Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Le idi di luglio
Le idi di luglio
Le idi di luglio
Ebook258 pages3 hours

Le idi di luglio

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Thriller - romanzo (197 pagine) - Può la morte suonare ottima musica jazz?
Può un omicidio sconvolgere la situazione politica italiana?
Può l’amore cambiare una vita (in peggio)?
Le risposte si trovano nei giorni che anticipano Le idi di luglio.


Federico Sica è il pianista di un quartetto jazz. A lui e ai tre colleghi, tuttavia, la musica non basta per accantonare le preoccupazioni materiali. Assassinare la gente per denaro è un’attività senz’altro più proficua.

Gli affari, effettivamente, vanno a meraviglia; e sembrano persino garantirgli un futuro ancora più piacevole il giorno in cui Federico, in seguito alla misteriosa richiesta di una donna inquietante, accetta di compiere un clamoroso omicidio.

Da quel momento, in realtà, la sua vita cambia. Ma non come lui si sarebbe aspettato.

Le idi di luglio è un thriller politicamente molto scorretto che coniuga con una scrittura originale suspance e humor nero.


Roberto Bassoli (Modena, 1961). Esperto in marketing e comunicazione, pianista, giornalista (autore di numerosi articoli specialistici apparsi su riviste settoriali e direttore responsabile di testate tecniche). Nell’ambito della narrativa ha pubblicato la raccolta di racconti Sette danze francesi e il thriller Il figlio del tramonto.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateMay 30, 2017
ISBN9788825402315
Le idi di luglio

Related to Le idi di luglio

Related ebooks

Performing Arts For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Le idi di luglio

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Le idi di luglio - Roberto Bassoli

    tramonto.

    …il gran Cesare cadde. Oh qual caduta fu quella, miei compatriotti!

    Allora io e voi, e tutti noi cademmo, mentre il sanguinoso tradimento trionfava sopra di noi.

    William Shakespeare, Giulio Cesare – Atto III Scena II

    Adesso

    Finestre

    Uno schiocco di carne contro altra carne: lo sparo secco di uno schiaffo tirato senza l’attenuante della rabbia.

    Le sberle a sangue freddo sono le peggiori; in esse non c’è niente: odio, amore… neppure semplice cattiveria. Sono impersonali come le leggi della fisica, prive di passione; e per questa loro indifferenza verso le emozioni non precedono alcun rimorso. Né dovrebbero essere perdonate.

    Vorrei voltare la testa verso la finestra, trasformarmi in uno sbuffo di nuvola e sparire nel cielo spolverato dal vento. Ne compare appena un rettangolo, perché l’apertura è poco più di una feritoia orizzontale nello scrostato muro di sasso di una soffitta. La sua bellezza però non ha bisogno di spazi ampi per incantare gli sguardi. Così vicina eppure irraggiungibile, come soltanto Dio può avere pennellato per destare, riguardo alla Sua inesistenza, dubbi negli atei.

    Io non ho mai avuto fede in Dio, né nella maggior parte del Creato; ho scelto la strada meno agevole, perché è più difficile non credere in niente che il contrario.

    Ho disarmato il cuore da un innato scetticismo un’unica volta e sento di avere commesso un errore di cui sto già pagando il conto. Infatti ora sono qui, senza potere nemmeno girarmi a sbirciare il cielo. Non davanti ai ragazzi. Sono io il responsabile del guaio in cui siamo finiti, quindi sta a me soffrire. Magari trovare anche una soluzione per salvare, se non l’orgoglio, almeno la pelle.

    Va detto che, al di là del fiume di avversità che stiamo risalendo controcorrente per colpa mia, ho sempre gestito io le situazioni complesse. D’altronde, le malizie meno rettilinee di un colpo di pistola non sono esattamente il forte dei miei tre colleghi.

    Idem le pubbliche relazioni.

    BC, a causa di un passato necessariamente frettoloso, è uno piuttosto sintetico; Shofar se sta zitto è meglio; e Banana non parla affatto. Perciò, anche nel caso fossi del tutto innocente, il compito di sistemare una faccenda scabrosa toccherebbe ugualmente a me.

