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Racconti lunghi, storielle brevi, incipit e sperimentazioni letterarie: questo libro raccoglie rotte e orme. Storie in qualche modo secondarie o sfuggite ad altre raccolte dell'autore. Sono farfalle, ma anche trappole in qualche modo. Trappole di scrittura, reti di sogni che avviluppano il lettore. Retini bucati, però, o dalle maglie larghe, dove più che rimanere prigionieri, si entra e si esce svolazzando a piacimento.
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Questa versione da collezione contiene la raccolta "Niente storie", aggiornata e ampliata con ulteriori inediti e con le due leggendarie storie non complete di "Visionabilis" e "La stirpe dei re".
disgraziato
Gentile lettrice, gentile lettore,
il libro che stai per leggere è autoprodotto. Non è stato rieducato secondo gli standard editoriali e professionali attualmente diffusi e può non essere esente da eventuali sviste o sfuggevoli errori. Non è oggetto a una logica di mercato, dunque si fa soggetto a sé prendendosi carico di ogni responsabilità. Ho cercato di curarne forma e contenuto al meglio delle mie possibilità e mi auguro che il risultato non risulti troppo sgradevole. Qualora fosse il contrario, me ne scuso anticipatamente.
In particolare, questo libro è una raccolta di racconti sui generis
. L’ho prodotta del 2013 la prima volta, sotto il nome di Niente Storie
. Adesso, nel 2017, ristampo questa edizione in formato cartaceo, con il titolo La rete delle farfalle
, aggiungendo anche qualche altro piccolo racconto successivo al 2013.
Dentro questo libro, troverai racconti – come Storia di Johnny
o In curva
ad esempio – risalenti anche a quindici o più anni fa. Dunque dal 2001 in poi, racconti per lo più mai apparsi nei miei altri libri. L’alternanza di questa raccolta vede quindi un susseguirsi di racconti molto lunghi – in certi casi veri e propri incipit di romanzi mai continuati (come il caso di Visionabilis
) – e storielle di breve intensità.
Se volessimo ricercarne un tema comune, che non sia solo l’amore – che comunque è riuscito ad avere la meglio su tutti gli altri – direi che è proprio la discrepanza del mio narrare dai canoni di una storia letteraria a calamitare verso il suo centro tutte le vicende qui raccontate.
Il titolo originale di questo libro – ossia Niente storie
– mi è venuto in mente grazie a una critica bonaria e costruttiva verso un mio racconto che per l’appunto non raccontava una storia e che poi ho allungato per diletto e omaggio dando vita a La rete della farfalla
. Sì, lo so, sono oltre dieci anni che non scrivo storie, avrei potuto rispondere all’appunto, ma alla fine ho preferito pubblicare questo libro affinché parlasse al posto mio.
Nel ripubblicare questa edizione cartacea, ho poi pensato che il racconto in questione potesse titolare tutto il libro, perché questi racconti sono rotte e sono orme, sono farfalle, ma anche trappole in qualche modo. Trappole di scrittura, reti di sogni, per me e per i lettori. Retini bucati, però, o dalle maglie larghe, dove più che rimanere prigionieri, si entra e si esce svolazzando a piacimento.
Le prime storie di questa raccolta sono le più recenti, come L’eterno tramonto
o Il cavaliere che volò sulla luna
. Esse dovevano in qualche modo rappresentare un filone di fiabe per adulti con un finale di stampo favolistico e volutamente incerto che lasciasse al lettore il compito di dibattere sul senso della storia. Altri componimenti di questa raccolta risalgono al 2003, al 2005, al 2009…
Ho infine aggiunto anche lo scritto titolato La stirpe dei re
che vorrei potesse essere il primo capitolo (o uno dei primi) del mio nuovo romanzo, non tanto per lasciare un senso d'attesa, quanto piuttosto per suggerire la piega del nuovo stile letterario su cui sto lavorando, un mistico misto di passato, presente e futuro al contempo.
Per concludere, questa raccolta è una summa che passa per i tragitti più nascosti del mio peregrinare nella scrittura da quando la intesi professionalmente – in senso di tempo e dedizione – oltre quindici anni orsono: La rete delle farfalle
è un libro che racchiude questa mia epoca narrativa ormai giunta al termine e lancia uno scorcio su quella che potrebbe venire. Se in futuro riuscirò a scrivere altri libri o a completare quelli che ho in mente, avranno un taglio diverso. Dunque, cara lettrice e caro lettore, di queste storie o non–storie qui presenti non t’invaghire troppo, perché altre simili non seguiranno. Grazie, per avermi letto sin qui e ancor di più ti ringrazio se deciderai di proseguire.
