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Lo scquacquerone di Romagna
Lo scquacquerone di Romagna
Lo scquacquerone di Romagna
Ebook464 pages5 hours

Lo scquacquerone di Romagna

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In questa nuova monografia del gusto, Graziano Pozzetto racconta dei mangiari tradizionali con lo squacquerone, del suo uso in cucina ai giorni nostri, delle varie sfiziosità moderne, delle eccellenze casearie della Comunità di San Patrignano e delle interpretazioni che dello squacquerone di Romagna danno autorevoli chef (con l’apporto di oltre 270 ricette), senza tralasciare i contributi storici e letterari sulle tradizioni casearie romagnole.
LanguageItaliano
Release dateSep 30, 2014
ISBN9788874722549
Lo scquacquerone di Romagna

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    Lo scquacquerone di Romagna - Graziano Pozzetto

    dozzina!

    IL NOME SQUACQUERONE LA TRADIZIONE DEI FORMAGGI IN ROMAGNA IL CONTRIBUTO DI STORICI, LETTERATI, CODIFICATORI CASEARI

    IL NOME: ETIMOLOGIA, MOTIVAZIONI E VARIANTI

    Nel corso della ricerca storica e letteraria ho incontrato alcuni dei massimi codificatori della lingua madre dei romagnoli come Antonio Morri (1840), Gianni Quondamatteo (1961), Libero Ercolani (1994), Adelmo Masotti (1996), Gianfranco Camerani (2006). Opportunamente ho altresì considerato il Nuovo Zingarelli (XI edizione). Probabilmente la prima testimonianza storica sul nome squacquarone¹, pur espressa al plurale squacquaroni è legata alla celebre lettera del Cardinale Bellisomi di Cesena, inviata da Venezia, ove era impegnato nel Conclave, alla data del 15 febbraio 1800. Ne è uscito un mosaico di nomi e varianti dialettali, ricco e diversificato, comunque rappresentativo e plausibile.

    Antonio Morri

    Esaminiamo il suo Vocabolario Romagnolo – Italiano, uscito nell’anno 1840 a Faenza, rieditato di recente in copia anastatica da A. Forni di Bologna.

    Nell’opera del Morri non viene considerata la parola squacquaron in riferimento al formaggio omonimo, ma in relazione ad altri significati e dizioni forti. Infatti il termine squacquaron è legata a chi ridice facilmente le cose, a sgolato, a ciarliero.

    La parola squaciarlè significa in lingua italiana squaccherare o squacquerare, cioè cacar tenero, altresì spappolarsi, non tenersi bene insieme.

    Squacchera o squacquera significa sterco liquido o più simpaticamente squaciarèlla.

    Squacquerar significa squadernare, spippolare, dire alcuna cosa chiaramente e con franchezza, dire senza riguardo ciò che è occulto e che si dovrebbe tacere. Confessare il cacio (sic!) significava dire la cosa come sta, senza farsi fregare.

    Per trovare riferimenti a qualsiasi formaggio il Morri, nei primi decenni dell’Ottocento, ricorre alle seguenti parole:

    - furmai: cacio, formaggio;

    - furmai frésch: giuncata, latte rappreso separato dal siero (una bella immagine se riferita allo squacquerone al raviggiolo);

    - furmai d’pigura: cacio pecorino;

    - furmai d’vaca: cacio vaccino;

    - furmai ch’pézga: cacio sappiente;

    - furmai fétt: cacio serrato o senz’occhi;

    - furmai bëd, sbusanì: cacio illuminato;

    - furmai sectirè: cacio sburrato;

    - furmai cun i virman: cacio bacato (con i vermi);

    - furmai marzöl: formaggio maggiatico (ma non dovrebbe essere nominilisticamente marzolino? La cosa si spiega col fatto che a marzo iniziava la primavera in pianura, mentre in alta collina iniziava a maggio) cioè fatto nel mese di maggio, caciuola, casatella, formaggiuolo. Piccolo cacio schiacciato di forma rotonda, come sarebbero i formaggi teneri di vacca;

    - casciaja: casera, cascino, cerchio di legno per mettervi il cacio. I caci, appunto, venivano messi nella casciaja;

    - casciaiuolo: era il formaggiaio o mercante del formaggio;

    - caciaja: era la donna che faceva il formaggio;

    - incaciare: condire con il formaggio;

    - cascar il cacio sui maccheroni: ovvero cascar l’olive nel paniere, quando avviene alcuna cosa inaspettata e che torna appunto in acconcio.

