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Le verità nascoste di S. Michele
Le verità nascoste di S. Michele
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Le verità nascoste di S. Michele

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About this ebook

Una sera di un secolo fa, nell’inverno del 1881, all’osteria di Bastianón, le cose si erano messe male per i Gobi. Solo una decina d'anni prima Enrico Vittorio scorrazzava per il minuscolo paese di San Michele vestito da frate in miniatura e una decina d'anni dopo percorreva strade di città con il carro stipato di sacchi di farina, dopo averne combinata un'altra delle sue. Quella volta, nell'81, si finì in una colossale rissa con morto. È per questo che lassù in collina tutti ancora lo ricordano, Enrico Gobo, e per questo motivo gli sono grati di aver lasciato il paese, lui e tutta la famiglia. Forse è per questo che perfino oggi, nel 1982, la foto di quell'uomo tronfio ed elegante, dalle mani grandi e gli occhi chiari, può ancora far paura. Ma non può essere questo il motivo per cui i paesani temono chi ha la pelle color del bronzo e chi non va in chiesa.
No, questo no. La causa di simili timori è piuttosto quella chiusura o inerzia, quella diffidenza che il cuore di ognuno serba per chi sente diverso.
Brenda, don Marco, Paolo, Marika e gli altri protagonisti “moderni” del romanzo ne faranno esperienza sulla loro pelle. Perché la verità, quella che i più non conoscono, può venire dolorosamente a galla quando meno te lo aspetti. E poi comincia una nuova vita.
LanguageItaliano
Release dateOct 7, 2015
ISBN9788899091514
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    Le verità nascoste di S. Michele - Michela Zuccollo

    Gramola

    1

    Il 24 giugno 1886 in piazza Umberto I, a Thiene, si vendevano frittelle e parpagnacchi¹. Era il gran finale della fiera di San Giovanni Battista, con le giostre e i fuochi d’artificio, proprio come ai nostri giorni.

    Una ragazza fu violentata nel vicolo cieco dietro il teatro vecchio. Nessuno se ne accorse. Lo disse ai genitori solo un mese più tardi.

    2 - Brenda

    Quell'uomo tronfio nel suo panciotto di velluto, con quel sorriso ironico, beffardo, le scarpe lustre e la postura diritta di chi non ha mai veramente lavorato, l'orologio ben nascosto in fondo al taschino tradito da una catenella agganciata al secondo bottone; quella persona lì è la causa di tutto.

    Se ne sta in piedi altezzoso come se avesse motivo di orgoglio, gli occhi chiari, forse azzurri, le mani grandi come badili, i capelli impomatati a festa.

    A vederlo così, in seppia impolverato, sembra quasi un eroe, solenne, vetusto, attraente.

    Fu a una festa in piazza che lui la fermò. La chiamò con un fischio, come un padrone col cane, poi le prese la mano in una specie di carezza e sentì la sua pelle, arida per il lavoro incessante. Poi quella presa divenne una morsa, la strinse forte, la trascinò in disparte, in fondo al viottolo. Lei non potè svincolarsi.

    Solo alla fine seppe il suo nome. Un tempo, quassù in collina, quel nome suscitava rispetto, fiducia; poi la sorte era cambiata e quel nome divenne sfiga, infine disonore. Ma chi come lei viveva laggiù, in città, non poteva sapere nulla né del Fortuna, né della rissa in piazzetta, né di GioBatta ammazzato. Lei, la Teresa, seppe il nome di lui solo un istante prima di restare sola, a piangere sui tre scalini del teatro vecchio.

