Are you sure?
This action might not be possible to undo. Are you sure you want to continue?
Due giovani scomparsi. L'ombra della criminalità dietro a un grande appalto pubblico. La battaglia di una popolazione per impedire la distruzione del proprio territorio. Non sarà un'indagine facile per lo sonclusionato detective italo-argentino Hector Perazzo, alle prese con una storia che ben presto si rivela difficile da gestire, forse al di sopra delle sue possibilità. Districandosi fra militanti No Tav, mafiosi, giornalisti ficcanaso, politici collusi e l'amore di due donne, Hector s'imbatte persino in chi vorrebbe fargli la pelle. Un romanzo ad alta velocità. Dal creatore dell'apprezzato ciclo di gialli coloniali del maggiore Morosini, un noir contemporaneo, che si muove all'interno di una cornice di fatti ed episodi reali e realitici. Nulla o quasi di ciò che è descritto nel romanzo è accaduto, ma tutto (o quasi) sarebbe potuto accadere. E forse ancora p
tempo
Mi ero già occupato altre volte di persone scomparse. Mai trovata una. Viva, intendo. Diciamo che mi ero fatto una discreta esperienza e sapevo come andavano ‘ste cose. Se uno vuole squagliarsela volontariamente è molto difficile che non lasci piccole tracce dietro di sé: prelievi al bancomat, uso di carte di credito, la testimonianza di chi l’ha visto comprare un biglietto ferroviario o in coda al checkin dell’aeroporto. Per non parlare della scia che lascia il telefono cellulare, sempre che poliziotti e magistrati si degnino di chiedere i tabulati alla compagnia telefonica di turno.
Così, se non sei abbastanza furbo da mollare l’iPhone nel cassetto prima di uscire di casa, quelli sono in grado di seguirti come se ti avessero appiccicato un segugio al culo. Anzi meglio, perché persino lo sbirro più rognoso del mondo due o tre volte al giorno deve andare a pisciare. E rischia di perderti di vista.
Questo vale nel caso in cui lo scomparso abbia deliberatamente deciso di far perdere le sue tracce, è ovvio. Se invece l’allontanamento da casa è stato un colpo di testa o una ragazzata, di solito nel giro di due o tre giorni il figliol prodigo ha già deciso di tornare indietro, con la coda fra le gambe. Perché la vita in strada, magari con quattro soldi in tasca, non è facile per un cazzo. Neppure per gente tosta, figuriamoci per la ragazzina che si è innamorata di uno scapestrato o per il giovanotto che ha annunciatourbi et orbila discussione della tesi di laurea e in realtà è ancora fermo al secondo esame.
In tutti gli altri casi, c’è poco da stare allegri. Ve lo dice uno che se ne intende e non si perde una puntata diChi l’ha visto?. Se dopo una settimana i familiari non hanno ricevuto telefonate, la banca non ha registrato prelievi agli sportelli automatici e il cellulare continua ad essere muto, allora è meglio prepararsi al peggio. Ne ho viste già fin troppe di scomparse misteriose che si sono concluse nelle acque grigie di un canale, sulle traversine di un binario ferroviario o appese a una corda in un bosco isolato. Certo, se il cadavere non salta fuori i familiari possono sempre appigliarsi al miraggio del sequestro di persona, all’ipotesi di un’amnesia improvvisa, al sogno di un viaggio in India come cura per il male di vivere.
«Magari poi torna, forse ha bisogno di stare da solo per un po’. .», è una delle frasi preferite delle mamme affrante, che anche dopo mesi e mesi di silenzio continuano religiosamente a tenere in ordine la cameretta del figlio, così come lui l’aveva lasciata. E tu, che nella vita di porcherie ne hai viste tante e ormai hai il cuore foderato di cuoio, mica te la senti di smentirle. Ti limiti ad annuire in silenzio, alimentando quell’inutile speranza. E nello stesso tempo ti auguri che arrivi loro una telefonata dalla questura, con la richiesta di identificare un cadavere. Perché, per quanto sia brutto a dirsi, è preferibile una tomba su cui piangere all’angoscia senza fine di un genitore che aspetta inutilmente.
È per questo motivo che in quel pomeriggio piovoso di metà marzo uscii con l’amaro in bocca dalla villetta pulita e ordinata della famiglia Rebaudengo. Era una di quelle casette monofamiliari dei primi anni Settanta, quando ancora dettavano legge i geometri di paese e le abitazioni venivano su senza troppi fronzoli, con un occhio alla cubatura e l’altro al budget ristretto del committente. Quattro muri, un tetto di tegole rosse, l’alloggio al piano rialzato e sotto, nel seminterrato, garage, cantina e lavanderia. Un minuscolo giardino con alberi da frutta e un paio di cervi o nanetti in cemento, il terreno retrostante usato come orto. Quel giorno la pioggia sferzava senza pietà le piante ancora prive di fogliame e l’acqua affiorava dal praticello ormai fradicio, che cominciava a rinverdirsi dopo i rigori dell’inverno.