    A maggior ragione non essendolo. Per come mi sono comportato non posso rifiutarmi. Tanto meno esibire il fantasma del dispiacere. Fra belve, il maschio dominante resta tale finché non mostra al branco un segnale di debolezza. Dopodiché tutti gli saltano alla gola. E non è solo la mia a preoccuparmi.

    No, la finestrella proprio non posso guardarla. Devo stare in piedi, di fronte alla sedia di ferro arrugginito posta al centro della grande soffitta, porre domande e sopportare le conseguenze provocate dalla mancanza di risposte convincenti. Sono quegli effetti a supplicarmi di dissolvermi in cielo: schiaffi ripetuti con la meticolosità dello studio di un gruppo di note sul pentagramma. Colpiscono in cadenza naso, occhi, labbra e il loro suono manesco scandisce la condanna della mia ingenuità.

    Ho affidato la funzione di carnefice a Banana in quanto è un esecutore molto preciso. Quando suoniamo, sono le fondamenta ritmiche della sua batteria a consentirci di edificare un’architettura di improvvisazioni che non se ne vada da tutte le parti.

    Mentre mi costringo a osservarlo malmenare l’Ambigua legata alla sedia, devo riconoscerne disciplina e tecnica. Con amarezza, va bene, ma quello è un problema mio.

    Una domanda. Qualche secondo di silenzio, o un proclama insoddisfacente. Giù un ceffone.

    Domanda.

    Qualche secondo.

    Ceffone.

    E così via. Banana potrebbe continuare all’infinito senza sbagliare un tempo.

    Siccome nello stanzone inizia a fare caldo, col sole di giugno che ha preso ad assediare la cascina in cui ci siamo rifugiati, ha fatto un’eccezione al suo abituale decoro. Si è tolto prima la giacca e poi la polo grigia di Ralph Lauren. A torso nudo, sebbene non sia molto alto, dà prova di un’invidiabile forma fisica.

    Si sa che a forza di percuotere il loro strumento, quando non le ossa di qualche malcapitato, i batteristi sviluppano una muscolatura meglio definita di quella di altri musicisti. In più, la prestanza di Banana è accentuata dal colore della pelle.

    Ammirandolo durante la sbracciata, il suo è un bruno guizzo di pettorali, bicipiti, tricipiti, deltoidi, per citare i più noti. Imperlato di sudore all’aroma di erba da fosso, luccica come una statua egizia di granito nero.

    Se l’Ambigua non avesse altre priorità, se lo mangerebbe con gli occhi. Procurandomi, nonostante la sua doppiezza, una sotterranea gelosia: non quella smodata che, per ipocrisia, viene nominata al posto del senso del possesso, bensì il tormento silenzioso che prende l’amore per il collo.

    Per la sua natura equivoca, tuttavia, l’Ambigua non è in grado di lusingare la torrida sensualità che ho scoperto, a mie spese, farle sia da incudine che da martello.

    I ragazzi, malgrado le mie iniziali resistenze, hanno preteso di annodarla alla sedia con tre lunghi elastici da portapacchi, di quelli colorati, con i ganci alle estremità, trovati nel baule della macchina di Shofar. E di interrogarla con maggior energia di quanto vorrei io. Quindi subisce, anche se non di brutto come invece vorrebbero loro.

    Nella soffitta vuota, tranne per la seggiola metallica, un paio di casse tarlate dimenticato contro i muri sfregiati dal tempo e un metro cubo di armi di varia potenza, le eco delle sberle contrappuntano il suo malessere. Che poi proprio sganassoni non sono: infatti non rimbombano nello stile di una grancassa.

    Banana ci sta andando giù con inattesa leggerezza.

    D’accordo riconoscergli di non essere uno che gode del dolore che procura e di comprendere quando si deve fermare. Dietro a una faccia di pietra nera nasconde una sensibilità commovente. Se la si sa riconoscere. Come il ricordo della sofferenza, del resto. Su altri infelici però gli ho visto tirare, con le sue grosse mani da percussionista, certi colpi che all’impatto creavano sfacelo. Con l’Ambigua, invece, si sta comportando misericordiosamente. Magari ha colto nel mio sguardo una muta preghiera, interpretandola nel modo più caritatevole. Non tanto nei confronti di lei, quanto nei miei.

    Non capisco se la ragazza legata apprezzi la sua clemenza. A ogni colpo geme basso e salmodia la stessa frase: – Vi ho già detto quello che dovevo.

