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Certe incertezze: Le parole confondono, #2
Certe incertezze: Le parole confondono, #2
Certe incertezze: Le parole confondono, #2
Ebook671 pages9 hours

Certe incertezze: Le parole confondono, #2

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About this ebook

Lo definiscono il clown perfetto perché, quando a volte legge l'odio per lui sul viso di qualcuno, allora esagera e si diverte.

Francesco a tredici anni ha fatto la sua prima finta rapina. È un ragazzino ribelle che tutti vogliono salvare dalla cattiveria del mondo perché, in fondo, lui non può essere davvero cattivo per sua natura. A ventitré anni non è pronto a rivelare al suo migliore amico che ha ucciso una persona, anzi, due. Salta dal letto di una ragazza all'altra con la stessa frequenza con cui cambia abiti, vive la vita con intensità e con una mente aperta. Può innamorarsi, uccidere, nascondere i suoi veri sentimenti?

Un giorno conosce la musica di Pachelbel e questo potrebbe cambiare la sua storia. Incontrerà un uomo speciale che finirà per salvarlo, indicandogli la via corretta da percorrere, eppure la vita non è mai come ci si aspetta e Francesco lo sa.

Adatto a un pubblico di soli adulti a causa della presenza di scene di sesso.

Secondo libro della serie "Le parole confondono". Non è necessario aver letto il primo libro o conoscerne gli eventi. Questo volume nasce come romanzo separato, indipendente, ma in esso si ritrovano i personaggi del primo libro.

Autore anche dei racconti/raccolta di racconti:
- Deve accadere
- Viaggio dentro una storia
- Journey within a story
- Racconti dall'isola

del romanzo di fantascienza:
- Joe è tra noi

e dei romanzi della serie "Le parole confondono":
- Le parole confondono: volume 1
- Certe incertezze: volume 2
- I motivi segreti dell'amore: volume 3
- Un giorno, sempre: volume 4
- Sempre coi tuoi occhi: volume 5
- Sai correre forte: volume 6


ultima versione ebook: 22 agosto 2020

LanguageItaliano
Release dateMay 19, 2016
ISBN9788890755965
Certe incertezze: Le parole confondono, #2

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    Certe incertezze - Giovanni Venturi

    1

    Essere se stessi

    Samuel me l’aveva detto. E pensare che non gli avevo creduto, non all’inizio almeno: le sue parole erano così lontane dal mio modo di vedere la vita che davvero pensavo non potesse aver ragione.

    «Essere se stessi è facile e complicato allo stesso tempo. Soprattutto quando non puoi più essere te stesso» disse una sera.

    Il suo viso è parte della mia memoria. Mi fa tornare indietro nel tempo. Soprattutto certe notti quando mi guardo allo specchio e provo a giudicarmi. Ho sempre la sensazione di vedere, riflessa sul vetro, la panchina buia alle mie spalle. Quella su cui dormiva senza temere nulla.

    «Vienimi a trovare» mi ripeteva ogni volta, e io annuivo.

    Lo guardavo, e per un attimo pensavo che non sarei mai potuto diventare come lui. Cercavo di stargli alla larga, ma me ne pentivo, perché la mia era cattiveria allo stato puro.

    Samuel era una persona stimabilissima, anche se la sua solitudine e la sua scelta di vita mi facevano paura, ma lo rispettavo per tanti motivi e perché il suo modo di pensare era sempre giusto. Per lui ero sempre e solo Francesco, non amava ricorrere a diminutivi.

    «Dai, una volta tanto, chiamami ’Cesco, oppure Francé, Francis… come più ti piace, insomma.»

    Ci davamo del tu nonostante l’enorme differenza d’età.

    «Qual è il tuo nome di battesimo?» disse, gli occhi immobili su di me.

    «Francesco, Francesco Sacco.»

    «E allora ti chiamerò sempre così, Francesco Sacco. Sarebbe stato anche il nome di mio figlio se mai ne avessi avuto uno, sai?»

    Fu allora che capii che Samuel, dietro le sue labbra sottili, dietro i suoi sorrisi semplici, nascondeva lo sconforto e, al tempo stesso, un’umanità incredibile da cui tutti avrebbero dovuto trarre ispirazione.

    Essere se stessi è facile e complicato allo stesso tempo. Soprattutto quando non puoi più essere te stesso.

    Guardare Andrea che parla e mi racconta di sé è la cosa più sconfortante del mondo. Non poter essere me stesso, non potergli dire tutto è una cosa che prima o poi distruggerà la nostra amicizia. E credo che alla fine affonderò nello sconforto anch’io, ma per ora non mi va di pensarci.

    I suoi occhi mi fissano sempre, in cerca della mia approvazione per ogni cosa che fa, anche per quello che dice. E quando non invoca attenzione con lo sguardo, mi chiede direttamente come deve comportarsi. A volte mi diverto e gli dico delle cose che so che lui non accetterà mai come consigli.

    In alcune occasioni sono di poche parole, oddio, in realtà succede molto spesso. Non gli dico mai di fare come accidenti crede, solo perché, quanto prima, mi aspetto di vederlo crescere, maturare una propria visione del mondo, cosicché i consigli potrebbe darli lui a me.

    Da solo riesco sempre a cavarmela, vengo fuori da situazioni in cui Andrea rimarrebbe impantanato. Nonostante io e lui viaggiamo su due binari separati, il fatto che siamo uno accanto all’altro è una certezza per entrambi. Con lui provo a essere me stesso in tutto e per tutto, ma c’è quel dettaglio di cui un giorno dovrò parlargli che temo fortemente, perché quando scoprirà cosa non posso riferirgli, forse non potrò godere ancora della sua clemenza o forse sì. Mi abbraccerà e dirà: «Non ha importanza. Hai fatto bene a dirmelo solo ora, perché prima ti avrei odiato».

    Eppure, so bene che non andrà così. Queste parole non le pronuncerà mai, forse nessuna persona al mondo lo farebbe. Sono decisamente innaturali.

    Una cosa che di lui non sopporto è il suo modo di parlare quando non riflette nemmeno mezzo secondo, il fastidio che mi dà per le frasi che usa. In più mi fa sentire in colpa, soprattutto quando mi giudica, è capace di mettermi in crisi, e non poco, ma io non lo do mai a vedere. La mia pelle è diventata coriacea mille anni fa.

    Andrea non resiste, deve sempre dirti cosa pensa del mondo, senza il minimo contegno, senza mettersi mai nei panni degli altri, e in particolare nei miei. Lo so che non lo fa apposta, ché in un certo senso è un ingenuo, è un bravo ragazzo. Non riesce ad accettare le persone che la pensano diversamente da lui, così si scontra con questa realtà quotidianamente, ma un giorno capirà, smetterà di attaccare, e allora non mi sentirò più ferito da certe cose che mi dice, ci riderò sopra lasciandolo disorientato.

    E, soprattutto, non giudicherà più nessuno.

