Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Un altro mondo è già passato
Un altro mondo è già passato
Un altro mondo è già passato
Ebook207 pages2 hours

Un altro mondo è già passato

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

“Un altro mondo è già passato” è il racconto del declino e dell’eterno riapparire della coscienza.

In una Napoli futuristica, irriconoscibile per le atmosfere descritte e gli episodi che si avvicendano, Julius, visionario astrofisico, svela l’inganno del tempo e della materia. Percepisce prossimo il crepuscolo della coscienza, mentre assiste progressivamente al crollo della civiltà e all’insediamento di un’intelligenza artificiale capace di trascendere il bene e il male, fino al sorprendente e suggestivo atto finale.

“La ragione non aveva trovato tutte le risposte. Neanche aveva capito come mai per un uomo vivere non è soltanto essere nutrito o possedere l’elisir di lunga vita, ma è qualcosa di tremendamente più complicato. “Qual è la causa del turbamento?” si chiedeva spesso Petra, non ancora pronta a comprendere la risposta di Julius: “La falsa identità” le diceva ed aggiungeva: “Pensi di essere quello che non sei: questo il motivo d’ogni confusione ed ogni pena””.

Il racconto è stato segnalato dalla giuria del Premio Nabokov 2017 per l’elevata qualità letteraria e per il forte impatto emotivo.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 2, 2018
ISBN9788827820858
Un altro mondo è già passato

Related to Un altro mondo è già passato

Related ebooks

Literary Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Un altro mondo è già passato

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Un altro mondo è già passato - Antonio Pardo Pastorini

    Scienza

    Prologo.

    L’estrema scarica di adrenalina stimolò oltre il limite l’attività cardiaca della cerva. Il ventricolo destro si dilatò alla massima estensione. E, rapidamente restringendosi, aumentò la gittata, irrorando all’istante i muscoli degli arti. Già contratti allo spasmo nella precipitosa fuga dal branco. Avido di carne.

    Riuscì, in un ultimo balzo, quasi a superare indenne un fitto cespuglio di biancospino, ma, ancora prima di ferirsi con gli aculei, il cuore deflagrò.

    L’animale precipitò inerte al suolo. I bronchi si sgonfiarono nell’esalazione dell’ultimo respiro. Le pupille rimasero dilatate in modo innaturale, brillando di vermiglio vivo, come due cerchietti accesi nell’oscuro crepuscolo del sottobosco.

    Senza alcuna esitazione, tremante d’affanno, ma d’istinto rabbioso, il capobranco, arrestata la corsa, digrignò i canini contro i subalterni, che servili iniziarono a guaire o ad ululare pietosi. E ribadito l’imperio, tanto tronfio di potere, quanto di voracità, azzannò al collo la cerva e, sfilacciandolo, ne strappò un grosso pezzo di muscolo, stillante sangue.

    In breve fu raccapricciante banchetto. I lupi s’azzuffarono per accaparrarsi il miglior boccone e, tra pari, disputandoselo a colpi di brutali morsi.

    Nell’aria, fredda e secca dell’inverno, all’odor di ghiaccio della prima neve caduta, si mischiò una fragranza di bestia e di morte.

    Alla fine, soddisfatti, con i bianchi musi tinti di rosso, prima ulularono alle tre lune nascenti e, poi, ripresero a ritroso il sentiero per tornarsene alle tane.

    Tarvox ed Albioris erano già completamente spuntate dalle sagome scure dei monti, mentre Ortosian, la più piccola delle lune, per metà era ancora nascosta dietro l’orizzonte. Tutte irradiavano una calda luce dorata.

    Poco più in là dal luogo dell’esecuzione, nascosto tra una folta macchia d’agrifoglio, disperato e solo, il cerbiatto azzurro cadde in un sonno liberatore, stanco d’aspettare il ritorno della madre. E, all’alba, quando la luce verdigna del giorno distolse il buio tragico della notte, nonostante tutto, senza un perché, il cucciolo affrontò la vita. Grama e dolorosa. Con inestinguibile e sovrannaturale pulsione. Ignaro del proprio ruolo di preda, nel ciclico ritorno dell’esistente.

    Parte Prima.

    L’ultimo presente

    Capitolo I.

