Come dentro un film
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Book preview
Come dentro un film - Francesco Grifoni
sogno….
Capitolo 1
FLASHBACK
Il sole di maggio che stava sorgendo rapido alle mie spalle, dietro alla folta macchia mediterranea, illuminava il paesaggio mattutino della riviera maremmana, donandogli colori vividi che lo facevano stagliare nettamente sul terso cielo mattutino.
Le piante profumate ed i loro i fiori sbocciati in quella primavera ormai inoltrata, luccicavano per la rugiada che vi si era depositata durante la notte e l’aria fresca e frizzante proveniente dal mare portata da una leggera brezza mi lambiva la pelle e penetrava nelle mie narici come un balsamo, allertando tutti i miei sensi. In lontananza si udiva il ritmico rumore delle onde che si infrangevano rapide sulla battigia rincorrendosi, mentre i primi gabbiani si producevano in volo nelle loro acrobazie, urlando al mondo i loro striduli lamenti.
Tutto era ormai definito ed eravamo alla resa dei conti, all’ultimo round.
In piedi sulla soglia della baracca di legno, vestito solo con i miei vecchi scarponi da montagna e un paio di ampi pantaloni militari, non toglievo gli occhi dalla mulattiera sterrata e quando,ancora prima di udire il rombo, vidi una nuvola di polvere in lontananza sollevata sicuramente da una potente autovettura, ebbi quasi una sensazione di sollievo. Eccoli.
Da quando, la sera precedente avevo saputo da Franco, il proprietario del locale dove ogni tanto mi andavo a distrarre dalle fatiche quotidiane con una birra e quattro chiacchere con i soliti frequentatori, che quattro tipi chiedevano di me, li stavo aspettando. Sarebbero arrivati alle prime luci dell’alba. Un classico per quella categoria di persone quando sono in missione
.
La notte l’avevo passata insonne cercando di prepararmi per il meglio a quell’incontro decisivo e adesso era giunto il momento. Una specie di sfida al OK Corral
, solo che non era ancora mezzogiorno ma appena le 6 di mattina. Adesso si sarebbe deciso il mio futuro ed io potevo solo sperare di aver giocato al meglio le mie carte. Rischiavo di perdere tutto e questa volta dubitavo che avrei potuto ricominciare.
Prima di uscire da casa mi ero soffermato davanti allo specchio fissato sulla parete in fondo al letto e vidi l’immagine sfocata di un uomo di quasi quarant’anni completamente nudo, con un fisico muscoloso, massiccio - ma non certo modellato come quei frocetti che si impasticcano in palestra- pensai stropicciandomi le guance coperte da una barba ispida di sette giorni che iniziava ormai da tempo a spruzzarsi di bianco.
I capelli li avevo rasati la sera prima, come per togliere gli ultimi inutili orpelli di vanità, come per alleggerire al massimo una macchina da preparare ad una competizione rallystica.
Quel gesto era la sintesi di tutta la mia esistenza: Essenziale.
L’unico accessorio concesso, un orecchino circolare d’oro che pendeva dal lobo sinistro, mi accompagnava dall’adolescenza e ormai,nei tempi del piercing estremo e del tatuaggio, risultava decisamente fuori moda, antiquato, vintage
.
Sulla pelle erano ben visibili le tante cicatrici, per ognuna un ricordo di cui andare fiero, un tempo esibite come un trofeo, ma ora da nascondere come un marchio di infamia insieme ai tatuaggi blu, scoloriti e incompleti.
Nell’attesa della resa dei conti cercai di trovare l’inizio di tutto e mi accorsi che i tanti momenti trascorsi erano perfettamente conservati, intatti nella mia mente come file di un computer. Via via che scorrevano le varie vicissitudini nella mia mente, ne sentivo ancora l’odore, il prezioso contorno che circonda tutti i nostri ricordi come se fosse la colonna sonora di un film.
La mia memoria tornò a quell’assistente sociale che mi ebbe in carico al momento del mio ritorno in libertà dopo quattro anni e spiccioli trascorsi nelle patrie galere.
Credo che sia di lì che è nata questa storia.
Il mio nuovo maestro di vita, un tale magro e occhialuto con la faccia da ebreo che rispondeva al nome di Nicola Cosentino, Dottor Nicola Cosentino prego
mi rispose la prima volta che gli chiesi se mi stavo rivolgendo alla persona indicatami dal Giudice .
