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L'avvocato dei morti
L'avvocato dei morti
L'avvocato dei morti
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L'avvocato dei morti

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"L'avvocato dei morti" è lo pseudonimo pungente che alcuni giornalisti hanno attribuito al legale Palmdale, uno dei più discussi penalisti di Chicago, dopo che un serial killer ha cominciato a decimare i suoi ex clienti dal passato scabroso.

La polizia non riesce a fermare questa serie di delitti, né a capire il motivo dell'accanimento proprio sui vecchi assistiti del legale.

A condurre le indagini è il tenente John Valzer, agente esperto della sezione omicidi che, tra estenuanti turni di lavoro e un rapporto precario con la moglie, riesce finalmente a dare un volto al serial killer, contro cui intraprende una battaglia sempre più violenta.

John scopre che il colpevole è il sicario di un mandante ben più pericoloso e, suo malgrado, da poliziotto fedele alle regole dovrà fare i conti con quel genere di giustizia distorta perpetuata dall'assassino, quella stessa giustizia che aveva tentato anche lui più volte nei suoi lunghi anni di servizio ma che aveva sotterrato nella mente solo per coscienza.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 7, 2019
ISBN9788827859544
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    L'avvocato dei morti - Roberto Iuppa

    1

    Il suv rallentò notevolmente la sua corsa, inserendosi quasi con riguardo nel sentiero sterrato che conduceva al lago, schiacciando con un moderato fragore il poco ghiaino sotto di sé. I poliziotti intenti a trattenere la curiosità della folla si scansarono, consentendogli avanzare di qualche altro metro, nello spiazzo dove stavano alcune autopattuglie e un furgone scuro del coroner dai portelloni spalancati. Là si fermò, pur mantenendo le luci sul tetto a riflettersi con ritmo incessante, e l’uomo accanto al guidatore smontò, chiudendosi il cappotto marrone e osservando intorno a sé. I folti alberi stavano diventando sempre più rossicci e parecchie foglie stavano già ricoprendo il terreno umido, mentre il lago Michigan innanzi rifletteva sulla superficie tremolante il grigio del cielo di metà autunno. Quel paesaggio nella sua calma era ignorato dalla moltitudine di persone presenti alle otto del mattino, ammassate in poche decine di metri, tutte con lo sguardo rivolto verso il corpo disteso, coperto da un lenzuolo bianco, immobile ad appena qualche passo dallo specchio d’acqua. La sua aria inanimata aveva inevitabilmente attirato l’attenzione di un numero sempre maggiore di persone, accorse spontaneamente o per dovere d’indagine e di cronaca, che nemmeno il freddo riusciva a dissipare.

    «Odio questo lavoro.» mormorò tra sé l’uomo col cappotto marrone, sbuffando con rassegnazione e incamminandosi nell’erba rada inumidita dalla rugiada.

    Era il tenente John Valzer, della sezione omicidi della polizia di Chicago, distretto ventisettesimo. Stava uscendo di casa quando lo avevano chiamato per avvisarlo del cadavere, e un collega di servizio in zona lo aveva prelevato per raggiungere rapidamente il luogo del ritrovamento. John non era rimasto minimamente scosso da quella notizia, tant’è che nel corso del tragitto non vi aveva pensato quasi per niente, eccetto che per vaghe congetture sul catturarne il responsabile. L’interminabile serie di delitti con cui aveva avuto a che fare nel corso della carriera lo avevano messo a dura prova e, sebbene la dedizione agli incarichi non ne era stata intaccata, l’entusiasmo al contrario ne era stato inevitabilmente distrutto, indurendogli l’animo e facendogli sviluppare una sorta di distacco ai limiti del cinismo.

    Era divenuto abbastanza taciturno e non parlava mai più del dovuto, né con i colleghi né con sua moglie e, nei rari momenti che trascorreva a casa, cercava di dimenticare almeno in parte ciò che aveva visto o sentito al lavoro, fingendo di essere un marito esemplare e affettuoso come nei suoi primi anni di matrimonio.