    Dopo l’ultima violenta scossa sussultoria la casa si mosse. Quasi sobbalzò, dando l’impressione di staccarsi definitivamente dalle fondamenta, ma l’anziano Julius, nonostante il finimondo, stranamente sorrise. Era un riso lieve e disteso. Senza paure. Giudicabile dall’umano discernimento un evidente segno di follia, considerate le catastrofiche circostanze. Ma, da tempo, la mente di Julius era andata oltre l’umano. Tanto oltre, da percepire nitida un’assoluta sapienza, che non fa temere l’apocalisse, né l’estinzione, ma, nel comune consesso degli uomini, condanna all’incomunicabilità. Proprio per l’insensata ragione, in verità, che non c’è un bel nulla da raccontare. Nulla! Nulla! Nulla! Un eterno, multiforme ed insensato nulla. In che modo un narratore inesistente avrebbe potuto rendere cosciente un ascoltatore inesistente della propria e della di lui inesistenza?

    Lo specchio del bagno, un grande schermo intelligente a cristalli amorfi, lo aveva identificato e, inconsapevole degli sconvolgimenti in atto, gli ricordava con voce suadente, straordinariamente umana, che era l’ora della medicina.

    In tali infauste circostanze tanta garbata cura assumeva connotati comici. E Julius sorrise ancora. Pareva deridesse quell’irrazionale slancio vitale, ancora da lui avvertito per uno scampolo di natura umana, rimastogli in qualche ganglio della coscienza, che impone all’individuo di esistere, nonostante l’inferno e la fine imminente.

    A questo punto, quell’interiore spinta alla vita gli suscitava una cinica ilarità, considerata la situazione senza rimedio, non solo per il proprio tempo, ma anche per quello d’ogni superstite essere vivente o cosa inanimata, fosse un uomo o una donna, un ragno con la sua tela o un’ape con il suo alveare, un lombrico nel proprio fango od ogni altro individuo animale e vegetale o, finanche, la coriacea roccia, l’etereo cielo e il mai quieto oceano.

    E quella mattina, ancor più dei giorni passati, sul rilievo di Punta Lanterna, che chiude a sud il golfo di Baia, l’anziano scienziato scrutava il Vesuvio. Il vulcano rumoreggiava ostile e, furioso, vomitava lava, cenere e lapilli.

    L’evacuazione dei cittadini, uomini e ibridati, proseguiva frenetica da oltre ventiquattro ore. Le strade erano coperte da una coltre di polvere grigia ed impalpabile. Si trattava di minuti granuli di lava fluida, subito consolidatisi durante le continue eruzioni.

    Tra una caligine molesta, i mezzi di trasporto procedevano a rilento, ostacolati dalla moltitudine di gente, che con terrore s’agitava. A volte sgomitava e anelava, pur d’imboccare la salvifica via di fuga. Quei visi disperati, imbrattati di cenere, rievocavano gironi danteschi e colpivano, soprattutto, le facce dei bambini, che non t’aspetti mai di vederli ospiti a casa del diavolo.

    Tutti bramavano d’affluire alla vita, così come acqua viva di fiume, per forza di gravità, non può che scorrere dalle pendici dei monti fino all’immensità misteriosa degli oceani. Senza nessun grado di libertà.

    Ma ormai si era alla mercé del caso.

    Julius si ridestò dai pensieri, infastidito dal ronzio di una telecamera-insetto. Segno che le macchine erano ormai già nei pressi.

    Con calma appoggiò gli occhiali sul ripiano della toeletta. Comandò con un’occhiata fuggevole il congegno optronico e dal rubinetto sgorgò l’acqua. Si bagnò le mani. E grondanti, prima la destra, poi la sinistra, le strusciò sulla fronte; quindi se le portò sul viso e si massaggiò gli azzurri occhi con i polpastrelli del medio e dell’anulare, facendoli delicatamente roteare sulle palpebre.

    Il caldo era opprimente e intensa era la voglia di rinfrescarsi. Si rimirò nello specchio e gli sembrò di non conoscersi. Anche questo gli parve ridicolo. E sorrise di nuovo. Senza asciugarsi, inforcò gli occhiali ed ordinò alla porta scorrevole di aprirsi.

    Un’altra violenta scossa di terremoto lo fece vacillare nel disimpegno, prima d’accedere alla stanza da letto.

    Petra, la moglie, era sveglia. Pallida e con il volto ancor più emaciato del giorno prima. Gli occhi acquosi sprofondavano nelle orbite. Dopo una notte insonne, tormentata da una tosse convulsa e da febbre alta, s’era per poco assopita. Ora era tranquilla, malgrado tutto. Sul comodino la boccetta con la soluzione molecolare di materia programmabile, che si ostinava a rifiutare.

    Non era supina, ma, eretta nel busto, appoggiava la schiena su due voluminosi cuscini. Fissò con sguardo benevolo il marito.

    "Ormai ci siamo" - disse con una sottile vena di soddisfazione, nonostante la malattia.

    "Sorridi? Non temi?"