    Altri modi di dire codificati dal Morri sono i seguenti:

    - magnér e furmai int la gatarôla: avere, tenere, o pigliare il lion pel ciuffetto, cioè godere presentemente qualche bene con grandissimo periolo, che anche dicesi mangiare il cacio nella trappola;

    - prumetar pió furmai che pan: dar erba trastulla cioè promettere molto e ottenere nulla;

    - tri quatren d’furmai séch: cazzatello, botolo, stronzolino, gigante di cigoli, scricciolo, che non è alto un sommesso, dicesi per ischerno a uomo di piccolissima statura;

    - furmai in senso metaforico natta, fiocco, giarda, beffa;

    - fêr un furmai a on: fare un formaggio a qualcuno ossia quando una persona dice un proposito ad un’altra con voce dimessa e quasi tra i denti appostatamente per non lasciarsi intendere, affinché venga richiesto: che dite? e con ciò aver luogo di replicare una celia, o cosa simile, per esempio diceva un ave per un morto o cosa simile. Dar la cenciata, ossia burlare altrui in fatti o in parole;

    - furmaiin: cacciolino, formaggiuolo.

    Libero Ercolani

    Il grande Maestro nel suo Nuovo Vocabolario Romagnolo – Italiano e Italiano – Romagnolo (Ravenna, Il Girasole, 1994) codifica le seguenti parole a tema:

    - furmàj pas: formaggio passo così chiamato perché si stende, non sta intatto (pas dal latino pandere cioè stendere). Questo formaggio è chiamato anche tumén;

    - furmàj tumén: cioè formaggio tomino, secondo la sua etimologia latina: cacio fresco, tenero, di forma tonda;

    - furmàj scvacvarôn, cioè formaggio squacquarone, lo stesso furmàj pas che si squaglia. Ma anche squaquarôn in italiano squaccherone, considerato altresì formaggio stracchino della Romagna.

    Ercolani passa in rassegna i vari termini proverbiali attorno al nome del formaggio:

    - squaquarêr, scuacuarêr, scvacvarês: squacquerarsi, liquefarsi;

    - scuaciarëla: squacquera, cioè feci liquide; ma nel contempo nome che veniva dato, per dileggio, al Partito Popolare di un tempo e alle Associazioni Cattoliche in generale;

    - scvacvarôs: cioè squacqueroso, riferito a tipo di formaggio molle detto anche scvacarôn cioè squacquerone.

    Anche il Maestro Ercolani ha codificato indovinelli a tema che coincidono con quelli di altri studiosi citati a parte come Morri e Masotti, ripresi ed arricchiti sapientemente dallo studioso russiano Tino Babini.

    Gianni Quondamatteo

    Lo definisce squaquarôn (da leggere scvacvarôn, cioè squàccherone, formaggio stracchino di Romagna, riprendendo il Dei) e ricorda le varie tipologie di formaggio romagnolo:

    - furmai casez o tumen: fresco, tenero, non completamente maturo;

    - furmai sguainèd o squaquaròn: squacquerone, che si squaglia; spiccava fresco ed invitante sull’ampia foglia di cavolo;

    - furmai bazòt o bazógn: bazzotto, sul punto di indurire;

    - furmai pizghent: piccante, di solo latte di pecora;

    - furmai dur: secco, da grattugiare.

    Il Maestro ricorda che nella sua città natale, Riccione, lo squacquerone veniva altresì individuato dialettalmente con: furmai sqéc e furmai sguainèd.

    Quondamatteo ricorda inoltre che lo squàccherone è molle, semiliquido, informe, era cosa ottima e messo fra due pezzi di piada costituiva una leccornia.

    Opportunamente il Maestro lo distingue dal termine squaquaroun, cioè chiacchierone, logorroico, senza costrutto, senza nessun risultato, nessun esito, senza profitto; ma anche chi punteggia il discorso di frequenti e grasse risate; infine, naturalmente, chi non tiene il segreto.

    Alla parola squaquarèda viene assegnato il significato di risata larga, distesa, senza intoppi e remore, rara ai tempi di oggi, di vita convulsa e tesa. Viene, infine, assegnato il significato di cacata semiliquida, quella che si depone a mo’ di polenta, così come fa la vacca.

