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Lo sparviero e la rosa
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Ebook451 pages7 hours

Lo sparviero e la rosa

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About this ebook

Un uomo che si batte per i propri ideali non teme di lottare per amore...

Regno Italico-Germania, X secolo d.C.
La penisola italica è dilaniata da lotte interne per il potere e il dominio.
Gli imperatori tedeschi, gli eredi carolingi e il clero si contendono la sovranità di un paese in rovina.
Il giovane Ascanio di Castellana si batte per affermare i propri diritti e difendere dalle prepotenze la nobiltà minore e il popolo, vessati dai potenti e dalla Chiesa, avvalendosi spesso di metodi illeciti che gli procurano fama di avventuriero, ma lo rendono popolare.
I suoi nemici, allo scopo di arrestarne la temuta ascesa politica e comprometterne la reputazione, non esitano ad attirarlo con le lusinghe nella loro sfera d’influenza, fino a combinare il suo matrimonio con Griselda, educata in convento e figlia di un potente principe tedesco, uomo dispotico e crudele che pur di favorire l’ambiguo progetto dell’imperatore è pronto a sacrificarla.
Fra scontri armati, duelli e tradimenti, Ascanio e Griselda si amano. Tuttavia sul loro futuro si addensano nubi tempestose e nuove sfide metteranno alla prova la loro unione.
Ma un uomo che combatte per i propri ideali non teme di lottare per amore della sua donna.

L’AUTRICE
Alexandra J. Forrest è lo pseudonimo con cui Angela Pesce Fassio firma i suoi romance storici. Nata ad Asti, dove risiede tuttora, è un’autrice versatile, come dimostra la sua ormai lunga carriera e la varietà della sua produzione letteraria.
L’autrice coltiva altre passioni, oltre alla scrittura, fra cui ascoltare musica, dipingere, leggere e, quando le sue molteplici attività lo consentono, ama andare a cavallo e praticare yoga. Discipline che le permettono di coniugare ed equilibrare il mondo dell’immaginario col mondo materiale.
I suoi libri hanno riscosso successo e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero.
LanguageItaliano
Release dateNov 16, 2015
ISBN9788892518230
Lo sparviero e la rosa

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    Lo sparviero e la rosa - Alexandra J. Forrest

    Alexandra J. Forrest

    Lo sparviero e la rosa

    Romanzo

    Della stessa autrice in formato eBook

    La locanda dell’Angelo

    La sposa del Falco

    L’Artiglio del Drago

    Sotto il segno delle Aquile

    Il disegno del Fato

    Il sogno di una Regina

    Inganno e sortilegio

    Lo sparviero e la rosa

    I edizione digitale: novembre 2015

    Copyright © 2015 Angela Pesce Fassio

    Tutti i diritti riservati. All rights reserved.

    Sito web

    Facebook

    ISBN: 978-8-89-251823-0

    Copertina:

    Periodimages.com : Jax & Foster

    Progetto grafico: Consuelo Baviera

    Sito web

    Facebook

    Edizione digitale: Gian Paolo Gasperi

    Sito web

    1

    Regno Italico-Germania, X sec. d.C.

    Le solenni celebrazioni religiose per la Festa dell’Assunzione avevano attirato a Pavia numerosi fedeli provenienti da ogni feudo e città. Molti avevano affrontato un lungo viaggio, ma solo pochi fortunati erano riusciti a trovare un ostello in cui riposare.

    In prossimità dell’evento, la città e i dintorni straripavano di forestieri e non vi erano alloggi disponibili per i più poveri. La gente dormiva in strada, accampata alla meno peggio dentro e fuori la cinta di mura, e persino i gradini delle chiese erano gremiti di viandanti. I mercanti avevano preso alloggio nelle locande, i signori trovavano ospitalità presso altri nobili, ma la moltitudine di miseri era costretta ad arrangiarsi e non esitava a girovagare mendicando per raggranellare qualche moneta.

    Tutti quanti, ricchi e poveri, erano affratellati dalla fede e nei loro cuori ardeva la speranza di assistere a qualche prodigio. Coloro che erano afflitti da disgrazie e malattie pregavano per ricevere la grazia della guarigione, le donne sterili invocavano la benedizione di un figlio, genitori imploravano il ritorno dei loro cari lontani. In mezzo a una moltitudine così variegata, non mancavano borseggiatori, predicatori itineranti, artisti girovaghi che si esibivano agli angoli delle strade, zingare che per un obolo predicevano il futuro. Né potevano mancare elementi sovversivi abilmente dissimulati nella calca, pronti ad accendere negli animi la fiamma della ribellione e provocare sommosse.

    Sulla piazza assolata e gremita da una folla di fedeli, sfilò un imponente corteo di vescovi e abati. Un coro salmodiante l’accompagnava, segno che la processione si stava dirigendo verso la basilica consacrata alla Vergine. Dalle strade laterali, vari gruppi sciamarono per unirsi al corteo, formando una fiumana che transitò solenne lungo la via principale pavesata a festa. Erano così tanti che parve non potessero essere contenuti tutti nella pur vasta piazza antistante la maestosa cattedrale.