    Cola sangue dal naso e dalla labbra fin sul vestitino a righe orizzontali panna e beige, ma non piange, né implora pietà. E a me sta finendo di spezzare il cuore.

    Quanto vorrei crederle! Potrei anche accontentarmi di fingere, ignorando la voglia di scaricarmi la coscienza su di lei che spinge per uscire dalla parte più tenebrosa di me. I ragazzi però se ne accorgerebbero e pretenderebbero lo spettacolo per cui stanno pagando il prezzo. Vogliono qualcosa in cambio del pericolo che ho rovesciato loro addosso.

    Prima che Banana parta con l’ennesimo schiaffo alzo una mano, fermandolo. Mi chino, molleggiandomi sulle ginocchia, per avvicinare la faccia a quella dell’Ambigua. Lei mi guarda con l’occhio che non le si è ancora gonfiato. Il colore dell’iride sembra evaporato dal mare di un’isola in primavera: limpido e puro come la luce. Strano come tutto il resto di lei sia arrogante ed equivoco. In una parola sola letale.

    Ho sempre fantasticato di innamorarmi – se non altro per una volta nella vita – di una donna così. Purtroppo in questo mondo ci sono due terribili tragedie. Una è il non avere ciò che si desidera e l’altra è ottenerlo. Quest’ultima è la peggiore.

    – Te lo chiedo di nuovo. – Le avvicino le labbra a un orecchio. I suoi boccoli castani, pungenti di un sudore eccitante, mi solleticano il viso. – Chi ti ha mandata veramente? Per piacere.

    Allontana la testa, forse per non respirare la mia stessa aria. Nel suo sguardo si sono messi a ribollire sprezzo e passione. – E io te lo ripeto. – Voce bassa, tono scuro; un’inclinazione naturale all’intervallo di quinta diminuita. Potrebbe cantare del buon blues. – Non so chi sia. – Poi, con la punta della lingua, si lecca via una goccia di sangue da un angolo della bocca e piazza una falce di sorriso, quasi che quello che le sta capitando non le dispiaccia del tutto. O che noi – che io – siamo troppo insignificanti per recarle offesa.

    Lentamente mi rialzo. Quel mezzo ghigno beffardo è arrivato a ferirmi più delle menzogne che non voglio lei possa replicare.

    Fino a quel momento non ho permesso alla collera di impadronirsi di me: l’ho arginata con altri sentimenti e in aggiunta c’è anche la questione dell’infermità di mente della ragazza ad avermi moderato. Ormai però non ce la faccio quasi più a controllarla. Le tenebre stanno prendendo il sopravvento.

    – Non vedi che continua a pigliarti per il culo? – abbaia Shofar, accovacciato accanto a un’altra finestrella. Per quanto sia parzialmente illuminato dal sole, riesce molto meglio di me a secernere impulsi bui. Lo incorniciano come una nube di inchiostro.

    – Io non lo piglio per il culo. È lui che lo fa con voi, me e se stesso – va a precisare l’Ambigua, senza cambiare espressione.

    Rimango fulminato. La sua osservazione, più che l’accusa di Shofar, mi ha centrato come e dove non sono pronto a resistere. Ha finito di rompere le catene che impediscono ai miei mostri di uscire ed essi, in un istante, iniziano a danzarmi nel cervello al rombo di tutta la loro furia.

    Grazie al sorrisetto, noto che la donna legata possiede ancora tutti i suoi denti, bianchi e perfettamente allineati. Mentre la schiaffeggiava, Banana doveva aver pensato di non rovinarle l’armonia del viso.

    Mi giro verso di lui. È in piedi a un metro da me, con le gambe leggermente divaricate e le mani sui fianchi, in muta attesa di mie indicazioni.

    – Fiaccala – gli dico. – Spaccale i denti – e sono quasi sicuro che non sia io a parlare ma un cadavere semi-sepolto in una tomba di ghiaccio.