    Tuttavia mi confonde. Le sue parole mi confondono, sono capaci di generare una tale incertezza dentro di me, oggi che non conosco il termine insicurezza.

    Gli voglio molto bene e non riuscirei davvero a separarmi da lui. Ciononostante faccio di tutto affinché quel momento arrivi. Sono sempre più in difficoltà a esprimere me stesso, ma più che a esprimermi, direi a essere me stesso.

    È diventato difficile. A volte non capisco cosa sto pensando, cosa sto desiderando. Sono quelle notti che mi ridesto dal sonno, lo vedo tra le coperte che dorme profondamente, e mi sento agitato, in colpa, perché non sono stato franco, non gli ho rivelato tutta la verità. Un sentimento, delle sensazioni, che sfuggono persino a me stesso.

    Mi preoccupo anche quando rientro nel cuore della notte e lui è lì, sveglio nel letto che si rigira e mi domanda dove sono stato. Si preoccupa per me e io resto in silenzio per paura di perderlo.

    Quando sarò capace di dirgli tutto, dovrò affrontare più di un semplice disappunto. Forse quel giorno sarò maturo a sufficienza per poter fare a meno anche della sua amicizia, ma mi illudo. Una persona come lui in meno… non può essere. Sarebbe come cadere sempre più giù senza avere alcuna possibilità di risalire.

    «Dai, Andrea, fregatene di Serena. Era una puttana, lo sai» gli dico, scrutandolo e smettendo di pensare al futuro. Voglio essere duro, colpire con forza i suoi sentimenti, farlo stare male, ma non aggiungo più nulla.

    Il mio migliore amico mi osserva e non parla più a sua volta, i suoi occhi sono lucidi. Guarda verso la finestra.

    «Una puttana? E allora mi piaceranno le puttane, che ti devo dire!» afferma, senza guardarmi, poi incrociamo gli sguardi per un attimo, ma subito distoglie il suo, osserva di nuovo verso il davanzale. Vedo i suoi denti che affondano nel labbro inferiore, sbatte le ciglia ripetutamente, serra la bocca, incrocia le braccia sul petto, poi sbatte ancora una volta le ciglia, vedo i suoi occhi lucidi, doloranti per le mie parole.

    Serena era esattamente così. Una ragazza inadatta a lui. Gliel’ho lanciata addosso per un solo motivo. Aiutarlo nel processo di sverginamento.

    «Certo, farsi lasciare da una puttana senza esserci andato a letto mi pone in una situazione imbarazzante, scomoda, no? Tu penserai…» dice, forse pesa ogni singola parola, fissandomi un po’ mentre le pronuncia e poi guardando di nuovo verso i vetri della finestra, in un punto che forse scorre all’infinito e dove lui riesce ad affrontarmi quando sta male.

    «Andrea, non penso nulla, lo sai. Vieni con me a Milano. Che accidenti fai qua da solo? Milano è la città delle occasioni, è il centro del mondo. Non può che farti bene.»

    «Ma io non…»

    «Vieni. Se non ti trovi bene e vuoi…»

    «Posso tornarmene.»

    «Sì, ma resisti, sono prove quelle che stai affrontando. Non ti senti man mano più forte?»

    Lo guardo con insistenza. Ora sono io che pendo dalle sue labbra. Andrea è complicato quando deve chiarirsi le idee ma, una volta deciso, non torna più indietro, anche se gli dovesse costare molto. È come se poi si sentisse obbligato a mantenere una sorta di voto. Fa paura da questo punto di vista.

    Mi pare tanto incerto; pone le braccia sul tavolo e vi appoggia sopra la testa, come quando studiava troppo a tarda sera. Si sistemava nello stesso identico modo e pochi secondi dopo crollava e si addormentava.

    I nostri sguardi si incrociano confusi. Può darsi si stia concentrando.

    «Milano?»

    «Meglio qui?»

    «Milano?» ripete.

    Annuisco.

    Sbatte ancora le ciglia credo stia provando a trattenere le lacrime. Ci tiene a mostrarsi indipendente e maturo con me. È più grande di due anni, ma tra noi due sembro io l’adulto, eppure non mi verrebbe mai di pensare che è una femminuccia, anche se in questo istante si desse al pianto più straziante.

    Vuol venir fuori dai suoi perenni dubbi, dalle sue inquietudini. A volte ho la sensazione che mi nasconda qualcosa, un terribile segreto. Due amici che portano ciascuno dentro di sé l’inferno e si mostrano più o meno forti l’uno nei confronti dell’altro. Sembra un comportamento perverso. Due amici o due estranei?

    «C’è già l’appartamento. Devo fare una telefonata per confermare» aggiungo.

    «Fai quella telefonata. Ci vengo.»

    Ora è inespressivo, quasi in pace con se stesso. Il suo viso si è improvvisamente rasserenato.

    «Dormiremo in un letto matrimoniale, almeno all’inizio, però c’è anche una stanza con una rete, magari poi ci si organizza.»

    «Non ti preoccupare, non mi fai impressione a letto. Piacciono le ragazze a entrambi.»

    «Certo.» Rido. «Anche se su di te non ci sono prove che possano confermare. Festeggiamo con una… Coca?»

    «C’è lo spumante in frigo. È rimasta una bottiglia dalla mia festa di laurea, non ti preoccupare. Usiamo quella. È un’occasione speciale.»

    «Sì, è così, dai.» Prendo i calici, quelli per le circostanze eccezionali. «Un nuovo inizio, eh?»

    «C’è sempre un nuovo inizio, non credi?»

    «Sempre?»

    Sorride, con una leggera ombra che gli copre il viso.

    Mi chiamo Francesco Sacco, sono nato il 6 gennaio del 1988 a Napoli, quello che Andrea definisce il Bangladesh dei ricchi, e la mia nascita, a distanza di anni, sono convinto che mia madre la ricordi ancora come un fantastico dono dell’Epifania. Un momento più che speciale non per la nascita in sé, ma per quello che io prima non sapevo su di lei e su quella decisione che avrebbe cambiato diverse vite.

    Avevo occhi piccoli piccoli, durante il giorno dormivo spesso, poi la notte non ne volevo sapere di starmene quieto. Dovevo giocare con la copertina, provare a coinvolgere mia madre, farle notare che c’ero, volevo anche mangiare, insomma, già dall’inizio, cercavo di essere al centro delle attenzioni, di impormi al mondo.

    Oggi succede ancora, come allora. La mia presenza deve essere notata da tutti i miei amici, dalle ragazze. Sono il clown perfetto e, proprio per questo, quando a volte leggo l’odio verso di me sul viso di qualcuno, allora esagero e mi diverto.

    Lavoro principalmente a Milano, e sono ancora iscritto all’università. Mi mancherebbero due anni per finire, ma non so davvero quanto possa durare. La sensazione di libertà che mi dà guadagnare un po’ di soldi mi regala un’ebbrezza da cui non riesco a liberarmi.