    L’anziano non rispose. Restò con quel riso lieve. Indecifrabile. Era estraniato. O, semplicemente, non trovava le parole. O, forse, la stessa volontà gli si era estinta, o neppure la cercava. E, poi, in quale punto del vocabolario attingere per dire le emozioni che, fino a quei finali istanti, mai nessun uomo aveva avvertito?

    Ma, tra gli scampoli del tempo, l’agonia di Petra era cosa viva. Perciò, Julius ritrovò la compassione e le parlò.

    "Perché temere? Le circostanze subite non mi hanno trasformato, bensì mutato. La trasformazione riguarda, più che altro, l’esteriorità, invece la mutazione ti modifica dentro. Ti cambia i codici interpretativi. In punta di piedi sulle spalle della coscienza ho raggiunto altezze dello spirito dalle quali tutto s’annulla. Non c’è più dramma, né comicità. E trovo buona e viva anche la morte."

    L’uomo attese un cenno d’intesa. La moglie rimase a fissarlo silenziosa, senza cambiare l’espressione afflitta. Allora, incline al discorrere, aggiunse:

    "Il dolore ci ha trasfigurato l’anima. Il mio aspetto di vecchio non è alterato nell’umano, eppure nello specchio vedo tratti somatici d’una razza aliena. Mi guardo e non mi riconosco. E alla fine vi trovo del ridicolo. Sono simile a tutti gli altri, ma la mia illusione se n’è andata. L’affannarsi della gente che, inconsapevole, pretende la vita, dal mio privilegiato criterio di valutazione lo giudico un’ingenuità infantile. Lo paragono al bambino, che, per scampare al mostro, candidamente si copre gli occhi con le mani. Ed anche questo raffronto mi è risibile. Perciò sorrido e non temo, perché so che ogni fine precede sempre l’inizio."

    Il vecchio se ne stava seduto sul bordo del letto e, come chi vuole ingannare il tempo durante un lungo viaggio, o in attesa che un fatto si compia, continuò a dialogare con la moglie. Le teneva una mano e, di tanto in tanto, le asciugava il sudore sulla fronte con un fazzoletto di cotone bianco. Il pezzo di tela, finemente ricamato, sapeva d’antico a confronto dei sofisticati arredi.

    Le pareti, candide di metallica lucentezza e innervate da fasci di fibre ottiche, fungevano da schermi interattivi per evocare ologrammi.

    Il pallore della donna feriva Julius. Segno dell’imminente trapasso, ma, ancor più doloroso, sintomo di una lenta agonia.

    Le forze della malata scemavano d’ora in ora. Ormai si esprimeva con un filo di voce.

    "E se poi non ci ritrovassimo? " domandò sconsolata, fiaccata, più che dal morbo, da un rodimento interiore, che la confondeva a tal punto da non trattenere le lacrime.

    "Ci fonderemo in un’energia consapevole e primigenia."

    La confortò il vecchio con risolutezza, quasi severamente, trovando nel dubbio di Petra una mancanza d’affinità con il proprio elevato sentire. Anch’egli vacillò e un moto d’incertezza gli trasparì sul volto. Poi, dopo averle terso dalle smagrite guance due fili di pianto, aggiunse:

    "Magari conserveremo anche lo stesso aspetto…"

    Un’artefatta espressione di calma si palesò sul viso della donna. La consolazione di Julius non le dissipò i dubbi sull’oltre vita. Ma volle credergli.

    S’immaginò il figlio, come un angelo dalla chioma bionda, che lieto l’accoglieva nel mezzo d’una luminosa distesa verde. Una sconfinata prateria, fluttuante in un azzurro oceano di luce. L’incredulità, però, prevalse. Cancellò la visione ed accrebbe i tormenti di Petra.

    Non riusciva a fugare i tristi pensieri. Per compiacere a Julius, non li lasciò trapelare. Si passò l’incerta mano sugli occhi per seccarli dai residui umori. Sospirò. E tentò di calmarsi. Respirava a fatica.

    A volte avvertiva un violento dolore al petto che accresceva l’affanno, mentre il cuore si scatenava per incontrollabili aritmie. Allora chiudeva gli occhi e immaginava di riaprirli in un altro dove. Ma, dalle rapide della sofferenza, riemergeva sempre nell’insopportabile realtà. In quei frangenti avvertiva l’energia ridursi al lumicino. Era disorientata e preda di un turbinio, che mescolava sentimenti disparati. Vacillava tra il desiderio di morte e il terrore di azzerarsi in un nulla assurdo.

    Fissava il marito, temendo che il tempo s’arrestasse proprio in quell’ultimo istante. Come a volerne rapire con lo sguardo le sembianze e l’anima, per assicurarsi il viatico nel viaggio misterioso dalla vita alla morte.

