Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Zeina
Zeina
Zeina
Ebook304 pages5 hours

Zeina

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Bodur, una distinta docente universitaria, porta con sé un oscuro segreto. Da un giovane studente

universitario che poi era stato arrestato e ucciso in carcere aveva avuto una figlia illegittima, Zeina,

che aveva abbandonato per le strade del Cairo. Zeina cresce fino a diventare uno delle più amate cantanti

e ballerine in Egitto, pur essendo priva di un nome e di una casa. Al contrario Bodur, rimasta

intrappolata in un matrimonio senza amore con un giornalista, si strugge per la figlia. Nel tentativo

di trovare conforto si dedica alla letteratura, scrivendo un resoconto romanzato della sua vita. Ma

quando il manoscritto le viene rubato, Bodur è costretta a un viaggio alla scoperta di sé, rivivendo e

rimodellando il suo passato e il suo futuro.
LanguageItaliano
Release dateJun 4, 2018
ISBN9788865642771
Zeina

Related to Zeina

Related ebooks

Related articles

Reviews for Zeina

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Zeina - NAWAL EL SA‘DAWI

    1

    Titolo dell’opera originale

    ZEINA

    Copyright © 2009 Nawal El Saadawi, Dar al saqi, Lebanon

    Published by arrangement with Marco Vigevani & Associati Agenzia Letteraria and RAYA The agency for Arabic literature

    Traduzione dall’arabo di Federica Pistono

    © Atmosphere libri 2018

    Via Seneca 66

    00136 Roma, Italia

    www.atmospherelibri.it

    blog.atmospherelibri.it

    info@atmospherelibri.it

    I edizione nella collana Biblioteca araba aprile 2018

    ISBN 978-88-6564-205-4 (edizione cartacea)

    A tutti i figli, bambini e bambine,

                                         Che nascono in strada,

                                         Senza padre né madre,

                                         Senza scuola né chiesa né moschea,

                                         Senza documenti che rechino

    il timbro con l’aquila d’Egitto,

                                         Che vivono, crescono e diventano

                                         Stelle che accendono il buio,

    Inondando la terra di luce

                                        E cambiando il mondo.

    Nawal El Sa‘dawi

    1

    La sua immagine non lascia la mia memoria, i suoi lineamenti sono impressi nelle minime pieghe della mia mente, nella scatola cranica, nelle gallerie segrete del mio inconscio. Un’immagine che somiglia alla mia, riflessa nello specchio, quando ero una bambina di otto anni. Camminavo per la strada, la cartella in mano, i piedi che calcavano il suolo nelle scarpe nere di vernice dai tacchi squadrati, solidi, che martellavano regolarmente l’asfalto con baldanza e orgoglio: ero la figlia del grande professore Zakariyya al-Khartiti, la cui fotografia appariva sul giornale del mattino, inquadrata sopra la sua rubrica quotidiana intitolata Fedeltà alla promessa.

    Aveva nove anni, i lineamenti simili ai miei, gli occhi grandi, splendenti di una luce blu così scura da tendere al nero profondo. Ero irresistibilmente attratta da quegli occhi che sembravano invaderle tutto il viso e penetrarmi nel cuore come la lama affilata di un coltello.

    Sembrava più anziana di me, come se fosse nata un secolo prima, una creatura senza età, senza padre né madre, senza una casa né una stanza da letto, senza un onore né una verginità che temesse di perdere, senza nulla da possedere o da smarrire, in questa vita o nell’altra.

    Era una bambina come me e come tutte le altre ragazzine della scuola, ma era alta, snella e ferma, non sembrava neppure fatta di carne. Quando camminava, fendeva l’aria come una lancia. A piedi nudi, avanzava sulla ghiaia tagliente e sull’erba spinosa senza provare il minimo dolore e senza versare una goccia di sangue.

    Scrissi alla lavagna il mio nome completo, Magida Zakariyya al-Khartiti. Il maestro mi guardò ammirato. Disse alle bambine che sarei diventata una grande scrittrice come mio padre, che la mia foto sarebbe apparsa un giorno su giornali e riviste, e il mio viso sugli schermi. Disse che mio nonno, al-Khartiti Pascià, era un leader nazionalista, che la mia famiglia, di nobili origini, era imparentata con Sa‘d Zaglul e con ‘Urabi Pascià, ramificandosi fino alla Mecca, al clan dei Quraysh e al Profeta, l’Inviato di Dio.

