come nuovi. Lo scaffale è uno di questi oggetti. Un giorno lo abbiamo trovato che era crollato da un lato, e mia madre lo ha tirato su e lo ha risistemato, poi si è spazzolata via la polvere dalle mani e ha detto:

    - Questo sarà perfetto per i tuoi libri. Lo dipingerò di giallo.

    E così fece. Quella notte mi addormentai con l'odore di vernice fresca nel mio naso mentre osservavo la prova tangibile che mia madre poteva per davvero far accadere le cose.

    Mia madre mi ha insegnato a leggere poco dopo che avevo compiuto quattro anni, e da allora ha riempito il mio scaffale di racconti e poesie. Uno dei miei preferiti è Il Ragno e la Mosca di Mary Howitt. Quando lo leggo faccio correre il dito sotto le parole, e cerco di non farmi distrarre dalle illustrazioni. Il Ragno è alto, ed elegante. Indossa un bell'abito, e tiene aperto un drappo di velluto rosso in modo da indurre la Mosca a seguirlo in una stanza detta Sala da ricevimento. Non sono del tutto certa di aver capito che cos'è una sala da ricevimento, ma è chiaro che si tratta di un posto in cui non si vorrebbe entrare. Le sale da ricevimento vanno ad aggiungersi alla lista di cose che ancora non capisco.

    I cugini, per esempio. Ogni volta che prendo Grande Ruota, la mia bicicletta, e pedalo su e giù per i marciapiedi di Flamingo Road, mi fermo sempre per guardare i cugini dei miei vicini che vanno a fargli visita. Faccio retromarcia, mi apposto in una stradina laterale e li osservo mentre escono fuori disordinatamente dalle Station Wagon con le fiancate in legno tipiche di questi anni, come tanti pupazzetti dopo un lungo e difficoltoso viaggio in macchina. Come pensavo, un giorno mi accorgo che Hamburger dai Capelli Rossi e i suoi cugini condividono la stessa chioma rosso acceso. Invidio fino all'ultima di quelle loro sfumature rossicce, e li guardo uscire dalla macchina mentre sbadigliano e si stiracchiano. Un tizio piccoletto porta una coperta che brilla nel sole mattutino. Sua madre lo tiene per mano, e tutti insieme entrano nella casa di Hamburger dai Capelli Rossi. Me ne resto seduta sul sellino di Grande Ruota, e per un istante, non appena chiudono la porta, mi sento strana, come se avessi perduto qualcosa. Un improvviso sentimento di vuoto.

    Quando chiedo perché non abbia dei cugini, mia madre scuote la testa e dice che ne ho sei.

    - Sei cugini? E perché non si fanno mai vedere?

    - Perché non voglio che si impiccino dei miei affari. Per questo noi viviamo a Las Vegas e loro in California. Non li voglio tra i piedi.

    Ecco cosa distingue la nostra famiglia dalle altre. Ho due nonne, ma le ho incontrate solo in un paio di occasioni e francamente non mi importa tanto di loro. Non vivono vicino a noi. In estate non mi invitano mai ad andare alla loro fattoria. Non mi preparano al forno i dolcetti come fanno le nonne dei libri che ho letto. Ci sono anche due nonni che le hanno sposate. Però non sono dei nonni veri. Quelli veri sono morti tanto tempo fa. Ad ogni modo non capisco molto di questa faccenda. Se un nonno non è un vero nonno, allora chi è? Qualcosa che non è reale o è falso o non esiste. E visto che non riesco a capire questa cosa dei nonni che non sono dei veri nonni, preferisco starne alla larga e non pensarci. In più mi pare una faccenda pericolosa. Neppure i miei genitori hanno conosciuto i loro padri. Entrambi erano già morti. Neanche il tempo di dire Ciao papà!.

    Figurarsi entrarci in confidenza o qualcosa del genere.

    Il padre di mia madre era stato un vigile del fuoco. Perse la vita mentre cercava di domare il peggior incendio nella storia della città del Montana nella quale si era trasferito dopo che mia nonna l'aveva mollato. Il mio nonno paterno aveva trentatré anni quando è morto. Stava guidando il suo camion quando all'improvviso frenò bruscamente e un grosso barattolo di vernice fu catapultato in aria e lo colpì sulla nuca. Lasciò questo mondo tre giorni dopo, strillando per il dolore che l'emorragia cerebrale gli procurava. Nascere maschio nella mia famiglia non faceva presagire nulla di buono. Mentre rifletto su tutto ciò, traggo un inaspettato conforto osservando i lineamenti delicati del mio viso, che testimoniano la mia incontestabile femminilità. Ogni volta che un uomo della famiglia moriva, e pare proprio che la cosa si ripetesse di frequente, le donne andavano avanti, e si sostituivano agli uomini senza ostentazione alcuna. Evidentemente è così che siamo fatti.