    Centinaia di miliziani vigilavano per mantenere l’ordine. Già nel corso della notte, dietro segnalazione di agenti del governatore, i soldati avevano effettuato delle perquisizioni, sequestrando armi e arrestando sospetti. Ma la minaccia poteva annidarsi ovunque e gli armigeri scrutavano attenti le facce anonime dietro cui si sarebbe potuto celare un potenziale nemico.

    Tuttavia, fino a quel momento non si erano verificati incidenti. Nulla aveva turbato la pace e la concordia della festa solenne.

    Nulla… finché un gruppo di giovani fendette la calca suscitando qualche protesta e si diresse verso la scalinata. Pochi se ne avvidero. L’attenzione era concentrata soprattutto sui prelati e i nobili che sfilavano diretti al portale spalancato da cui proveniva l’eco smorzata di canti sacri, e il gruppo raggiunse la sommità senza che nessuno cercasse di fermarlo.

    Poi, uno di essi cominciò ad arringare con toni vibranti la folla.

    La sua voce tonante non poté essere ignorata. Qualcuno lo schernì, altri lo fischiarono, ma presto sulla piazza scese il silenzio e i presenti ascoltarono le sue parole.

    «Fratelli, è giunto il momento di dire basta alla schiavitù e alla tirannide! Mi rivolgo a te, popolo oppresso e asservito, e ti dico: svegliati! Ribellati e insorgi contro lo straniero che ha fatto del nostro paese terra di conquista, che ci schiaccia sotto il suo tallone e impone le sue leggi! Rivendica il tuo diritto alla libertà con la forza. Impugna le armi e combatti!»

    Un tumulto si levò a interrompere il suo proclama, mentre un manipolo di armigeri si precipitò a circondare lui e i compagni. Malgrado il numero soverchiante dei soldati i giovani opposero resistenza. Il tafferuglio degenerò. Da sotto la scalinata furono lanciate delle pietre. La folla rumoreggiò incollerita e si scatenarono furiosi scontri. Vescovi, abati e nobili, fra cui il governatore, si rifugiarono dentro la basilica e ne sprangarono le porte. Altri reparti di armigeri si schierarono a protezione di quelli che trascinavano via a forza i giovani. Sulla piazza gli animi infiammati innescarono una reazione violenta che venne affrontata con le armi.

    Presto la città si tramutò in un campo di battaglia.

    Il governatore, intrappolato all’interno della chiesa, non poté intervenire per mettere un freno alle violenze perpetrate dai soldati contro la cittadinanza. Il comandante della sua scorta personale lo dissuase, poiché se fosse uscito durante l’infuriare dei combattimenti non gli avrebbe potuto garantire adeguata protezione. Dal canto suo, il principe Marcus di Reisenthal non aveva abbastanza coraggio per rischiare e preferì restare la sicuro, circondato da pavidi vescovi e abati mormoranti preghiere, e da nobili ancora più atterriti di lui.

    Verso sera udirono battere forti colpi sulla porta e si spaventarono. Il comandante allineò i suoi uomini a difesa e andò ad aprire con la spada in pugno. Si trovò davanti un reparto di armigeri il cui sergente lo informò che la città era pacificata e che i signori, laici ed ecclesiastici, potevano lasciare la basilica senza pericolo. Aggiunse che i sovversivi erano stati tradotti in carcere. Non soltanto quelli che avevano provocato la sommossa, ma anche molti di coloro che erano insorti.

    «Quanti morti?» chiese il cavaliere.

    «Non abbiamo subito gravi perdite, signore.»

    «Mi riferisco ai civili, idiota!» esclamò l’altro indicando la piazza disseminata di cadaveri dove si aggiravano, fra pianti e lamenti, donne e ragazzini.

    «Non lo so, signore.»

    «Sua eccellenza vorrà un rapporto dettagliato. Qualcuno pagherà per questa insensata carneficina!»

    Il piccolo convento era isolato e lontano. Un luogo di pace in cui non era giunta l’eco del tumulti che avevano insanguinato Pavia.

    Le suore vi conducevano un’esistenza semplice, votata alla meditazione e alla preghiera, ma accoglievano anche giovinette a cui impartivano un’educazione e un’istruzione consone al loro rango. Insegnamenti che non solo riguardavano attività prettamente femminili, ma includevano nozioni di cultura generale e molte altre conoscenze utili. L’impegno che le monache profondevano nella formazione delle giovani educande aveva reso il convento assai rinomato e le richieste di ammissione erano così numerose che non sempre era possibile soddisfarle.

    Griselda era stata ammessa cinque anni prima e adesso stava per tornare a casa, pronta ad affrontare il futuro che suo padre avrebbe deciso per lei.