    Ogni alunna aveva un padre conosciuto, di cui scriveva alla lavagna il nome accanto al proprio. Ognuna di noi era fiera del padre o del nonno, di uno zio materno o paterno o di un altro membro famoso della famiglia.

    Tutte, tranne lei. Stava in piedi accanto alla lavagna, a testa alta. Il maestro le ordinò di scrivere il suo nome. Prese il gessetto bianco tra le dita affusolate e si voltò verso la lavagna. Vedevamo la sua schiena forte e muscolosa, una toppa cucita con del filo nero sul grembiule, i piedi nei sandali senza tacchi. Scrisse il suo nome in grandi lettere sbilenche, come fanno i bambini:

    «Zeina!»

    Il maestro la colpì con la sua canna di bambù sulla schiena, proprio sulla toppa cucita sul grembiule di tela o di gabardine: «Scrivi il tuo nome completo, come le tue compagne!»

    Prese il gessetto e scrisse: Zeina Bint Zeinat¹.

    Quindi si girò per osservarci con gli occhi scintillanti, neri e ardenti. Il maestro la sgridò:

    «Scrivi il nome di tuo padre e di tuo nonno, somara!»

    I due bracieri neri lanciarono fiamme blu. Gettò il gessetto sul pavimento, lo pestò e lo schiacciò, quindi raggiunse, a testa alta, il suo posto nell’ultima fila.

    Il maestro ci insegnava le regole della lingua e della religione. Affermava che una ragazza che portava il nome di sua madre era una figlia illegittima, una figlia della fornicazione. Ci spiegava il singolare e il plurale. Il plurale di kalima² è kalimat, il plurale di tahiyya³ è tahiyyat e il plurale di zeina è zeinat.

    Cominciammo a scrivere il suo nome sui muri dei bagni della scuola: Zeina Bint Zeinat.

    Ma lei non leggeva quello che scrivevamo e non veniva a scuola tutti i giorni, come facevamo noi. Veniva due volte alla settimana, il martedì e il giovedì, per assistere alle lezioni di musica di Ablah⁴ Maryam. Quindi, un giorno, annunciò il suo ritiro dalla scuola. Non la vedevamo più, se non per caso, per la strada.

    Ablah Maryam ci insegnava a suonare il piano. Prendeva le dita di Zeina Bint Zeinat, le sollevava perché le vedessimo. Ablah Mariam era fiera delle dita di Zeina. Diceva che la ragazzina era nata per la musica, che aveva un dono naturale e che nessun’altra, in classe, era dotata come lei. Le lacrime brillavano negli occhi di Zeina ma non ne sgorgavano. Solo il luccicare degli occhi rivelava la presenza delle lacrime. Eravamo deluse quando, d’un tratto, la sua espressione si rischiarava in un sorriso che le illuminava il viso pallido e scarno, mentre la pelle bruna e arida diventava soffice e rosea.

    Osservavo le dita lunghe, sottili e affusolate di Zeina mentre suonava, le punte delle dita volavano sui tasti del piano alla velocità della luce. La sua voce sgorgava limpida quando intonava i canti patriottici. In confronto alla sua, la mia era rauca, sorda e velata; in confronto alle sue dita, le mie erano corte e tozze, simili a quelle di mia madre, paffute e apparentemente prive di ossa, senza agilità. Mia madre, Budur Hanem, moglie del grande professore Zakariyya al-Khartiti, era a sua volta una famosa professoressa e un personaggio illustre del mondo letterario.

    L’immagine di Zeina Bint Zeinat mi appariva in sogno, di notte. La vedevo seduta sulla sua seggiola, cantare e suonare il piano senza guardare le dita. Conosceva a memoria parole e musica come se ne fosse l’autrice e le sue dita sembravano muoversi da sole, indipendentemente dalla sua volontà.

    Non conoscevo il significato del termine fornicazione che il maestro pronunciava a fior di labbra, come uno sputo, ma immaginavo che il dono della musica avesse un rapporto con quella parola. Altrimenti, perché la figlia illegittima ci avrebbe superate tutte in fatto di musica?

    In fondo all’anima, la invidiavo. La vedevo camminare per la strada, alta e forte, muovere con grazia le braccia e le gambe, danzare e cantare liberamente con i bambini di strada, senza paura di rincasare tardi, senza una madre pronta a rimproverarla o un padre pronto a schiaffeggiarla.