    Adelmo Masotti

    Dal Vocabolario Romagnolo – Italiano, (Bologna, Zanichelli, 1996 e distribuito da Il Resto del Carlino nel 2005). Ricco, sapiente, e altresì colorito, il contributo di Adelmo Masotti.

    Alla voce furmàj è indicato formaggio o cacio. Nello specifico viene per primo indicato il formaggio pas o squaquaron o tumén cioè formaggio rispettivamente passo o squacquerone (squacquerato) o tomino. Spiega lo studioso: «è un tipo di formaggio fresco, tipico romagnolo, tenero, molle, acquoso, che si squaglia, gradevole, ricercato, usato anche per fare i cappelletti».

    Alla voce squaquarôn è indicato il formaggio squacquerone, il cui significato si riferisce nel contempo a chi ridice con facilità le cose o risulta un chiacchierone.

    Alla voce squaquarôs è indicato ovviamente il termine squacqueroso, cioè molle da spandersi.

    Alla voce squaquarêr viene attribuito il significato di diventare molle, tanto da spandersi. Parallelamente significa altresì: avere la diarrea o spifferare ogni cosa.

    Il significato della voce squaciarlêr è simile al precedente: avere la diarrea, ma anche spandersi per consistenza tendente al liquido.

    Riferisco, infine, il vocabolo romagnolo squaciarëla cioè squacquera, diarrea, dissenteria, in quanto legato ad un paio di modi di dire politici di un tempo. Il primo recita: «daj dal bot, daj dal bot, daj dal bot t’la squaciarëla!«. Cioè «dagli botte, dagli botte, dagli botte a quelli della squacquera!», con tale nome venivano indicati per dileggio il Partito Popolare e le associazioni religiose, richiamandosi al colore giallo della bandiera del Papa. Il secondo modo di dire è: "e culor dla squaciarëla, cioè il colore della squacquera" per quella indicazione di pavidità che era nelle intenzioni.

    Ma torniamo più propriamente alla voce furmàj cioè formaggio o cacio, furmàj pas o squaquaron o tumén cioè formaggio passo o squacquerone (squacquerato) o tomino come sopra riferito con saggezza gastronomica da Masotti, per allargarci ad una breve, a suggestiva, serie di suoi modi di dire e indovinelli.

    Modi di dire:

    - L’è una fàza da furmàj pas: è una faccia da formaggio passo (o squacquerone), cioè lunga e slavata.

    - L’è coma e’ furmàj int i macaron: è come il formaggio sui maccheroni, in senso figurato un fatto inatteso che accade proprio a proposito.

    - L’è tri quatrén d’furmàj sèc: è tre quattrini di formaggio secco, in senso figurato: è un ometto piccolo, magro, male in arnese e soprattutto da poco, oppure uno scherzo piccante, salace.

    - I j’à fat un furmàj ch’j’à ridù tot pr’un pëz: gli hanno fatto un tale scherzo piccante o salace, che tutti hanno riso per un pezzo.

    - Indvinël cun e’ furmàj: indovinello col formaggio, cioè un tipo di indovinello la cui risposta è fin troppo facile, ma che nasconde una replica burlesca, in rima, spesso grossolana e volgare.

    Indovinelli:

    - Agl’j’è quàtar surëli, ch’al cór, al cór, e agl’j’an s’ariva mai. Sono quattro sorelle che corrono, corrono e mai si raggiungono. Questa è la domanda, ecco la risposta: al stèc de dvanadùr. Cioè le stecche del dipanatoio, l’arcolaio. Ed ecco il formaggio: la bacheta so pr’e’cul e la zòla par ciatùr; cioè la bacchetta su per l’ano e un ceppo per turacciolo (indovinello ripreso dallo studioso Libero Ercolani).

    - Indvinël indvinàja, chi ch’al fa l’öv int la pàja? Cioè: indovina, indovinaglia, chi fa l’uovo nella paglia? Ecco la risposta: la galèna. Mérda in bóca a chi ch’lindvéna! Cioè: merda in bocca a chi l’indovina!

    - Indvinël bël bël, sóta la cmìsa cus a j’ël? Cioè: indovinello bello bello, sotto la camicia cosa c’è? Ecco la risposta: l’urël. Cioè l’orlo. E il formaggio: bêsa e’ cul a tu fradël! Cioè: bacia il sedere a tuo fratello!