Raggiunsi in fretta l’automobile, un’Alfa 147 di seconda mano di cui stavo ancora pagando le rate, e non appena fui seduto al posto di guida mi accesi una sigaretta. Ero stato più di un’ora senza fumare, perché a casa Rebaudengo non avevano l’aria di amare il tabacco: i mobili erano ingombri di centrini fatti all’uncinetto, ninnoli e soprammobili d’ogni genere, come un banco al mercatino delle pulci, ma vigliacco se avevo visto un posacenere! Nel dubbio mi ero tenuto la voglia: la signora sembrava già abbastanza intimidita dai baffoni alla Charles Bronson, dai capelli lunghi, dal giubbotto di pelle nera e soprattutto dalla cicatrice che mi spuntava sotto il colletto della camicia.
Guidai senza fretta verso Torino, lasciandomi alle spalle l’anonimo paesino della bassa Val di Susa. I nuvoloni grigi nascondevano le montagne circostanti, ancora cariche di neve. Anzi, era probabile che al di sopra dei mille metri le secchiate d’acqua che venivano giù dal cielo si trasformassero in candidi fiocchi, per la gioia di albergatori e operatori turistici delle valli olimpiche, che speravano così di prolungare fino a Pasqua la stagione sciistica.
Ma lì, in Bassa Valle, di turistico c’erano solo i pullman carichi di villeggianti russi e inglesi, che sfrecciavano sull’autostrada diretti ai lussuosi hotel di Sauze d’Oulx, Bardonecchia, Sestriere.
Ripensai a quanto mi avevano raccontato i Rebaudengo, cercando di mettere un po’ d’ordine in quella strana vicenda. La figlia, Vanessa, era scomparsa da una settimana. Aveva 23 anni, stava per laurearsi in Scienze naturali, era figlia unica e non aveva mai dato un problema ai genitori. Anzi, era quel che si dice una ragazza modello. Seria, studiosa, per molti anni aveva frequentato gli ambienti della parrocchia e il gruppo locale dei boy scout. Iscritta al WWF e al CAI, univa la sua passione per la montagna e per l’ambiente agli studi universitari e sognava, una volta laureata, di poter lavorare in un parco naturale oppure di proseguire nel campo della ricerca universitaria.
Un ritratto anche troppo perfetto, che non mi convinceva fino in fondo. Sapevo per esperienza che ciascuno di noi ha un lato oscuro, è solo questione di scavare nel punto giusto. Quando ero uno sbirro dellaPolicìa Federal, giù a Buenos Aires, e in seguito anche nei tanti anni di investigazioni private, mi ero imbattuto più volte in madonnine infilzate che si erano poi rivelate delle gran maiale. O in tipetti che, dietro l’aria pulita da seminarista, nascondevano un’animaccia nera da gran figlio di buona donna. Per cui l’immagine angelicata di Vanessa mi lasciava sospettoso, anche perché di solito i genitori sono gli ultimi a sapere.
Quando avevo chiesto se la ragazza avesse mai fatto uso di droga, c’era mancato poco che la signora Rebaudengo mi accompagnasse alla porta.
- Ma come si permette? - Era sbottato il marito.
- Dovete scusarmi, ma nel mio mestiere devo cercare di sapere più cose possibile sulle persone che devo rintracciare. Anche a costo di fare domande sgradevoli.
- Certo, certo. . - aveva tagliato corto l’uomo, che lavorava nell’ufficio tecnico del Comune. - In ogni caso non solo Vanessa non ha mai consumato stupefacenti, ma ha pure collaborato con l’associazione di quel prete di Torino, che si occupa del recupero dei drogati. Credo non abbia mai fumato una sigaretta in vita sua.
Sulla statale 24 c’era poco traffico e attraverso il parabrezza bagnato vedevo scorrere le immagini dei piccoli paesi, adagiati in fila lungo la strada di fondovalle: casette modeste, vecchi condomini degli anni Settanta, scuole in cemento armato, capannoni e fabbriche che avevano vissuto giorni migliori. Ogni tanto una bandiera No Tav faceva capolino da un balcone o da una finestra.
Drappi ingrigiti, stinti, ormai logori per la battaglia che da anni contrapponeva le genti della Valle alle autorità politiche, pronte a tutto pur di veder sfrecciare un super treno tra quelle montagne spoglie e spelacchiate.