    Ora però che era a pochi metri dal cadavere fu costretto a concentrarsi su quell’ennesimo delitto, avanzando con riluttanza a passi lenti e dando le spalle a curiosi e giornalisti che sgomitavano per accaparrarsi quanto prima il servizio sull’accaduto. Un agente di guardia sollevò leggermente il filo giallo che cingeva la parte riservata esclusivamente alla polizia, facendo un saluto a John mentre lo oltrepassava. Lì c’erano soltanto alcuni silenziosi colleghi della scientifica, bardati delle proprie tute di carta, che con i loro strumenti analizzavano meticolosamente gli scarni indizi, nella speranza di estrarne qualcosa di utile. John non osò disturbarli con domande premature, preferendo invece avvicinarsi al medico legale, che appena lo vide troncò la sua conversazione con un poliziotto e gli andò incontro.

    «Buongiorno tenente.» disse, stentando un sorriso cordiale.

    «Non direi che è un buongiorno, a giudicare da questo.» replicò seccato John «Dimmi tutto Frank.»

    «Certamente.» fece l’uomo, chinandosi sul lenzuolo bianco e scoprendone per metà il corpo celato al di sotto «La vittima è stata uccisa per strangolamento, e a giudicare dai segni lasciati sul collo azzardo che si tratta di un cavo robusto, acciaio zincato credo, come nell’omicidio di agosto a Roseland.»

    «Ora del decesso?»

    «Presumo tra le ventidue e le ventitré di ieri, ma lo sapremo con certezza dopo l’autopsia.»

    «Chi era la vittima?»

    «Si chiamava Elliott Hadhung.» intervenne il poliziotto accanto, leggendo da un documento racchiuso in un sacchetto «Trentaquattro anni, sposato, professione operaio. Da ricerche al computer risulta accusato di aggressione nel 2012, ma è stato prosciolto nel 2014.»

    John prese dalla tasca un pacchetto di chewing-gum alla nicotina, che usava per reprimere la sua voglia di fumare, e ne mise uno in bocca, masticando sommessamente senza togliere lo sguardo dal cadavere.

    «Sentiamo, chi è stato a scoprirlo?» chiese con freddezza.

    «Quei passanti laggiù.» spiegò il poliziotto, indicando due persone oltre il filo che venivano interrogati da altrettanti agenti.

    «La dinamica dell’omicidio?»

    «Vittima inseguita dall’aggressore, colluttazione e poi morte.» continuò Frank «Anche qui non cambia molto dall’omicidio di Roseland. Magari è lo stesso colpevole, o si tratta di un’emulazione.»

    «Forse, solo che allora successe dentro l’ufficio della vittima, e senza doversi rincorrere.»

    «Comunque dev’essere piuttosto robusto l’assassino, per avere avuto la meglio su questo pezzo d’uomo.» suggerì il medico, ricoprendo la salma e rialzandosi.

    «Ci sono indizi più specifici su questo aggressore?»

    «No signore.» rispose l’altro poliziotto «La… la moglie di questo Hadhung non è stata ancora avvertita. Vuole che ce ne occupiamo?»

    «Me ne occupo io. Dove abitava questo Hadhung?»

    «Ecco l’indirizzo.» disse l’agente, mostrando il documento del defunto a John.

    Questi annuì, dando un’ultima occhiata al lenzuolo bianco, e salutando con un cenno della mano si allontanò, uscendo di nuovo dalla zona circoscritta dal filo. Appena fuori da quel perimetro un gruppo di giornalisti, noncurante dei moniti decisi degli agenti, alla fine riuscì ad avventarsi su di lui, accanendosi con telecamere e microfoni. John non li sopportava per niente, perché ogni volta che aveva a che fare con loro si rivelavano piuttosto invadenti, confondendo la sua disponibilità con la condiscendenza, e sfociando anche nell’insolenza pur di carpire le notizie. I vertici della polizia con ripetute raccomandazioni premevano per una cordiale collaborazione, pur rispettando i confini delle regole d’indagine, e limitandosi a provare in segreto l’inevitabile antipatia che suscitavano.

    «Chi era la vittima?» chiese un giovane inviato, sgomitando tra la calca.

    «Il nome verrà reso noto tra non molto.» confermò John, tentando di scansarli.

    «È vero che è la stessa dinamica di Roseland dell’estate scorsa?»

    «Sono state riscontrate delle analogie in effetti.»

    «Potrebbero esserci collegamenti tra i due fatti?»