    Nei dizionari

    In svariati dizionari la parola squacquerone, inteso come formaggio molle tipico romagnolo, non figura, ma se ne considerano solamente termini e varianti letterarie ed etimologiche estranee al prodotto gastronomicamente inteso.

    In vari casi troviamo chi esamina il termine squacquerare e ne fornisce sia il significato di avere la diarrea, sia quello gioioso e gastronomico di formaggio proverbialmente molle, semiliquido e informe, tipico prodotto caseario, casalingo ed invernale, che per tradizione si serviva sopra le foglie di cavolo.

    Non mancano coloro che ne evidenziano il senso figurato di raccontare tutto, spifferare tutto dalla A alla Z. Ma anche chi, in termini più marginali, evidenzia il collegamento del nome con un certo sgangherato di ridere, in uso presso certi romagnoli di un tempo, ma anche di oggi, grandi burloni della terra di Romagna, che amavano il riso smodato e sconcio, senza garbo né grazia. Prevale anche il significato di morbidezza che ricorda il nome delle cose che si squagliano. Ma anche, per similitudine, il vezzo di sciorinare altrui, senza bisogno, ciò che si ha nell’animo, i segreti pensieri; altresì il vezzo di far presto qualsiasi cosa.

    Nel Nuovo Zingarelli, vocabolario della lingua italiana (XI edizione), troviamo sul tema i seguenti termini che ne spiegano l’etimologia e l’origine:

    - Squacqueróne o squaccherone è formaggio di consistenza molto morbida, simile allo stracchino, tipico dell’Emilia-Romagna, in una versione. Nell’altra il significato deriva da squacquerare, onomatopeico dell’incontro tra acqua e cacca, cioè avere la diarrea.

    - Squacquerato o squaccherato esprimono sia il significato di riso sguaiato e sconcio, che l’altro significato di molliccio e acquoso.

    Gianfranco Camerani

    Lo studioso romagnolo Gianfranco Camerani, Presidente dell’Associazione Istituto F. Schürr, che opera per la salvaguardia e la valorizzazione del dialetto romagnolo, con la consocia insegnante Loretta Olivucci, ha effettuato la correzione dei vocaboli dialettali, al fine di conferire una possibile uniformità alla grafia delle voci e delle espressioni tipiche della pianura a occidente del Savio (cioè della Romagna centrale). Si è seguita la medesima grafia usata dalla redazione di La ludla, il periodico dell’Associazione, che ha sede a Santo Stefano di Ravenna.

    Non si è intervenuti nella grafia dei termini della Romagna orientale e tantomeno per alterare le grafie degli autori del passato, particolarmente in quelli sopra considerati. Per quanto riguarda la genesi del nome, è risaputo che alla base c’è un suono sgradevolmente onomatopeico, /scvac/, che viene prodotto dall’ espulsione, da parte del sedere, di deiezioni decisamente molli e gialle, per la sovrabbondanza di polenta nell’alimentazione. Da qui deriva l’aggettivo e participio passato scvacê, che si riferisce a corpi compresi e ridotti a livello del terreno (ricordo lo scritto di un bambino che spiegava che il leone, per sorprendere le sue prede «si squaccia tra le erbe della savana»). Con il sostantivo scvaciarela si intendeva, dunque, la deiezione già descritta, ma anche l’organizzazione cattolica che si gloriava di labari gialli, in omaggio ai colori papali. Scrive così Guerrini in

    E’ CAMARIR A SPASS

    La mí patrona prema d’andè a lett

    L’as cavé la pirocca e la dintira

    E cul d’caveccia e i gumisell dal tett

    Ch’la pareva un cadaver ch’e’ rispira.

    Za! L’è d’la squacciarella e d’che traplett

    Ch’e’ va in piligrinagg cun la bandira,

    Mo una sera, in camisa, la m’ha dett

    «Vieni al mio seno e abbraccia la tua Alvira».

    Mè um caschè adoss è mond da la paura

    E par scavemla cun abilité

    Ai dess «L’è proibito par natura,

    Parchè da ragazzolo i m’ha castré».

    E lì la fa: «Povara creatura

    Ti compatisso…» e l’am dasè cumiè!

