Alien Silver - Albo 10 - Scritture aliene
By Marco Milani, Flavio Firmo, Elvira Scarpello and
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Alien Silver - Albo 10 - Scritture aliene - Marco Milani
AA.VV.
ALIEN SILVER
SCRITTURE
ALIENE
EDITRICE GDS
AA.VV. Alien Silver - albo 10 Scritture Aliene
EDITRICE GDS
Via Pozzo, 34
20069 Vaprio d’Adda (MI)
e-mail: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it
TUTTI I DIRITTI RISERVATI.
Il presente volume è frutto della fantasia degli Autori. Ogni riferimento a cose, luoghi, fatti e/o persone realmente esistenti e/o esistite è puramente casuale.
PICCOLA PATRIA
Flavio Firmo
La foresta iniziava subito dopo il fiume. Gli invasori dovevano aver programmato tutto con cura, concedendo alla razza umana un po' di natura nella quale rifugiarsi.
Attraversai il ponte, un pesce spiccò un piccolo balzo e si rituffò nell'acqua torbida. Sembrava volermi dire di non fare cazzate, ma non ho mai dato retta agli umani e non volevo certo iniziare a parlare con gli animali.
Dopo i primi rovi che si superavano solo con grande attenzione, c'era un sentiero di sabbia. Il mare distava almeno cinque chilometri, eppure il lungo incedere della spiaggia attraverso la foresta sembrava aver intrapreso una lotta per il predominio del territorio.
Avevo con me il pacco. Mi era costato fatica e impegno. L'ultimo proprietario non aveva neppure voluto incontrarmi di persona, l'aveva lasciato in un posto isolato e mi erano toccate più di due ore a piedi per andare a recuperarlo. Senza contare l'ansia e la paura di trovare un paio di intercettori ad aspettarmi.
Alla fine del sentiero spiccava una colata di cemento con dei tubi in ferro arrugginito, sembravano piantati da un gigante. Un tempo, prima dell'invasione, gli umani costruivano le loro abitazioni un po' dove capitava, in riva al mare, attorno ai fiumi. Gli invasori ebbero la bella idea di farci rivivere la storia attraverso le loro lezioni mentali e sono convinto che non ci abbiano nascosto nulla del nostro passato. Forse eravamo selvaggi destinati all'autodistruzione, forse lo stato di pace perenne in cui viviamo è la migliore condizione possibile. Forse sì, forse no. L'appuntamento con Rodrigo era per le cinque ed ero puntuale.
Appoggiai lo stivale sul bordo della colata di cemento. Non volevo dare l'impressione di uno che aspettasse da ore, ma neppure l'idea del ragazzino persosi nella foresta.
– Vedo che sei un ragazzo puntuale.
Mi voltai cercando di mantenere freddezza. Rodrigo mi aveva sorpreso alle spalle, silenzioso e invisibile: come sempre avevo fatto la figura del pivello. Mormorai qualche parola abbassando lo sguardo.
L'uomo aveva la barba nera, la testa calva e indossava una tuta verde. Molti in città vestivano con i colori dei gruppi di appartenenza pre-invasione. Verde per gli unionisti, rosso per i divisionisti, giallo per la fratellanza. Chi indossava il grigio o altri colori comunicava al mondo che non dava peso al passato e pensava solo al presente.
– Hai il pacco?
Strinsi le labbra, puntai lo sguardo alle sue spalle e vidi solo foresta. Slacciai i primi due bottoni della camicia, staccai il nastro isolante dalla pelle e appoggiai il pacchetto al suolo. C'era tutto.
– Non è stato facile. Quel tipo alla discarica non voleva saperne di darmi il nome e solo quando ha visto la placca che mi hai dato si è deciso a mollare. Ovviamente ha voluto tutto senza darmi certezze, ma mi sono fidato.
Rodrigo fissava il pacco come se in quella foresta non esistesse altro. Non sentiva la brezza marina che attraversava le foglie e scompigliava i capelli, non sentiva i lupi che ululavano oltre la vecchia fabbrica. Gli interessava solo il pacco. Anche i miei racconti sulla difficoltà e sul sacrificio personale erano parole inutili.
– Ti ha seguito qualcuno?
Se mi avessero seguito saremmo già diventati cenere fumante.
Gli invasori non avevano una rete di controllo, nessuno stato di polizia permanente. Per dirla tutta nessun essere umano aveva mai visto gli invasori. Si limitavano a governare il pianeta con il benessere e la pace pianificati.
Scossi la testa.
Si guardò attorno, prese il pacco e lo aprì. Conteneva quattro fiale trasparenti contenenti un liquido giallo. Sorrise, lo conoscevo da dieci anni e mai l’avevo visto così felice.
– Due sono per te e due per me. Domani ci troviamo al posto, entro prima io.