    Faccio diversi lavoretti, ma quello da cui traggo maggior profitto è anche quello che mi tiene continuamente in tensione, che mi eccita. Non so come giustificarmi coi miei amici, non mi va di parlarne, un po’ come per Andrea il sesso. Non gli va di affrontare il discorso, nemmeno quando scherzo. Gli dà fastidio, sempre.

    E io mi diverto a metterlo in imbarazzo.

    «Quante seghe ti sei fatto ieri?» inizio stamattina, con il mio ghigno assassino stampato sulle labbra.

    Volta lo sguardo dall’altra parte, poi, dopo un incrocio rapido a mezz’aria dei nostri occhi, cala la testa provando a esaminare il riflesso, che non c’è, nella tazza del latte, come offeso.

    «Vedo che ti piace immergere il biscotto» continuo, osservandolo mentre raccoglie col cucchiaio un pezzo che affonda nel latte caldo.

    Mi punta con odio e io gli sorrido.

    Sposta lo sguardo verso la finestra, come sempre.

    Riflette, non parla, non gli piace, si richiude dentro se stesso, non smette di scrutare il davanzale, turbato.

    «Perché non lo fai anche nella vita vera? Non è difficile, credimi.» Lo osservo mentre lui non riesce a guardarmi.

    «Fammi finire la colazione.»

    «Se hai un problema, parliamone. Sono il tuo migliore amico e devo saperlo.»

    «Devi sapere cosa? Di che problema parli?» dice. Mi dà la netta sensazione che io in realtà abbia capito tutto, ma so che ad Andrea non piacciono i ragazzi. Ha solo qualcosa che si porta dentro che lo rattrista. Non so se si possa parlare di segreto. Quello che ha un problema sono io. Nel senso che non posso parlarne proprio, ma, se qualcuno volesse saperlo e non osasse chiedere, non sono omosessuale.

    «Lo sai che non mi va di parlare di queste schifezze.»

    «A quindici anni, in alcune occasioni, mi masturbavo anche tre volte al giorno.»

    «Cos’hai?» Sembra disturbato.

    «Dai, rilassati. Chiudo il libro… Voglio dire, la smetto.»

    I suoi occhi mi seguono con attenzione, magari vuole dirmi qualcosa, apre appena un po’ la bocca, ma poi la richiude in fretta, afferra il cucchiaio e pesca quel che resta del biscotto di prima. «Davvero tre volte al giorno?»

    «Sì, ma in rarissimi momenti in cui non riuscivo a controllarmi. Sarà successo qualche volta. Tu mai?»

    «Io non parlo di sesso, lo sai, sono cose personali. Io ci tengo a…»

    «Sei un omosessuale asessuato, ho capito. Tranquillo, continuerò a volerti bene, pure di più.»

    Il suo sguardo è ancora su di me, taciturno. Anche io non gli tolgo gli occhi di dosso. Adoro provocarlo, ma so anche che è tempo perso; non riesce proprio a capire che, in realtà, voglio che parli di quello che si tiene dentro.

    A me non frega del sesso che fa o che non fa. Mi preoccupano i suoi momenti di abbattimento, di buio, oppure quando sembra che stia per dirti qualcosa di importantissimo e poi parla d’altro.

    In fondo lo capisco, anche io faccio un po’ l’idiota e contribuisco a farlo ammutolire.

    «Se ti rende più felice pensare che lo sia, fa’ pure, però poi non chiederti perché non ti rivolgo più la parola. Mi stai asfissiando con questa storia!» Andrea per poco non urla.

    «Non si può mai scherzare con te.»

    «Scherzare sì, ma ripetere trenta volte al giorno la stessa idiozia non lo chiamerei scherzare.»

    Del mio lavoro, dicevo, non posso parlarne con nessuno. Considerando che a tredici anni ho fatto la mia prima rapina, con una pistola finta, non posso certamente immaginare una scelta lavorativa diversa, anche se è avvenuta per ben altri motivi e in modo piuttosto inaspettato.

    In fondo non è che le cose accadono all’improvviso. C’è sempre qualcosa che si modifica dentro. Un pezzo alla volta, giorno per giorno, ci lavori su senza nemmeno saperlo, e poi ti ritrovi a un bivio obbligato dove devi scegliere.

    Anche quando non sai cosa stai facendo, in realtà stai operando nel modo più logico del mondo, fosse anche fare sesso con una prostituta. E per me non è mai un problema, ho la mente molto aperta, difficilmente non accetto le persone o le loro scelte, il loro modo di agire e di pensare.

    «Conosci Antonio, giusto?» dico ad Andrea.

    «No. Non me ne hai mai parlato. Chi è?»

    «A tredici anni ho fatto la mia prima finta rapina.»

    Prima e anche ultima. Sono vivo per miracolo. Nemmeno l’unico miracolo che c’è stato nella mia vita. Per quanto non creda negli stessi, ho iniziato a capire che forse un fondo di verità c’è.

    I miracoli esistono davvero.

    E, se c’è un Dio, mi protegge, di continuo, anche se non me lo merito.

    Per nulla.

    «Mani in alto, stronzo!» dissi, come un adulto. Senza tremare. Lo ricordo ancora come fosse ieri.

    Antonio sbarrò gli occhi. Aveva sedici anni e frequentava la parrocchia della mia zona. In quel momento non lo riconobbi, fu lui a riconoscere me.

    «Cos’hai detto?»

    Sorridevo eccitato. «Dammi tutti i tuoi soldi o ti faccio un buco nella pancia» furono le mie esatte parole. Il sangue mi pulsava alla testa, ogni parte del mio corpo era in tensione, i muscoli erano paralizzati.

    Quello che accadde dopo cambiò la mia vita.

    Vidi Antonio muoversi rapidamente, mi afferrò e mi fece volare in aria. Finii dritto su un cespuglio e i rami quasi mi si infilzarono nella carne. Solo dopo mi disse che era una mossa di karate.

    Persi la finta pistola, ma non mi arresi subito, per quanto, l’essermi trovato in una condizione che non avevo considerato, fece venire meno le mie certezze di tredicenne incazzato col mondo. Gli saltai addosso per morderlo. Ero pronto ad azzannarlo e staccargli l’orecchio, come un cane feroce malato di rabbia, ma fui lento, molto lento, così mi lanciò contro un pugno a tutta velocità.

    Lo scansai, in parte. Mi colpì lo zigomo di striscio – l’anello che portava mi graffiò la pelle – e, quando vidi il sangue sulle sue nocche, mi passò la voglia di rapinare la gente e tutto il mio coraggio di prima si tramutò in urina.

    Raccontai questa storia anche a Samuel. Oramai erano diversi mesi che lo conoscevo e, visto che ero sempre silenzioso, lui mi strappò un patto. Samuel mi avrebbe riferito di sé e io gli avrei parlato di me.

    «È così che sei entrato negli scout?» mi disse, dopo avermi osservato a lungo.

    «Sì, non accadde quel giorno stesso, ma è stato più o meno così che è andata.»

