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Avvocà, per ora grazie: Piccole storie di un gran bel mestiere
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Ebook144 pages1 hour

Avvocà, per ora grazie: Piccole storie di un gran bel mestiere

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About this ebook

Le cinquanta storie che Giuseppe Caravita racconta in questo volume sono piccole e veloci, nate per un ambiente comunicativo rapido, il social network. Sono storie che in poche pagine e a volte, in poche righe, centrano un argomento, prendono direttamente l’animo del lettore per la semplicità del linguaggio e lo stile asciutto. Storie di avvocati che potrebbero essere le storie di tutti gli avvocati, che tutti gli avvocati potrebbero avere vissuto. Sono come una piccola telecamera nascosta che riprende scene di tutti i giorni. Le “short stories” di Caravita sono ambientate nei Tribunali e negli studi o raccontano fatti di una avvocatura che sembra non esserci più, travolta dall’ansia di una giustizia sempre più in difficoltà. Eppure molti avvocati anche oggi possono riconoscersi in questi piccoli, veloci ritratti. Lo stile di Caravita è rapido, veloce, diretto ed efficace, quasi una sceneggiatura, riuscendo ad essere sia commovente che ironico e divertente.
LanguageItaliano
Release dateFeb 1, 2015
ISBN9788898212347
Avvocà, per ora grazie: Piccole storie di un gran bel mestiere

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    Avvocà, per ora grazie - Giuseppe Caravita di Toritto

    avvocato

    1.Lettera a mio padre

    Caro papà, che sei lassù in cielo, insieme a mamma, e ai nonni, ai bisnonni e tutti i trisavoli, tutti avvocati, ti volevo dire questo. Sono avvocato anche io, come volevi tu, e come non volevo io. Io avrei fatto altre cose, tu lo sai meglio di me, perché anche tu da ragazzo avresti fatto altre cose. Avresti scritto, avresti dipinto, saresti partito marinaio. Maledetto senso del dovere. Benedetti gli occhi delle donne che ci hanno stregato e maritato, e fatto fare figli. Senso del dovere e figli, uguale addio a libri, pennelli, navi e sogni da corsaro. Sotto con i codici, e il culo sulla sedia, e le preoccupazioni. Avanti con le cause, e le procedure che iniziano e non finiscono mai, e vanno avanti mentre le rughe si aggiungono una a una sulla tua faccia, che solo tu sai ormai che è la faccia di un ragazzo che sognava di fare il pirata, il poliziotto, il pompiere, tutto meno che questo mestiere che ti graffia e ti artiglia l'anima. Quante riforme del codice abbiamo visto, io e te? Quante risme di carta abbiamo consumato? A quanti colleghi presuntuosi abbiamo pacatamente sorriso, stramaledicendoli dentro di noi? Quello che mi domando, caro papà che stai lassù, è quando, cioè in quale momento tu hai capito che io ero un buon avvocato. Ma l'hai capito veramente, poi? O era solo un tuo sogno? Cioè tu sognavi che io diventassi un buon avvocato, e la smettessi di sprecare le mie capacità. Ma lo sai cosa è successo in questi anni, papà? Lo sai che gli avvocati sono diventati un numero spropositato? Lo sai che la gente non paga più, anzi ti ride in faccia quando chiedi di essere pagato? Perché non siamo stati in grado di prevedere tutto questo, te e io, papà? Avrei fatto un'altra cosa, forse...avrei fatto l'impiegato in un Ministero, o il dirigente in qualche Società. Certo, avrei dovuto dire molti sissignore, ma tutti i mesi avrei avuto la pancia piena. Certo, non avrei potuto mandare al diavolo chi volevo io, ma l'estate ad agosto sarei stato tranquillo in ferie. E invece no, papà, sono qui, a tirare la carretta, e certe volte è proprio difficile spiegare alla famiglia perché un avvocato perbene è molto più povero di un norcino, con tutto il rispetto per i norcini. Eppure, quando vedo il vuoto dietro gli occhi di chi ha solo il culo da mettere su un macchinone, sono felice di essere squattrinato ma con il cervello che funziona. Quando nella vita di tutti i giorni riesco a tenere la schiena dritta, forse perché facile senza il peso del denaro nelle tasche, sono felice di essere avvocato, e di sapere parlare con tutti, poveri e ricchi, belli e brutti. Ecco, mi chiedevo se tu avevi capito già che ero un buon avvocato, o se sei partito per il cielo con questa domanda ancora aperta. E allora ti rispondo io: sembra di si, papà, sembra che io sia un buon avvocato. Almeno così mi dicono in molti. E quando mi siedo dietro la mia scrivania, mi sembra che non avrei potuto fare altro nella vita. Veramente, papà.

