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Guagliuni i mala vita. Cosenza 1870-1931
Guagliuni i mala vita. Cosenza 1870-1931
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Ebook344 pages4 hours

Guagliuni i mala vita. Cosenza 1870-1931

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About this ebook

Francesco Caravetta descrive ogni ombra del paesaggio, riporta le voci che vi risuonano, cataloga ogni oggetto d’indagine. È un cesellatore di notizie, le incastra una dietro l’altra per raccontare le origini della malavita cosentina, sfatando il mito della provincia felice.
Sfogliando questo libro si coglie lo spaccato di una città, con le sue teste calde e i tanti delitti che fanno da boa ai tempi, in una sorta di via crucis del crimine organizzato dal 1870 al 1931. Una trama da romanzo d’appendice, ricostruita grazie a una rigorosa ricerca d’archivio.
Antonio Nicaso
LanguageItaliano
Release dateDec 19, 2012
ISBN9788881019649
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    Guagliuni i mala vita. Cosenza 1870-1931 - Francesco Caravetta

    collana
    Mafie

    diretta da Antonio Nicaso

    13

    Francesco Caravetta

    GUAGLIUNI I MALA VITA

    Cosenza 1870-1931

    Le riproduzioni fotografiche presenti nel volume sono pubblicate su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali dell’11 ottobre 2012. Gli originali sono conservati presso l’Archivio di Stato di Cosenza ed è fatto assoluto divieto di ulteriore riproduzione.

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2012

    ISBN: 978-88-8101-964-9

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Siti internet: www.pellegrinieditore.com

    www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Nota dell’autore

    È necessario avvertire i lettori che alcuni dei fatti raccontati potrebbero sembrare banali e non rappresentativi di un’organizzazione mafiosa. Non è così. Lo scopo non è quello di dare informazioni sull’entità del reato in sé, ma, piuttosto, quello di dimostrare che ogni reato, inquadrato in un contesto sociale di estrema povertà, va interpretato nell’ottica associativa e, perciò, che la distribuzione dei frutti del reato stesso è fatta in modo progressivo, rispettando le quote spettanti al ruolo occupato nell’organizzazione, anche se dovesse trattarsi della spartizione di un mezzo caciocavallo.

    Camorristi[1]

    È l’agosto del 1870. Già da una settimana molti dei venti[2] reclusi nella camerata numero 4 del carcere di Cosenza sono in fibrillazione nel tentativo di scavare un buco nel pavimento e poi sotto il possente muro che li tiene prigionieri. Scavano praticamente a mani nude, aiutandosi solo con qualche chiodo estratto dai loro letti e con dei pioli di legno, divelti dalle pareti, che servono ad appendere i loro panni cenciosi.

    Tolti due lastroni dal pavimento, vengono via molte pietre che nascondono sotto i letti e il buco si fa sempre più profondo.

    I carcerati più solerti sono quelli condannati per brigantaggio, altri hanno sulle spalle omicidi e tentati omicidi, altri ancora rapine e furti. Nessuno, in fondo, ha nulla da perdere, destinati come sono a scontare lunghissime condanne ai lavori forzati; quasi tutti provengono dalle province di Cosenza e di Catanzaro, uno, Giuseppe Stilo, da Africo, in provincia di Reggio Calabria.

    Sanno bene che forse non riusciranno nell’impresa e anzi, nonostante i briganti gli abbiano imposto il più assoluto silenzio, sembra quasi che non vedano l’ora di essere scoperti: non cercano di riacquistare la libertà, quanto di salvarsi dalla loro condizione di detenuti isolati dagli altri, perché ritenuti camorristi, che estorcono denaro e altre utilità ai detenuti stessi. Le estorsioni all’interno delle carceri è, infatti, un grave problema nell’Italia post-unitaria e l’isolamento dei camorristi è ordinato dal Governo con una direttiva ministeriale per risolvere la faccenda.

    Un paio di questi camorristi, Giuseppe Rocchetti e Gabriele Barletta hanno già spifferato tutto a Tommaso Mostarda, una ex guardia agli arresti per aver favorito un’evasione, e questi, a sua volta, ha raccontato tutto al capo guardiano.

