Negro? no grazie
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Negro? no grazie - Giorgio Chiavegato
quattordicesimo
Capitolo Primo
La sera era di quelle in cui è un piacere andarsene da soli per le vie della città. Ed sentiva in ogni fibra del suo corpo la stanchezza che le due ore di palestra appena fatte gli avevano lasciato, ma era una stanchezza, come dire, buona, tutta muscolare e già pregustando il momento in cui si sarebbe infilato sotto le coperte, camminava di buon passo canticchiando l’ultima canzone di Lennon.
Da quando era tornato da Saigon, ormai sei anni, erano questi i soli momenti in cui si sentiva veramente a posto; il corpo stanco lasciava vagare la mente lungo un lento, indefinito percorso, distaccata e ad un tempo curiosa di quello che la circondava. Di giorno, qualunque cosa stesse facendo, una parte del suo cervello era sempre in guardia, chiusa e fredda, pronta a difendersi.
A molti era andata anche peggio e si erano portati a casa ben altri fantasmi.
Era ormai ad un isolato da casa in un tratto con belle palazzine a due piani, fazzoletti di giardino chiusi da siepi e cancellate, quando si accorse di avere una scarpa slacciata e, posata la sacca con gli indumenti sul marciapiede, si chinò per allacciarla.
Proprio in quel momento la pesante porta in noce della villa all’altezza della quale, nascosto dalla siepe, si era chinato, si spalancò violentemente.
Ne uscì un uomo di colore visibilmente eccitato che, fatti tre passi, si girò gridando:
- No figli di puttana, questa volta non ce la farete a...-
Le parole si spensero in un gorgoglio mentre due lampi arancione esplodevano dalla porta verso di lui.
L’uomo, colpito in pieno petto, venne quasi scaraventato in aria dalla violenza dei colpi e cadde riverso sulla siepe che costeggiava il vialetto.
L’eco degli spari non era ancora spento che due uomini uscirono correndo dal portone, raccolsero il corpo esanime e, guardandosi ansiosamente attorno, rientrarono rapidamente in casa.
Ed, in strada, accucciato dietro la siepe, guardava con gli occhi sbarrati.
In un attimo era tornato indietro di sei anni.
I palazzi, le macchine, i rumori della città si erano trasformati negli alberi e nelle ombre della jungla del Viet Nam e lui era rimasto immobile a guardare, attento solo a non farsi vedere.
Dopo qualche istante si riscosse.
Sempre accucciato, piegato per la paura di essere visto e trascinando per terra la sacca, si portò di fianco ad una macchina parcheggiata lungo il marciapiede e, facendo molta attenzione, si allontanò.
Dopo un centinaio di metri, ormai al sicuro, Ed si rialzò e, in un bagno di sudore, riprese a camminare verso casa.
Era stata una notte molto dura. Alle sei si era alzato, aveva preparato il caffè e acceso la radio in attesa del notiziario.
Durante le lunghe ore insonni non aveva fatto che pensare alla scena a cui aveva assistito la sera prima.
Lui conosceva l’uomo che aveva visto cadere.
Laura, la ragazza con cui stava, glielo aveva indicato circa tre mesi prima ad un raduno del Partito Democratico tenutosi in vista delle elezioni per l’elezione del sindaco di New York che si sarebbero dovute tenere l’anno dopo. In quel meeting le organizzazioni democratiche progressiste, i rappresentanti delle minoranze razziali oltre ad ampi settori della cultura cittadina, avevano deciso di saltare il fosso e annunciato la candidatura dell’avvocato di colore William J. Harb nella corsa per la nomination del Partito Democratico.
Era stato in quell’occasione che Laura, impiegata nell’ufficio elettorale dei democratici, gli aveva indicato un negro di circa quarant’anni.
Si chiamava Clarck e aveva un fisico da lottatore con un sorriso aperto e simpatico. Sedeva in prima fila e non c’era negro presente in sala, ed erano tanti, che non lo chiamasse per salutarlo o scambiare una battuta.
Laura glielo aveva descritto brevemente: trentanove anni, diplomato alla High School, proveniva da una lunga militanza nelle file del Black Power dal fallimento del quale aveva tratto la convinzione che fosse necessario operare all’interno delle strutture del potere bianco per sperare di