    «È permesso?» domandò una voce sottile.

    Griselda posò lo specchio e si girò verso la porta facendo ondeggiare i lunghi capelli biondi. «Avanti.»

    Si affacciò il viso sorridente di suor Agata. «La madre superiora mi ha mandata ad avvisarvi che la carrozza è arrivata. Lei vi attende in parlatorio.»

    «Sono pronta.» Griselda si alzò e prese il mantello, indugiando qualche istante a guardarsi attorno. Il baule e i suoi effetti personali erano già stati portati fuori e la piccola stanza le parve ancor più spoglia. Le sfuggì un sospiro. L’aveva abitata così a lungo che aveva finito per affezionarsi.

    «Andiamo, cara», la esortò suor Agata. «Non siete contenta di tornare a casa?»

    La mia casa è qui, pensò con una fitta di malinconia. E quando chiuse la porta dietro di sé le venne voglia di piangere.

    «Madre Gertrude desidera salutarvi», le disse suor Agata nel corridoio. «Non lo vuole mostrare, ma la vostra partenza l’addolora.»

    «È stata tanto buona con me, in questi anni. Anch’io sentirò la sua mancanza. Tutte voi mi mancherete.»

    «Voi avete portato un raggio di sole fra queste mura. Siete un angelo.»

    Griselda arrossì. «Suvvia, non esagerate.»

    «La modestia è una virtù, ma è innegabile che il Signore è stato generoso e vi ha donato bellezza e intelletto. Fatene buon uso, mia cara.»

    «Cercherò di non deluderlo», sorrise Griselda.

    Erano arrivate all’ingresso del parlatorio e suor Agata la invitò a entrare. Griselda esitò, poi abbracciò la suora.

    «Vi ricorderò nelle mie preghiere», le sussurrò all’orecchio prima di lasciarla e varcare la soglia.

    Madre Gertrude era una donna minuta e fragile, ma il suo aspetto delicato nascondeva una grande forza e una volontà ferrea. Non esternava mai le proprie emozioni, tuttavia provava per Griselda un affetto quasi materno e quel giorno non nascose la commozione.

    «Sapevo che questo momento sarebbe venuto», sospirò prendendole le mani con dolcezza. «E credevo di esservi preparata, ma la vostra partenza mi rattrista. Fino all’ultimo ho sperato che avreste pronunziato i voti.»

    «Ci ho pensato, ma non mi sento chiamata a servire il Signore, anche se confesso che temo di affrontare ciò che mi attende fuori da qui. Voi e le altre sorelle siete state la mia famiglia per tutti questi anni e mio padre, che è sempre stato poco meno di un estraneo, ora lo sarà ancora di più.»

    «Vostro padre è un uomo rigido, ma a modo suo vi vuole bene. Cercate di non giudicarlo troppo severamente, mia cara. Ora abbracciatemi e diciamoci addio.»

    Griselda era sul punto di piangere nell’abbraccio della badessa, ma riuscì a dominarsi, malgrado un nodo le serrasse la gola impedendole di parlare. Fu la badessa a staccarsi da lei e a spingerla verso la porta.

    «Pregherò per la vostra felicità», le disse mentre usciva.

    Pochi istanti dopo Griselda era fuori. Batté le palpebre alla luce troppo intensa. Baule e bagagli erano già stati caricati sul carro e la scorta di armati l’attendeva. Con occhi offuscati di lacrime guardò l’uomo che le si fece incontro. Eglund di Hassen, il comandante della guardia, il più fidato dei cavalieri di suo padre.

    «Venite, mia signora», disse porgendole la mano e guidandola verso la carrozza. «Vostro padre è ansioso di rivedervi.»

    Non tanto ansioso da scomodarsi a venire di persona, rifletté Griselda con una sfumatura di acredine nel salire a bordo dei veicolo. D’altronde, durante gli anni in cui era stata in convento, si era recato a farle visita un paio di volte appena. Prese posto sul sedile, reso meno scomodo da cuscini, e il cavaliere chiuse lo sportello, poi tirò le cortine e balzò in sella al proprio cavallo. Mentre il piccolo corteo si avviava, Griselda si accorse di non essere sola e per la sorpresa sgranò gli occhi.

    «Brigida, sei proprio tu?» esclamò nel riconoscere la fedele governante. Malgrado gli anni, non era cambiata.

    La donna sorrise. «Chi altri avrebbe potuto mandare vostro padre per proteggere la vostra reputazione?»

    Griselda s’irrigidì. «Certo, la mia reputazione è la sola cosa che gli stia a cuore.»

    «Non siate così acida, mia signora. Credevo sareste stata contenta di vedermi.»

    «Lo sono, naturalmente», sospirò la giovane in tono più dolce.

    «Lasciatevi guardare», disse Brigida scostando il velo che le celava parte del viso. «Siete bella come vostra madre.»

    «Davvero? Io non la ricordo.»

    «Morì che eravate piccola. Troppo per poterla ricordare.»