    Oltre ai nonni, nei libri che leggo di solito, le famiglie al loro interno intessono tantissimi legami di parentela che io non riesco a capire. Fratelli. Sorelle. Cugini. Padrini e madrine. Zie. Zii. Nonni. Cugini né di primo né di secondo grado. Cugini di secondo grado. Cugini di terzo grado. Cugini di fratelli o sorelle di secondo letto. Bisnonni. Prozii. La lista di legami che una persona potrebbe avere è lunga. Ci sono neonati, i più fortunati, che schizzano fuori dalle comodità dell'utero e atterrano al centro di uno strabiliante sistema di parentele. Per me è diverso. La mia famiglia siamo solo io, mia madre e mio padre. Dato che però noi tre riusciamo di rado a stare insieme nello stesso momento e nello stesso posto, la nostra percezione di famiglia è quanto mai indefinita.

    Questo vago sentimento, questo non riuscire a dare forma concreta al significato di famiglia scuote a intervalli regolari la mia visione della vita e del mondo.

    Avremmo a disposizione un intero mazzo di carte, dove ogni membro del nucleo familiare corrisponde a una carta. Per qualche motivo, tuttavia, nel mazzo ci sono soltanto tre carte con un volto vero raffigurato sopra di esse. 

    Tre

    ––––––––

    Underlay: una cattiva puntata. Quando si scommettono più soldi sull'eventualità che si verifichi

    la condizione sperata rispetto alla possibilità che non accada.

    ––––––––

    Ogni volta che mia madre annuncia che uno dei miei cugini passerà nel pomeriggio la tormento con un'infinità di domande. Mi immagino un ragazzino biondo della mia età che gioca insieme a me con le case delle bambole e con le Barbie, e che poi guarda Underdog e Godzilla in tv. Forse si porterà appresso quel giochino della Hasbro in cui si possono inserire dei piccoli segnapunti colorati su di una tabella per formare dei disegni e delle parole. Il mio è rotto, e soltanto la metà delle lampadine che servono ad illuminare le parole si accendono ancora. Sarebbe ancora meglio se portasse quel fichissimo giocattolo fabbrica mostri che va tanto di moda tra noi bambini. In pratica si versa una sostanza verde appiccicosa nel giocattolo e lui la cuoce, creando dei mostriciattoli gelatinosi. Uno dei miei vicini sull'altro lato della strada ha uno di questi gingilli, e io desidero poterci giocare a tal punto che a volte mi ritrovo a pensare a come potrei sgattaiolare dentro casa sua senza che lui se accorga e prenderlo.

    - Non so molto riguardo a tuo cugino. So solo che si chiama Robert e che è più grande di te, - risponde mia madre lanciandomi un'occhiata mentre, con le ginocchia sul pavimento, è intenta a pulire il ripiano interno del forno.

    - Non lo so. Mi pare che abbia i capelli castani, - mi grida da sopra la scala mentre toglie la polvere e le ragnatele dal lampadario che sta appeso in ingresso.

    - Probabilmente è tuo cugino di nono grado, - mi comunica mentre accatasta degli asciugamani freschi di lavatrice nell'armadio degli ospiti.

    - Sì, ha una sorella. Si chiama Alana. No, lei non verrà oggi, - mi spiega mentre stendiamo io da una parte e lei dall'altra le lenzuola per il letto dell'atteso ospite.

    - Cosa? Non ti sento! - urla cercando di sovrastare il rumore dell'aspirapolvere.