    Di notte, prima di addormentarmi, sentivo mio padre e mia madre litigare. Avevo quindici anni, frequentavo il liceo. Ricordavo le parole del maestro, quando diceva che sarei diventata una grande scrittrice come mio padre, l’eminente professor Zakariyya al-Khartiti. Vedevo la foto di mio padre sul giornale, il viso illuminato da un sorriso, ma in casa quel sorriso svaniva. Mio padre rimaneva in silenzio gran parte del tempo. Quando rientrava dal giornale, si ritirava nel suo studio, una grande stanza dalle pareti tappezzate di scaffali carichi di libri. La sua scrivania in ebano, accanto alla vetrata che si affacciava sul Nilo, era coperta di giornali e riviste. Sul muro, in una cornice dorata e cesellata, una fotografia lo ritraeva mentre si inchinava davanti al presidente della Repubblica per ricevere il Gran Premio al Merito, in occasione della Festa della Letteratura e dell’Arte.

    Mio padre mi esortava a non uscire e mi diceva che le ragazze di buona famiglia non giocavano con i bambini di strada, giacché rischiavano di essere violentate. I giornali pubblicavano ogni giorno notizie simili. Il numero dei crimini aumentava nella misura in cui crescevano la povertà e la disoccupazione. I giovani laureati restavano senza lavoro, senza speranza di guadagnarsi il pane o di sposarsi. Erano talmente frustrati da violentare le ragazze per le strade.

    Eppure, la strada mi affascinava. Le pareti di casa nostra erano dipinte di un allegro colore rosa, ma l’atmosfera che si respirava era pesante, come pervasa di un fumo trasparente, invisibile, impercettibile, che tuttavia sentivo scivolarmi sulla pelle, dolce e saturo di odio, di silenzio e di tristezza.

    Le finestre di casa nostra erano sempre chiuse da doppi vetri e da tendaggi, per evitare la polvere e il chiasso che salivano dalla strada: il rumore assordante che proveniva dai minareti muniti di altoparlanti, il trambusto dei canti e delle danze delle feste nuziali e dei locali notturni, le sirene della polizia e dei vigili del fuoco.

    Quando ero piccola, domandavo a mia madre perché avesse sposato mio padre. Rispondeva: «Per amore, Magida». Non sapevo ancora cosa fosse l’amore tra un uomo e una donna. Osservavo il viso di mia madre mentre guardava mio padre, o quello di mio padre mentre guardava lei, cercando di cogliere una luce d’amore negli occhi dell’uno o dell’altra, ma invano, sempre invano. Non ho mai captato uno sguardo d’amore all’interno di casa nostra. Mi è toccato crescere per conoscere cose che mi erano ignote.

    Mio padre era silenzioso e, se parlava, era per raccontare qualcosa che riguardava la sua rubrica quotidiana al giornale, o il capo redattore, o il ministro, o il Capo dello Stato. Poteva capitare che commentasse le manifestazioni contro la guerra all’estero, la caduta del regime in Iraq o il problema della povertà in Egitto, in Sudan o in Etiopia.

    Mia madre era un’illustre professoressa come mio padre, forse gli era perfino superiore. Era direttrice del Dipartimento di critica letteraria all’università, aveva conseguito il suo dottorato con il massimo dei voti e aveva ricevuto il Gran Premio al Merito prima di mio padre. La sua fotografia, racchiusa in una cornice dorata, troneggiava nel suo studio. Mia madre si inchinava davanti al presidente della Repubblica in occasione della Festa della Letteratura e dell’Arte.

    Avevo quindici anni quando cominciai a rendermi conto di un aspetto segreto nel rapporto tra i miei genitori. Li sentivo litigare, di notte. All’inizio parlavano sottovoce, lentamente, quindi il flusso delle parole e il volume delle voci aumentavano gradualmente, accompagnati dal fracasso di oggetti che cadevano o dal rumore di schiaffi e calci. I battiti del mio cuore impazzivano mentre la lite si inaspriva. Il mio corpo si raggomitolava sotto le coperte, trattenevo il fiato per paura che mi sentissero e si accorgessero che ero sveglia.

    Portai quel pesante fardello sul cuore, anno dopo anno, per ventiquattro anni. Quel segreto che nessuno al mondo conosceva, che non potevo confidare a nessuno, perché, divulgandolo, avrei tradito i miei genitori.

    In pubblico esibivano una felicità assoluta, parlavano sui giornali o alla radio del loro matrimonio perfetto, del loro rapporto eccezionale, fondato sull’amore, sulla fiducia, sul rispetto e sulla cultura raffinata.