    Il pensiero della madre che non aveva fatto in tempo a conoscere offuscò il suo bel viso. Forse, se fosse vissuta, suo padre sarebbe stato più affettuoso e meno intransigente. «Come sta il potente principe di Hornstadt? Si è un po’ ammansito, in questi anni, o è il mastino di sempre?»

    Brigida rise. «Vedo che la somiglianza con vostra madre è soltanto fisica. Tutto il resto l’avete ereditato da vostro padre. In convento non vi hanno insegnato a essere più… remissiva?»

    «Le buone monache si sono prodigate a insegnarmi di tutto, incluse l’obbedienza e la modestia, ma temo di non essere stata un’allieva così diligente. Comunque, mio padre non avrà di che lamentarsi. Prometto che mi comporterò bene.»

    «Sono lieta di vedere che non siete cambiata molto. Da bambina eravate talmente vivace da rendere quasi impossibile tenervi a freno. Soprattutto per questo foste mandata in convento.»

    «Ma adesso che sono una donna il principe desidera che torni al suo fianco e vorrà usarmi per i suoi scopi.»

    «Non conosco i progetti di vostro padre, ma è probabile che contemplino il matrimonio. Ormai avete l’età giusta per prendere marito.»

    «Uno sposo scelto da lui, abbastanza influente presso l’imperatore da procurargli ulteriori vantaggi e privilegi, nonché favorire la carriera di mio fratello.»

    «La vostra amarezza mi addolora, cara bambina.»

    «Sono forte e saprò sopportare ciò che mi riserverà il futuro. Non mi illudo di poter essere felice. D’altronde, è destino di ogni donna sottomettersi alla volontà degli uomini, poiché il potere è nelle loro mani.»

    L’ancella la guardò preoccupata. Griselda era fiera e indomita, troppo simile al padre per cedere senza lottare, ma temeva che sarebbe uscita sconfitta e ferita dall’impari confronto. Nessuno poteva tenere testa al principe Magnus senza uscirne malconcio.

    In quel momento la carrozza si arrestò e il comandante della scorta sbraitò alcuni ordini, mentre il suono di cavalli lanciati al galoppo si faceva più vicino. Griselda scostò la tendina per gettare un’occhiata fuori e scorse sopraggiungere un manipolo di cavalieri avvolto in una nube di polvere.

    Eglund di Hassen era a fianco della carrozza e tratteneva il cavallo scalpitante. La sua espressione era cupa e minacciosa.

    «Cosa succede, comandante?» chiese Griselda con lieve apprensione.

    «Niente di cui preoccuparsi, mia signora. Restate dove siete e tutto si risolverà in fretta», replicò l’uomo.

    Invece di obbedire, Griselda si sporse a guardare i cavalieri. «Chi sono quegli uomini?»

    «Banditi da strada, altezza», dichiarò Eglund sprezzante. «State tranquilla; so come trattare certa marmaglia. Ritiratevi.»

    Lei non si ritrasse come le era stato ordinato e ignorò l’insistenza con cui Brigida le tirava il mantello per osservare il manipolo, ormai così vicino da consentirle di vedere colui che ne aveva il comando e che si distingueva fra tutti, benché pure lui celasse le proprie sembianze sotto una maschera. Era circonfuso da un’aura di potenza e trasudava una forza simile a quella del grande stallone nero sulla cui sella troneggiava disinvolto. Mentre i componenti della masnada caracollavano intorno alla scorta e ai veicoli con aria di sfida, beffardi e provocatori, il capo spinse il cavallo verso Eglund.

    Fra i due intercorsero occhiate brucianti e Griselda trattenne il respiro per la sensazione che un fluido ardente passasse dall’uno all’altro.

    «Messere, vi informo che state transitando sulle mie terre e perciò esigo il versamento di un pedaggio», dichiarò il cavaliere nero.

    «Queste terre non sono vostre. Appartengono al vescovo di Vercelli e non avete il diritto di estorcere qualsivoglia pedaggio!»

    «Mi appartengono, invece, e voi pagherete per attraversarle!»

    Eglund non fece in tempo a replicare, preceduto da Griselda che balzò fuori dalla carrozza e fronteggiò l’avventuriero, il cui sguardo si posò su di lei divertito e curioso.

    «Come osate, impudente che non siete altro?» l’apostrofò. «Sono la principessa Griselda di Hornstadt e mio padre vi farà giustiziare per questo… questo oltraggio!»

    «Vi assicuro che se vi stessi oltraggiando ve ne rendereste conto», ribatté quello sarcastico, suscitando risate fra i suoi.

    Griselda avvampò. «Che razza d’insolente!»

    «Altezza, vi prego, tornate sulla carrozza», l’esortò Eglund.

    Il suo appello rimase inascoltato. Griselda ribolliva d’indignazione e serrò i pugni.

    «Allora, questo pedaggio?» sbuffò spazientito l’avventuriero.