A un passo dal paradiso
c’è l’inferno
che vede il paradiso
e sa di trovarsi
a un solo passo di distanza,
ma non può raggiungerlo.
Per questo lo chiamano inferno!
L’uomo è di fronte al pozzo e guarda giù. L’acqua è nero pastello, il pozzo non troppo profondo. Come in un sogno senza tempo, i versi degli animali nella campagna circostante si sono zittiti di colpo. Sembra che sia scesa la notte, ma solo perché l’uomo ha sporto la testa nella cavità. L’uomo non ha paura e quando rialza il busto, percepisce la parte destra del suo cervello, quella inconscia, pesante e buia. L’uomo comprende appieno ciò che è avvenuto: le acque del pozzo si sono riflesse e impresse nella sua mente. Da adesso in poi, un pezzo di quell’oscurità sarà parte integrante dell’uomo, della sua vita e dei suoi sentimenti. L’uomo sa che dovrà fare qualcosa, combattere, per impedire che la macchia dilaghi e prenda possesso intero del suo animo lasciandolo come un essere a metà, incompiuto. Ora, l’uomo torna a udire il cinguettio degli uccelli e il fruscio del vento fra le piante. Osserva la luce del sole filtrare fra le chiome degli alberi e rifrangersi sulle pietre, ma è tutto più ovattato rispetto a prima. L’uomo ha appena intrapreso quella che dai suoi simili viene definita la via dell’eterno tramonto
.
Senza troppo scoraggiarsi perché la sua curiosità è stata maggiore di ogni avvertimento, l’uomo s’incammina verso casa e ridiscende al paese da cui proviene. Qui, le abitazioni sono tetti e comignoli a buttar fumo di primo autunno, già molto fresco e sintomo di uno dei soliti inverni rigidi da cui poter difendersi solo con sciarpe e coperte. Gli abitanti di Neropasso sono esemplari alquanto miti di una specie che si è adattata al letargo di un progresso giudicato futile se non addirittura dannoso. Le energie s’innescano al sorgere del sole e si spengono al suo calare, dopo una ricca cena, un po’ di vino e chiacchiere della buonanotte come tasselli complementari di ogni elemento del circostante che avvolge nel suo abbraccio naturale lo scorrere di un tempo rurale.
L’uomo, che in una qualsiasi città fumosa potrebbe tranquillamente essere scambiato per un ragazzo appena laureato ma già con qualche anno di disoccupazione sulle spalle, fa ritorno all'ovile. Caldo, pulito, avvolto in un manto di protezione. L’uomo apre la porta sprovvista di serrature e ripone all’appendiabiti capello e mantella. Con cura, l’uomo rintuzza le braci di un fuoco sopito e siede all’unica tavola dell’ambiente. Apparecchiato, è rimasto solo il suo piatto coperto da uno più piccolo: lardo e fagioli vicino a due fette di pane.
I genitori dell’uomo si sono già ritirati insieme al fratello minore. Finito di mangiare, l’uomo mette in ordine e sciacqua le posate con un avanzo di acqua bollita nella pentola. Questa sera è tutta per lui. Da domani, l’uomo non sarà più un abitante di Neropasso se non nelle sue origini. Cercherà lavoro in città, come molti dei suoi paesani hanno già provato in passato. Presto, l’uomo si farà le ossa in un mondo che pare una favola raccontato da chi l’ha visto. Una favola non sempre dal buon finale. L’uomo si guarda nello specchio:
«Giannico, – si chiama – da domani tu farai tremare il mondo».
Poi, però, Giannico si avvilisce e sprofonda nella poltroncina di vimini. Nonostante abbia avuto modo di considerare ogni aspetto della questione e averla valutata più volte nella sua immaginazione, ora Giannico trema più del mondo che vorrebbe conquistare, perché conquistare il mondo ha sempre fatto tremare qualsiasi imperatore. I passi ovattati dalle pantofole si fanno sempre più vicini. Giannico riconosce quel suono e il peso specifico della forma che l’accompagna.
«Madre mia!» – esclama Giannico prima che la donna ristagli nel cono di luce che adombra tutto il resto della stanza.
«Figlio mio!» – risponde lei, con sguardo carico d’apprensione.
I due si scrutano un poco, ma non c’è bisogno di troppo soffermarsi.