    Samuel carezzava il proprio violino. Oramai erano anni che era in strada. Ogni tanto veniva alla mensa della Caritas. Proprio dove mi ritrovavo a dare una mano, in particolare nel periodo natalizio e pasquale.

    Antonio prese a cuore il mio caso. Non la smise di tirarmi fuori da quello che definiva il mio baratro, finché non mi convinse a far parte degli scout.

    Negli anni la gente mi ha trattato sempre come se fossi un caso di pietà. Il ragazzino da salvare dalla cattiveria del mondo, cattiveria che mi era entrata nelle vene, eppure, per gli altri, non potevo essere davvero cattivo per mia natura, pareva non mi si addicesse.

    Quando Willy, il mio cagnetto Beagle al tempo dei miei dieci anni, finì sotto un’automobile, divenni più cattivo del solito.

    Vidi il veicolo e sentii un rumore come quando spezzi una serie di biscotti tutti assieme. Il latrato del mio cagnetto, di quel piccolo esserino – me lo portavo in giro per la città a tutte le ore del giorno e della notte – mi si infilò dentro la testa con prepotenza. La pelle mi si raffreddò, pareva essersi ghiacciata all’istante, le gambe divennero molli.

    Il bastardo non si accorse di nulla. Con la sua vettura era ancora fermo, ma stava per immettersi nel traffico, lasciandosi così alle spalle la scena del crimine. Prima che fosse troppo tardi, cominciai a dare pugni a raffica sul vetro dal lato del conducente. Calci contro la portiera.

    «Ragazzino, che ti sei bevuto?»

    «Figlio di una luridissima troia, esci subito dalla macchina e buttati in un cesso con una corda e un sasso legati alla gola. Sei un uomo morto! Capito, pezzo di merda?» Pronunciai quelle parole senza riprendere fiato.

    Tirai la portiera dell’auto, oramai ferma, e senza aspettarmelo si spalancò. L’uomo non aveva nemmeno la cintura allacciata, così lo afferrai con tutta la forza che avevo – era molta di più di quanto pensassi. Era un anziano, lo sbattei con il viso accanto al mio Willy, a quello che restava del mio cane. Non potevo smettere di piangere, mentre agitavo le mani fredde, mentre le gambe mi tremavano e il respiro accelerato mi impediva di pensare.

    L’uomo urlò, gli caddero dagli occhi le lenti che portava e io le schiacciai sotto le mie scarpe da ginnastica.

    Non ricordo come andò la storia. È passato molto tempo, ma da allora mi portai dentro il male del disadattato, quello di chi non sa esprimere i propri sentimenti senza esagerare. Senza essere cattivo e violento.

    Non finii in prigione. Ero ancora un ragazzino, ma ebbi modo di capire che la vita mi avrebbe messo alla prova.

    Ogni giorno.

    Ogni momento.

    «Non riesco a immaginarti così aggressivo» dice Andrea. «Tu non sei così, dai, stai facendo scena. Non devi, lo sai.»

    «Mi avevano ucciso il cane. Aggressivo non rende l’idea. Ero un pazzo furioso, un assassino bramoso di vendetta.»

    Mi osserva a lungo, senza parlare.

    «Non ci credi?» Non allontano il suo sguardo.

    «Ma oggi non potresti mai essere così.»

    «Caro Andrea, allora non sai davvero nulla di me. Nulla.»

    «Fai paura. Non parlare con questo tono.»

    Distoglie lo sguardo, non vorrei avesse paura del sottoscritto, del suo migliore amico.

    «Se qualcuno fa del male a me o a chi amo, potrei ucciderlo. Con queste mie stesse mani.»

    «È successo? Hai ucciso qualcuno?» Andrea ha pronunciato quelle parole così a bassa voce che a stento l’ho sentito.

    Non sono pronto ad ammetterlo con lui, ma è successo davvero. Ho ucciso una persona, anzi, due.

    2

    Samuel

    «Samuel, perché essere se stessi è facile e complicato allo stesso tempo? Soprattutto quando non puoi più essere te stesso?»

    Era sera, eravamo al solito parco, dove lo andavo a trovare appena potevo.

    «Quanti anni hai?»

    «Diciotto.»

    «Ben presto capirai.»

    «Ma di cosa parli?»

    Non mi diede più ascolto. Tirò fuori il suo violino e iniziò a muovere l’archetto sulle corde, senza fretta. Si stava scaldando, come faceva ogni volta che decideva di non dare una risposta alle mie domande.

    Le note del Canone di Pachelbel riempirono l’aria. Era la sua preferita e, oramai, anche la mia. A volte suonava a occhi chiusi. Essere lì e ascoltare, stare a parlare con Samuel, immergermi in quella musica, mi mandava la mente in cortocircuito, per una serie infinita di motivi.

    Perché un violinista così bravo come lui era costretto a mendicare per strada? Perché, pur avendo qualcuno, viveva in quel modo? Sapevo bene quali erano i motivi per farlo, ma Samuel non era una persona che usava la musica per elemosinare. A lui piaceva proprio tanto suonare il violino, era un talento naturale.

    Lo avrei visto bene in giacca e cravatta ad allietare i distratti e frenetici viaggiatori londinesi sotto le gallerie della metropolitana. Alla fermata di Marble Arch, oppure a Victoria Station, a Oxford Circus, a Covent Garden, a Leicester Square, ma non a Napoli, lì dove si trovava a consumare la propria esistenza, non so bene in attesa di quale tragico evento.

    Continuavo ad ascoltare quei passaggi musicali vissuti. Non erano solo note, non era solo spostare un archetto avanti e indietro. Non sbagliava mai, manteneva i tempi, il ritmo e, soprattutto, sembrava che stesse raccontando la storia della propria vita attraverso quei movimenti, dentro quelle note che andavano avanti, muovendosi nell’aria in un percorso ben definito, come un messaggio in codice che qualcuno, prima o poi, avrebbe compreso.

    Samuel mi spiegò che questo pezzo fu composto inizialmente nel 1680 come musica da camera per tre violini e basso continuo. Non ho mai chiesto dettagli, mi affidavo alle sue parole, adoravo sentirlo parlare. So che questo brano ha avuto diversi adattamenti musicali e molti artisti ne hanno tratto ispirazione.

    Quando lo ascoltavo non pensavo ad altro, chiudevo gli occhi e immaginavo l’oceano, una spiaggia posta in uno spazio sconfinato e deserto e io che correvo incontro a qualcosa di ignoto. Una specie di visione mistica, liberatoria, ricca di una pace che rifuggiva il quotidiano.

    Ero lì a braccia conserte, poi le lasciavo cadere lungo i fianchi, sempre con gli occhi chiusi, e amplificavo i passaggi dentro la mia mente, cercavo di regolare, in qualche modo, il ritmo della musica con quello del mio respiro. Mi pareva quasi di sentire la voce di mia madre che mi cantava la ninna nanna, una voce muta che suonava. A volte mi concentravo su di lei e mi veniva una gran voglia di piangere, ma erano anni che non lo facevo più.