    Una volta esaurita la mia scorta di domande esco fuori. Vado ad accovacciarmi sul terriccio sul lato della nostra casa. Sono concentratissima a catturare delle formiche rosse per il mio allevamento di insetti. Con me c'è Regan, il mio miglior amico. Abita alla fine della strada. Regan e io trascorriamo diverso tempo insieme, come fossimo fratello e sorella. Ma purtroppo, come spesso mi viene ricordato, non lo siamo. Regan ha una sorellina e spesso siamo costretti a coinvolgerla nelle nostre attività. Il problema è che la piccoletta ha due anni e si intromette sempre. Nel salotto della casa di Regan c'è un ritratto ad olio di lui e un altro di Tiffany. Quando provo a chiedere perché non ci sia anche un mio ritratto la mamma di Regan mi lancia una strana occhiata. Pur non essendoci vincoli di sangue mia madre e la madre di Regan sono molto legate. Però essere imparentati significa poter aver il proprio ritratto ad olio appeso in bella mostra nel salotto, mentre se non lo si è non si ha questo privilegio. Un ritratto. Tutti dovrebbero poterne avere uno. Così quando chiedo alla mia mamma perché noi non lo abbiamo, lei mi lancia un'occhiata ancora più sbalordita. Questa prova tangibile della mia esistenza conta molto per me, ma mia madre non sembra averlo compreso. E le mie incessanti richieste non sembrano produrre risultati. Il mio ritratto ad olio va ad aggiungersi alla pila di Cose che non accadranno, insieme alle corse dei cavalli, ad un unicorno e a una sorella gemella.

    Capita spesso che mia mamma e quella di Regan ci prendano con loro a fare un giro in bici. Per l'occasione ci sistemano su dei seggiolini di plastica che si possono agganciare sul retro della bicicletta. Quando le mamme pedalano sull'asfalto accidentato delle strade del nostro quartiere, io e Regan canticchiamo a voce alta dei motivetti ripetitivi. Poi una delle mamme ci zittisce con un inequivocabile: - Ssh! Basta adesso!.

    Regan e io ripetiamo spesso ai nostri genitori che quando saremo grandi ci sposeremo. E a giudicare dalle foto che ci scattiamo insieme pare proprio che andrà così. Ogni anno, a Natale, a Pasqua e quando è il nostro compleanno, io e Regan prepariamo una divertente scenetta: io mi metto un vestito di pizzo bianco, lui indossa un elegante vestito color ruggine con un grosso bavero e si mette in piedi accanto a me, con il braccio che cinge maldestramente la mia vita. A volte Tiffany fa delle foto con noi. La sua bella coda di cavallo spunta dritta da sopra la sua testa come fosse un faro dedicato al dio delle sorelline.

    Sto tenendo le dita a mo' di tenaglia sopra una grossa formica quando sento il rumore di una macchina che si ferma all'inizio del vialetto. Dimentico subito Regan e le formiche e corro verso la porta principale gridando: - Sono arrivati! Sono arrivati!. Poi seguo mia madre giù nel vialetto per andare incontro a mia zia e a mio cugino. Facendo capolino da dietro le forti e abbronzate gambe di mia madre resto abbagliata dalla maestosa figura di Zia Marceline riflessa nello specchietto posteriore della sua scintillante macchina nuova di zecca. Dopo aver dato uno o due colpetti ai capelli per renderli più gonfi, eccola che scende dall'auto. Quei capelli biondicci incoronano in maniera impeccabile il suo bel viso, come un aureola resa ancor più scintillante dal sole pomeridiano.

    - Salve, Sandy, - dice rivolta a mia madre. La sua voce è quella di un angelo. Si tira su gli occhiali da sole e con grazia li poggia sulla testa.

    - Dov'è la piccola? Fammela vedere! - tuba dolcemente mentre fa un passo nella mia direzione. Si aggiusta con cura il vestito con stampe floreali e si china verso di me. - Sono tua zia Marceline! Vieni ad abbracciarmi, cara!

    Abbraccio la mia delicata zia, la mia famiglia, e chiudo gli occhi per cercare di non pensare alla trepidazione con cui sto aspettando di incontrare mio cugino. Con mia sorpresa zia Marceline è calda e soffice. Stretta tra le sue braccia, con l'intuito tipico dei bambini riesco a percepirne la fragilità. Ho paura che se la stringessi troppo forte potrei romperla, come il guscio sottile di un uovo. Zia Marceline si stacca e mette delicatamente le mani ingioiellate sulle mie spalle.

    - Adorabile, mia adorabile piccolina!

    Il suo respiro sa di estate. La voce si dissolve in un ampio sorriso, rivelando una dentatura perfetta e scintillante. Si sistema il vestito e mi presenta finalmente mio cugino Robert.

    Deve esserci un errore.