«Dove sei stato, fino a tardi?»
«Giungo dalla campagna».
«Cosa ti sei trattenuto a fare?»
Giannico soppesa ogni pausa di silenzio, poi confessa a Giovanna quello che lei non vorrebbe mai sentire:
«Ero al pozzo. Ho accettato la chiamata».
Giovanna porta le mani alla bocca e il respiro si tramuta in singhiozzo, quasi uno spavento sorpreso. Giannico tenta di porre rimedio, per quanto possibile:
«Il corvo nero si è posato sulla mia finestra, ormai due settimane fa. Abbiamo una fase di luna piena prima di obbedire al suo richiamo. È la tradizione, la muta legge che nella credenza ha costruito la sua consuetudine e nel tacito silenzio di un accordo non scritto ha innalzato la sua roccaforte. A me non resta che rispettarla o morire come un essere privo di dignità e rispetto, come qualcosa che in questa terra semi selvaggia non può essere a buon diritto definita uomo, ma più un invertebrato senza spina dorsale. Per poter gonfiare ancora il mio petto e, battendo il pugno, affermare che anch’io discendo a immagine e somiglianza di qualche dio, allora devo comportarmi da uomo e come tale assumermi le mie responsabilità. Colomba bianca, ci si sposa. Corvo nero, si parte emigranti. Foglia secca, si resta in attesa. A me è toccato l’animalesco becchino. D'altronde, Marianna mi ha lasciato da due anni e ogni possibilità di maritarla è naufragata come una trave sospinta dalle onde che presto nessuno saprà più a quale imbarcazione apparteneva».
Giovanna resta immobile sulla sedia di legno massiccio. Il camino fa le fusa e il gatto Piticchio è sparito sotto qualche letto.
«Parli come un adulto, figlio mio» – riesce a malapena a pronunciare Giovanna.
Messa a nudo dal monologo del figlio, la donna capisce che nulla potrà contro la natura beffarda di un legame che si dissolve con l’inevitabilità della crescita e, volenti o nolenti, porta i rampolli a distaccarsi dai propri creatori. Giovanna non ha mai posseduto una macchina fotografica né ne avrebbe bisogno in questo momento, perché l’immagine del frutto del suo ventre rimarrà così scolpita per sempre nella memoria, senza bisogno di alcun supporto tecnologico. Gli zigomi pronunciati come quelli del padre Nino. Gli stessi occhi castani con cui la bisnonna Vera seguiva le traiettorie dei falchi selvatici. Le folte sopracciglia e i denti che a due a due lasciano intravedere le medesime voragini con cui nonno Giacomo canzonava ogni savio discorso alla fine dei pasti. I polsi ferrei e il cuore trepido, pronto a ogni avventura. Quel quadro incorniciato fra venature, muscoli e carne, rimarrà vita natural durante impresso nell’animo di Giovanna che, china verso il figlio, bacia la sua tenera fronte leggermente increspata dalle rughe premature.
Non gli chiede del tetro pozzo o di come farà a cavarsela. Non rammenta che per lui la porta resterà aperta. Non gli augura prosperità né fortuna. Non a parole, ma nel suo bacio Giovanna condensa tutto questo e l’affetto di cui dispone, come il dono unico di una notte senza stelle. E nuovamente, in cielo si accende una nuova luce a indicare la strada da percorrere.
Sulla via per Caningrado, Giannico getta il torsolo di una mela, veloce rinfresco di mezza mattina. Dopo tre chilometri di camminata, finalmente la vallata incontra la strada sterrata e la fermata della corriera. Giannico non ha mai avuto un orologio e non sa quanto dovrà aspettare. Si osserva intorno, il sole è già alto, l’aria tiepida.
«L’altra dimora, è dimora di angeli e demoni» – qualcuno parla.
Giannico non deve aguzzare troppo le orecchie, solo spostare le fronde del canneto alle sue spalle per imbattersi in un parroco vestito di saio marrone e sandali consunti. Una giovane donna d’aspetto non troppo devoto siede un po’ distante sulle stesse pietre.
«Chi siete?» – domanda Giannico.
«Umili tuoi fratelli, figli dello stesso padre» – risponde don Luigi.
«Semplici passeggeri in attesa della corriera» – tiene a precisare Marta. «E se ti sta venendo la tentazione di chiederlo, a scanso d’equivoci, io e il monsignore non siamo conoscenti».