    IL CAMERIERE DISOCCUPATO La mia padrona, prima di andare a letto,/si tolse la parrucca e la dentiera/ il cul di canapa e i gomitoli dalle tette,/ che pareva un cadavere che respira.// Già! Lei è della squaciarella e di quel gruppetto /che va in pellegrinaggio con la bandiera,/ ma una sera, in camicia, mi ha detto:/ «Vieni al mio seno e abbraccia la tua Alvira».// A me cascò addosso il mondo dalla paura/ e per cavarmela con abilità/ le dissi: «M’è proibito per natura,// perché da ragazzino mi hanno castrato»./ E lei: «Povera creatura/ ti compatisco…» e mi diede il commiato!

    I scvaciarel, di conseguenza, erano detti gli aderenti. Da bambino ho udito spesso una zirudela che recitava, più o meno, così:

    A-l saviv, i mi burdel,

    cvel ch’l’à fat i scaciarel?

    J à mes so una sucietê

    che par cvaréz.ma i vo balê!

    Par paghêr i sunadur

    j à vindù tot i Signur;

    par paghê da bé a cal dòn

    j à vindù tot al Madon...

    Lo sapete, i miei ragazzi,/ ciò che han fatto gli aderenti?/ Hanno costruito una società/ al fine di ballare in quaresima!/ Per pagare i suonatori/ hanno venduto tutti i Signori;/ per pagare da bere alle donne/ hanno venduto tutte le Madonne...

    ¹ Squaquaron è ormai la grafia classica, quella che si è deciso di seguire, nonostante gli amici della Schürr sostengano che nelle Ville Unite si pronunci preferibilmente scvacvaron, all’antica, stirando le labbra e senza l’arrotondamento richiesto dalla qu. La n finale, naturalmente, non si pronuncia, essendo totalmente assorbita, nella nasalizzazione, dalla o (la n finale indica, cioè, essa stessa la nasalizzazione).

    LA TRADIZIONE DEI FORMAGGI IN ROMAGNA

    Come si facevano i formaggi nella piana ravennate

    Mi sono avvalso del contributo dell’Associazione Culturale La Grama di San Pancrazio di Russi (Ra).

    Ho selezionato racconti e testimonianze frutto di una meritevole attività culturale di ricerca e di rigorosa codificazione, registrate con impegno da Luciano Minghetti e dal compianto Pier Franco Ravaglia, con la collaborazione di Vittorio Pezzi e Luigi Silvestroni nell’ambito dell’Associazione Culturale La Grama di San Pancrazio di Russi, nel settembre 1998.

    La raccolta di Racconti paesani ha per titolo Una fèta d’furmaj (Una fetta di formaggio).

    Ho raggruppato, secondo i tanti temi, i contributi di Ermanno Silvestroni, Tino Babini, Francesco Bentini, Esmeralda Spada, Luigi Calderoni, e di una serie di famiglie contadine della piana russiana e ravennate; ne ho fatta una sintesi argomento per argomento, come l’avrebbe condotta un notaio. Ho aggiunto un piccolo grande contributo dello scrittore Vittorio Tonelli sulla ricotta. Il mosaico, per merito dei testimoni, è ricco, attendibile, significativo, suggestivo e sapiente.

    Il latte disponibile e utilizzato era vaccino, di vacca o di borella, raramente ovino, di pecora, utilizzato a crudo appena munto. Caratterizzante la scelta del caglio, o imprés.a, ma anche di innesto del latte.

    Tino Babini testimonia dell’imprés.a particolare che la sua famiglia (le cui generazioni si sono succedute a partire dai primi decenni dell’Ottocento) utilizzava per ottenere un formaggio morbido di qualità, ferma restando la qualità del latte. Tino conferma che conosceva bene quell’imprés.a in quanto recuperò, a suo tempo, l’esperienza della Marina dei Giornali, che aveva la bottega e la preparava da vendere, anche se l’igiene lasciava un po’ a desiderare, ma faceva della roba buona. Quando ammazzavano un vitellino, gli toglievano lo stomaco, univano due etti circa di forma grattugiata, un calzalino di maiale pestato e sale. Il tutto, una volta predisposto e amalgamato, veniva rimesso in un vaso. Assicura Tino: "bastava un cucchiaio di quel preparato per dare l’impréṣa ad un litro/un litro e mezzo di latte. Buonissimo il formaggio ottenuto".