    Robert non può essere mio cugino. Almeno, non il cugino che mi ero immaginata. Somiglia ad un uomo di mezza età grasso, niente a che vedere con i cugini dei miei vicini. Non ha i capelli biondi, e sembra proprio un uomo fatto con le sembianze di un bambino, ed ha uno stomaco sporgente. Mentre fa per superarmi mi sfiora leggermente con una valigetta, lasciando dietro di sé una scia di sudore fetido e di ormoni. Mi volto e lo guardo entrare in casa. Ancora con la bocca aperta, comincio a masticarmi distrattamente un'unghia. Regan mi fa un cenno di saluto dal punto in cui stavamo giocando e si avvia verso casa sua. Io, rimasta sola nel vialetto, guardo Regan che si allontana, e non riesco a pensare alla prossima mossa. All'improvviso sono sopraffatta dalla voglia di raggiungerlo e di starmene rannicchiata nel suo salotto buio tra i ritratti ad olio. Poi mi sorge un dubbio. Non credo che Robert abbia portato la lavagnetta che si può illuminare o il giocattolo fabbrica-mostri gelatinosi.

    Quella sera, a cena, guardo Robert che, chinato sul piatto, si riempie la bocca con forchettate di maiale al forno e patate. Poi, le labbra grasse incollate alla bottiglia di soda, manda giù la bevanda con tanto rumore che riesco perfino a sentire il liquido che gorgoglia nella sua gola. Come se non bastasse mastica con la bocca aperta. A un certo punto mia zia poggia una delle sue mani curate e perfette sul suo braccio e gli dice dolcemente: - Robert. Caro. Per favore. Chiudi la bocca. Quando mastichi.

    - Vuoi un po' di frutti di mare? - dice rivolto a me, ignorando sua madre.

    Sorpresa ed emozionata per quel suo segnale di attenzione nei miei confronti gli rispondo:

    - Sicuro!

    Ma subito una smorfia di disgusto compare sul mio volto quando apre quella sua grande bocca rivelando al suo interno pezzetti di maiale, patate, piselli e mais mezzi masticati.

    - Vedi? CIBO! - ride mentre il cibo gli cade dalla bocca aperta sul piatto e sulla tovaglia.

    - Robert! Comportati bene a tavola, figliolo!

    -  È  solo uno scherzo, Ma'. Tranquilla.

    - Se John fosse qui... - comincia zia Marceline distrattamente, rivolta a nessuno in particolare, ma la sua voce viene presto coperta dal suono metallico delle forchette e da quello dei piatti.

    A parte lo scherzo disgustoso dei frutti di mare, Robert non sembra essere minimamente interessato alla mia presenza. Ma a me non importa. In fondo anche lui non ha portato nulla che possa suscitare il mio di interesse. Per il resto della serata decido di tenermi alla larga da lui e mi concentro sulla zia. Con lei accenno per gioco qualche passo di danza, e ogni volta che inspiro mi pare di essere pervasa dal senso di pace e bellezza che la zia emana dal suo corpo come una fragranza.

    Marceline era stata una promettente attrice ed aveva recitato in diversi film di Hollywood.

    - Quello era prima che conoscessi tuo zio Ben, cara. Prima che dicessi il mio addio ad Hollywood ed alla vita folle di allora. Quello non era un mondo adatto per una signora.

    Beve un sorso di vino e sorride a mia madre prima di rivolgersi nuovamente a me.

    - Tuo padre ha recitato in un film. Lo sapevi, cara? Faceva la parte di un body-builder in un film chiamato Athena.

    - Non lo sapevo! Tu lo sapevi, mamma?

    Mia madre siede con la schiena così dritta sulla poltrona vicino al divano che pare di tutto fuorché a suo agio. Mi ricordo che di solito, la sera, quando è a casa, tiene un libro tascabile davanti al viso, e lo abbassa lentamente soltanto per rispondere alle mie domande.

    - No, non lo sapevo. Ma sai com'è fatto Buddy, non parla quasi mai del suo passato. Tirargli via qualche informazione è come cercare di staccare le squame ad un serpente.

    La zia beve un altro sorso di vino.

    - Mio fratello non ha avuto una vita facile. Nessuno di noi, a dire il vero.

    Ora, mia bella piccolina, - interrompe la discussione con mia madre e sorride raggiante verso di me, - parlami di quello che ti piace di più. Voglio sapere tutto sulla mia nipotina!

    La mattina successiva Regan viene a trovarmi insieme a sua madre. Mentre le mamme stanno in cucina, io e Regan giochiamo a dama nella mia stanza. Mia madre fa capolino dalle porta e dice:

    - Noi andiamo al negozio. Robert resterà qui a controllare che tutto sia ok.

    Scatto in piedi.

    - Non possiamo venire con voi?

    - No, ci metteremo un po'. Fa' compagnia a Robert. Noi torneremo presto.