Già, uno di quei signori che ti ispezionano da capo a piedi prima di darti un qualsiasi lavoro che non sia quello di spaccare la faccia a qualcuno; e mica si fidano se esci dal loro stereotipo di dipendente. Nemmeno ascoltano quello che sai fare, tanto hanno già catalogato il soggetto: disadattato, poco malleabile, abituato a delinquere e quindi a fregarmi e sicuramente portatore di rogne; ciao bello sbrigati a finire e sparisci che devo andare a prendere il caffè con la troia di turno
– pensano mentre, con la faccia nemmeno troppo impegnata a fingere interesse, scarabocchiano il modulo prestampato dei Servizi Sociali che sicuramente finirà in una cartellina da dimenticare oppure direttamente nel cestino. Mi viene la nausea a ricordare l’alito pestilenziale dell’uomo shekerato con un dopobarba economico.…e vediamo di rigare dritto da adesso signor Rocchi , ma tanto… chi nasce tondo non muore quadro
sentenziò mentre consultava già il prossimo fascicolo, congedandomi con voce nasale con quel suo accento da meridionale acculturato che mi è sempre stato sul culo perché mi ricorda tutti i raccomandati nullafacenti che infestano i nostri uffici pubblici.
Da quando ero rientrato alla vita regolare
io, Mattia Rocchi detto Taz, l’unico impiego che avevo trovato era quello che ora chiamano addetto alla sicurezza, in parole povere buttafuori
.
Avevo girato i locali notturni di mezza Italia ed ero sempre più disgustato da quel mondo sfavillante e profumato di costoso eau de toilette, detergente intimo e cocaina.
Arrivavo da quattro anni di detenzione dove avevo conosciuto un bel campione della feccia che infesta la terra e vedere di nuovo tutte quelle persone che fanno la fila in attesa di una selezione, di un cenno di saluto di qualche personaggio famigerato di cui poi andare fiero, vogliosi di sembrare a tutti i costi trasgressivi, mi faceva venire il mal di stomaco. Come assistere ad una pulizia etnica in Kossovo.
Tutto finto, tutto rigorosamente di plastica usa e getta. Le ragazze vestite come pornostar o veline sopravvivono come impiegate di studi immobiliari o commesse di supermercati; gli uomini post punk palestrati e allucinati ricoprono ruoli marginali in uffici postali periferici o magazzinieri in ditte di trasporti. Tutti frustrati e infelici della propria esistenza che cercano la fuga tra le luci psichedeliche e i cocktail allucinogeni di alcool e droghe, per poi svegliarsi la mattina devastati nel fisico e nella mente, pronti a lobotomizzarsi di nuovo il cervello nelle loro attività monotone e deprimenti. Per me quella era la fine del mondo Occidentale. Niente più in cui credere e per cui vivere e morire, nessuna prospettiva futura che vada più lontano di una scopata da 5 minuti per giunta con l’aiuto della chimica:- siamo ormai solo terra di conquista per il primo che voglia perdere tempo a colonizzarci, arabo o cinese che sia – ripetevo a chi entrava nell’argomento.
E pensare che io in quel mondo c’era nato e cresciuto, sempre a contatto con la crescente criminalità extracomunitaria e le bande di teppistelli locali.
A dodici anni, quando tutti i miei coetanei giocavano a calcio, già mi facevo 10 riprese da tre minuti di allenamento sui sacconi sfondati della palestra di un amico di mio padre. I volantini degli incontri appiccicati con lo scotch alle pareti scalcinate e ammuffite dell’unico, meravigliosamente squallido locale ricavato sotto le gradinate del vecchio campo sportivo della periferia nord di Firenze; i pesi ammaccati, le panche consumate da migliaia di addominali, i sacconi deformati e fasciati dal nastro americano
che circondavano il ring, posto nel centro della palestra come un altare sacrificale maya. Ma più di tutto ricordava l’odore, quell’odore acre di sudore e fatica e sangue che stagna solo nei locali di uomini, di atleti che si trovano lì solo per allenarsi a trasformare i doni di madre natura in micidiali armi da combattimento, e non per spararsi le pose davanti agli specchi ed ammirare da sotto un bilanciere il perizoma della rizza cazzi davanti a te. Niente musica di tendenza in sottofondo né chiacchiericci da imbrocco, né schede personali con tanto di diete snellenti: l’unico suono estraneo agli sforzi dei corpi sotto allenamento era quello della campana, un deng
metallico che scandiva il tempo a ritmo di tre minuti, secondo l’unità di misura della vita del pugile.
Proprio su quel ring avevo avuto il mio vero battesimo di combattimento. Nemmeno 2 riprese e mi ritrovai il naso attaccato alla guancia, spezzato da un largo gancio dstro di un ragazzo appena più grande di me. Mi aveva provocato e sfidato e non sono mai stato tipo da tirarmi indietro. Quel giorno, dopo che l’istruttore Giorgione mi aveva raddrizzato il naso con entrambe le mani in un’esplosione di dolore che mi attraversò tutto il corpo, dalle orecchie alla punta dei piedi, presi lo sgabello di legno dei secondi e lo ruppi sulla schiena del tipo che si stava vantando con i suoi compari. Questa scena mi valse il soprannome di Taz, il diavolo della Tasmania, affibbiatomi dai pugili più grandi, che rividero nel mulinare dello sgabello sulle schiene di quei poveretti quello del celebre personaggio dei cartoon. Gli schiaffoni e le urla che arrivarono subito dopo da Giorgione suonavano come una consacrazione che incassavo orgoglioso, senza mai togliere lo sguardo dalla mia prima vittima, che mi guardava con occhi dai quali traspariva il rispetto che avevo conquistato.