    Fortunati coloro che possedevano anche poche pecore, il cui poco latte veniva frammisto a quello vaccino, anche se non si trattava di pastori veri e propri, peraltro assai più presenti nelle zone collinari e talvolta di passaggio verso la pineta nel periodo invernale. Ebbene, ogni qualvolta venivano ammazzati gli agnelli, nella successiva macellazione venivano conservati i vintarsel, cioè i ventrigli e le interiora dei medesimi, in quanto il latte residuo presente nel loro stomaco serviva, insieme a quello dei pochi capretti e dei più presenti e disponibili vitellini, da imprés.a nella preparazione (coagulazione e cagliatura specifica) dei formaggi, anche e soprattutto di vacca. Non mancava chi vantaggiosamente (per la bontà del formaggio ottenuto) predisponeva l’innesto, qualcosa di simile ai fermenti lattici vivi dei giorni nostri. Allo scopo si metteva, in anticipo, ogni mattina, un po’ di latte in una ciotola o piccolo coccio perché si aggregasse: questo era l’innesto di un tempo.

    Ognuno cercava di dare un sapore particolare ai propri formaggi, attraverso un segreto, un accorgimento, un’integrazione, un intervento manuale, particolari, sconosciuti a tutti gli estranei alla famiglia, perpetuati oralmente attraverso i passaggi generazionali. Poteva anche trattarsi di alcune erbe aromatiche o di particolare composizione. Ad esempio i contadini sapevano che qualche foglia di ortica messa nel vaso ove si calava (filtrandolo) il latte fresco serviva ad impedire al formaggio certi rigonfiamenti, chiaro segno degenerativo. Determinante il ricorso a fermenti lattici vivi, innesto, legati al formaggio tomino, che veniva unito al latte impreso.

    Poteva anche accadere che quando il formaggio non lievitava, l’az.dóra ne informava la famiglia, ma attribuiva la colpa a qualcosa di non chiaro, né attribuibile con precisione. Gli uomini di casa comprendevano più realisticamente che erano stati compiuti errori nell’alimentazione, che il latte era troppo debole in quanto ottenuto da mucche duramente impegnate nel lavoro dei campi e nel contempo nella maternità e nell’allattamento, anche se nella fase finale di svezzamento dei vitelli; consideravano inoltre le condizioni meteorologiche, umidità e temperatura in primis.

    La produzione dei formaggi era legata al massimo periodo di disponibilità del latte vaccino, che in parte veniva abitualmente e prioritariamente destinato all’alimentazione dei familiari, bambini e anziani in prima fila, e per la parte restante riservato alla caseificazione casalinga. Allo scopo servivano necessariamente o l’imprés.a o il caglio ed eventualmente l’innesto del latte aggregato. Si puntava, per questioni di orgoglio e autostima, al risultato migliore. Allo scopo, chi allevava le mucche nella stalla piena, o più semplicemente qualche mucca, oppure una o due borelle specializzate, e più raramente qualche pecora, provvedeva alla regolare mungitura quotidiana, normalmente un paio di volte al giorno, al mattino e alla sera. Il latte della prima mungitura veniva prontamente consegnato (o ritirato) al negozio di riferimento; mentre il latte della mungitura serale, una volta soddisfatta l’esigenza della famiglia (per la colazione del mattino successivo), veniva riservato al formaggio, in genere morbido, ma anche quello bazzotto da maturare alcune settimane, oppure quello che veniva stagionato più a lungo, nel luogo più fresco s’intende, quale fórma casalinga, per la grattugia. Di domenica la mungitura veniva eseguita soltanto alla sera. Come il latte fresco di mungitura, anche il formaggio morbido veniva venduto al più presto.

    Quando giungeva il periodo caldo, conclusa la disponibilità del latte, in coincidenza con il terzo quarto mese di vita dei vitelli, cessava la mungitura (a meno che non si avesse la borella), la stagione peraltro non era più adatta per caseificare il latte, ci si consolava pertanto con il formaggio non più bazzotto, ma secco da grattugia.

    Più di tutti i contadini che lo producevano mangiavano il formaggio, tuttavia per coloro che riuscivano a produrne una quantità da vendere, ciò rappresentava una significativa e talvolta buona integrazione del reddito familiare, anche se le bestie servivano per lavorare la terra e, considerate nel contempo le esigenze dei vitelli, si aveva poco latte a disposizione.