«Riconoscenti lo siamo tutti versi Dio, mia cara figliuola, anche se non comprendo questa tua puntualizzazione» – polemizza vagamente don Luigi.
«Tutti figli suoi: io, tu, voi, loro, …»
«Oh, non miei. Per carità! Tutti figli Suoi, casomai» – e don Luigi indica il cielo, oltre le nuvole, laddove esiste, c’è chi lo sostiene, dimora ultraterrena per esseri biologicamente trascendenti.
«Io sono Giannico, con l’accento sulla à
» – si presenta l’uomo.
«Piacere, Marta».
«Luigi».
«Sapete quando passerà la corriera?»
«Rassegnati, ragazzo. Qui tutti si aspettano qualcosa, ma nulla si ottiene se non con la fede. Solo se hai fede sarai ricompensato».
«Non dargli retta e siediti» – sbuffa Marta guardando il suo orologio da polso. «Fra dieci minuti dovrebbe essere qui, considerando che ha già mezz’ora di ritardo. Mezz’ora! Ti rendi conto, Giannicoso, da quanto sono qui a discorrere con questo prete? La Genesi, la Bibbia, Vecchio e Nuovo Testamento, ci manca solo che si metta a recitar la messa e siamo apposto! Arrostiti!»
«Un po’ di rispetto, figliola…»
Marta sbuffa nuovamente. Solo adesso Giannico si accorge di quanto sia bella. Bella ai suoi occhi innamorati del vago tinto dall’informe vernice dei sogni che proiettano colorati una pellicola perennemente in bianco e nero. Spensierata come una corsa fra i campi, i capelli color del grano e lisci come la criniera di una cavalla. Le mani affusolate e un petto di piccoli polmoni. Deliziosa creatura, medita Giannico, che le si fa vicino per approfondire la conoscenza.
«Così, questo sarebbe un misuratore analogico del tempo» – dice Giannico e non gli sembra tanto insensata come affermazione.
Marta, invece, resta sbigottita, ché di matti non uno, ma ben due pensa di averne incontrato quella mattina e se poi si volta indietro, allora nella sua vita può vantarne una costellazione. Le sue gote si gonfiano come se stesse per soffiare in un flauto:
«Ma cosa sei? Leso al celebro?!»
Giannico indietreggia trafitto da un colpo inaspettato, prode cavaliere senza armi e senza difese.
«Se fai per prendermi in giro, guarda che non ci casco» – sottolinea Marta.
«No, no. Dicevo sul serio: non ne ho mai visto uno da vicino».
«Ma da dove vieni, dalla montagna del sapone?»
«No, – indica Giannico – da Neropasso».
«Neropasso? Dove fanno il pane buono?»
Giannico sorride.
«Sì».
«E siete tutti cavernicoli a Neropasso, o tu fai un’eccezione?»
«Non esageriamo, figliuola» – la rimprovera a bruciapelo don Luigi che non si è perso una sillaba del dialogo.
«Tu dove stai andando?» – prova allora a domandare Giannico alla giovane donna.
«Mi dispiace, ma ovunque vada t’assicuro che non sono pane per i tuoi denti, per restare in tema».
Giannico sta quasi per replicare quando il rumore d’ingranaggi arrugginiti e pistoni sfiatati sopraggiunge da dietro la duna a far svettare la sagoma della corriera.
«Sia lode all’Altissimo!» – osanna don Luigi.
Marta ha ancora qualche istante per scrutare la reazione dello sconosciuto all’attacco delle sue parole. I suoi pensieri scivolano più veloci di uno slittino sulla neve. C’è una corazza in me, – ragiona Marta mentre vede Giannico salire sulla vettura – una dura corazza che l’acido non può sciogliere perché l’acidità umana l’ha forgiata, il gelo l’ha temprata e il dolore acuminata. E tu, che per me non sei che un vago trascorrere di minuti in ricordi, dimmi, vorrei proprio sapere, come farai a raggiungermi?
L’autista ingrana la prima e prima ancora che Giannico si sia sistemato al suo posto, anche le sue rotelle si animano come una macchina automatica.
Il potere di un mago che non cede al nero resta profumo di primavera quando i cervi vanno in amore. Altrimenti, la pioggia non lava il pianto, il tempo non rimargina le cicatrici, restiamo a guardarci: attimi eterni come frasi sfuggite al proprio poeta, rimasto imprigionato su scogli impervi e solitari. E se non sono figlio del mio creatore, allora creature terribili popoleranno le mie visioni quali bagliori di vite insensate, affacciate alle finestre come comari di un’alba rimpianta che spettegoleranno sul più e sul meno, mentre la bilancia sarà vuota ma equanime
.