    Grazie

    Tuo figlio Giuseppe

    2.L'apparenza inganna

    Sono arrivato in ufficio molto presto, poco dopo le 6 di mattina. Ho da preparare un sacco di carte, e la mattina presto sono più concentrato. Ho parcheggiato e mi sono fatto un giretto prima di salire su. C'è una vecchina seduta su un muretto, ha delle borse vicino a lei. La guardo e poi guardo dall'altra parte del marciapiede. Mi allarmo subito. Un omone con la tuta, la barba di un paio di giorni, l'orecchino e uno strano ghigno sulla faccia sta attraversando la strada, e sta puntando la vecchina. Mi avvicino preoccupato, ma sono ancora troppo distante. L'omone arriva a un metro dalla vecchina, è chino in avanti con le mani protese...afferra le mani della vecchina...sto per cominciare a correre, pochi metri, saranno dieci, non di più, posso intervenire. L'omone si inginocchia tenendo le mani della vecchina: la vecchina ritira le mani e le impone sulla testa dell'omone. Marione mio, sei stato buono? Si nonna, ma il carcere è una brutta bestia...ti ho pensato tanto, sai... Marione, andiamo al cimitero da tuo padre e tua madre... Sono un intruso, mi allontano in silenzio…

    3.I corridoi di Palazzaccio

    I corridoi di Palazzaccio, il grande palazzo di travertino sede della Suprema Corte di Cassazione, sono immensi corridoi con grandi vetrate: sono ampi, larghi dieci metri, alti almeno 20 metri, lunghissimi, a volte angosciosi, perché si cammina e sembra di non arrivare mai da nessuna parte. Ogni tanto piccole porte rivelano una fuga di corridoi, o portoni grandi come quelli di un condominio del quartiere Prati si aprono su scale che scendono e salgono. Qualche commesso appare e scompare nei corridoi laterali, spingendo carrelli pieni di fascicoli.

    Mi viene in mente un dramma di Ugo Betti, nel quale un commesso che lavora all'archivio dei processi definiti dice: Io sono il becchino. Questo (battendo sul carrello carico di fascicoli) è il carro funebre, e questi sono i cadaveri. E mostrò i fascicoli. E poi continuò: Quando penso alla quantità di sudore, soldi e sospiri racchiusa anche nella più stupida delle carte che formano il più piccolo di questi fascicoli! Noi ci incolliamo un numero, li registriamo in un bel librone, e la gente fa finta di credere che tutto ciò resti importante per secula seculorum, e si possa sempre ritrovare il filo di tutto...e poi, prima ancora dei topi e dei tarli, sono gli stessi interessati a dimenticare..."

    Nelle navate del Palazzaccio, in questi grandi, enormi corridoi dove ci si sente soli e smarriti, e piccoli di fronte all'immensità della Giustizia e ai suoi misteri, il sole entra dalle grandissime vetrate: come in un enorme porticato, con gli archi altissimi chiusi da vere e proprie finestre. A volte, il sole entra di traverso, e disegna sul pavimento quattro grandi riquadri di luce, che corrispondono alla ripartizione delle vetrate in altrettanti riquadri di vetro. E quindi i fasci della luce del sole entrano di sbieco, e sono perfettamente visibili nella lieve penombra del corridoio, e finiscono come ho detto contro il pavimento.