    Di nuovo Griselda prevenne la risposta di Eglund. «Non riceverete alcun pedaggio. Ritiratevi e forse i miei uomini vi risparmieranno la vita.»

    «Che ardimento per una fanciulla educata dalle monache», ribatté quello con un risata. «Facciamola finita qui, capitano. Datemi il denaro e vi lascerò andare senza torcervi un capello.»

    «Altrimenti?» chiese Griselda con un’aria di sfida che l’altro trovò irresistibile, ma che mandò Eglund su tutte le furie e lo spinse a sguainare la spada.

    Fu un errore. Il cavaliere nero si chinò fulmineo ad afferrare Griselda per la vita, traendola in sella davanti a sé. Lei si agitò e gli batté i pugni sul petto, ma le parve fatto di solida roccia. Non poté far altro che aggrapparsi, poiché il destriero partì al galoppo con un balzo possente e prese rapidamente distanza. La masnada li seguì, coprendo la loro fuga, e gli inseguitori ne persero presto le tracce nella foresta.

    Eglund era fuori di sé per la rabbia e la frustrazione, tuttavia determinato a riprendere la principessa e a infliggere una dura lezione all’insolente che si era fatto beffe di lui.

    Griselda respirava appena per la folle cavalcata attraverso la foresta e per la stretta ferrea del braccio che la stringeva. Era anche spaventata, perché non sapeva cosa aspettarsi dal proprio rapitore, ma era soprattutto indignata per il trattamento e attendeva solo di avere la possibilità di dirgli, senza mezzi termini, cosa pensava di lui.

    L’occasione si presentò poco dopo, quando lo sfrenato galoppo rallentò e il destriero passò al trotto e quindi al passo. Allora Griselda osò staccarsi un poco dal cavaliere e alzò il viso per guardarlo.

    «Mettetemi subito giù, canaglia!» strillò agitandosi sulla sella.

    «Siete sicura di volerlo?»

    «Certo che lo sono!»

    «Allora vi accontento subito.» La sollevò e la depose a terra senza troppi riguardi, poi toccò i fianchi del cavallo e ripartì.

    Griselda stentò a credere ai propri occhi. Dopo averla rapita l’energumeno osava abbandonarla nella foresta. «Dove andate?» gridò esasperata.

    Lui arrestò il cavallo con un colpo di redini e si girò. «Me ne torno a casa, madamigella. E vi consiglio di fare altrettanto.»

    «Come faccio a ritrovare la strada? Non so nemmeno dove sono!» protestò pestando i piedi per la stizza.

    «La strada maestra non è distante e la ritroverete appena oltre quegli alberi laggiù», replicò abbozzando un gesto con la mano e dando di sprone.

    «Giuro che ve la farò pagare!» inveì, ma le rispose soltanto l’eco di una risata. «Mascalzone!» borbottò raccogliendo la gonna e avviandosi nella direzione che le aveva indicato.

    Arrancò sul terreno disuguale per un tempo che le parve interminabile, storcendosi una caviglia e rovinando le scarpine, ma più avanti gli alberi si diradarono e finalmente apparve la strada. Non era molto brava a orientarsi e sostò in mezzo alla carreggiata per un pezzo, indecisa sulla direzione da prendere. Quando in distanza comparve una nube di polvere fu assalita dal timore che fossero i banditi e fu tentata di nascondersi, ma poi riconobbe le insegne e aspettò di essere raggiunta.

    Più tardi, a bordo della carrozza, Griselda fu sommersa dalle domande di Brigida.

    «Ti prego, sono esausta e non mi va di parlare», sbottò spazientita. «Voglio solo dimenticare questo spiacevole episodio.»

    «Se aveste dato ascolto al capitano tutto ciò non sarebbe accaduto», la rimproverò la donna. «Vi rendete conto del rischio cui vi siete esposta? Quello spregevole individuo avrebbe potuto condurvi nel suo covo e farvi chissà cosa…»

    Griselda chiuse gli occhi, sperando che il profluvio di parole finisse, ma la governante continuò.

    «Vostro padre andrà su tutte le furie quando saprà che siete stata rapita da quel volgare avventuriero. Uno dei peggiori ribaldi che infestano la regione. Un flagello che andrebbe eliminato!»

    Nel frattempo il vituperato flagello si era riunito ai suoi uomini, che insieme agli elogi per la prodezza di cui si era reso protagonista gli rimproverarono di non aver preso in ostaggio la principessa.

    «Suo padre avrebbe pagato qualsiasi somma, pur di riaverla», dichiarò Autieri. «E tu sai quanto ci serve il denaro per finanziare la nostra causa.»

    «Sarebbe stato uno sbaglio», replicò il giovane scoprendo il viso. «Un conto è esigere il pagamento del pedaggio a chi transita sulle mie terre, un altro rapire la figlia di Magnus di Hornstadt. Inoltre, non c’è alcuna causa per cui combattere. Rivoglio soltanto ciò che mi appartiene e che mi è stato ingiustamente sottratto.»