    Così, quando le guardie entrano e li sorprendono a scavare, nessuno resta sorpreso.

    Il direttore del carcere, imbarazzato per l’accaduto, racconta che è venuto:

    a sapere che costoro concertavano novellamente esercitare la loro camorra e che già davano cominciamento all’opera; ed io in esecuzione degli ordini ministeriali, prese le opportune informazioni, feci novellamente separare dalla mafia dei detenuti camorristi e li feci rinchiudere tutti in una compresa dalla quale non avessero comunicazione alcuna con gli altri.

    Una specie di 41 bis ante litteram, insomma.

    Il direttore racconta anche quali sono le intenzioni dei reclusi, interrogati immediatamente:

    essi stessi lo hanno ad una voce espressamente dichiarato: noi vogliamo uscir di qua, essere messi insieme agli altri detenuti due per compresa, vogliamo la carta, vogliamo l’uso libero dei denari, vogliamo tutto quello che vogliamo, altrimenti non staremo mai quieti e romperemo tutti quei muri in cui ci rinchiuderete.

    I detenuti con la loro azione rivendicano, dunque, alcuni benefici che gli consentano di continuare l’esercizio della camorra nel carcere, pena le continue azioni di sabotaggio nel carcere. Gli albori della trattativa Stato-mafia.

    Esattamente un anno dopo, la storia si ripete, ma questa volta non più nel carcere centrale, bensì nella succursale ricavata nel vecchio castello svevo[3].

    Il capo guardiano si insospettisce, ha notato troppa tranquillità tra i camorristi[4] e, avendo ricevuto la soffiata che quei detenuti hanno contattato un muratore, Saverio Sica, per farsi suggerire quale sia il punto migliore per aprire un varco nel muro, decide di raddoppiare la sorveglianza. Teme, infatti, qualche brutto scherzo, anche se il buon senso gli dice che sarebbe stato impossibile, senza mezzi adeguati, praticare un buco largo abbastanza da introdurci una persona in quei muri spessi quasi due metri.

    Il suo intuito gli suggerisce, invece, che avrebbero potuto aggredire gli agenti di custodia durante l’orario delle visite tentando un colpo di mano per evadere e predispone dunque degli accorgimenti.

    La guardia Pasquale Pugliese, al contrario, pensa che quei malfattori stiano pensando di scavare il muro per evadere e il 7 agosto 1871, come ogni mattina, si reca nella camerata chiamata La cittadella dove sono rinchiusi i camorristi e li trova stranamente docili e ubbidienti. Come sempre li passa in rassegna e li fa uscire nel cortile, poi torna nella camerata e si mette a battere sui muri perimetrali e sul pavimento con un bastone per accertare che sia tutto in ordine. E così gli sembra. Ma l’istinto gli dice che deve indagare meglio e, ritornato indietro, ricontrolla la camerata. Per caso gli capita di guardare verso il soffitto e, con sorpresa, nota che, dove la volta del tetto si inserisce nel muro esterno, qualcuno ha attaccato un foglio di carta e capisce che quella è la via scelta dai detenuti per tentare la fuga.

    Subito li fa rientrare in cella e, chiamato a supporto un detenuto muratore, interroga gli scopini che, proprio quella mattina, hanno riferito al capo delle guardie di tenere gli occhi aperti perché i camorristi stanno organizzando qualcosa.

    Lo scopino Angelo Leone, condannato a dieci anni di reclusione per reati politici, racconta ciò che è accaduto quella notte:

    La notte dal 6 al 7 agosto ultimo ero nella corsia grande o Cittadella nella quale si trovavano rinchiusi i famosi Camorristi (…). In una certa ora che non ricordo con precisione, il Capo di essi Calogero mi fu sopra e ponendomi la punta di un coltello a piega mi impose di rimanere nel punto in cui mi trovavo e di non dire ad anima vivente quanto in quella notte doveva praticare coi suoi compagni. Dopo poco tempo in mezzo alla corsia riunirono i loro letti formando una specie di piramide fino a raggiungere la volta formando un foro con lo scopo di giungere al suppegno e da colà evadere, ma vedendo far giorno situarono nel già formato foro un foglio di carta bianca per nascondere il loro operato, per ripigliarlo poi la notte seguente; io però unitamente al compagno Castiglia ne dammo segretamente avviso al Capo Guardiano (…)[5].