    Io me la immagino così quella vicenda, e chi può dire come fu veramente? Ma, a parte questi dettagli, tutti conoscono la storia di quell'uomo, sebbene sia vecchia cent'anni. Enrico Vittorio Emanuele era un contadino del mio paese. Tutti sanno che apparteneva ai Gobi e che da bambino era caduto in una roggia, un giorno che con il padre Giovanni Battista Dalla Valle (questo era il loro cognome ufficiale) era andato in pianura a vendere il formaggio. Di quella caduta e del suo epilogo ritenuto miracoloso, Enrico aveva portato i segni per anni, vestito da fraticello dal giorno del pellegrinaggio votivo alla Madonna dell’Olmo di Thiene. Indossò un minuscolo saio fino a quando, dopo la presa di Roma da parte dello stato sabaudo, gli italiani, anche quelli che come noi veneti lo erano solo da pochi anni, si trovarono a dover decidere se stare con il Re o con il Papa.

    Suo padre prese la decisione dopo che il parroco a messa aveva tuonato contro lo stato blasfemo e anticlericale: uscì di chiesa con la ferma intenzione di rompere il voto e ridare a Enrico un’infanzia normale, cioè un paio di braghe rattoppate e una blusa recuperata da qualche cugino. A nulla valsero le lacrime della Rosina, che era una donna pia e temeva, infrangendo la promessa, di perdere anche quella creatura, la prima che fosse sopravvissuta a una serie di malattie e incidenti piuttosto comuni in quei tempi. Giovanni Battista, detto GioBatta, portò comunque un paio di galline al santuario dei cappuccini, e considerò chiusa per sempre la questione. Enrico crebbe sano, lo sanno tutti a San Michele, e arrivò ai quindici anni senza problemi, segno che la Madonna di Thiene aveva gradito il dono forse anche più che un inutile saio da fraticello.

    Per questi motivi il ragazzo era diventato il Fortuna. In effetti suo fratello maggiore, il primo Enrico, era morto a due anni di polmonite mentre il secondo, Enrico Maria, era vissuto solo pochi mesi. Enrico Vittorio Emanuele, nato invece alla fine del 1866, portava il nome del Re d’Italia per celebrare l’annessione delle nostre terre al giovane Stato, cosa che gli portò bene, per un certo periodo. Alcuni anni dopo nacquero parecchi altri bimbi, che sopravvissero senza problemi, perché erano i fratelli del Fortuna.

    Dicono, qui in paese, che Enrico fosse un grande appassionato di ragazze: girava a consegnare il latte su e giù per le colline, fino alla latteria di Santa Lucia, e mentre passava urlava qualche frase gentile alle giovinette che vedeva curve sui campi. Un tipo allegro, un simpaticone che frequentava le feste e conosceva tutti. Aveva imparato a suonare la chitarra molto bene e con quella attirava l’attenzione delle tose², mentre il rispetto dei maschi se lo prendeva con i pugni. Bazzicava fin da bambino, assieme al padre, l’ostaria di Bastianón, dove s’imparavano il gioco della briscola e quello della mora, resi entrambi più vivaci da frequenti goti de vin³.

    Nell'Ottocento quassù a San Michele viveva quella gente lì, mentre nel 1971, quando successe il resto, ci vivevo io. La piazzetta era ancora l'unica piazza del paese e anche se Bastianón non c'era più la sua osteria era ancora là, all'angolo della mia strada.

    Però io non appartenevo a questo posto. Non erano mie le vigne, i boschi, le castagnare di quassù, e io non appartenevo a loro, né al campanile, né al municipio, né alle colline, e tantomeno a quel buffone con la fascia tricolore che ballava il tango. Io, finita la scuola, ero decisa ad andare in America, dove viveva mio padre, e sarei diventata famosa come cantante. Ne ero certa. La mamma invece, lei sì che apparteneva a questi posti, anche se era nata giù in pianura. Per me lei apparteneva a quel cesso di bar dove lavorava giorno e notte, apparteneva alle chiacchiere della gente, apparteneva all’odore del mosto che imputridiva l’aria marcendo nei tini. Perfino alle pie donne della chiesa, apparteneva la mamma, che cercavano di redimerla invitandola a Messa la domenica… E lei sempre in quel bar di Fosson a ridacchiare con i camionisti ubriachi! Si credeva moderna, lei, ma era come tutto il paese: vecchio, morto. Un cimitero di contadini, muschio e animali.