E mentre s’intrattiene con simili ragionamenti, Giannico osserva oltre il vetro del finestrino il suo Neropasso rimpicciolirsi e sparire come legna dentro un camino. L’avventura è incominciata.
La principale sensazione che invade Giannico nella stazione di Caningrado è quel puzzo sgradevole di scarichi e automobili. Di straccioni agli angoli dei marciapiedi che olezzano di alcool e sudiciume. Reietti della buona società che annaspano sotto gli occhi indifferenti di ogni camicia stirata. Giannico immagina che ci siano storie nascoste in ogni anfratto di quelle vie. Storie anche tristi, di dolore e disperazione. Giannico non vorrebbe conoscerle, ma forse solo poter dare una mano. Risollevare lo stato d’animo di chi ha perduto persino il senso di questa parola. Saltare con lo sventurato di palo in frasca, come l’uccello canterino e arrendersi definitivamente al fatto che le parole non potranno mai fare breccia nel cuore umano, almeno finché continueranno a essere censurate dalla forza degli editori. Amici dei critici, giuristi intransigenti ma facili alle tangenti di mercato, compagni dei violentatori di idee.
Ho visto i segni della fine del mondo
– riflette Giannico fra sé. Nella mia visione, gettavo il piombino dentro un placido lago e lo contemplavo galleggiare. Non un alito di vento a turbare la trasparenza del filo e la mia canna docilmente appoggiata su un masso. Il piombino non affondava perché non c’erano più pesci. Solo io potevo inabissarlo e a ogni discesa raggiungevo un punto da aggiustare dentro di me. Chiavi nascoste e bottoni da premere per spegnere il buio. Ho visto la fine del mondo esteriore, ma certe serrature erano saldamente incatenate. Fu allora che mi venne in mente l’idea d’ingaggiare uno scassinatore che lo facesse al posto mio. Parolieri mistici di religioni antiche o desuete, rinnovo dell’età dalle facili credenze e sangue dal portafoglio per facili sorrisi. Diete di tisane che mettendo il male curavano il male, veleni ripuliti dall’alone di un’accettazione fatalistica, che tutto era come avrebbe dovuto e io non riuscivo più a risalire dall’imbuto in cui ero scivolato. Cresciuto in una bottiglia, avevo solo lucidato il vetro, ma nulla era uscito ancora fuori. Ho visto i segni della fine del mondo ed erano null’altro che i miei soliti, relativamente innocui, sogni
.
I mmerso nei suoi pensieri, Giannico non si accorge di star entrando in rotta di collisione con un suo coetaneo, almeno dall’aspetto; tantomeno il giovane trova il tempo per guardare accuratamente dove posa i suoi passi, poiché ha già accumulato un serio ritardo per la lezione all’università. Così, inevitabile caso, i due si scontrano con risultata caduta dello sconosciuto assai più gracile di Giannico. Qualche imprecazione benevola e il ragazzo a terra tende la mano al suo soccorritore, causa in pari merito dell’incidente.
« Tutto bene?» – domanda Giannico leggermente preoccupato.
«Sì. Ci vuole altro per ammaccarmi seriamente e al mio carrozziere di fiducia ne ho presentate di situazioni peggiori. Piuttosto, tu non ti sei neanche mosso d’un millimetro. Di cosa sei fatto? Roccia e dinamite?»
Giannico alza le spalle, affatto incline all’ironia del malcapitato e poco propenso alle inezie.
« Insomma, chi saresti tu?» – incalza lo sventurato.
«Piacere, Giannico, con l’accento sulla à
. Mi dispiace esserti piombato addosso, ma ero sovrappensiero».
«Lascia perdere. Anch’io andavo di fretta. Anzi, sai che c’è? Visto che la frittata è fatta tanto vale mangiarsela. Sei d’accordo?»
«In che senso?»
«Vieni, su! Ti offro un caffè e all’università ci andrò domani».
P oco dopo, i due si ritrovano al bancone del bar della stazione di Caningrado. A Giannico quell’ambiente non va troppo a genio poiché gli rimanda un’impressione di sudicio. Anche il caffè, appena ne manda giù un sorso, lo sente bruciare nello stomaco più del dovuto.
« Da dove vieni, Giannico?» – fa il tale tirando indietro una ciocca dei lunghi capelli castani che gli scendono fino alle spalle.