Alzai la mano. Conoscevo tutta la procedura, l’avevo imparata e ripetuta innumerevoli volte. Nelle settimane precedenti Rodrigo mi aveva costretto a recitarla come se fosse una canzone, non volevo ripetermi anche nella foresta.
– Senti Rodrigo, domani ci sarò. Porto i miei due pezzi e non temere che sia uno che si tira indietro. Quello che dovevi dire l’hai già detto, facciamo questa cosa e vediamo se servirà.
Mi guardò storto. Doveva fidarsi e non aveva alternative. Se fossi stato condizionato dagli invasori lo avrebbero eliminato e del suo piano non sarebbe rimasto che un ricordo custodito nella foresta. Presi le mie fiale, le infilai sotto la camicia, salutai con un cenno del mento e me ne andai.
Vivevo da solo e per questo motivo ero esposto a un livello di controllo superiore. Ai tempi dell’invasione avevo solo dieci anni, ma il ricordo era ancora vivo. Il cielo venne oscurato da una nube grigia e densa, mio padre accese il televisore, ma tutte le trasmissioni erano cadute. Per due ore osservai dalla finestra i vicini che uscivano dalle case e puntavano le mani verso il cielo.
Durò solo due ore, ma occorsero più di sei mesi per dare una spiegazione plausibile a quanto era successo. Tutte le persone, uomini e donne che detenevano una pur minima porzione di potere, erano state sterminate. Presidenti, dittatori, consiglieri dei più piccoli municipi: nessuno era sopravvissuto. Il mondo era popolato soltanto da gente comune. Chiunque provava a ergersi come leader di un gruppo veniva colto da uno spasmo e stramazzava al suolo privo di vita.
Furono le supposizioni e i tentativi a fornire la spiegazione che ancor oggi è ritenuta attendibile. Una popolazione aliena aveva invaso il pianeta e, attraverso una misteriosa forma di controllo, ci governava alla stregua di cavie.
Ogni persona aveva più di quanto potesse servirle per vivere. Cibo, abitazione, rapporti sociali soddisfacenti. Il lavoro era diventato una sorta di passatempo, anche chi trascorreva le giornate senza muovere un dito trovava di che nutrirsi. Loro provvedevano a tutto.
Mi allungai sul letto con le due fiale di Astrolite. Sapevo che non erano pericolose. Rodrigo mi aveva spiegato che serviva un componente aggiuntivo, ma ero comunque preoccupato. Non tanto per il rischio di esplodere e fare un botto che sarebbe passato alla storia, quanto per il timore di venire scoperto dagli invasori.
Per tutta la serata provai a mantenere un comportamento normale. Scolai un paio di birre al pub, scambiai due battute con una ragazza e le promisi che ci saremmo risentiti. Trascorsi qualche ora sui social e compilai un questionario per l’ammissione alla facoltà di Lettere.
A mezzanotte mi addormentai.
Rodrigo era già al suo posto, impettito davanti all’ingresso del municipio. Per ragioni dettate dalla praticità gli invasori lasciavano che le questioni burocratiche venissero organizzate dagli umani negli uffici e nelle strutture di sempre, ma non tolleravano che ci fosse qualcuno che potesse comandare su altre persone.
Più di una volta avevo discusso con Rodrigo sulla qualità del benessere donatoci dagli invasori.
– Non ci manca nulla. Davvero vuoi tornare al tempo dei governi e delle guerre fra le nazioni?
Lui aveva cinquantasette anni e poteva dire a ragione di conoscere tutta l’atmosfera che si respirava prima dell’invasione. Io non sapevo nulla di guerra, di pace, di lotte e di fame. Lui sì.
– Il pianeta è degli uomini, – iniziava i suoi sermoni sempre con questa frase. – Questi invasori non si fanno neppure vedere, ci governano e ci dicono come vivere, ma noi non li conosciamo. Odio non poter combattere il mio nemico. Perché anche se ci danno pace e cibo rimangono nemici. Sono arrivati senza neppure presentarsi e hanno sterminato trenta milioni di persone, ti sembra poco? Anche se governanti erano pur sempre nostri, li avevamo scelti noi. Questi invasori invece arrivano e pretendono di imporci la pace come se fosse la sola forma di sopravvivenza possibile. Io mi ribello!
Lo vedevo all’interno del municipio con le mani sulle ginocchia e un sacchetto di carta fra le scarpe. Conteneva l’accelerante, almeno le sue dosi, l’avrebbe lasciato sotto la sedia. Il piano era semplice, troppo semplice e contavamo sul fatto che gli invasori non ci avrebbero intercettato.
– Con questo attentato scuoteremo le coscienze. La gente di Donostia uscirà dal torpore, ci saranno proteste e altri attentati. Gli invasori controllano il sopruso dell’uomo sull’uomo, ma non hanno messo in conto il nostro progetto.
Quando però gli domandavo in cosa consistesse il nostro progetto rimaneva sul vago. Parlava di una nuova società basata sulla parità dei diritti, chiusa e impermeabile ai collaborazionisti.