    Pensavo anche alla scuola, a quando stavo male perché, giorno dopo giorno, tutti i bambini mi prendevano in giro: non avevo un padre. Una volta non ce la feci più e picchiai il mio compagno di banco; lo odiavo più degli altri, coi suoi capelli lunghi sempre in bell’ordine, era in contrasto perenne coi miei corti e spettinati.

    «Figlio di nessuno!» mi disse ridendo, un giorno in cui avevo sopportato troppo. Anche con gli insulti era scadente, non pronunciava mai vere parolacce o termini come cazzo o cagna.

    Mentre continuava a sghignazzare, senza dargli alcun preavviso, con tutta la calma che già a dieci anni mi caratterizzava, gli presi la testa e gliela spinsi con tutta la forza che avevo in corpo sul banco. Batté la fronte e stette a frignare. Da quel momento in poi non ebbe più voglia di prendermi in giro.

    Chiamarono mia madre, mi mandarono a casa e mamma mi fece una brutta scenata. Non parlai e non le spiegai perché lo avevo fatto.

    «Ucciderai qualcuno? Diventerai un violento?»

    «Dov’è mio padre?» le dissi quell’unica volta.

    Mia madre non mi aveva mai rivelato nulla di lui, dove fosse, perché il giorno della mia nascita mancasse. Non so perché quest’idea si fosse fatta strada dentro di me con tanta sicurezza, ma era proprio così che mi ero immaginato i fatti: mia madre da sola a partorire il sottoscritto, a urlare, a spingermi fuori, sudata, spaventata, dolorante, in lacrime.

    La musica di Pachelbel mi faceva pensare a mio padre, nei miei pensieri più reconditi cercavo qualcuno che mi indicasse una via, ma in fondo non ne avevo davvero bisogno, perché sapevo molto bene dove stavo andando, anche solo a dieci anni. Ero già determinato.

    «Samuel?» provavo a chiamarlo mentre suonava, ma non riuscivo mai a distoglierlo dalle sue note. Cominciava, e subito interrompevamo i nostri discorsi. Le prime volte restai interdetto, in attesa di risposte, poi la musica prese a catturarmi nel suo flusso e mi insegnò a rilassarmi completamente.

    Note lente, cadenzate, che mi entravano sotto la pelle.

    Col tempo imparai che le cose che non si dicono sono quelle di cui non serve parlare. Il silenzio e la sinteticità danno molta più forza alla parola. Con essi ci costruisci interi dialoghi, partono dalla mente e vanno avanti da soli per ore, ma alla fine basta poco: un solo termine o magari un aggettivo. Le parole confondono quando usate in eccesso. È un dato di fatto, sì.

    Il giorno che conobbi Samuel – avevo compiuto diciotto anni da un po’ – ero volontario in mensa alla Caritas e ogni volta che qualcuno della fila mi passava davanti, immergevo il mestolo nella pentolona di pasta e fagioli o pasta e zucchine o patate. Riempivo il piatto e poi lo davo.

    «Ragazzo, mettine di più ché oggi ho fame.»

    «Ci sono anche gli altri, bello!» dissi, istintivamente. Quel giorno non ero tanto in vena. Continuavo a fissare l’orologio.

    Tania, così voleva essere chiamata Antonia, mi aspettava già da mezz’ora a casa sua. Mi ero completamente dimenticato che quel giorno toccava a me servire in mensa.

    La volta precedente io e lei eravamo stati tutto il tempo appiccicati. A casa sua le avevo messo le mani dappertutto e lei mi aveva voluto offrire la sua bocca; ero deciso a saltarle dentro, senza mezzi termini e senza remore. Antonia faceva tanto la preziosa con tutti, si vestiva sempre con minigonne attillatissime, perciò avevo deciso che andava castigata. La bocca andava bene per iniziare, ma io desideravo molto di più, così tirai fuori il meglio di me stesso per giungere allo scopo.

    «Io non sono come gli altri, la mia non è impazienza, è che provo davvero qualcosa per te» le dissi.

    Era il mio pezzo forte. Facevo gli occhi dolci, la voce profonda, provando a imitare l’Humphrey Bogart di Strada sbarrata – avevamo qualcosina in comune: lui era nato il giorno di Natale, mentre io quello dell’Epifania – e, dopo un po’ di baci alla francese con Tania, mi sentivo sicuro di me stesso.

    Quando eravamo in intimità, molte ragazze mi lasciavano fare, si liberavano delle mutandine, prendevano la mia mano per accarezzarsi tra le gambe e non la smettevano più, finché non iniziavano a gemere. Due secondi dopo tiravo giù i calzoni e ci appagavamo entrambi.

    A volte spingevo così forte, preso dalla frenesia dell’atto, scorgevo un po’ di sangue colare lungo le gambe. Gioivo quando le ragazze erano ancora vergini. Le lasciavo credere che sarebbe durata, così mi assicuravo almeno altre tre o quattro serate di sesso.

    Ero diventato una specie di castigatore; il mio diventava più un dovere, un compito irrinunciabile, piuttosto che la conseguenza di un gesto d’amore, spesso ero cotto, ma non ero mai innamorato. Avevo solo una voglia matta di scopare.

    In parrocchia, molte avevano un’aria così seriosa che pensavi fossero tutte sante, poi ti confessavano in modo molto candido di non essere più vergini già dall’età di tredici anni. Lo dicevano mentre giocavano con il mio coso, come lo chiamavano loro.

    C’era anche chi si offendeva e ti schiaffeggiava.

    Poi non le vedevi più e, se capitava, non ti rivolgevano nemmeno la parola, per strada ti ignoravano. Quelle un po’ più disinibite, invece, lo accoglievano nella bocca o tra le natiche. Dicevano che tra le gambe non si poteva perché era peccato, a volte ci stavo, altre volte insistevo nel modo giusto. Mi accontentavo, se non potevo sverginarle per bene.

    «Ci confessiamo, non credo sia così tanto peccato» dicevo, con il mio miglior sorriso.

    «Dai, Francesco, non fare lo scemo, non voglio si sappia.»

    «Perché, il prete racconta in giro che non sei più vergine?»

    Mi chiamavano il chiavettiere. Per me era diventata una passione di cui non potevo, e non volevo, più liberarmi.

    Quel giorno dovevo andare da Tania. Ci eravamo consumati già in troppi preliminari, piacevoli, ma non mi bastava più solo il sesso orale che mi offriva.

    «Si dice in giro che sei un vero stronzo» mi disse, rimandando per l’ennesima volta il nostro rapporto completo.

    «Tutta invidia. Io mi affeziono.»

    Non mi contrastavano. La verità era quella, mi potevo affezionare proprio come accade per i cani. A volte mi sentivo come un cane. Sempre pronto. Era questo che piaceva alle ragazze, oltre al mio fisico ben modellato.