    «Ascanio, se solo tu volessi rivendicare la corona che fu di re Guido, il popolo e la piccola nobiltà ti seguirebbero. Forse anche i grandi del Regno!» esclamò Manfredi.

    «Reclamare la corona e fare la fine che fece lui? No, grazie. Non mi interessa il trono. Non voglio immischiarmi di politica.»

    «Ma ne avresti ogni diritto. Nelle tue vene scorre il sangue di Carlo Magno, come puoi dimenticarlo?»

    «L’impero creato da Carlo Magno non esiste più e Berengario ha consegnato l’Italia all’imperatore tedesco. Soltanto un pazzo o un visionario potrebbe osare una simile impresa. E certo non sarò io a tentarla.»

    «Allora tanto vale che rinunci a riavere le tue terre, poiché il vescovo non te le renderà mai.»

    Ascanio sorrise. «Questo lo vedremo», dichiarò con un lampo di sfida negli occhi.

    2

    Il principe Marcus di Reisenthal e Abelardo Ranieri, vescovo di Vercelli, discutevano dei recenti e sanguinosi disordini avvenuti a Pavia.

    «L’inquietudine popolare è un segno che non dobbiamo sottovalutare. Il momento è critico e qualcuno ne potrebbe approfittare per fomentare una rivolta. E non dimentichiamo che c’è fermento anche fra i nobili», dichiarò il prelato.

    «Le vostre apprensioni mi sembrano esagerate. Nessuno dei nobili possiede sufficiente carisma e mezzi per aspirare a un ruolo di preminenza, dopo la morte del marchese di Castellana. Inoltre, abbiamo fatto in modo di eliminare tutti coloro che ne sostenevano la causa o simpatizzavano per essa.»

    «Si può uccidere un uomo, ma le sue idee sopravvivono. A quanto mi risulta, Lamberto di Castellana ha lasciato un figlio. Col dovuto rispetto, eccellenza, penso sia stato uno sbaglio non togliere di mezzo anche lui.»

    «Uccidere un bambino è contrario ai miei principi, monsignore. Ascanio è giovane e non nutre alcun interesse per la politica. Lo teniamo sotto osservazione da tempo e non ha mai rivelato tendenze pericolose.»

    «Almeno in apparenza», annuì il vescovo. «Tuttavia potrebbe diventare un nemico formidabile, qualora decidesse di seguire le orme paterne. È abbastanza potente da causarci parecchi fastidi, benché l’imperatore lo abbia privato di gran parte dei possedimenti della Marca per assegnarli alla Chiesa, e già adesso riscuote consensi e simpatie fra il popolo e la nobiltà minore.»

    «Non credo che Ascanio di Castellana rappresenti una minaccia e, se mai dovesse diventarlo, prenderò i necessari provvedimenti per renderlo inoffensivo. Adesso mi devo concentrare su questioni più urgenti.»

    «Vi riferite ai responsabili della sommossa, immagino. Quale esito ha avuto l’interrogatorio? Hanno confessato i nomi dei loro complici?»

    «Purtroppo non siamo riusciti a estorcere alcuna informazione utile», sospirò il governatore. «Sostengono di non avere complici e di aver agito di propria iniziativa. La sentenza di condanna a morte è stata firmata e l’esecuzione avrà luogo domani, sulla pubblica piazza e davanti alla cittadinanza.»

    Il prelato sussultò. «Giustiziati pubblicamente?»

    «Una lezione esemplare da cui la gente trarrà insegnamento per il futuro.»

    «E se invece servisse solo a scatenare un’altra rivolta? Passerete per le armi tutta Pavia e governerete sul nulla?»

    «Disapprovate la mia decisione, monsignore?»

    «Sì, eccellenza. Ritengo che un atto di clemenza sarebbe stato opportuno per pacificare gli animi e dimostrare che non siete un tiranno.»

    La caccia con il falco era uno degli svaghi preferiti del giovane Ascanio di Castellana, che la praticava con la passione propria della sua indole, portata per natura all’attività fisica. Si trattasse di cavalcare, duellare, cimentarsi nelle giostre e nei tornei, da cui usciva ogni volta vittorioso, era sempre pronto a mettersi in gioco. Fiero e ardimentoso, amava l’avventura e le sfide, ma era dotato di sufficiente senso pratico da non prefiggersi mete irraggiungibili. Almeno per il momento, si accontentava dei piaceri che poteva trarre dal proprio rango e dai privilegi che esso gli consentiva.

    Ascanio e il seguito erano usciti presto, quella soleggiata mattina di primavera. Il giovane, in sella al grande destriero nero, precedeva gli scudieri e gli armati della scorta. Sulla mano rivestita da un guanto di cuoio portava il falco prediletto. Era a capo scoperto, coi lunghi capelli neri annodati sulla nuca, e gli occhi azzurri scintillavano nel volto abbronzato. Sulle guance, un’ombra di barba. Snello, asciutto e muscoloso, si teneva ben ritto sulla sella, così sicuro di sé da apparire sfrontato, e dominava con la destrezza di un esperto cavaliere il focoso stallone.