    Avevo trovato quella foto sbiadita in un cassetto dell'asilo. La storia è lunga e non ve la dico tutta ora, ma ero lì per dare una mano a Loretta. Insomma, mi aveva chiesto un favore, di aiutarla a pulire una sala. Io sbuffavo, ma c'era quel vecchio mobile che sembrava avere due secoli e mi era parsa l'unica cosa divertente della giornata aprire cassetti traforati da tarli bicentenari. In uno di quei cassetti c'era quell'uomo ritratto in seppia. E Loretta non staccava più gli occhi da quella foto, fece sì con la testa, disse «el ghe soméia tuto⁴». Io chiesi «Chi?», ma lei non disse più niente. Perché aveva un segreto da custodire, l'ho capito quando alla fine mi ha offerto un tè e le ho chiesto chi era quello nella foto. Rispose «Enrico Fortuna» con gli occhi che correvano intorno per paura che qualcuno oltre a me la sentisse, e con un filo di voce aggiungendo «quel desgrassià⁵».

    Enrico Fortuna, con la sua storia che tutti sanno in paese, non era il segreto da custodire. Il segreto era assomiglia a chi.

    3

    Ogni anno la festa del patrono, a fine settembre, è per San Michele l'unico momento di fermento ed eccitazione. Capirai, cos'altro può succedere fra queste quattro case, oltre alla sagra patronale? In quegli ultimi giorni la banda provava ancora una volta i brani preparati da mesi per la sfilata; in piazza venivano montate le attrezzature per la cottura e la distribuzione di luaneghe e costesine⁶ in gran quantità, patate fritte, crauti, fagioli e ogni bendidio. Il venerdì erano stati portati tavoli e sedie, sottratti per l’occasione alle scuole e alle aule di dottrina. C'era il solito banchetto dello zucchero filato ed era arrivata perfino una giostra, un piccolo calcinculo montato dai giostrai, con quella loro pelle rugosa e lo sguardo furfante. L’arrivo del nuovo parroco conferiva all’autunno del 1971 un supplemento di curiosità. Il paese, potete immaginare, era a dir poco elettrizzato.

    Io avevo la nausea di tutto, e i compiti per le vacanze da finire.

    E ogni anno, dopo la sbornia della sagra, temutissima e funesta, arrivava la scuola.

    Cominciavo la seconda magistrale. Con la corriera ogni giorno scendevo a Schio, chiacchierando con i pochi altri cretini che come me partivano all'alba: Diego, quarta Itis, figlio del postino e nipote di Loretta, suo fratello Sergio, prima Ragioneria, grassoccio e impiccione, e uno nuovo, figlio di comunisti. L'autobus faceva tappa a Fosson, dove salivano molti altri studenti, antipatici, con la puzza sotto il naso. Si credevano di città perché abitavano solo un po’ più vicini al piano, ma erano ridicoli: alcuni si sforzavano addirittura di parlare in italiano, poveretti! Non avrei saputo dire se fossero peggio quegli sboroni lì o gli scorfani di questo paese, tutti meccanici e contadini. Con tutto il rispetto...

    Fosson è dove lavorava la mamma. Lei andava con la corriera delle 9 e tornava la sera. Io, lei e il gatto Lucrezio costituivamo la mia famiglia. La mamma aveva delle strane idee: non voleva che io mi truccassi, diceva che ero piccola per queste cose. Piccola? A sedici anni?

    Mio padre era un fantasma, lo ricordavo appena; il suo volto, per me, era quello delle poche fotografie che mi aveva lasciato: quella in cui io entro nell’acqua del mare e lui mi guarda ridendo, con la sua assurda pettinatura anni ’50; l’altra, di me che rovisto tra i frammenti di un uovo di Pasqua con la bocca sporca di cioccolata e il

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