«Da Neropasso»
«Dove fanno il buon pane?»
«Uh, uh!»
«E com’è vivere là?»
«A me piace».
«Allora qui che ci fai?»
«Lavoro».
«Quale?»
«Devo ancora trovarlo».
«Scusa, ti sto facendo il terzo grado e manco m’interessa troppo».
«Come?»
«Non ci far caso, io sono così: parlo, parlo, spesso a vanvera».
Giannico ripone la tazzina vuota quasi fra le mani del signore attempato che sta lucidando con uno straccio il marmo del bancone.
«Lascia, offro io».
«Grazie. Come hai detto che ti chiami?»
« Lino, ma per tutti sono Smilzo o lo Smilzo» – e mostra la sua completa ed esile forma con un gesto della mano assai enfatico, quasi un inchino del busto. «Visto che l’università è saltata, che ne dici di unirti a noi per un ritrovo mattutino?»
«Noi chi?»
« Come chi? Io e gli altri amici» – scherza Lino accennando a eventuali compagni immaginari. «Forza, ché mi sembri una capra smarrita in un recinto di lupi senza pelo».
« Ma che stai farneticando?» – Giannico proprio non riesce a raccapezzarsi.
«Niente, niente. Andiamo».
Nel tragitto dalla stazione fino alla seguente caffetteria, Giannico e Lino hanno modo di conoscersi un po’ meglio. Quando entrano nel nuovo locale, Giannico viene presentato a Laura, la ragazza di Lino, poi a Sempri, l’amica del cuore di Laura, quindi a Giovanni e a Fabrizio.
« Smilzo, com’è che non sei a lezione?» – provoca Fabrizio senza neanche aver salutato il compagno.
« E voi? Sempre qui a perdere tempo» – controbatte Lino prima di schioccare un sonoro bacio sulle labbra della bionda Laura.
S empri, invece, s’interessa subito a Giannico. Giannico sente le narici invase dal profumo molto dolce e sensuale che la ragazza emana e lo fa notare. Sempri replica con nome e marca della fragranza, ma Giannico non è molto ferrato in materia. E mentre lei parla, lui la osserva e già gli pare di conoscerla da sempre. I suoi capelli tagliati a gradini come una scalinata, non troppo lunghi, lisci e neri. Castani gli occhi e paffute le guance. Il naso un po’ all’insù e le labbra abbastanza larghe. E mentre lui le parla del pane di Neropasso anche lei l’osserva e ha l’impressione che quell’incontro fortuito nasconda un sentiero lontano, come una strada le cui rotaie scompaiono in una galleria e dall’altra parte l’abbagliante paesaggio immaginato nelle visioni di pace.
« Sempri è un diminutivo?» – domanda Giannico.
« Di Sempronia» – specifica Fabrizio che sembra essere coinvolto nella conversazione con Lino, Giovanni e Laura, ma sempre vigile al circostante.
S empri un po’ arrossisce, ché quel nome non l’ha mai garbata troppo.
« Scusami, – continua Fabrizio – ma lo vedi questo?»
« Cosa? L’orecchio?» – interroga Giannico.
«Sì, proprio il mio padiglione auricolare».
«Allora?»
«Allora ho fatto un terribile incidente in moto un paio d’anni addietro e sono andato lungo proprio su questo orecchio. Avresti dovuto vedermi: non ero certo un bello spettacolo! Sangue a catinelle e piccoli brandelli di carne alla rinfusa. Poi me l’hanno ricucito talmente ad arte che quasi non si vedono le cicatrici. Ebbene, invece di diventare sordo, da questo orecchio sono migliorato. Ci credi? Posso quasi sentire gli ultrasuoni. Nulla sfugge al mio super udito, ricordalo sempre».
Giannico rimane a squadrare il volto irto di barba del suo interlocutore e poi cerca con attenzione fra le pieghe del lobo un qualsiasi segno che possa dar riscontro alla versione dei fatti appena ascoltata, ma non ne trova.
« Non lo stare a sentire» – l’avverte Sempri scocciata che la conversazione sia stata interrotta. «Ti sta prendendo in giro. Non è vero niente. Fabrizio non la sa neanche guidare una moto, figurati!»
E d’improvviso scoppiano tutti a ridere, tutti tranne Giannico che prova a farsi trascinare sul finale dell’entusiasmo, anche se non ha capito. E proprio perché non ha capito non riesce a lasciarsi andare del tutto a quell’esplosione d’allegria e la sua risata risuona in sé stonata.