Forse avrei pure potuto diventare un buon pugile professionista ma, come sempre donne e amicizie sbagliate rovinano i buoni propositi e mi portarono presto fuori strada; prima nel mondo del Calcio storico fiorentino, poi in quello delle discoteche, della bamba, delle rapine e quindi del carcere. Un percorso ormai scavato come un letto di un fiume dove tanti amici si sono incanalati per poi non riuscire più a uscirne fuori.
Arrivò il giorno di quella maledetta rapina.
Era tutto assolutamente facile, scontato, un semplice prelievo, ma come tante altre volte avrei dovuto ascoltare quel famoso sesto senso che tutti noi abbiamo ma che troppo spesso rifiutiamo di riconoscere perché il nostro cervello stenta a razionalizzare.
Infatti più che guardavo la banca e più che credevo ci fosse qualcosa di sbagliato. Il colpo lo avevamo pianificato da giorni e i sopralluoghi si erano sprecati. L’orario era stabilito, le 12.45, sul cambio delle volanti, quando cioè ci sono meno sbirri in giro perché si stanno avvicendando. Almeno 15 minuti di mancata sorveglianza assoluta – avevamo calcolato un giorno io e i’ Bestia
mentre osservavamo le pattuglie entrare e uscire dalla caserma.
La via di fuga era stata pianificata e sembrava perfetta: prima strada a destra nel senso unico da imboccare con lo scooter appena rubato, seconda a sinistra nella strada privata dove, sotto il palazzo era posizionata la macchina pulita che sarebbe uscita dalla parte opposta, già sul viale, già mescolati tra le migliaia di macchine anonime che a quell’ora intasano la periferia di Bologna, la città scelta per il colpo.
Eppure ultimamente avevo una percezione che non riuscivo ad afferrare, a decodificare.
-Le solite menate tipo ansia da prestazione – cercavo di tranquillizzarmi mentre dovevo pensare pure a coordinare i miei compari, i’ Bestia e Maurino.
Maurino lo conoscevo poco ma lo avevo già catalogato nella categoria caconi
, di quelli che parlano tanto ma poi, appena servono i coglioni, li vedi sparire; Il Bestia no. Lui era un amico vero. Eravamo cresciuti insieme; a quattordici anni avevamo fatto le prime cazzate già come due complici e ci si era sempre parati il culo a vicenda, come quando, dopo una rissa fuori dallo stadio eravamo rimasti solo noi due a far girare le mani contro una decina di Romani, mentre tutti gli altri coglioni Ultras se l’erano data a gambe appena avevano visto degenerare la cosa, appena cioè avevano notato dei gran fiotti di sangue sgorgare da una coscia di un coatto del cazzo dove il Bestia aveva piantato una lama.
Era tutto pronto: fuori nessuno tranne un Pony express intento a consegnare la corrispondenza, dentro un unico anziano cliente allo sportello dove operava una ragazzina sicuramente di fresca assunzione, un impiegato occhialuto che non direbbe merda
nemmeno se ne avesse la bocca piena per dirla alla Rodriguez e, nel suo ufficio, il direttore, un ometto insignificante vestito come un becchino.
Come in un dvd rivedo tutta la scena:
Il Bestia entrò nella bussola con il suo cappellino da baseball calato sugli occhi e si mise dietro al vecchio, si girò verso l’esterno e mi fece il segnale: mi alzai il bavero della felpa, abbassai il cappuccio sugli occhi e, una volta dentro, saltai il bancone e mi fiondai dal direttore con il trincetto in mano.- dai stronzo chiama quello scemo del tuo schiavo e di’ alla bimbetta di fare tutto quello che dice il mio collega- gli strillai sul viso mentre la coca che avevo appena pippato si mischiava all’adrenalina e mi faceva vedere tutta la situazione come su un monitor lcd, chiara e sotto controllo. Presi i due e li ficcai nel cesso, seguiti a ruota dalla ragazza che aveva fatto appena in tempo ad indicare al Bestia il cassetto con l’incasso e poi si era letteralmente pisciata addosso, come denunciava la scia di urina che gli gocciolava lungo le calze. Chiusi a chiave nel bagno i dipendenti e ficcate le banconote in un sacchetto della coop uscimmo all’aperto dalla porta d’emergenza usando il maniglione antipanico, ma non feci in tempo a bestemmiare per l’aria calda che mi entrava nei polmoni dopo quella condizionata della banca, che il sudore mi si congelò sulla pelle. Il cervello aveva decriptato il segnale, troppo tardi ma lo aveva fatto correttamente: il solito tipo della Pony express stava ancora consegnando la solita corrispondenza, come prima di entrare, come il giorno prima del colpo durante l’ultimo sopralluogo; nel piazzale non c’era nessuno, nemmeno un passante nemmeno una mamma con il bambino, nemmeno un pensionato con il cane…e poi le pattuglie, da quando eravamo lì non ne era passata nemmeno una, troppo bello, troppo, quasi finto ….-Cazzo è una trappola –strillai isterico al Bestia strattonandolo per una manica mentre il Pony express estraeva dalla borsa della posta una pistola mitragliatrice beretta m12 e da tutte le parti schizzavano fuori dalle siepi uomini armati.