    A voce bassa, così da non offendere la zia Marceline nel caso si trovasse nei paraggi, sussurro:

    - Ti prego, mamma. Non ci lasciare con lui.

    Le mie labbra si aprono lentamente in modo da scandire ogni parola.

    Mia madre si volta dall’altra parte e distrattamente mi risponde con un:

    - Andrà tutto bene. Torneremo presto.

    La porta di ingresso sbatte. Fisso i due grandi occhi marroni di Regan. Lui restituisce lo sguardo. È evidente che nessuno di noi due sa bene cosa accadrà ora. Ma entrambi avvertiamo un brivido scendere lungo la nostra schiena. Un indefinita sensazione di pericolo. Per diversi secondi i suoi occhi non si staccano dai miei. Poi la porta della cameretta si apre. Proprio come ci aspettavamo. Prima i capelli di Robert, poi la sua faccia, infine il suo fisico robusto.

    - Giochiamo a nascondino, - dice in un unico lungo suono mentre butta fuori l'aria. Le sue parole corrono attaccate, dense come farina d'avena.

    - Non ci va. Stiamo già giocando a dama, - gli rispondo.

    - La dama è per bambini stupidi. E poi non avete scelta, scemi. Dovete fare quello che decido io. Avete sentito la zia Sandy.

    Mordendomi il labbro inferiore, mi rendo conto che Robert non se ne andrà senza una risposta affermativa, per cui accetto. Il concetto di nascondino di Robert non corrisponde al gioco che conosco io. Per esempio, quando Regan cerca di nascondersi, lui lo ferma e gli ordina:

    - Vai dentro l'armadio e non uscire. Ti troveremo noi.

    Regan lo guarda incerto e inizia ad arrotolare un lembo dei suoi pantaloncini con le dita.

    - Ma ho paura nell'armadio.

    - Già, e poi sappiamo dove si nasconde... - intervengo io.

    A quel punto Robert stende le braccia e, a mani aperte, dà uno spintone sul petto di Regan facendolo finire dentro l’armadio. Poi richiude le ante sbattendole.

    - Se esci di lì sei morto, finocchietto - dice.

    La sua mano stringe la mia.

    - Noi ci andiamo a nascondere in camera da letto.

    Qualcosa mi dice che questa è una strana decisione. Anche se ho soltanto quattro anni, so che certe cose non vanno fatte. Mentre mi trascina verso la camera da letto dei miei genitori, avverto il sudore che passa dalle mani umidicce di Robert alle mie.

    - Stenditi sul letto, - mi grugnisce. Poi si lancia di peso sul letto dal lato dove dorme mio padre. Mi immagino mio padre sdraiato lì, al mattino, quando lo osservo con i suoi capelli neri sparsi sul cuscino bianco. Chiudo gli occhi e aspetto di sentirlo tornare. Spero di percepirne la presenza nella stanza, di essere stretta nel suo braccio protettivo. Ma non arriva.

    Robert si tira giù i suoi pantaloncini rossi.

    - Vieni qui.

    - No!

    - Devi fare quello che ti dico.

    - Non voglio.

    Vieni nella mia Sala da ricevimento, disse il Ragno alla Mosca...

    - Sei proprio la cuginetta di campagna, non è vero? Non sai proprio niente. Noi siamo ricchi, e tu no. Quindi devi fare quello che ti ordino!

    Robert pare farsi sempre più grande mentre si avvicina pesantemente verso di me. Proprio come i mostri che stanno in attesa negli angoli bui della mia cameretta. I miei occhi sono attratti su di un ciuffo di capelli in un punto in cui non credevo potessero crescere. Con un movimento rapido e convulso afferra la mia mano, e quando io la tiro via con uno strattone, liberandomi dalla sua presa umidiccia, lui cerca di afferrarmi maldestramente per i capelli.

    La convinse a salire quelle scale tortuose, fino al suo antro buio ...

    Agito i miei capelli avanti e indietro e riesco a liberarmi dalla sua stretta. Corro a perdifiato fuori dalla stanza dei miei e giù nel lungo corridoio. Raggiungo la mia cameretta e sto per aprire l'armadio e liberare Regan quando sento le mani madide di sudore di Robert che mi afferrano per il collo. Mi spinge all'indietro e mi sballotta di qua e di là. Poi mi lancia contro il pavimento. Batto con la testa sul pavimento dove c'è la moquette. Regan urla.

    Penso alla Mosca. È nella piccola sala da ricevimento del Ragno, e non ne è più uscita!