Farabutto d’un senso usurpato al male, proprio così ti dovevi comportare?
– riflette Giannico. E infine ti dissi: va con i tuoi simili e impara a camminare. Sulle ruote sgonfie non potrai mai contare
.
« Cosa rimugini?» – lo interpella Sempri.
Se fossimo lontani, se fossimo a Neropasso, ti avrei già sposata, o almeno invitata a cena
.
«A nulla di che. Siete forti voi quattro, mi piacete».
« Allora, – conclude Lino – vieni a stare da noi per un po’, almeno finché non ti sarai trovato un’altra sistemazione».
Giannico accetta la proposta.
P assano i giorni, scorrono le settimane e infine si contano i mesi. La casa dove Giannico alloggia è in affitto. Con lui ci sono Lino e Fabrizio. Laura si ferma spesso a dormire, ma coabita con Giovanni e Sempri in un appartamento più grande e non troppo distante. Nell’ultimo periodo, Giannico ha trovato impiego prima come barista in una birreria notturna, ma non ha funzionato per via del suo carattere troppo taciturno. Data la sua mole, il proprietario gli ha proposto il ruolo di buttafuori, ma dopo due risse nel giro di un fine settimana è stato lo stesso Giannico ad andarsene da lì. In fondo, Giannico non proverà troppa nostalgia per quella piazzetta dal nome santificato, dove le voci degli studenti ebri scivolano negli anfratti malavitosi intrisi d’un malcostume che fa dell’ignoranza il suo cavallo di Troia e miete vittime spensierate. Spranghe agitate da adolescenti imberbi e grida di panico nella notte, mentre la luna si copre gli occhi con le nuvole per non assistere a quello scempio consumato sotto lo sguardo insoddisfatto di tutti i suoi protagonisti, inerti al perpetrarsi dell’ingiustizia. E sotto l’incredulità attonita dei benestanti, la società va marcendo.
P oi, Giannico ha tentato come aiuto ai musicisti
, così recitava l’annuncio d’assunzione. Giovani gruppi alla ribalta e troppo spesso destinati all’insuccesso. Per Giannico altri locali, questa volta visti da dietro le quinte. Aiuto ai musicisti significa trasportare gli strumenti musicali, sistemare i microfoni sul palco o spostarli fra un pezzo e un altro. Pochi spiccioli nelle tasche e Giannico ha salutato presto anche questa esperienza, con un sol rimpianto però. Il rimpianto di quel sogno comune a due persone, come un accordo musicale non vissuto, ma immaginato nei backstage, dove il pubblico prende le vesti di comparse in fila per il provino del film mentale di Giannico. Scritturare amici che non diverranno mai tali o compagnie che dall’occasione di una serata si trasformino in tempo perenne. E nessuno a spiccicare mai una sillaba che sia da ponte a questi due mondi.
P oi, Giannico è andato a lavorare di giorno in quei centri per telefonisti disperati al soldo di compagnie dai fatturati miliardari. Insieme ai giovani universitari e a persone di mezza età. Gente che avrebbe venduto di tutto pur di poter dire ho un lavoro
. Arrampicatori sociali che scalano montagne di niente, dove ogni picco assomiglia a un delitto da mettere a segno ai danni del consumatore inconsapevole. Tecniche di marketing, motivatori e ancora parole straniere per spiegare che si tratta solo di un impiego come tanti altri, né più né meno della solita, intramontabile, truffa.
A desso, Giannico, sta lavorando come lettore in una casa editrice che chiede contributo agli esordienti, gli unici che mandano manoscritti in visione. Sono già due settimane che Giannico ci collabora, ma non è sicuro di poter arrivare serenamente alla fine del mese di prova concordato. Anche qui, per una ragione o per un’altra, Giannico si sente mancare l’aria e infine ragiona che le sue ragioni sono sempre le stesse: pur di arraffare qualche soldo, certa gente dimostra di non avere scrupoli, mentre Giannico si sente diverso.