Io mi paralizzai ma il Bestia fece la cosa più stupida del mondo:
ficcò la mano sotto la camicia, solo per gettare via il sacchetto della Coop con i soldi. Quel gesto bastò a fare scattare la molla degli uomini che da chissà quanti giorni erano appostati sotto il sole in attesa di beccarci in flagranza: una raffica seguita da altri quattro, cinque, sei colpi singoli provenienti da diverse direzioni sbatacchiarono il mio amico sulla vetrata della banca. Mi voltai verso di lui e lo vidi seduto a terra che tentava inutilmente di alzarsi; una gamba era piegata all’indietro all’altezza del femore come quella di un pupazzo di stoffa e vidi che aveva sul viso un’espressione stupita, quasi divertita da quella situazione. Sembrava nemmeno stesse soffrendo, tant’è che per un attimo pensai avessero usato proiettili di gomma o roba simile; ma quando tentò di parlarmi al posto delle parole uscirono dalla sua bocca fiotti di sangue rosso e denso come vernice, come se stesse vomitandosi addosso dopo una sbronza. Rimasi colpito dalla quantità di sangue che poteva contenere un corpo umano e con quanta velocità venisse espulso fuori. L’ultima immagine del mio compagno fu quella di lui seduto a terra esausto e completamente verniciato di rosso. Solo la faccia era intatta e facevano effetto i due occhi bianchi sgranati e ribaltati indietro. Poi una gran botta sul mento e il buio. Quando mi ripresi ero ammanettato ad un termosifone negli Uffici della Squadra Mobile di Bologna e tutt’intorno un viavai di sbirri agitati e impauriti. Il Bestia era morto e ora loro si stavano cacando addosso perché dovevano giustificare un sacco di cose: perché avevano sparato ad un uomo armato solo di un trincetto di quelli che usano i bambini alle elementari? perché, pur sapendolo, non avevano evitato la rapina, mettendo così a rischio l’incolumità dei dipendenti e dei clienti della banca? E perché avevano trovato solo la metà dei soldi appena rapinati e denunciati dal direttore?
Non ho mai saputo come è finita. Al processo mi hanno dato 4 anni e due mesi per rapina in concorso commessa con pistola. Nemmeno ci provai a dire che la pistola ce l’aveva messa qualcun altro; tanto è così che funziona e sempre funzionerà: vale più la parola di un bandito che ha appena rapinato una banca o quella di 10 poliziotti e tre dipendenti che si sono pure fottuti parte della stessa cifra che avevo tentato di rapinare? Il mio avvocato,un cazzo di difensore di Ufficio che non sperava certo di diventare famoso con quella storia e che aveva altre cause più redditizie in agenda, mi consigliò di patteggiare
in processo per ricevere uno sconto di pena e ciao.
Mi sparai tutto il periodo di detenzione cercando di stare fuori dai casini e dalle guerre tra bande di arabi e albanesi e tentando di progettare il mio futuro.
Così lasciai il carcere e, appena fuori, mi sentii come un marziano paracadutato sulla terra; - e adesso dove vado?-mi chiesi. Quando stavo dentro avevo pensato per milioni di volte al momento del ritorno alla normalità e a tutte le situazioni che mi si sarebbero prospettate, ma mai mi ero chiesto cosa dovevo fare nei primi minuti di libertà.
Pioveva a dirotto e ricordai che ormai l’inverno era alle porte anche grazie ad un freddo pungente che iniziava a penetrarmi nelle ossa.
Per prima cosa mi accorsi che non avevo neppure i lacci nelle scarpe: li tolsero nelle Camere di sicurezza della Questura e nessuno, ovviamente, li aveva più infilati di nuovo. Ero vestito ancora come un carcerato, con la tuta da ginnastica del penitenziario che il direttore aveva avuto il buon cuore di lasciarmi, una