    Una testimonianza determinante. Angelo Leone rivela, in tal modo, che i camorristi hanno un capo, Calogero Ricciardolo di Palma di Montechiaro, condannato a 15 anni di lavori forzati per tentato omicidio e che nel carcere i camorristi hanno a disposizione delle armi, probabilmente fornitegli da un soldato di guardia, sorpreso più volte a discutere con due di loro, ma mai identificato.

    Ricciardolo, nel frattempo, viene trasferito nel carcere di Catanzaro dove viene interrogato, fornendo le sue motivazioni:

    (…) Io mi trovavo in Cosenza nel carcere centrale e da questo fui trasportato nel carcere del Castello dove stavo assai male insieme con gli altri compagni ivi detenuti. Nel solo fine adunque di ritornare al carcere centrale si concordarono di fingere una evasione. Pertanto nel sei agosto 1871, verso due ore di giorno, accumulando i pagliericci dei letti e tavole rispettive, alcuni detenuti vi si inerpicarono sopra ed operarono una lieve lesione nella lamia della compresa. Il Guardiano di nulla si accorse; un detenuto riferì il fatto quando già si era compiuto, mentre il fatto medesimo non doveva aver seguito pel comune intendimento di far cosa simulata e non reale. E si aggiunga che se noi avessimo voluto evadere realmente, avremmo tentato la evasione di notte e non di giorno; e poi la evasione era impraticabile atteso la solidità di costruzione del Carcere (…)[6].

    Arcangelo Capparelli e Umile Cariati confermano le parole di Ricciardolo.

    Due tentativi di evasione dunque, che rappresentano il segnale della nascita della criminalità organizzata a Cosenza. Tutti gli studi in proposito sono, infatti, concordi nel ritenere il carcere come il luogo dove si sono formate associazioni criminali come la camorra, la mafia e la ‘ndrangheta. Anche a Cosenza, come hanno scritto Nicola Gratteri, Antonio Nicaso e Valerio Giardina nel volume ‘Ndrine, sangue e coltelli, (prefazione di Arcangelo Badolati, Pellegrini 2009) si formò una consorteria di tipo camorristico, ben prima di quanto generalmente si creda, cioè verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso. Pagine illuminanti quelle dei tre autori che gettano luce sulla storia della criminalità a Cosenza. La teoria che il fenomeno camorristico in Calabria fosse diffuso solo nelle province di Reggio Calabria e Catanzaro ha sviato, infatti, ogni possibile tentativo di ricerca in merito. Il ritrovamento e lo studio di migliaia di pagine di atti processuali, al contrario, dimostrano che, già dall’ultimo decennio del XIX secolo, esisteva in città una criminalità di tipo associativo. In particolare, dal giuramento di sangue all’assegnazione dei gradi via via crescenti di picciotto d’onore, picciotto di sgarro e camorrista; dalla esercitazione alla tirata di coltello con un maestro d’armi alla strutturazione in due fratellanze, quella maggiore e quella minore, alle finalità associative: tutto è perfettamente coincidente con camorra, mafia e ‘ndrangheta.

    I due episodi narrati, sottovalutati dai giudici che se ne occuparono, segnano, a nostro avviso, una sorta di spartiacque in un momento storico ancora confuso per la lotta al brigantaggio post-unitario. L’episodio avvenuto nel carcere centrale di Cosenza nel 1870 dimostra che briganti e detenuti comuni si associano, seppure senza una struttura gerarchica, per riscuotere la camorra e utilizzano delle strategie per mantenere nel carcere lo status quo, a discapito delle disposizioni dello Stato centrale.

    I fatti del 1871 segnano un passo in avanti nella conoscenza del fenomeno camorristico nel carcere perché alcuni detenuti segnalano la presenza di un capo. E se c’è un capo, c’è anche un’associazione gerarchica.

    È da qui che dobbiamo partire per ricostruire la storia della criminalità organizzata in un territorio che si è considerato sempre, o quasi, immune da questo cancro.