    Giovane signore e seguito affrontarono al piccolo galoppo il versante orientale della collina e il rombo degli zoccoli dei cavalli echeggiò nella vallata, delimitata dalla fitta vegetazione oltre la quale si stendeva la foresta. L’arrivo dei cavalieri spaventò le coturnici annidate nel folto, che presero il volo con frulli d’ali e strida. Ascanio fu pronto a liberare il falco e a lanciarlo. Il rapace s’involò e con pochi possenti colpi d’ala s’innalzò nel cielo, scelse la preda e calò per afferrarla. La coturnice non ebbe scampo e il falco tornò dal giovane, restando qualche istante sospeso nell’aria in attesa che liberasse gli artigli dall’uccello e poi posandosi sulla sua mano. Ascanio infilò la coturnice nella sacca e diede al rapace il premio ben meritato.

    «Hai visto come si è lanciato sulla preda?» chiese a uno scudiero che si era avvicinato.

    «L’avete addestrato bene, mio signore», rispose Roderigo da Rossano con un sorriso.

    Ascanio incappucciò di nuovo il falco, lisciandone le piume del petto, ma d’un tratto il destriero si agitò inquieto. Sansone reagiva sempre con nervosismo quando percepiva presenze estranee e subito il giovane scrutò in direzione del limitare della foresta, dove era comparso un uomo che si appoggiava al bordone da pellegrino. Benché non sembrasse pericoloso, scudieri e scorta si schierarono a protezione del loro signore.

    «È solo un anziano viandante», sorrise Ascanio, incuriosito dall’inattesa apparizione. «Dubito che sia una minaccia.»

    Malgrado le sue parole, gli armati guardarono con diffidenza l’uomo che incedeva sicuro e rivelava, a dispetto delle vesti dimesse e del logoro mantello, la corporatura robusta di un guerriero. Capelli e barba incolti non li ingannarono.

    Del resto, il viandante non parve intimorito dal numeroso reparto di cavalieri e si diresse verso Ascanio, il cui cavallo scalpitò nervoso, fermandosi poi a poca distanza.

    Il giovane fu sconcertato dallo sguardo intenso con cui lo sconosciuto lo scrutava e gli rivolse la parola.

    «Hai smarrito la strada, buon uomo?»

    L’altro sorrise e un guizzo divertito gli attraversò gli occhi scuri. «Vengo da lontano, ma non mi sono perso», dichiarò. «Anzi, mi trovo esattamente dove volevo: davanti a te, mio giovane signore.»

    «Mi stavi cercando? Tu sai chi sono?» chiese Ascanio stupito.

    «Sei Ascanio di Castellana ed ero diretto al tuo castello quando il fato ci ha fatti incontrare.»»

    «Non credo al fato, vecchio. Dimmi il tuo nome.»

    «Ariberto da Monforte», rispose l’uomo sorridendo. «Conoscevo tuo padre. Eravamo amici, molti anni fa, prima che le vicende della vita ci separassero. In certo qual modo, sono venuto per esaudire il suo ultimo desiderio.»

    Ascanio smontò di sella e gli si avvicinò. «Davvero eri amico di mio padre? Io mi ricordo a malapena di lui.»

    «Sento che desideri farmi delle domande, tuttavia ho fatto un lungo viaggio e sono stanco. Vorresti offrire ospitalità a un vecchio guerriero in memoria di tuo padre?»

    Al castello, dopo aver diviso un pasto frugale con l’inatteso ospite, Ascanio lo invitò a seguirlo nel proprio piccolo studio. Una stanza accogliente in cui sedettero su comodi scranni, uno di fronte all’altro, coi segugi accucciati ai loro piedi.

    «Parlami di mio padre», esortò Ascanio.

    Ariberto sospirò e si concesse qualche istante per raccogliere i ricordi.

    «La prima volta lo incontrai a un torneo in cui eravamo avversari. Entrambi volevamo vincere e fino all’ultimo l’esito del duello rimase incerto. Ci battevamo a piedi da non so quanto e le forze cominciavano a venirci meno, quando lui mi caricò come un ariete e mi gettò a terra, puntandomi la spada alla gola. Mi dichiarai sconfitto e lui mi tese la mano, che afferrai per rialzarmi. Ci scambiammo una stretta forte e ci guadammo negli occhi, da uomini leali che si erano scontrati con onore, e diventammo amici. Presto la causa comune per cui lottavamo ci rese alleati. Certo saprai che tuo padre si batteva affinché l’imperatore accordasse più ampi diritti ai vassalli minori e, se da un lato poteva contare su alcuni potenti sostenitori, contro di lui erano schierati nemici pronti ad avversarlo con ogni mezzo. Disposti persino a eliminarlo pur di impedire che la carta venisse approvata. E così è stato. Tuo padre cadde vittima di una congiura e con la sua morte perirono anche tutte le nostre speranze.»