    Cerco di rialzarmi mentre Robert si avvicina. Se ne sta accovacciato su di me. Sembra un grasso gatto con una lanuginosa pettinatura afro. Quando è abbastanza vicino gli do un calcio più forte che posso. Con soddisfazione riesco a sentire il contatto tra i miei piedi nudi e il suo corpo grasso.

    - Piccola stronza! – urla mentre si afferra la gamba. Si china su di me. So di non avere più speranze. Poi sento il suono secco delle portiere di una macchina che si aprono e si richiudono. Robert alza lo sguardo e subito corre in camera dei miei. Regan scatta fuori dall'armadio e va in salotto. Sta tremando, è scosso dai singhiozzi. Con le braccia magre circonda le gambe di sua madre che è appena entrata in casa.

    Io non sono corsa da mia madre. Siamo in piedi, lontane, i nostri sguardi che si incrociano attraverso la vastità del salotto. Nelle mani, di fronte a sé, tiene una grossa busta marrone a mo’ di scudo. I suoi luminosi occhi blu stanno perlustrando la stanza in cerca di qualcosa. Nel momento in cui i singhiozzi di Regan riempiono lo spazio intorno a noi, noto un’espressione di spaesamento che si propaga sul suo volto. Zia Marceline sembra così depressa e affatto sorpresa che decido subito di non dire nulla. Non voglio offenderla. Resto in silenzio.

    Robert ci raggiunge, a passi lenti, in salotto. I pantaloncini rossi di nuovo tirati su.

    - Sono proprio due bambinetti. Ho cercato di giocare a nascondino con loro, ma tutto quello che hanno saputo fare è stato lagnarsi e frignare.

    Robert mi sottovaluta. Ha deciso di provare un colpo basso e ha perso.

    Nessuno tranne me pare accorgersi che ha indossato i pantaloncini alla rovescia.

    Quattro

    ––––––––

    Deal: distribuire le carte durante una mano.

    ––––––––

    I miei genitori non sono stati sempre degli estranei. La storia vuole che si incontrarono in un bar due anni prima che io nascessi. Nessuno dei due avrebbe dovuto lavorare quella notte. Mia madre, con la schiena ben dritta come sempre, stava sorseggiando un cocktail di vino e seltz mentre il suo barboncino nero, Mustachio, se ne stava rannicchiato sotto lo sgabello.

    - Un bel cagnolino, - disse colui che sarebbe diventato mio padre. La loro storia iniziò così. Si sposarono due settimane dopo con un matrimonio lampo nel palazzo di giustizia, così come era in uso per le seconde nozze. Quello era forse l'unico giorno di pausa dal lavoro che i due avrebbero avuto, quindi furono costretti a premere sull'acceleratore. Sebbene si fosse rivelato una figura chiave per l'inizio della loro relazione, a Mustachio non venne offerto un posto privilegiato all'interno della nostra famiglia. Sfortunatamente decise di scappare via quando avevo un anno. Ricordo che avanzando a carponi dietro al povero barboncino, protesi in avanti il mio braccio paffuto e lo tirai per la coda verso di me. Tuttavia quando si girò e diede in escandescenza troppo vicino al mio viso, si guadagnò un biglietto di sola andata per il deserto. Mio padre lo caricò in macchina e fece ritorno senza di lui. A Las Vegas quando diventi indesiderato vieni portato nel deserto, e di te non si sa più nulla. Era così che funzionava.

    Mia madre è stata una reginetta di bellezza. Un giorno era salita a bordo di un bus nella piccola città natale di Morenci, in Arizona, e si era fatta tutta la strada fino ad Hollywood per partecipare al suo primo concorso. Aveva 17 anni. Era salita sul gradino più ambito del podio, in barba a tutte quelle altre graziose fanciulle più alte di lei. Tempo dopo le partecipanti avevano deciso di intraprendere un viaggio improvvisato a Palm Springs per partecipare ad un’altra gara. Arrivate all'hotel, sul lato che dà sulla piscina, vi avevano trovato nientemeno che Frank Sinatra che fumava seduto su una poltrona con indosso un lussuoso smoking.

    - Chi è Frank Sinatra? – mi informo dando prova della mia ignoranza.

    - Frank Sinatra è il più grande cantante americano, - risponde mia madre mentre alza il coperchio del giradischi.

    Con cautela posa l'ago sul bordo esterno del disco. Il rumore familiare dell'ago sul vinile raggiunge per primo le mie orecchie. Poi è come se Frank Sinatra in persona ci stesse

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