    Dopo questi fatti[7], a leggere gli atti del Tribunale di Cosenza, sembra che non accada più nulla riconducibile a una forma, seppure embrionale, di criminalità in forma associata fino al 1900, quando c’è il primo tentativo di processare alcune persone per associazione a delinquere.

    Ma prima che ciò accada, è necessario puntare l’attenzione su di un personaggio molto importante in questa storia: Francesco De Marco[8].

    La gita a Reggio e i vermicelli negati[9]

    Il primo marzo del 1893, Francesco si presenta a casa del Cav. Antonio Accattatis con un biglietto consegnatogli da suo fratello Gennaro da esibire al cavaliere.

    Il biglietto è una richiesta di cento lire che, senza battere ciglio, Accattatis consegna al ragazzo. Il cavaliere non fa storie perché è cliente della macelleria De Marco e il suo conto è cresciuto a dismisura: quelle cento lire sono un acconto.

    Però il giovane De Marco, ha appena diciassette anni, e, invece di consegnare i soldi al fratello, prende il treno e se ne va a Reggio Calabria.

    Cosa va a fare a Reggio Calabria? Glielo ha ordinato qualcuno?

    Il fratello Gennaro monta su tutte le furie, va a parlare col Cav. Accattatis e lo convince a denunciare Francesco per truffa, ma poi i due si accordano perché venga rimessa la querela e il giovanotto la fa franca[10].

    Gennaro ha salvato il fratello ma, da uomo onesto, non può accettare che Francesco continui a comportarsi da delinquente e sprecare il suo denaro conducendo una vita dissoluta. Così, per punirlo e cercare di limitarne le bizzarrie, va a parlare con il proprietario dell’Albergo Leonetti[11], Angelo Chiapperini, un romano che si è trasferito da tempo a Cosenza. Qui Francesco è solito andare a pranzare e il fratello intima al proprietario di non servirgli più niente, né con pagamento in contanti né tantomeno a credito.

    Francesco, ignaro del patto stretto tra il fratello e l’albergatore, appena tornato da Reggio Calabria, la sera del 9 marzo, si presenta come al solito nella sala ristorante dell’Albergo Leonetti per ordinare un piatto di vermicelli, ma Angelo Chiapperini lo manda via spiegandogliene il motivo.

    Alla discussione si trova ad assistere lo sguattero Leonardo Scigliano che, non si sa per quale motivo, va a riferire alla madre di Francesco De Marco che il figlio voleva ordinare una cena per tre persone ma non gli è stato consentito.

    Anche la madre rimprovera Francesco e lui perde la testa. Nel primo pomeriggio del 10 marzo torna all’Albergo Leonetti per chiedere ragione di quanto accaduto. Leonardo Scigliano sta lavando delle stoviglie in un angolo dell’ingresso dell’albergo, lì De Marco lo raggiunge.

    – Hai detto tu a mia madre e mio fratello che ho chiesto una cena ieri sera? – gli grida con tono minaccioso.

    – Lasciami stare, io non so niente… ho altri cazzi per la testa – risponde lo sguattero continuando il suo lavoro.

    – Buffone, parla… parla… maledetti siano i tuoi morti! – lo offende strattonandolo per la camicia.

    Scigliano reagisce e gli molla un sonoro ceffone. De Marco, sorpreso, non dice nemmeno una parola e si precipita all’uscita. Sa che lì di fronte c’è la bottega di un suo amico calzolaio, attraversa la strada e si impossessa di un trincetto posto sul banco da lavoro occupato dal garzone, un bambino di sette anni.

    Raffaele Garofalo, il calzolaio, ha sentito il trambusto e, quando vede De Marco con gli occhi iniettati di sangue che afferra il trincetto, immagina quello che vuole fare e si mette a urlare:

    – Lascia, lascia il coltello![12]

    Ma è troppo tardi. Francesco De Marco è un fulmine e quelle parole non le sente nemmeno. Rientra nell’albergo e, non vedendo più lo sguattero, si precipita su per le scale e lo trova sulla seconda rampa. Senza parlare lo colpisce alle spalle, lascia cadere il trincetto e scappa, rifugiandosi nella macelleria di un suo amico, ignaro di tutto. Qualcuno lo ha visto entrare lì e lo riferisce ai carabinieri che non hanno difficoltà ad arrestarlo.