    A Banana vengono gli occhi larghi come piattini da frutta e un musone contrariato. Evidentemente il mio ordine gli ripugna. Capisce che ho raggiunto il punto in cui non sono più in grado di scegliere fra bene e male e che nella confusione ho perso definitivamente l’anima. La tragedia che gli è occorsa in passato e le ripercussioni sul resto della sua vita a lui non hanno incrinato la fede in Dio e in uno spirito immortale. Anche se molte delle sue azioni non si possono considerare precisamente coerenti con gli insegnamenti cristiani, è un uomo religioso.

    Per un po’ rimane in bilico fra i miei ordini e la sua coscienza; quindi, nonostante la pietà per me, per sé e per la nostra prigioniera, alza le spalle e si china sul pavimento dissestato. Individua una sorta di tavella esagonale in cotto, staccatasi dal massetto di malta almeno cinquant’anni prima. La stringe fra le dita, così da valutarne la resistenza agli urti, e subito dopo si sforza di annuire.

    – Era ora, cazzo! – gongola Shofar, troppo lontano dalla sedia per potere partecipare al martirio dell’Ambigua. Lui sì che gioisce nel vedere sgorgare il sangue. Mi fa venire i brividi quando mostra la sua natura brutale, cioè sempre.

    Non lo guardo neanche. – Continua a tenere d’occhio i campi, tu – gli consiglio freddamente.

    Lui grugnisce qualcosa di malvagio e accarezza la mitraglietta ARX-160 che tiene in grembo, ma si rimette a spiare fuori dalla feritoia.

    Rallentata la crudeltà di Shofar, torno a spronare Banana: – Fai quel che devi.

    Dovrei essere io quello incitato e anche a sferrare la mattonata. So però che non ce la farei mai. Banana è la forza della mia fragilità.

    L’Ambigua si rende improvvisamente conto che è cambiato qualcosa nel mio atteggiamento verso di lei perché tira la testa indietro, cessando di sorridere.

    La prospettiva di rimetterci i denti sgranocchiando un torrone in cotto, immagino non attiri nessuno. Una donna bella anche meno di altri.

    Per quanto sia pazza e tosta, calcola che qualche livido non è definitivo mentre una sassata in bocca non solo produce effetti devastanti, ma può preludere a gesti ancora più violenti.

    – No! Aspetta! – Un ringhio roco da gatta intrappolata ferma Banana, che con un largo movimento del braccio sta acquistando potenza per colpire duro.

    La mia mente libera un involontario sospiro di sollievo. Rabbia o no, ho sperato fino all’ultimo che non fosse necessario massacrare la donna che amo.

    – Aspetta cosa? – È implicito che scivolerò giù per lo scarico della delusione, ma devo sapere.

    Lei arriccia la faccia come a chi tocca ingoiare amaro. – Quello che vi ho raccontato prima, nel capannone, è vero: non so chi sia l’uomo che mi ha mandato a incontrarvi. Credo però che conosca bene tutti voi.

    La qual cosa non mi inorgoglisce neanche un po’. – Questo quali conseguenze comporta?

    – Non siete morti stamattina, ma immagino che non sopravvivrete a lungo… – annuncia con sintetica sobrietà. – E io con voi. – Che creda a quest’ultima fatalità non è chiaro. Ha usato un monocorde tono sibillino e l’espressione del suo viso si è appiattita.

    Neanche il tempo di un respiro ed esplode un urlo gutturale: – Schifosa puttana! – Shofar ha perso una pazienza che non ha mai neppure avuto. Con il ruggito ancora in bocca, esegue un balzo verso la sedia. Pare intenzionato a sfondare il cranio della prigioniera col calcio della mitraglietta.

    Sebbene possa giustificarlo, il suo sfogo ha un che di inopportuno visto che la ragazza si è decisa per una minore vaghezza. Pertanto Banana e io ci muoviamo nello stesso istante, formando una barriera tra l’Ambigua e Shofar. Così lui deve fermarsi.

    Dall’altro lato della malandata soffitta, anche BC si mette a gridare, sventolando verso il furente collega la canna di una Pyton .357 Magnum: – Ti ha detto di guardare fuori da quel buco di culo di finestra, cane di Israele!

    Apriti cielo.

    Il cranio rasato di Shofar diviene viola e il suo grugno pietroso assume una sfumatura persino più crepuscolare.

    Bloccato a un metro e mezzo da noi, il folle devia verso BC un’occhiata che contiene tutto l’odio generalizzato che porta abitualmente con sé.