Non capivo tutta quella smania di progresso e velocità a suon di miliardi di euro, ma neppure la testarda resistenza dei valligiani a qualsiasi innovazione tecnologica, che oltretutto avrebbe portato ingenti investimenti nella loro zona. Mi guardai attorno. Tanto quel buco stretto fra le montagne non era mica la valle di Heidi!
Non c’erano prati, boschi di larici, né alpeggi baciati dal sole o malghe da pubblicità dell’Alto Adige. La bassa Val Susa era solo un paio di chilometri di terra piatta incanalata tra le rive scoscese dei monti, nei quali il buon Dio e la mano dell’uomo s’erano divertiti ad affiancare, l’uno a poche decine di metri dagli altri, l’alveo del torrente Dora, le strade statali 24 e 25, la vecchia ferrovia ottocentesca e la più recente autostrada Torino Bardonecchia, che arrivava fino in Francia attraverso il traforo del Fréjus. Acqua, binari e strisce d’asfalto che avevano confinato gli insediamenti umani alle pendici delle montagne, in brutti paesotti poco soleggiati dai quali veniva voglia di scappar via.
Forse era per quello che la gente non voleva un’altra colata di cemento. Un’altra barriera artificiale a dividere in due una valle nella quale tutti passavano il più in fretta possibile, senza mai fermarsi. Era stato così fin dai tempi di Annibale, e poi di Carlo Magno: la Val Susa serviva come porta d’accesso all’Italia. Soprattutto agli eserciti stranieri, che da lì scendevano le Alpi, spogliavano, rubavano, stupravano, ammazzavano e poi tiravano dritto. Me l’aveva detto il mio amico Marchesini, che è giornalista e di queste cose storiche ne sa un bel po’.
Insomma, ai valsusini non gliene fregava nulla di vedere passare ai 300 all’ora i lussuosi Tgv e Frecciarossa davanti a casa.
Non volevano il Tav e da più di dieci anni lo dicevano alla loro maniera, senza tanta educazione, ma in modo abbastanza convincente. Anche Vanessa Rebaudengo era contraria all’Alta velocità e da alcuni anni faceva parte di un comitato locale No Tav. Me l’avevano confidato i genitori, che pur essendo il simbolo vivente della moderazione piccolo borghese del Piemonte più profondo, erano pure loro timidamente contrari al passaggio del super treno.
E proprio alle manifestazioni No Tav Vanessa aveva conosciuto Davide, il giovane che da sette giorni, come lei, era sparito senza lasciar traccia.
- No, non sono proprio fidanzati – aveva pudicamente risposto la signora Rebaudengo, arrossendo – sono solo molto amici...
Sì, amici per parte di fava, avevo subito pensato con la mia abituale delicatezza d’animo. Ma mi ero ben guardato dall’esternare le mie opinioni sulla natura poco spirituale dell’amicizia tra i due giovani.
Ai miei occhi Davide Fazio era subito diventato la chiave di volta di quella strana vicenda. Perché se c’è qualcosa che può far deragliare una fanciulla modello dal suo percorso segnato – casa, famiglia, università, impegno sociale – ebbene, è proprio l’amore.
Soprattutto se si tratta di un amore sbagliato, di quelli che fanno rizzare i capelli in testa ai genitori e si attirano le chiacchiere dei vicini. Non c’è nulla di meglio di un vero balordo per far sbroccare le ragazze di buona famiglia.
Più lui è stronzo, meschino e maleducato e meglio l’educanda gli si avvinghia addosso, felice di sopportare le vessazioni e sempre più convinta di riuscire a redimerlo. Per cui, senza manco sapere che faccia avesse, mi ero già fatto l’idea che ‘sto Davide Fazio fosse il solito bulletto di paese, gradasso, violento e mezzo tossico. E la povera Vanessa l’avesse più o meno volontariamente seguito in qualche avventura sconclusionata.
Quasi pro forma avevo chiesto ai coniugi Rebaudengo che tipo fosse questo amico
della figlia e la loro risposta, oltre a sorprendermi, mi aveva convinto una volta di più quanto fosse stupido continuare a ragionare per cliché.
- È tanto un bravo ragazzo – aveva risposto la madre, senza esitazioni – fa l’ultimo anno di Architettura e sta già preparando la tesi di laurea. Lui e Vanessa prendono sempre il treno insieme per andare all’università.
- È anche lui un No Tav, mi pare di aver capito. Ha mai avuto guai con la polizia, magari durante le manifestazioni?
- Ma no, che cosa dice? Davide è una persona pacifica, proprio come Vanessa. Fanno parte del comitato ma non amano le frange estremiste, quelli che fanno casino, mi scusi il termine, tanto per il gusto di farlo.
Parlando con i coniugi Rebaudengo ero venuto a
This action might not be possible to undo. Are you sure you want to continue?