    Questo è l’esordio di Francesco De Marco detto ’U Baccu, nel mondo del crimine. Sarà il primo capo della malavita di Cosenza.

    Francesco De Marco, detto ’U Baccu, circuisce un ragazzino[13]

    Giuseppe De Fazio è un ragazzo di 15 anni e va a scuola. Il padre può permettersi la spesa, è nel commercio. Giuseppe si toglie anche molti sfizi, come quello di offrire al suo amico Francesco De Marco il biglietto del circo equestre.

    De Marco, lo abbiamo visto, è un pessimo soggetto e durante lo spettacolo, con maestria, parlando al ragazzo delle meraviglie di Napoli, gli propone di partire quella stessa notte.

    – Ma come ci andiamo? L’ultima lira l’ho spesa per il tuo biglietto – gli fa osservare Giuseppe De Fazio.

    – Beh… un sistema ci sarebbe – replica ’U Baccu – tuo padre ha sempre un sacco di soldi addosso. Quando finisce lo spettacolo vai a casa, tanto è notte e dormiranno tutti; e gli prendi il portafogli, poi fittiamo una carrozza fino a Paola e ce ne andiamo a Napoli a scialarci, a mangiare e fottere.

    Il giovane De Fazio ci pensa un po’, poi accetta la proposta. Usciti dal circo, i due vanno a trascorrere un po’ di tempo nel caffè Notte e Giorno, così verso le 22,30 aprono il portone del palazzo di via del Carmine dove, al terzo piano, abita la famiglia De Fazio e salgono con cautela le scale, accendendo dei fiammiferi per non inciampare.

    De Marco aspetta sul pianerottolo mentre Giuseppe entra e, in punta di piedi, va nella camera da letto dei genitori. Non ha bisogno di luce, la conosce palmo a palmo. La giacca di Antonio De Fazio è appesa ai piedi del letto in ferro battuto, sta per sfilare il portafogli dalla tasca interna, ma la madre si sveglia all’improvviso e Giuseppe deve desistere. Intanto ’U Baccu, non vedendolo arrivare, intuisce che qualcosa è andata storta e se ne va.

    Il giorno dopo, sabato 26 gennaio 1901, De Marco va a cercare il ragazzo in compagnia di un suo degno compare, Pietro Greco, detto Grupillo, pluripregiudicato, appena rientrato dal soggiorno obbligato. Insieme convincono Giuseppe a ripetere il colpo, dicendogli che non sarebbero più andati a Napoli ma a Messina dove si sarebbero divertiti di più e avrebbero anche avuto la possibilità di guadagnare dei soldi. Il ragazzo si fa convincere di nuovo, in fondo gli piace l’idea di spassarsela a spese del padre. Anzi, il modello di vita che i suoi due nuovi compari gli prospettano gli va molto a genio. È quello che cercherà di fare in futuro.

    Quella notte fila tutto liscio. Giuseppe preleva il fascio di banconote[14] e raggiunge i due amici. Tutti insieme buttano giù dal letto il cocchiere Francesco Galeano, di cui ’U Baccu è cliente (notturno) abituale, e pattuiscono il compenso di 50 lire per il passaggio fino a Paola.

    Lungo il viaggio i tre cambiano itinerario e si fanno portare a San Lucido con un supplemento di 5 lire per il cocchiere, per evitare di incappare in un eventuale telegramma di denuncia.

    A San Lucido i tre si dividono. Greco, che si fa dare 60 lire per lui e 10 per la madre, va a Messina, gli altri due a Napoli. De Marco, a sua volta, pretende che Giuseppe gli dia 50 lire da mandare alla moglie a Cosenza con un vaglia postale.

    Ma cosa andrà mai a fare Pietro Greco a Messina? Mistero.

    Arrivati a Napoli, ’U Baccu pretende che il ragazzo gli compri un abito, un paio di scarpe, maglie, mutande, calze e altri accessori.

    De Marco si toglie ogni genere di sfizio e fa fare a Giuseppe il giro dei bordelli, dove contraggono una malattia venerea, gozzovigliano per cinque giorni, poi tornano a Cosenza senza un centesimo.