    Pesavano enormemente anche le tipologie dei contratti di conduzione del fondo, del quale i contadini raramente risultavano proprietari. Conseguentemente l’attività di caseificazione casalinga risultava spesso di piccolo cabotaggio, svolta per lo più di nascosto dal fattore o dal proprietario. Se il latte munto veniva destinato a tale attività per alcuni mesi non era possibile, ovviamente, consegnarlo alle latterie e negozi o ai vicini di casa o ai clienti abituali.

    In assenza di frigoriferi (almeno prima degli anni Venti o Trenta del XX secolo) la stagionatura dei formaggi rappresentava un problema, anche per l’assenza di luoghi freschi incavati e sotterranei, comunque idonei, soprattutto nei mesi estivi. Eppure nelle vecchie case contadine di un tempo si tentava di farlo. Impossibile garantire buoni risultati con le case di più recente costruzione.

    Ovviamente nei mesi freddi, da ottobre a marzo, peraltro caratteristici e vocati alla produzione dei formaggi, non vi erano problemi di temperatura, anzi talvolta si presentavano al contrario, in quanto il troppo freddo poteva inibire e/o rallentare la buona maturazione dei prodotti, anche nel caso dei formaggi morbidi ai quali servivano i consueti 2-3 giorni di specifica e rituale maturazione.

    Per fare buoni formaggi, in ogni caso, occorreva solo latte sano, perfetto, privo di odorosità sgradevoli e difetti, appena munto; occorrevano poi tempo adeguato, precauzioni, sapienza, manualità, igiene; occorreva inoltre stare attenti che non scoppiasse, che non tirasse vento e altre cose legate al folclore, a credenze, superstizioni comprese. Il formaggio ottenuto doveva essere salato con prezioso sale marino, grosso, oppure schiacciato (con la bottiglia, orizzontalmente sul tagliere di legno), occorreva altresì lavarlo, asciugarlo, girarlo, con cadenza quotidiana, oppure un giorno sì e uno no, altrimenti la bucciatura non sarebbe risultata uniforme e perfetta.

    Per la lavorazione non servivano tanti utensili, ma almeno la pentola di cottura, la ramina, la mescola, le casere di legno, grossi anelli legnosi senza fondo, utilizzate soprattutto per i formaggi morbidi, per i quali si poteva ricorrere anche a vimini fatti per la spurgatura e la breve maturazione del delicato prodotto e i casarotti, solitamente di terracotta muniti di fondo e con alcuni fori, al fine di eliminare al meglio il siero, contenitori che occorreva frequentemente ben pulire ricorrendo sia all’aceto che al vino per avvinare; fondamentale l’ingrediente umano, le mani per covare e lavorare al meglio la pasta cagliata e garantire formaggi di qualità da condividere e esibire orgogliosamente.

    Allo scopo, il latte, soprattutto quello vaccino, appena munto, veniva colato o filtrato facendolo passare in un colino a rete fittissima, poi versato sulla pentola di cottura, portato alla giusta temperatura (36-37° C circa), staccato dal fuoco, veniva immessa l’imprés.a o caglio, e, a piacere, l’innesto; la pentola veniva infine ricoperta e si attendeva che, attraverso la cagliatura, cominciasse a diventare il formaggio desiderato. Appena iniziava a consolidarsi e a raggrumarsi, si mescolava con la ramina o altro apposito utensile e il volume della pasta si riduceva sensibilmente, poi si procedeva via via sui vimini piatti, sulle casere di legno, sui casarotti di terracotta, a seconda della tipologia di formaggio che si voleva ottenere, rispettivamente morbido, squacquerone, bazzotto, secco. Per le ultime due tipologie occorrevano tempi e lavorazione ulteriori, covare con cura e intenso lavoro delle mani, delle sere fino alle dieci o alle undici di notte, per garantirne la buona riuscita e assicurarne una buona maturazione e stagionatura.

    Dopo l’iniziale fase sull’asse di lavorazione e scolatura del siero residuo (e salatura), grazie alle scanalature lungo il bordo del medesimo al fine di raccogliere e recuperare il relativo siero, i formaggi tendenzialmente solidi (quelli bazzotti e secchi ovviamente) venivano collocati sulle assi di stagionatura appese, proseguendo il lavoro di assistenza quotidiana, al fine di ottenere, dopo alcuni mesi, una caratteristica buccia.