    «Giovanotto, forza, tre volte il mestolo» mi disse Samuel, scuotendomi. Fu in quel momento che mi sentii sporco dentro, quasi fossi stato smascherato. Ero rosso in volto e già pensavo che Tania si stava passando Luca, ché a lei piaceva più di me.

    «Tre volte?» provai a ripetere.

    «Sì, la porzione falla più abbondante. Sono due giorni che non mangio.»

    «Nessuno mi dà ordini!»

    La ragazza accanto a me mi sfiorò il braccio. «Calma.»

    «Tutti uguali voi ragazzini» disse il vecchio, strappandomi il piatto dalle mani. «Non avete rispetto per nessuno. Sempre arroganti.»

    «Ma lui è un capo scout, non è come dice lei. Francesco non è arrogante!» si intromise Maria, guardando prima lui e poi me. Quel giorno eravamo di turno assieme.

    «Invece lo è. Bell’esempio che dà, non ti pare?»

    Afferrai un altro piatto e versai tre mestoli di pasta e patate.

    «Questo lo vuoi adesso o lo prendi dopo?» dissi. Non mi rispose, tirò il piatto a sé e se lo portò via assieme all’altro, continuando a fissarmi.

    «Francesco? Francesco?» Maria ripeté quelle parole come un’eco. «Se oggi hai fretta, mi occupo io della mensa, non preoccuparti.»

    «Siamo una squadra, non dimenticarlo. Devo esserci anche io.»

    Mi ero sentito in colpa e ora i miei programmi avevano decisamente meno priorità.

    Samuel non aveva una dimora e non mangiava da due giorni. A casa, mamma mi serviva i pasti regolarmente due volte al giorno, al di là dei vari spuntini che facevo durante la giornata.

    Il vecchietto con gli occhi azzurri continuava a squadrarmi ogni volta che portava il cucchiaio alla bocca. I nostri sguardi insistevano a incrociarsi asettici, eppure erano come colpi di frusta. Mi dava la sensazione di stare gridando ripetutamente contro il mio modo di essere, e io andavo in crisi. Solo in quei momenti mi ricordavo che non ero una bestia e che forse la mancanza di affetto mi aveva plasmato quasi come lo stronzo perfetto. Mi curavo del fisico, facevo sport e mi piaceva andare in giro di notte a scorrazzare.

    L’essere osservato dagli occhi di uno sconosciuto come Samuel – credo mi avesse ben saputo leggere nell’anima, mi sconvolse, non riuscivo a capire come avesse fatto – mi fece scontrare con la realtà. Una sola parola, arrogante, fu capace di essere sintetica, diretta e di affondare nella carne, dentro il mio petto, nel mio modo di essere. Aspettai che finisse di mangiare, fu l’ultimo a terminare il pasto, e mi proposi di accompagnarlo, ignorando le sue rimostranze.

    «Vengo anche io?» mi disse Maria.

    Aveva la mia età, gli occhiali, i capelli ricci, qualche brufolo sul viso e tra i denti spuntava una macchinetta che mi disse avrebbe tolto a breve. Non era il mio tipo: era diversa dalle ragazze che frequentavo, era più tranquilla e parlare con lei un po’ mi intimoriva.

    Mi fissò in attesa di una risposta che tardavo a dare.

    «No, vai pure.»

    Non la vidi nemmeno lasciare la mensa. Ero ancora lì che guardavo Samuel. Seduto su una panca, accanto a sé, aveva una piccola cassa di legno. Una custodia.

    «Ehi, ma quella è…»

    «Togli le zampe da lì» mi interruppe.

    «Dove abiti?» continuai. Non ero per nulla convinto che vivesse per strada, non dopo aver visto la custodia.

    «Non abito da nessuna parte.»

    «E dai, tutta ’sta scena per un po’ di pasta e patate?»

    Mi guardò senza aggiungere una parola, tenendosi stretta la custodia. Per strada faceva freddo, così sistemai un po’ meglio la mia sciarpa, ricoprendo la bocca e tirando fuori il cappello dalla tasca del giubbotto per sistemare anche le orecchie.

    Ripresi subito calore.

    «Ora non sarai più tanto figo» disse l’uomo. «Perderai tutto il tuo fascino verso le ragazze con quel cappello. Con chi avevi appuntamento?»

    Scrollai le spalle. «Posso vedere quel violino?»

    «E sentiamo, lo sai cos’è un violino?»

    «Eh, certo…»

    «Il violino è uno strumento musicale della famiglia degli archi. Ha quattro corde intonate a intervalli di quinta» precisò. «Dall’espressione del tuo viso si capisce lontano un miglio che non sai cosa vuol dire intervalli di quinta

    «Vabbe’, tanto è un strumento musicale. Son tutti uguali…»

    «Eh, sì, cosa vuoi che cambi tra un violino, un contrabbasso e un pianoforte?»

    «Infatti, suonano. Dimmi dove…»

    «Vattene!»

    Mi fermai di botto, ma l’uomo continuò ad avanzare a piccoli passi tenendosi stretta la custodia. Di spalle non lo avresti mai preso per un barbone. Aveva un abito elegante, un cappotto nero classico molto bello – aveva affascinato anche me, mi piaceva davvero tanto – e, con quel violino al seguito, non me la contava giusta.

    «A chi l’hai rubato?»

    Si voltò di scatto e il sorriso che avevo mi si congelò sul volto.

    «Che accidenti hai detto?»

    «A chi lo hai rubato?» bisbigliai.

    «Vattene prima che mi metta a urlare, fighetto. Non sai manco la differenza tra un pianoforte e un violino.»

    «Fanno musica.»

    «Eh, sì, infatti non fanno i rumori a cui sei abituato nella discoteca. Va’ a fare il fighettino. Togliti il cappellino e sta’ lontano da me ché mi metto a urlare.»

    «Suonano, questo conta.»

    «Cosa?» urlò.

    «Il pianoforte e il violino suonano, che differenza vuoi ci sia?»

    Si chinò in avanti inarcando la sua schiena, si fermò e affondò i suoi occhi su di me. La strada era buia e isolata, si levò un vento che mi entrò sin nelle ossa. Poi aprì la bocca e vidi il fiato condensare.

    «Il violino è uno strumento musicale della famiglia degli archi. Ha quattro corde intonate a intervalli di quinta…»

    «Me lo hai già detto! Dove abiti? Devo riaccompagnarti» ripresi, ancora una volta, sempre più preoccupato.

    «Il pianoforte è uno strumento musicale in grado di produrre il suono grazie a corde che vengono colpite da martelletti che si muovono per mezzo di una tastiera. Vai a studiare, ignorante!»

    «Capirai» dissi. In effetti c’era una bella differenza, ma non volevo parlare di dettagli tecnici. La musica di un violino o di un pianoforte non mi attirava più di tanto. Solo in seguito me ne sarei fatto una cultura e avrei apprezzato le grandi differenze che Samuel aveva tenuto a sottolineare sin da subito.