    ’U Baccu e Grupillo vengono arrestati ma a De Marco viene concessa la libertà provvisoria per le sue cattive condizioni di salute a causa della malattia venerea appena contratta. Il 4 luglio 1901 i due sono sottoposti a processo ma, all’inizio del dibattimento, si presenta solo Pietro Greco. Francesco De Marco invece fa pervenire un certificato medico perché affetto da "lipotimia cerebrale di natura sifilitica"[15], i giudici non gli credono e lo condannano in contumacia. Si presenta due giorni dopo accompagnato dal suo avvocato, l’on. Nicola Serra, per presentare i motivi di appello.

    Una nuova visita nel carcere

    Nella prima metà di agosto del 1896 vengono trasferiti nel carcere di Cosenza 14 detenuti, condannati per associazione a delinquere, dalla provincia di Reggio Calabria e vi resteranno quasi tutti fino alla fine di marzo del 1897.

    Provengono per la maggior parte dai paesi e dalle associazioni criminali più attive. Si tratta di Marco Molgari di Roccaforte del Greco, Antonino Rodà di Gallicianò, Pietro Palamara di Roccaforte del Greco, Domenico Traclò di Bova, Carmelo Mollica di Casalnuovo, Angelo Iorfrida di Roghudi, Carmelo Stillitano di Roghudi, Vincenzo Petronio di Bova, Domenico Misiferi di Bova, Domenico Iorfrida di Bova, Antonio Favasuli di Africo, Bruno Collea di Africo, Giuseppe Condemi di Gallicianò e Giuseppe Cartisano di Bova[16].

    Nello stesso periodo, anche se per pochi giorni, alcuni detenuti cosentini vengono rinchiusi nelle stesse celle con i reggini. Si tratta di Ippolito Spadafora, Giuseppe De Francesco, Francesco De Marco, Goffredo Brunelleschi, Francesco Mandoliti, Giuseppe Galasso, Aurelio Marrelli Linori, Francesco Runco, Annibale Mandoliti, Francesco Cundari, Francesco De Tommaso, Francesco D’Andrea, Francesco De Francesco, Giuseppe Pizzarelli.

    Un fatto rilevante questo. Secondo i giudici del Tribunale di Cosenza, infatti, è il momento in cui i detenuti cosentini apprendono da quelli reggini le regole della camorra e cominciano a metterle in pratica associandosi tra di loro[17].

    Tra il 1897 e il 1900, infatti, in città, si forma la prima associazione a delinquere con le caratteristiche, le regole e i riti delle altre associazioni più conosciute.

    Tra i detenuti cosentini, Francesco De Tommaso, Francesco De Marco e Francesco D’Andrea sono quelli che i carabinieri indicano come i capi della nascente malavita. Man mano altri li sostituiranno.

    I tre mariuoli[18]

    La notte tra il 24 e il 25 agosto del 1897 la città dorme tranquilla. Nelle stalle di Giuseppe Rizzo a Via Rivocati i cocchieri dormono sulla paglia accanto ai cavalli.

    Due ombre furtive si aggirano per i locali mettendo le mani nelle tasche delle giacche e dei panciotti appesi ai chiodi sulle pareti. Una terza ombra sta di guardia vicino alla porta.

    Qualche centesimo e un paio di coltelli a serramanico: è questo il misero bottino. Poi una mano si posa su un portafogli, forse è il colpo buono, ma una voce[19] urla che ci sono i ladri. I due in un attimo controllano il portafogli, non contiene nemmeno un centesimo ed è pure rotto. Lo buttano e si precipitano fuori. Uno dei due cade, l’altro, insieme al compagno che fa il palo, spariscono nel buio della notte. Due cocchieri bloccano a terra lo sconosciuto e aspettano l’arrivo degli agenti che gli trovano in tasca 30 centesimi.

    Si chiama Ferdinando Basile, ha vent’anni, è un pregiudicato senza fissa dimora che, per sbarcare il lunario, oltre a piccoli furti, fa il garzone di carrozza, cioè pulisce le carrozze per conto dei cocchieri.

    Lo interroga una guardia che non va tanto per il sottile. Si chiama Ferdinando Ciaccio e riesce a farlo parlare tant’è che la mattina successiva viene

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