    Nascosi la verità come un tumore maligno che cresceva contro la mia volontà, mi costrinsi a comprimere le cellule del mio spirito. Dovetti ricorrere a un famoso psichiatra che era stato un compagno di scuola di mio padre. Pensavo che mi avrebbe guarito dalla nevrosi ma, proprio come i miei genitori, anche lui presentava due volti contraddittori. Aveva scritto dei libri sulla struttura del cervello e sui rapporti tra neurologia, intelletto e psiche e, al tempo stesso, soffriva di schizofrenia e di nevrastenia. Mi curava sia con le compresse che con l’amore e il sesso.

    Conseguii la mia laurea presso la facoltà di Lettere con una votazione passabile. Non mi piaceva la letteratura né la scrittura, preferivo la matematica e i numeri. Non ero portata per il cosiddetto immaginario letterario, senza dubbio per un senso di vendetta nei confronti dei miei genitori. Quanto al maestro che aveva predetto che sarei diventata una grande scrittrice, lo detestai fin dall’infanzia e volli dimenticare la sua profezia. Amavo la musica, la danza e il canto, ma le mie dita corte e tozze, tanto simili a quelle di mia madre, mi impedivano di suonare uno strumento. Il mio corpo era piccolo e tarchiato come il suo. Anche mio padre era basso di statura, ma era magro. Andava al club a giocare a golf. Lo vedevo camminare in lontananza, esile, la testa triangolare, il mento appuntito sotto le labbra piene, il labbro superiore più grosso di quello inferiore. Stirava le labbra quando era immerso nei suoi pensieri o quando guardava da dietro mia madre camminare.

    Nei miei sogni, sprofondata nell’incoscienza del sonno, mi appariva l’immagine di Zeina Bint Zeinat. Un’immagine che non mi abbandonò mai, fin dall’infanzia. Desideravo essere come lei, anche a costo di essere definita una bastarda.

    2

    La chiamavano l’Anatroccola. Portava scarpe dai tacchi a spillo e avanzava penosamente lungo i corridoi dell’università fino al suo studio, situato accanto a quello del preside. Ansimava un poco, il corpo basso e grassoccio oscillava leggermente sui tacchi alti. Il collo tozzo e paffuto sorreggeva una piccola testa quadrata, incorniciata da capelli neri dal taglio corto, non troppo folti, striati da qualche filo bianco abilmente nascosto da una sapiente tintura. Indossava un tailleur blu il cui colletto bianco faceva pensare a quello degli abiti delle ragazze nubili, prima della perdita della verginità.

    Sembrava prossima alla mezza età, ma non aveva toccato ancora quella che chiamano l’età critica. Suo marito Zakariyya al-Khartiti era più anziano di nove anni, tuttavia dimostrava un anno o due meno di lei, forse perché era un uomo e non una donna, la cui vita scorre più in fretta. Un uomo non ha niente nel corpo che indichi la verginità, non attende l’età del ciclo mestruale né quella della menopausa che precede la vecchiaia, non deve sopportare le gravidanze e i parti, non è oppresso dal peso della casa, dei figli e dall’onere di preservare la reputazione.  Niente infanga la fama di un uomo se non le tasche vuote, anche se frequenta le ragazze di vita nei bordelli.

    Fin dall’infanzia, Budur teneva molto alla sua reputazione. Sulle sue spalle pesava l’onore di una grande famiglia e quello di suo padre, il generale Ahmad al-Damhiri. Era ufficiale dell’esercito al momento dello scoppio della Rivoluzione. Non era tra i grandi leader, ma un legame di sangue lo univa a uno di loro. Ottenne l’incarico di Direttore generale o Segretario generale dell’Istituto della Nuova Cultura. Durante l’adolescenza, leggeva romanzi d’amore platonico e la sua immagine allo specchio ricordava la figura di Romeo. Scriveva poesie d’amore per la figlia dei vicini, sognava di diventare un poeta famoso o un grande romanziere. Quei sogni furono in parte trasmessi alla figlia Budur fin dall’infanzia. La bambina prendeva i libri della biblioteca del padre, il suo cuore batteva forte mentre leggeva a letto, prima di addormentarsi. Il suo Principe Azzurro le faceva visita di notte, faceva l’amore con lei sospingendola fino all’orgasmo. Il suo corpo addormentato sotto le coperte fremeva di quel piacere colpevole. Si risvegliava al mattino, le guance arrossate e gli occhi lucenti, si lavava nel bagno con acqua calda e sapone. Il suo corpo era purificato, ma il peccato le pesava ancora sul cuore.