    «Non conoscerai nemmeno il violinista più famoso.»

    «Dove abiti? Mi rispondi o no? Accidenti a me!»

    «Il più noto violinista di tutti i tempi fu Niccolò Paganini, nato a Genova nel 1782 e morto a Nizza nel 1840. E sono sempre italiani i liutai più famosi. Ti dice nulla il nome di Antonio Stradivari? Ovviamente no, perché sei un ignorante arrogante!»

    «Liucai?» lo interruppi.

    L’uomo mi diede le spalle.

    «Liucai?» ripetei. «Non si parlava di violini?»

    «Il violinista è la persona che suona il violino, invece, chi lo costruisce o lo ripara si chiama liutaio. Ora che hai compreso il tuo grado estremo di ignoranza va’ via!»

    «Come ti chiami?»

    Mi diede ancora le spalle e stette fermo in quella posizione per un po’, infine si voltò verso di me, mi osservò dalla punta dei piedi ai capelli, poi vidi il suo viso arrossarsi, mentre apriva la bocca e gridava tenendo la custodia stretta a sé. Urlava mostrando i denti in un gesto di disperazione, di ossessione. Poco dopo iniziai a correre di gran lena.

    «Vecchio pazzo! Non venire più in mensa, pazzo!»

    Passo dopo passo giunsi a piazza Garibaldi; la zona della stazione centrale era la più schifosa in assoluto; fogli di giornali che svolazzavano bassi accompagnati da polvere, alcuni avanzi di cibo rovesciati in terra e abbandonati a fermentare, spiaccicati al punto da sembrare tutt’uno con il marciapiede.

    Quando vi arrivai, a quell’ora, il tanfo che emanava la zona era così disgustoso che mi sentii quasi pronto a vomitare. C’era un odore di urina misto a quello di pesce andato a male e alcol, e molti visi di persone di ogni colore e di ogni età che mi guardavano.

    Continuavo a procedere verso casa con la consapevolezza che quel giorno, forse, qualcosa di buono l’avevo fatto. Non era stato apprezzato troppo, perché, in un certo senso, erano azioni forzate. Se Samuel non avesse preteso più cibo di quanto ne aveva avuto e non ci fosse stato un battibecco, non avrei mai pensato di fare un po’ di strada con lui.

    Il violinista è la persona che suona il violino, invece, chi lo costruisce o lo ripara si chiama liutaio. Ora che hai compreso il tuo grado estremo di ignoranza va’ via! Quelle parole mi rimbombavano ancora in testa mentre varcavo la soglia di casa.

    C’era qualcosa che mi sembrava di aver dimenticato, era un dettaglio che mi avrebbe accompagnato per il resto della vita, ma in quel momento mi sfuggiva del tutto. Era come un pensiero che mi vagava in testa, il ronzio di una zanzara che non ti fa dormire, un’immagine sfocata che sembra mettersi a fuoco per poi essere ricoperta dalla nebbia sempre più fitta, man mano che ci si sposta verso la banchina del molo dove attende una barca per il viaggio.

    Forse un volto, un viso scuro, un suono, un paio d’occhi. Ero confuso e avevo voglia di piangere, forse stavo crollando verso il fondo e Samuel rappresentava il contrasto assoluto con il mio modo di essere. La sua figura mi inquietava – pensavo ancora al suo abito scuro ed elegante in totale disarmonia con il suo mendicare un pasto – e mi faceva pensare a quanto io fossi misero e di poco spessore, e quella cosa non mi stava bene, affatto.

    Chi era davvero quell’uomo?

    «Francesco di mamma, dove sei stato? Che ti è successo? Hai un viso stravolto. Ehi, mi ascolti?»

    3

    L’unico modo

    Tania non volle più incontrarmi. La chiamai con insistenza per due giorni di seguito. Mi sarei inventato una scusa, non volevo dirle di Samuel e della mensa, non mi piaceva dover essere così sincero per un po’ di sesso; in fondo, quando stavamo assieme, non voleva mai parlare di sé. Cercava solo di farsi toccare facendo finta che le desse fastidio.

    Era così con tutte le ragazze che conoscevo e con cui mi incontravo. Andava avanti per non più di una settimana, a volte due, ci si vedeva praticamente ogni giorno, finché la ragazza non trovava un altro con cui andare a letto o con cui iniziare a fare le cose in modo serio.

    «Sei stupendo, hai uno sguardo scaltro. Un viso bellissimo. Non puoi essere un ragazzo serio» mi dicevano quando per qualche strano motivo cercavo un po’ di baci, di parlare del futuro, dei dettagli relativi ai miei progetti dopo le superiori, propositi con cui cercavo di venire a patti.

    Mia madre non sapeva nulla delle cose che facevo, di ciò che pensavo, delle ragazze con cui mi vedevo. Lavorava per tutto il tempo. Dalla mattina che ci si salutava tornava a casa solo la sera, stanca, e allora il nostro incontro avveniva in cucina. Erano quelli gli unici momenti in cui, a modo nostro, diventavamo una famiglia.

    «Ah, sei qui?» mi disse mentre rientravo infreddolito.

    «Ciao mamma.»

    «Non hai rimesso in ordine nulla di nulla, Francesco. Ho trovato persino il divano in subbuglio e sopra c’erano popcorn, patatine, mutande, calzini sporchi, la tua tuta… Vattene da questa casa, non sei più tollerato!» disse, alzando le braccia magre, mostrando il viso pallido e le labbra rigide. Erano come disegnate a mano, una matita che aveva tracciato una riga diritta. Nessun accenno di un sorriso.

    «Tollerato?»

    «Non ti sopporto più! Non sono la tua schiava, mettiti a ripulire casa, perché da ora in poi le cose andranno sempre peggio. Sempre peggio e non ci sarà modo di rimanere a galla.» Il tono della sua voce era salito man mano.

    Si fermò per un attimo davanti al divano, con la testa china. La vidi prendere un fazzoletto di carta dalla tasca destra del cappotto nero di cashmere, che ancora indossava e che la rendeva bella come non mai. Le arrivava un po’ oltre le caviglie; non mi aveva mai detto se era un regalo di qualcuno oppure se lo aveva comprato ai saldi.

    Erano le dieci di sera e dalla finestra intravidi la luna, occupava tutto il cielo, quasi nascondendo le stelle. Tornando a fissare mia madre vidi che piangeva in silenzio.

    «Mamma, cos’è successo?» Temevo la sua reazione, terrorizzato dalla risposta su qualche gravissimo problema di salute.

    Era quello che a volte sognavo la notte. Mi risvegliavo tutto sudato, credevo che mia madre fosse morta, che un male incurabile se la fosse presa e portata via nell’arco di quattro o cinque ore. Dopo il cancro ai polmoni che di recente le aveva strappato via la sorella, non trovavo più pace, nemmeno la notte.