    "E rivedrò il volto del nostro caro angelo? ", sussurrò, cercando consenso.

    "Sarà più che un rivedersi!" ribatté Julius con espressione rassicurante.

    Uno scossone fece gravemente vibrare la casa. Alcuni oggetti rovinarono sul pavimento e dalla dispensa arrivò il tintinnio prolungato di stoviglie e d’un antico vasellame di Capodimonte. Il suono si affievolì con rapidità, ammantato da un crescente, intenso, sibilo. Lo spostamento di una considerevole massa d’aria agitò i rami degli alberi e curvò ad arco i tre cipressini, prospicienti la grande vetrata della camera da letto.

    Un assordante boato sovrastò ogni altro rumore.

    Chetatosi il frastuono, dalla strada giunsero invocazioni d’aiuto. Grida disperate, forse un uomo ed una donna. Julius constatò che dovevano esserci anche dei bambini. O almeno uno, perché i reiterati urli isterici, che laceravano i cuori, parevano giungere sempre dalla stessa vocina atterrita.

    L’anziano si rizzò, non senza fatica. S’accostò all’ampio finestrone e sbirciò all’esterno. Da quella prospettiva la strada era in parte celata da una folta siepe di pitosforo. Sembrava, comunque, deserta. Gli ultimi residenti di Punta Lanterna erano scappati dalla sera prima. Gli abitanti ormai facevano ressa solo nella maestra via di fuga. Le stradine, che s’inerpicavano sul promontorio, erano spopolate.

    Julius volse lo sguardo al Vesuvio e notò che una più ampia e densa colonna di fumo, molto più larga ed alta delle altre, nascondeva la sommità del cratere. Una sconquassante deflagrazione aveva aperto uno squarcio sulla parete ovest della montagna.

    L’uomo capì che non c’era più tempo da perdere.

    Si procurò uno zucchetto cromato, una sorta di copricapo in titanio a forma di calotta, simile a quello portato dagli ecclesiastici all’epoca dei papa. Se lo calò in testa, fissandoselo sulla fronte, con due particolari elettrodi a ventosa. Innestandosi un terzo sull’occipite.

    "Forse il sistema è ancora integro per decodificare il segnale biometrico" - farfugliò distrattamente, rivolgendosi alla moglie.

    E, ritornato accanto a lei, con un ampio movimento della mano, che pareva un linguaggio dei segni, comandò alla bianca parete metallica di accendersi.

    Lo schermo si colorò d’una tenue luminescenza verdolina. Il vecchio si portò le mani sulle tempie e socchiuse gli occhi.

    All’inizio non accadde nulla. In seguito, si materializzò una macchia informe, che evolveva la geometria senza criterio. Come evocata da un’altra dimensione. In realtà, proveniva direttamente dai ricordi dell’uomo. Un’ameba evanescente, che cambiava continuamente forma e, a volte, sfumava verso grigi screziati con un effetto sale e pepe. Appena scomparsa, subito riappariva iridescente e viva.

    Quel guazzabuglio cromatico poi mutò. Si riordinò gradatamente in contorni intellegibili.

    E, alla stessa maniera d’un computer che presenta in rapida successione una moltitudine disordinata d’immagini, sulla parete si distinguevano diafani, ancora senza nitidezza, volti, oggetti, luoghi, persone, dettagli di vita vissuta, mancanti di ogni logica sequenza.

    In breve, la visione divenne perfetta. Anzi si proiettò nello spazio circostante, producendo un ologramma, tanto verosimile da illudersi che fosse sostanza e non l’etereo apparire dei ricordi del vecchio.

    Infine, si palesò un bianco scenario. Una stanza d’ospedale. Le pareti erano perfettamente tappezzate con pannelli dall’anima in piombo. Usati per schermare gli ambienti dalla persistente ricaduta radioattiva. Erano passati vent’anni dal Grande Botto. Ed ancora si pativa per la Macchina del Giudizio Universale.

    Sorridente, nonostante i cavi che lo vincolavano al monitor e al grosso ago, conficcatogli sul dorso della manina, disteso sul letto se ne stava, con la compostezza d’un adulto, un bambino di sei o sette anni. La vicinanza di una giovane Petra lo rassicurava.

    Bello come un angelo, negli occhi cerulei gli brillava una luce, che sapeva di sapienza sovrumana e infondeva profondissima quiete. Malgrado il dramma.

    "Mamma, parla" le ordinò il piccolo, come d’abitudine era solito comandare quando scorgeva afflizione sul volto della donna o per distrarsi dalla pena di non poter correre e occuparsi in qualche gioco.

    Nell’inenarrabile

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1