    «Ero un bambino quando mio padre morì», mormorò Ascanio. «Però mia madre non accennò mai a una congiura. D’altronde io stesso rammento la malattia che lo portò alla tomba, poiché la mia governante mi accompagnava a fargli visita.»

    «Non si ammalò per cause naturali, ma perché era stato avvelenato. Malgrado i sospetti non si trovarono mai prove certe, almeno finché qualcuno non svelò il complotto. Ma ormai era troppo tardi.»

    «Dunque mia madre avrebbe mentito?»

    «No, ha soltanto preferito nasconderti la verità. Per proteggerti, senza dubbio, e anche per proteggere se stessa da quei nemici occulti che avrebbero potuto nuocervi.»

    «E tu dov’eri mentre i congiurati decretavano la condanna di mio padre?»

    «Non ero al suo fianco come avrei dovuto», sospirò il vecchio. «Gli agenti dell’imperatore mi braccavano e, insieme a pochi uomini fedeli, fui costretto a nascondermi. Tutti i miei beni erano stati confiscati. Ero stato dichiarato nemico pubblico e chiunque avrebbe avuto il diritto di uccidermi. Credimi, ho condotto un’esistenza grama ed errabonda in attesa di poterti conoscere e rivelarti la profezia.»

    «Un’altra?» sorrise Ascanio. «Quasi non passa giorno senza che qualcuno vada in giro profetizzando eventi prodigiosi, miracoli e simili fandonie.»

    «Comprendo il tuo scetticismo, tuttavia…»

    «Va bene, ti ascolto.»

    «Ci è stato tramandato che re Guido, prima di morire, abbia predetto che un giorno, su questa terra, avrebbe regnato un sovrano di antica stirpe la cui eredità sarebbe stata macchiata dal sangue del tradimento. Un uomo libero, discendente da Carlo Magno, avrebbe fondato un nuovo regno fondato sulla libertà e l’eguaglianza.»

    «Amico mio, è risaputo che Guido era un visionario e dubito che in punto di morte fosse abbastanza lucido da profetizzare alcunché.»

    «So che non è facile prendere atto di una simile rivelazione, ma è la verità. Re Guido aveva il dono di saper prevedere il futuro.»

    «Può darsi, ma io non credo nei profeti e nei veggenti.»

    «Eppure anche nelle Sacre Scritture si parla di uomini illuminati che predissero la venuta del Messia. Tutto l’Antico Testamento cita i nomi di questi profeti.»

    «Ammetterai che non è la stessa cosa.»

    «Solo perché contrastano, o pensi che siano in contrasto con la tua fede? In realtà non è così. Molti santi venerati dalla Chiesa e dai fedeli possedevano il dono della preveggenza.»

    «Suvvia, non ti pare di esagerare? Non mi risulta che re Guido fosse un santo!»

    «Non lo era, d’accordo. Nondimeno esiste un fondamento di verità nelle sue predizioni. Tu fai parte di un disegno grandioso, che ci creda o meno.»

    Ascanio tornò a farsi pensieroso. Forse c’era del vero nelle parole del vecchio quando affermava che suo padre era stato vittima di una cospirazione. Inoltre, era a conoscenza della profezia di re Guido, sebbene non l’avesse mai presa sul serio e, ancora meno, riteneva che potesse riguardarlo. Non credeva alla predestinazione. Nessuno, tranne Dio, conosceva il destino di un uomo. In quanto a divenire re… era semplicemente assurdo. Ariberto gli piaceva e pensava fosse convinto della veridicità delle proprie affermazioni, ma erano solo farneticamenti di un vecchio e come tali doveva considerarli.

    «Mi dispiace», disse infine. «Non sono quello che credi e temo tu abbia fatto un viaggio inutile. D’altronde, anche se lo fossi, non ho sufficiente potere per oppormi all’imperatore, ammesso che volessi lanciarmi in una simile folle impresa.»

    «Non è folle come sembra. Basterebbe un tuo cenno per indurre nobili e popolo a schierarsi al tuo fianco. Non attendono che un capo capace di guidarli alla riscossa. Tuo padre vorrebbe che seguissi le sue orme. Se fosse qui…»

    «Ma lui non c’è. E io non sono mio padre.»

    «È vero, ma sono sicuro che ne condividi gli ideali. Nel tuo cuore arde il fuoco del combattente per la libertà e la giustizia. Tu puoi accendere una nuova speranza in quanti soffrono per l’oppressione straniera.»

    «Queste sono pericolose illusioni. Non si può sfidare l’imperatore armati di profezie e assurde leggende. Il mio dovere, innanzi tutto, è di proteggere la Marca che governo e la mia gente. Ed è esattamente ciò che

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