    Sapevo bene che non sarebbe davvero andata così. I miei pensieri si deformavano in testa, non erano veri, eppure parlare con lei era come essere soffocati dalla realtà. La vedevo sempre nervosa, infuriata, tirava fuori ogni volta le cose più tristi del mondo e mi faceva sentire tremendamente in colpa, anche se la sensazione durava il tempo della lite.

    Ero forte, fortissimo, a lasciarmi tutto alle spalle.

    «Potevi almeno finire per strada ucciso da qualcuna di quelle merde di spacciatori quando li frequentavi qualche anno fa. Avrei dovuto abortirti per tempo, o magari darti in affidamento!» urlò. Raccolse tutte le mie cose sparse in giro e le gettò in un sacchetto di rifiuti che si trascinava dietro.

    Si muoveva a zig zag lungo il pavimento. La vidi scorgere un calzino nell’angolo, fazzolettini di carta davanti al divano, il cassetto del pane aperto, la bottiglia della Coca-Cola sul lavello – avevo dimenticato di posarla dopo la telefonata con Vittoria – e mi venne in mente tutta la mia fretta. Avevo sempre fretta, ma ero convinto che sarei rientrato per tempo, cancellando le tracce della mia sbadataggine, ma quei momenti erano spariti e io con loro.

    Le luci in casa erano così luminose, ma in quel momento avevo una bruttissima sensazione. Una tristezza improvvisa stava facendo la mia conoscenza e mi azzannava con ferocia. Le parole di mia madre erano così fredde, così brutte.

    «Sistemo tutto, mamma.»

    Continuò a raccogliere cose sparse qua e là, si muoveva a scatti, come un automa, stizzita, il volto cereo. Mi avvicinai, provai a prendere il sacchetto che stava riempendo coi miei rifiuti, coi miei vestiti, ma lei mi spinse via con forza.

    «Vattene, trovatello!»

    «Ma mamma, smettila!»

    Seguitò a muoversi a zig zag, piano, buttò a terra il sacchetto, con veemenza, – si sparse di nuovo tutto sul pavimento –, poi si tolse il cappotto, lo poggiò su una sedia, si diresse verso i fornelli, si voltò e mi fissò per un po’. Voleva aggiungere dell’altro? La bocca si aprì di scatto, i denti erano serrati in un atteggiamento che mi sembrava di disgusto, poi poggiò una mano sulle labbra e mi diede le spalle. «Dovevo abortirti. Sì, direi che oggi molte cose sarebbero state diverse. Sei una fogna, un rigetto, ogni volta che ti vedo penso quanto tu abbia distrutto e rovinato la mia squallida vita. Sei sterco!»

    Restai in attesa di un altro dei suoi commenti e poi sarei crollato. Potevo anche resistere e fare finta di nulla, dire che tutte quelle cose me le meritavo, perché nella mia testa mia madre era… si comportava sempre come una collaboratrice familiare. Non era giusto ciò che pensavo di lei, ma avevo diciotto anni e non credevo di agire diversamente dagli altri miei coetanei, e non avevo alcuna voglia di piangere o di ammettere queste cose. Mi sentivo svuotato, anche se la nostra famiglia non era come tutte le altre. Un’altra sua parola di troppo e ogni mia resistenza sarebbe venuta meno.

    Non avevo un padre e non sapevo nemmeno se mia madre vedesse qualcuno. L’argomento mi imbarazzava così tanto che non mi andava di chiedere, era pur sempre mia madre, e questo mi bastava. Delle risposte nemmeno avevo bisogno.

    Si diresse verso la sedia accanto al tavolo, si sedette e pianse.

    Restai immobile a guardarla, gelido, col fiato corto.

    «Dovevo abortire» disse a denti stretti. «A-bor-ti-re.»

    Non fui capace di reclamare il mio diritto alla vita, non riuscii ad avvicinarmi per abbracciarla. Non aveva bevuto – mia madre non lo faceva mai – ed era indiscutibilmente seria. Solo un po’ più nervosa del solito.

    Mi tappai le orecchie. Chiusi gli occhi e cercai di ricordare il percorso per arrivare alla mia stanza. Camminavo senza correre, volevo a tutti i costi evitare di sbattere contro le pareti o di trascinare qualche oggetto nella mia fuga dalla realtà. Se fosse caduto un vaso, credo che avrei dovuto davvero fare le valigie in meno di tre secondi. Allontanandomi da lei risentii la sua voce, così irreale, nella mia testa. E quel verbo che mi faceva male.

    L’aria era diventata troppo pesante, lì tra quelle quattro mura, e io continuavo a inspirare e a espirare. Inspiravo ed espiravo piano e mi muovevo altrettanto piano. Come un cieco che avanza nel buio, il buio della mia esistenza, in tutto il suo oscuro splendore.

    Non è nulla, non è nulla.

    Stringevo anche i denti, mentre un freddo fitto mi colse impreparato anche da sotto il giubbotto. Iniziai a rabbrividire senza più smettere.

    Non avevo fame. Lo stomaco si era chiuso del tutto. Feci un piccolo rutto che mi lasciò un sapore acido in bocca, corsi verso il bagno che avevo in stanza, alzai la tavoletta del cesso e cercai di vomitare. Colavano solo schizzi di saliva, e niente lacrime, per fortuna.

    Squillò il cellulare, lo recuperai dalla tasca dei jeans e lessi il nome sul piccolo schermo. Per un attimo mi sfuggì chi fosse, non riuscivo ad abbinare il nome al viso, la lite con mamma inibì ogni mio pensiero, ma durò un attimo. Le mie mani tremavano ancora, le stesi davanti a me, le osservai, non riuscivo a tenerle ferme a lungo.

    Il cellulare vibrava ancora, così mi decisi a rispondere.

    «Ciao Loredana. No, quale disturbo. Sì, va bene» dissi a bassa voce, quasi per paura di essere udito dalla cucina.

    Chiusi la comunicazione e mi diressi verso la scrivania, misi tutto in ordine e rifeci anche il letto in meno di due minuti. Le parole di mia madre mi rimbombavano ancora nelle orecchie, ma erano diventate meno invadenti, più sopportabili, per quanto potessi riuscire a ignorare il tutto.

    Recuperai la confezione di preservativi dal cassetto, ne estrassi uno e lo riposi nel portafoglio. Fissai il mio riflesso nello specchio, mossi un po’ i capelli provando a dargli una forma ordinata, e tornai a sorridere di nuovo. Non sembrava essere successo nulla.

    Uscii dalla stanza e trovai mia madre ferma ancora nella stessa posizione, con le mani in grembo e un fazzoletto bianco stretto tra le dita, il capo ancora chino.

    Si sollevò appena mi vide. «Non mi fissare! Sparisci, trovatello!»

    «Sparisco. Non so se torno più tardi o domattina…» La guardai per un po’, anche se dovetti sforzarmi.

    Volevo scatenare in lei una reazione che mi permettesse di parlarle. Sapevo che il mio modo di fare era insopportabile, ma ero pur sempre me stesso, il Francesco di sempre, quello che esisteva nell’unico modo

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