    Poi venne l’incendio del Cairo, sei mesi prima che scoppiasse la Rivoluzione. Budur Ahmad al-Damhiri aveva appena conseguito la sua laurea in Letteratura e critica letteraria. Il suo corpo trasaliva di piacere quando la parola laurea le risuonava nell’orecchio, un piacere che somigliava stranamente a quello sessuale: lo stesso brivido scuoteva tutto il suo essere. In lei, corpo, mente e anima si scioglievano in un godimento unico, sfrenato. Il suo corpo piccolo e pingue tremolava sui tacchi alti, ma lei si sarebbe levata in aria, danzando, cantando e volando, se non fosse stato per la forza di gravità. La Terra la tratteneva con una potenza che non poteva vincere: i piedi restavano fissi al suolo, la voce si strozzava in gola. Suo padre, vedendola con le lacrime agli occhi, credeva che piangesse di gioia per aver conseguito la laurea. Il padre era all’oscuro di tutto riguardo a sua figlia.

    Nel profondo del cuore, Budur si sentiva triste, specialmente nei momenti di allegria, forse a causa del sovrappeso e della bassa statura, dei suoi occhi piccoli privi di scintillio, o forse della sua mente repressa nonostante il successo della laurea, o ancora del suo spirito imprigionato nella cella della letteratura.

    Si liberava soltanto nel sonno, quando mente, anima e corpo si addormentavano, come suo padre, sua madre e tutta la gente intorno a lei, quando Dio chiudeva il suo occhio vigile, quando ogni cosa sembrava fondersi con l’oscurità. Solo allora si svegliava una cellula segreta sepolta nel suo ventre, per farle presagire l’amore e il colpevole piacere dei sensi.

    Prima dell’incendio, ebbe luogo la grande manifestazione. Il padre aveva trasmesso alla figlia l’amor di patria. Le leggeva i suoi poemi pomposi, li recitava davanti ai colleghi ufficiali. Inneggiava alla morte per la patria, purché a immolarsi non dovesse essere lui né sua figlia. Era convinto di amare la patria, sicuro che sua figlia Budur fosse nata per lui e non per un altro uomo. La sua fede in Dio, negli angeli, nel Giorno del Giudizio e nel Demonio era altrettanto forte.

    Tutto questo era stato trasmesso a Budur fin dall’infanzia. A scuola, cantava gli inni patriottici con le altre bambine. All’età di sette anni, aveva cominciato a compiere le cinque preghiere quotidiane, a digiunare nel mese di Ramadan e a scacciare il Principe Azzurro dai sogni notturni e dalla sua mente.

    Budur riuscì dunque a controllare le manifestazioni del suo inconscio durante il sonno, a ridurle al silenzio. Superò suo padre nell’amore verso Dio e verso la patria. Entrò nel novero delle ragazze modello: la fede in Dio e l’amor di patria erano ben saldi nei loro cuori e scorrevano nelle loro vene dalla cima dei capelli alla punta dei piedi.

    Ma il sonno era più forte di lei, attirava il suo corpo come la forza di gravità, tranne la pianta del suo piede sinistro, dolce e delicata come quella di sua madre, che restava sveglia anche quando il mondo intero si abbandonava tra le braccia di Morfeo. Nel sonno, Budur sentiva qualcosa accarezzarle il piede sinistro. Allontanava la cosa con il piede destro, senza svegliarsi, pensando che fosse il dito del Diavolo venuto a sfidare la volontà di Dio, approfittando del sonno per solleticarla e spingerla verso il peccato.

    Si svegliava al mattino e si domandava: perché il piede sinistro? Poi ricordava ciò che diceva suo padre: durante la preghiera, il Diavolo si tiene sempre alla sinistra dei fedeli per spingerli a ribellarsi a Dio. D’altronde, i comunisti empi non erano forse gente di sinistra?

    Un piacere segreto si insinuava dalla pianta del piede alla gamba, saliva attraverso la coscia fino al ventre e al petto, ai piccoli seni simili a due germogli lievemente sporgenti, che le facevano male se il dito del Diavolo li schiacciava.

    Durante l’infanzia, credeva che Satana fosse un’anima senza corpo, come Dio. Una volta cresciuta, capì che Satana aveva un dito, e quindi un corpo completo in tutte le sue membra, strumento del Male con cui sfidava la volontà di Dio.