    Proprio l'altro giorno, in uno di questi riquadri di luce era fermo un signore su una carrozzella da invalido.

    Mi avvicino lentamente (con incedere elegante). Sembra dormire, e l'unica nota di colore è una sciarpa rossa che porta al collo: la carrozzella è scura, il vestito è nero, appesa dietro la carrozzella una borsa nera, i capelli della testa china in avanti sono neri. Solo la sciarpa rossa spicca nel riquadro disegnato dal sole, e quei raggi la rendono ancora più rossa e viva, quasi l'unica cosa animata.

    Guardo quest'uomo a capo chino. Sta dormendo, mi dico tra me e me, mentre ogni passo mi porta inesorabilmente verso di lui. E già vedo un pezzo di carta pendere sbilenco dalle mani, e la testa reclinata in avanti. La curiosità mi fa affrettare per oltrepassarlo e poi girarmi per guardarlo in faccia.

    Sono quasi arrivato all'altezza della carrozzella e del suo ospite ferma nel riquadro di sole: ho praticamente raggiunto l'angolo del corridoio (perché ad ogni piano questo enorme corridoio fa il giro di tutto il palazzo, e con quattro angoli retti completa l'intero giro del perimetro).

    Irrompe proprio in quel momento sulla scena un gruppo di persone. Cosa ha di strano? Perché attira la mia attenzione ancor più dell'uomo sulla sedia a rotelle con la sua sciarpa rossa? Gesticolano, o meglio avanzano a semicerchio intorno a una figura centrale che gesticola. Lo guardano tutti con attenzione, e a un certo punto scoppiano tutti a ridere. Anzi no, non scoppiano a ridere. Ridono tutti, ma senza fare rumore. E alla fine capisco: è un gruppo di sordomuti, si parlano con il linguaggio dei gesti, e con il linguaggio dei gesti il personaggio al centro del gruppo ha raccontato una barzelletta. E tutti hanno riso, in perfetto silenzio.

    E' una scena surreale. Mi sento perso, in viaggio verso l'ignoto. La cancelleria che cerco di raggiungere è lontana anni luce. Il gruppo di sordomuti ha preso una scala laterale ed è sparito in silenzio, come gli indiani pellerossa della mia infanzia che si muovevano silenziosi e silenziosi colpivano.

    L'unico mio contatto con la realtà a questo punto la faccia dell'uomo sulla sedia a rotelle. La devo vedere. Distolgo lo sguardo dal punto in cui si è improvvisamente materializzato il gruppo silenzioso della barzelletta muta, e mi giro.

    Ma l'uomo si è svegliato, ha girato la sua carrozzella e se ne sta andando esattamente nella direzione opposta. Nel riquadro di sole non è rimasto nulla: solo la sciarpa rossa pende dalla carrozzella che si allontana, e striscia per terra seguendo il suo proprietario.

    4.La lettera

    Avvocato Caravilla?

    Caravita, prego, sono io, dica...

    Senti, tu mo si scritto sta lettera che era pe mio marito, io l'ho aperta, solo che mio marito porello è morto tre giorni fa, mo come sto messa? Non è che siccome lo aperta me tocca a me?

    Signora, intanto mi dispiace per suo marito, poi se mi dice il nome forse riesco a capire....

    No, senti, mi marito stava male da dieci anni, mo sta meglio là dove sta mo che qui, e pure io sto mejo adesso, che me dava tanto da fa, fijetto bello...Te posso chiamà fijetto, vè? Che ciai na voce che pari 'n ragazzo...

    Signora cara, ho sessanta anni...come si chiama signora?

    Senti, ma ciai proprio na voce da ragazzo, mo quello che io volevo sapè come famo che io ho aperto la lettera...non è che te la posso rimannà indietro?

    Signora carissima, ma se lei mi dice come si chiama suo marito magari riesco a risponderle. Per la lettera, direi che no, proprio non me la può rimandare indietro, è una cosa senza senso...

    Ma se mi marito è

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