N on capisce perché dovrebbe mischiarsi a questo amalgama per forza, solo perché così va il mondo
o tutti fanno altrettanto
. Non capisce perché deve inventare spiegazioni logiche che di logico hanno poco, come dire a un esordiente che è giusto chiedergli del denaro per stamparlo perché lui è ancora sconosciuto e il rischio è alto, soprattutto per una casa editrice nata da uno o due anni che è ancor più sconosciuta dell’autore stesso. Non capisce perché deve per forza ubriacarsi anche quando non ne ha voglia o trasgredire per essere bello e dannato. Non capisce perché non può innamorarsi
ma deve solo scopare
. Non capisce perché deve vendere per oro la merda o perché deve fare buon viso a stupido sistema. Giannico non vuole essere diverso, solo il più possibile simile a se stesso. Tutto qui. Ma la gente e in particolare il suo amico Smilzo, al contrario non comprendono il suo comportamento. E Lino non perde un momento per rinfacciarglielo:
«Certo che almeno una strucinata a Sempri la potevi dare, no? Sono otto mesi che abiti qui e che ci frequentiamo. Quella non vede l’ora, te lo dico io. Ma che aspetti? Va bene che vieni da Neropasso, ma anche lì si tromberà, o no?»
S eduti sul balconcino di casa a sorseggiare un drink, anche Fabrizio che sembra leggere il giornale – ma che con il suo fantastico orecchio non si perde nulla neanche di ciò che avviene lungo il marciapiede al piano sottostante – dà ragione a Lino.
« Insomma, ti vuoi decidere» – insiste Lino. «Fra un po’ dovrai tornartene a Neropasso, come mi hai spiegato: se in un anno non trovi un lavoro affidabile torni a cuocere il pane in quel paesino scordato da Dio. Eppure non ti sta bene niente: questo non ti piace, quell’altro ti pagano poco, di là rubano tutti. Ci vuole la faccia tosta. Vivi e lasca vivere. Ma tu no, tu sempre chiuso in te stesso a rimuginare. Già sei grande e grosso come una montagna e incuti timore solo a guardarti. Ma che ti aspetti? Che venga Santa Claus a darti il lavoro e una bella figliola da sposarti. Stai fresco!»
G iannico non risponde nulla, ma poco dopo si ritrova all’appuntamento con Sempri al solito bar per continuare l’aperitivo o cominciarne uno nuovo. E pare che questo giorno di inizio settembre si siano messi tutti d’accordo, perché anche Sempri vuol sapere, desidera un segnale, anela una risposta. Ché il tempo stringe e il sole inizia a tinteggiare il cielo, timidamente dietro l’unico gruppo di nuvolette. E Giannico è stanco e non ha più la forza di andare avanti.
Riavvolgete la pellicola
– pensa. Riavvolgete la storia, questa ha preso una brutta piega. Non doveva finire così. Voglio poter vivere un’altra avventura, se anche simile ma dalla diversa conclusione
. Eppure nulla accade ad accogliere la preghiera del giovane ragazzo che presto tornerà a essere un uomo nel paese delle sue origini.
« E allora sappi solo che…» – prova a farfugliare Giannico.
Sempri quasi si emoziona, si sporge verso di lui, sogna un bacio.
«No, non comprenderesti».
La ragazza si ritrae, attenta a seguire il senso di quel discorso.
«Nessuno può capire, visto che neanch’io mi capisco».
Frase scontata e dilapidata, che non dovevo aver più di dodici anni la prima volta che l’ho sentita
– considera Sempri.
«Ma in fondo, tutto è già stato spiegato».
«Cosa?»
«Lo vedi quello?»
«Il tramonto?»
«Già: io sono sulla strada dell’eterno tramonto
e dentro il mio cervello è il nero».
Sempri resta ammutolita, con la cannuccia che dal bicchiere le ritorna alla bocca ancora fra i denti.
«Se non intendi questo, allora è inutile spiegarti il resto, come è inutile parlar di niente».
C osì, il sole tramonta e lascia l’amarezza: ancor più indigesta di qualsiasi storia finita male, una che non finisce e per sempre dura come incompletezza dell’essere.
S ’addormentò di notte, il prode cavaliere di nome Colzòn e dormì per quattordici ore di filato, questo il tempo necessario per compiere il suo tragitto fino ai confini della luna. Al risveglio, tutto era avvolto dalla luce fatata delle ninfe stella, corpi celesti di ridotte dimensioni, grandi quanto un pugno, figlie delle loro gigantesche madri le costellazioni. Le ninfe stella s’aggiravano nell’atmosfera ed erano come lucciole a intermittenza: s’accendevano e si spegnevano irradiando a tratti discontinui il loro bagliore.
C olzòn, che aveva fatto assopire anche il suo cavallo dal nero manto per portarselo dietro, sedeva fiero in sella e la sella era un tappeto persiano rosso al centro e dorato al perimetro, con piccole frange intrecciate sui due lati esterni. Nella
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