    La caseificazione casalinga di un tempo, in molti casi, era un’arte sapiente, con regole da rispettare, in parte già enunciate sopra, per inserire i pochi cucchiaini di imprés.a (acquistato nelle botteghe) nel latte rigorosamente caldo, dopo un paio di ore si controllava la situazione e si procedeva. La temperatura invernale agevolava di molto i risultati finali, più difficile fare maturare il formaggio e realizzare con efficacia il lavoro manuale di covatura con il clima e microclima inadatti, infatti, con la stagione calda e anche nelle mezze stagioni si faceva più fatica, in quanto anche con tanta pigiatura la pasta non restava unita.

    La tradizione si è estinta da una cinquantina di anni, quando cioè è stata proibita la vendita del latte sfuso e dei relativi formaggi al di fuori di condizioni igieniche e produttive certe, riferibili a produzioni legate a tecnologie moderne artigianali, all’ingrosso, industriali che da vari decenni dominano, in esclusiva, il mercato.

    La borella (burëla)

    Tino Babini la considera la mucca da latte tipica della piana ravennate (la razza bovina bianca romagnola era razza da lavoro e, pertanto, non era in grado di garantire il latte in qualità e in quantità).

    Erano soprattutto i coltivatori diretti di un tempo che la tenevano nella stalla e che non dovevano rispondere a nessuno.

    La borella faceva un po’ più di latte, ma si trattava di un latte più leggero, per cui per fare i formaggi occorreva una quantità di latte superiore. I medesimi coltivatori potevano permettersi una mucca da latte anziché un animale da lavoro , perché le veniva riservato un mangiare a base di tutti gli scarti. Per esempio, ricorda Tino, i cui familiari facevano gli ortolani, a casa sua tutto lo scarto dell’orto andava a mantenere la borella: le insalate, i finocchi, tutto ciò che si scartava, ma anche l’erba medica o erba spagna.

    Chi aveva la borella faceva per sé il formaggio morbido da mangiare; nella memoria dello studioso russiano emerge il seguente modo di dire: "Bël-öc e’ sta in têvla senz’ös e senza chêrna, la mamâ ad’Bël öc l’à la chêrna insen’ a l’ös". Cioè bell’occhio sta in tavola senz’osso e senza carne, la mamma di bell’occhio ha la carne insieme all’osso: questo era il formaggio.

    Più in generale va ricordato che le borelle venivano sistematicamente dispensate dalla pesante attività lavorativa nella quale erano impegnate le altre mucche, tranne rari e limitati lavori, per non incidere negativamente sulla qualità del latte prodotto.

    Erano animali speciali, da latte, venivano tenute con molte cure e riguardi privilegiati, non venivano alimentate come le altre bestie della stalla, niente fieno greco, niente erba zolfina (argheta), niente polpa di barbabietola e altre cose scadenti che avrebbero conferito puzze e caratterizzazioni negative al latte da esse ottenuto.

    Venivano loro riservati, oltre alle cose indicate sopra, cioè scarti buoni dell’orto e erba spagna o medica di qualità, anche erba impasita, fieno buono, cibi migliori e più adatti come il pasto, pastone piuttosto liquido con crusca, farina di mais, di orzo o di altri cereali di sicura provenienza, al fine di garantire al massimo la produzione di tanto (un tempo si raccontava di 50 litri di latte al giorno) latte di buona qualità.

    In proporzione si ottenevano i risultati, quindi buon fieno due volte al giorno e, alla sera, il caldo secchio del pastone (anche con pochi pugni di cruschello), nei casi più fortunati con farine di avena, frumento, mais, orzo, scarti buoni di cucina. In sintesi il fieno migliore per una decina di mesi e di erba per un paio di mesi.

    La famiglia restava impegnata tutti i santi giorni dell’anno per pulire la stalla e garantire una lettiera asciutta e una buona igiene.

    Le cose vietate alla borella (come detto fieno greco, erba zolfina, barbabietola e altro) venivano destinate, servendo da pura sussistenza, alle altre mucche da lavoro e da carne, con usuale uccisione e macellazione a fine carriera o eventualmente in caso di incidenti rovinosi, legati alle vendite di bassa macelleria.

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