– La nostra nuova patria vivrà senza sottostare al controllo degli invasori. Se vorranno venire a patti dovranno mostrarsi.
A quel punto iniziava a disegnare strutture di governo egualitario, autosufficienza alimentare e tanti concetti che faticavo a seguire. Io ci stavo perché odiavo ogni forma di controllo e la sola idea di far saltare in aria una costruzione con degli esseri umani all’interno mi donava una strana euforia.
Entrai e Rodrigo si alzò. Con due movimenti ben sincronizzati mi trovai seduto al suo posto con la busta di carta marrone fra i piedi. Guardai all’interno e vidi due blocchi gelatinosi. Avevamo già fatto le prove con delle parti infinitesimali e l’esito dell’esplosione era stato impressionante. Tra le fiale che avevo in tasca e l’accelerante c’era abbastanza materiale per far saltare l’intero isolato. Rodrigo non scherzava, il botto avrebbe fatto parecchio rumore.
Il piano stava procedendo bene, senza intoppi. Nella sala c’erano almeno quaranta persone sedute, ma in tutto l’edificio si contavano almeno un centinaio di impiegati. Considerando il raggio dell’esplosione le perdite umane sarebbero state vicine al migliaio.
– Forse entrerà un controllore.
Rodrigo aveva provato e riprovato il percorso e sapeva che i controllori giravano con una frequenza quasi impossibile da prevedere. L’algoritmo di Chokhan era l’unica forma di comunicazione che gli invasori si erano degnati di fornire. Dopo tre mesi dall’invasione alcuni uomini iniziarono a costruire dei robot dalla forma circolare, alti meno di cinque centimetri. Furono chiamati i controllori, setacciavano il pianeta metodicamente, come se fossero guidati da un’entità superiore. Gli scienziati riuscirono a decodificare il percorso di quei robot e scrissero quello che era conosciuto come algoritmo di Chokhan
. Peccato che per risolvere l’algoritmo e prevederne il tragitto era necessaria un’intelligenza matematica e una precisione di calcolo che gli umani non possedevano.
– Controllore, – disse una voce alle mie spalle. Non era Rodrigo ma un signore stempiato con un biglietto bianco tra le dita. Lo guardai cercando nei suoi occhi un barlume di paura e non vidi che tranquillità.
Il controllore percorse il pavimento molto lentamente. Si fermava davanti alle persone come un cane che annusa il piscio degli altri cani. Mi metteva ansia, cercai di contenere le mie emozioni. I controllori hanno il solo compito di stimolare endorfine umane che poi gli invasori riescono a decifrare. Questa almeno la spiegazione data dagli scienziati.
Rallentai il respiro e pensai al mare. Aveva sempre il potere di calmarmi. Il controllore mi passò accanto e annusò. Le altre persone non sembravano preoccupate, ma vivevano quell’intrusione come un fatto normale. Come quando una mosca entra nella tua stanza, si fa un paio di giri ed esce senza neppure posarsi.
Ero sicuro che, scampato il pericolo del controllore, tutto il piano si sarebbe svolto senza intoppi. Infilai le fiale all’interno della borsa e le ruppi con la pressione delle scarpe. Il liquido penetrò nella gelatina e mi parve che la stesse ingravidando per creare il nuovo mondo.
Rodrigo, seduto a dieci metri da me, stava compiendo lo stesso magico rituale. Quattro fiale stavano per scatenare il più grande attentato da quando eravamo stati invasi.
Per la detonazione sarebbero occorsi venti minuti, avevo tutto il tempo di alzarmi e lasciare la sala fingendo di dimenticare la borsa. Questa parte del piano mi aveva sempre lasciato dubbioso.
– E se poi qualcuno pensa male e chiama il controllore?
Rodrigo scosse la testa e alzò l’indice come un vecchio predicatore.
– Amico mio. Ormai la gente è talmente abituata a questo senso di pace e perfezione che non farà mai caso a due borse abbandonate. Penseranno a una distrazione e lasceranno tutto al suo posto. La gente non ama i cambiamenti, se gli riempi lo stomaco finisci anche per stordirli. Gli invasori lo sapevano, ecco perché hanno sterminato ogni forma di potere. Ci nutrono come animali da compagnia e ci studiano. Sono sicuro che siamo parte di un enorme esperimento, oppure siamo come gatti grassi che dormono sulla coperta.
Mi piaceva il suo modo di riempire i concetti di immagini.
– Io voglio che quei gatti si ribellino e tornino randagi.
Lasciai la borsa sotto la sedia, i gatti randagi nella testa. Attraversai la sala con la sensazione di mille occhi puntati addosso e arrivai sul marciapiede. Rodrigo mi raggiunse dopo pochi secondi. Guardammo i pacchi rimasti all’interno del municipio e dovetti resistere alla voglia di abbracciare l’amico.
– Oggi inizia la nostra Patria, –