    Per alcuni secondi i due non si dicono niente. Si esaminano però come per prendere le misure dei rispettivi feretri.

    Poi, quando ormai presagisco imminente un regolamento di pendenze, accade un miracolo: un barlume di luce della ragione illumina le loro menti e invece di proiettili partono solo raffiche di insulti in almeno tre lingue.

    Per finire, ognuno riprende il suo posto, senza omettere di augurare all’altro i peggiori tormenti in questa vita e nella prossima.

    Un antipatico soffio nasale mi riporta alla ragazza legata. Il suo disprezzo per noi è palese. Le oppongo una faccia da sabbia mobile. – Perché l’uomo che ti ha contattata ci vorrebbe morti?

    – Non ne sono sicura, ma penso che vi stia studiando e usando da tempo in attesa di sacrificarvi come piccole, ingenue pedine. Eravate utili ai suoi piani e adesso non lo siete più.

    – Quel qualcuno allora ha fatto un grosso sbaglio e presto gli presenteremo il conto – dico. È una millanteria, ma non sopporto l’idea di avere danzato appesi ai fili di un burattinaio più furbo di noi. Non siamo marionette, né pedine sacrificabili.

    Invece lo siamo eccome.

    Lei scuote piano la testa. – Presto? – Gelida come il vuoto. – Presto è già troppo tardi.

    Un mese fa

    1

    Gli argomenti di Cassio

    Roma, ore 21. Un caldo umido invischiava la città.

    Quattro ore prima, il cielo si era improvvisamente riempito di nuvoloni gonfi e in breve il pomeriggio era diventato nero come il peccato. L’aria si era fatta di piombo viscido e, in un teatro barocco di ombre cupe su marmi e travertini, era andato in scena un diluvio di fulmini scarlatti, accompagnato da un coro di boati. Uno scroscio di goccioloni aveva flagellato le strade, mettendo in fuga cittadini e turisti, mentre il traffico si impantanava negli stagni in cui si erano trasformate le buche croniche del centro.

    La tempesta aveva imperversato per mezz’ora, inondando di confusione i quartieri; poi, come se n’era andato, il sole aveva forato le nubi ed era ricomparso. Da quel momento erano partite avemarie recitate a morsi perché – certe volte, alla metà di maggio, succede – il Ponentino, il vento marino che spira da ovest, si era sfiatato e una nebbiolina appiccicosa si era acquattata fra palazzi, chiese e monumenti, assorbendo l’odore sudicio dello smog e sputando addosso alla gente una sudaticcia insofferenza.

    Al terzo piano di un palazzetto del ‘600 in via dei Pastini, quasi in mezzo al triangolo del potere disegnato da Quirinale, Montecitorio e Palazzo Madama, l’ingegner Ciro Cassio invece se ne fregava bellamente dell’umidità esalata dalla sera. L’appartamento che aveva intestato alla moglie era stato climatizzato l’anno precedente, pochi giorni dopo che la Soprintendenza per i Beni Architettonici aveva reiterato parere contrario a un simile intervento: colpa di un paio di pareti affrescate da un allievo del Domenichino, con eroi mezzi nudi e dèi grassocci che mal sopportavano sventagliate d’aria.

    Lui, che apprezzava l’arte solo quando ne poteva trarre un tornaconto, per niente scoraggiato non aveva dovuto fare altro che rivolgersi a un amico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, di cui la Soprintendenza è un organo periferico. In meno di una settimana l’inconveniente si era trasformato in un timbro sull’opportuna autorizzazione.

    Seduto a un tavolo fratino originario di un convento del Viterbese, Cassio avvertì il refolo refrigerante del condizionatore sfiorargli la testa semi-calva, aperta come un teatro greco sul viso paffuto. Pensando che i densi umori della tarda primavera romana proprio non gli creavano problemi, si accese la trentaquattresima sigaretta della giornata e osservò un grigio ghirigoro di fumo salire verso il soffitto.

    – E questa è la situazione in cui si trova il Partito – disse, riprendendo in modo ruvido un discorso interrotto qualche secondo prima.

    La situazione del Partito: ecco cosa lo preoccupava. E la propria carriera politica ancora di più… sebbene un’idea oscura per risolvere le difficoltà gli fosse sbocciata

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1