    All’età di undici anni, Budur vide il volto di Satana per la prima volta. Da bambina, aveva paura di aprire gli occhi nel sonno. Più grande, era sempre più posseduta da una curiosità istintiva e dal desiderio di vedere i lineamenti di Satana: il naso, la testa, la fronte, le orecchie, la bocca. Forse aveva sentito il suo alito sulla nuca mentre era sdraiata supina ma non aveva mai avuto il coraggio di aprire gli occhi per guardare.

    A undici anni, scoprì con stupore che il Diavolo aveva barba e baffi come gli anziani. Somigliava quasi ai suoi due nonni, il paterno e il materno, o al vecchio della casa accanto alla sua, o a quello del film La passione dei vecchi, che aveva visto al cinema l’anno precedente. Ciononostante, il sonno ebbe ragione di lei mentre lui le solleticava le piante dei piedi con il dito. Non rivelò nulla ai genitori, divenendo così complice di Satana nel peccato. Fingeva di dormire perché lui continuasse ad accarezzarla, nascondeva la testa sotto il cuscino, trattenendo il respiro, come morta. Incoraggiato dalla sua immobilità, Satana proseguiva risalendo fino alla cavità sepolta tra le pieghe di carne. Lei era inondata da un piacere privo di senso di colpa, giacché, fin da prima di godere, si era considerata come morta.

    Una notte, Satana scomparve per non tornare più. Budur immaginò che Dio gli avesse inflitto il castigo della morte, quindi venne a sapere dai genitori che il Diavolo era partito per Londra per sottoporsi a un’operazione alla prostata. Quella era una parola femminile. Non aveva idea di dove si trovasse la prostata nel corpo di Satana né perché Dio avesse creato un organo femminile in un corpo maschile. Satana non tornò più da Londra. Era morto lassù? Budur lo scacciò dai suoi sogni notturni. Passarono tre anni. Budur aveva quattordici anni: il Demonio era completamente sparito dalla sua memoria, anche se rimaneva vivo nella pianta del suo piede sinistro. La solleticava finché non si assopiva, raccontandole la storia del Prode Hassan e della Strega. Al mattino, compiva le abluzioni e si affidava a Dio per pregare. Satana non era più alla sua sinistra. Divenne una ragazza matura, pura, mondata dal peccato.

    Il giorno della manifestazione, Budur, che si era appena laureata, era una ragazza modello. La sua mente, il suo corpo e la sua anima erano colmi d’amore per Dio e per la patria, ma il suo cuore era oppresso da un pesante fardello. La carezza di Satana sulla sua pelle, così simile all’amore, aveva lasciato una traccia, e il suo cuore doveva accogliere al tempo stesso Dio, la Patria e Satana

    Quel giorno, Budur si trovava nella calca di migliaia di corpi: donne e uomini, ragazzi e bambini, provenienti dai dintorni, dai vicoli e dai grandi viali, da Bulaq, Imbaba e Bab al-Shairiyya, da Zamalek, Garden City, al-Maadi e Helwan. Operai, impiegati, contadini, ragazzi e ragazze, studenti delle scuole e delle università. I piedi nudi screpolati, le scarpe lucide di cuoio, le ciabatte e i sandali avanzavano con un unico passo.

    Budur marciava in mezzo alla folla, con le sue scarpe di cuoio di buona fattura, fondendo la sua energia con quella delle migliaia o dei milioni di persone che scandivano in uno stesso soffio: «Abbasso il re! Evviva l’Egitto libero!»

    La parola libero le restava in gola. Nonostante il movimento, il suo corpo si sentiva incatenato. Muoveva le gambe e le braccia per spezzare le catene, ma invano. La sua voce sembrava un urlo, le sue grida trattenute si mischiavano al tumulto della moltitudine. Le lacrime si mescolavano al sudore. I vestiti erano incollati alla pelle, sotto il maglione azzurro. Accanto a lei marciava Nassim, alto e slanciato, avanzando con passo fermo e deciso, gli occhi blu fissi davanti a sé. Non la guardò neppure una volta. Lei invece lo osservava di continuo con la coda dell’occhio. Il suo naso, di profilo, era pronunciato, le sue labbra serrate. Indossava un maglione grigio di lana ruvida, scolorito all’altezza dei gomiti. Il colletto della camicia bianca non

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1