    «Questo è davvero presto per affermarlo.» replicò irritato John, che con sforzo aveva raggiunto il suo veicolo «Ora se volete scusarmi…»

    Senza dire altro salì a bordo e l’agente alla guida subito mise in moto, facendo lentamente retromarcia per permettere alla folla di spostarsi agevolmente, e tornato sulla strada asfaltata lasciò il luogo del delitto a velocità più sostenuta.

    «Andiamo in centrale?» chiese svoltando in una via laterale.

    «Più tardi Daniel, ora andiamo dalla moglie di Hadhung.» rispose John, premendo l’interruttore per spegnere le luci sul tettuccio e impostando il navigatore con l’indirizzo della persona uccisa.

    Mentre procedevano consultò il computer di bordo per scoprire ulteriori dati sulla vittima, una prassi che faceva sempre, specialmente quando si accollava di avvisare i familiari sulla scomparsa di un loro parente, e ciò che ottenne di nuovo fu il nome della moglie, che figurava nella scheda del marito assieme al domicilio. John lo tenne a mente, così da essere meno impacciato e formale nel comunicarle la tragica notizia, ma per il resto del tempo cercò di non pensarvi, limitandosi a guardare passivamente fuori dal finestrino. Il suv filava rapido sulla grande strada che riconduceva in città, animata sempre più dall’incrollabile traffico di veicoli che sfrecciavano in direzioni solitarie, o a rilento in lunghe code nelle arterie principali con la rassegnazione che quel ritmo sarebbe rimasto invariato fino ai prossimi svincoli. Quel trambusto si ripeteva anche tra i diversi quartieri, con il viavai di persone che, spronate dal dovere, affollavano i marciapiedi con andature inquiete per recarsi al lavoro o a scuola.

    Quando John ne ebbe abbastanza di osservare le vie intasate si concentrò sul suo riflesso sul finestrino, che mostrava traslucido la serietà di un volto che aveva da poco passato i quarant’anni.

    Nella mente aveva ancora bene impresso il giorno del giuramento, tanto tempo prima, e dell’orgoglio che avevano provato i suoi genitori per essersi arruolato nella polizia.

    Dopo essersi formato il carattere per anni come agente di pattuglia ebbe la possibilità di entrare a far parte della sezione omicidi, ma da allora gli impegni e lo stress si erano notevolmente moltiplicati. Non passava giorno in cui John si chiedeva se ne valesse la pena in rapporto al rischio di rimanere uccisi, allo stipendio inadeguato e, soprattutto, a rovinare l’umore di gente sconosciuta per notificarle la scomparsa prematura di una persona cara. Fu l’agente alla guida del suv a riportarlo al presente, circa mezz’ora più tardi, una volta raggiunta la strada interessata. Insistendo ad avanzare lungo di essa accostò accanto al marciapiede, proprio davanti al civico interessato, e lì spense il motore, rimanendo in silenzio ad aspettare che John fosse pronto per uscire. Questi sputò il chewing-gum masticato in un fazzoletto appallottolato e scese, scrutando la modesta abitazione che trovò innanzi, da cui proveniva un velato odore di pancake appena sfornati.

    Tra le tende della finestra della cucina scorse una giovane donna intenta a preparare la colazione con fare spensierato, momentaneamente lontana dall’angoscia per il marito scomparso, e ancora inconsapevole per il terribile annuncio che stava per ricevere. Con un profondo sospiro John percorse il vialetto del giardino, sentendo il battito del cuore acceleragli involontariamente. Di tutte le mansioni che era costretto nel lavoro ciò che si apprestava a fare era a suo parere la più ingrata, seconda nemmeno allo sparare ai criminali in servizio.

    Giunto all’ingresso John suonò al campanello e, facendo un rapido passo indietro, vide dalla finestra la donna sparire dalla cucina e apparire qualche istante dopo davanti a lui, spalancando la porta.

    «La signora Hadhung?» domandò John.

    «Sì.» rispose lei, vagamente spaventata.

    «Tenente Valzer, polizia di Chicago.» si presentò l’uomo, esibendo il distintivo.

    «Ha notizie di mio marito per caso? Ha il cellulare spento e non riesco a contattarlo, sto cominciando a preoccuparmi.»

    «Purtroppo non sono buone notizie. Sono spiacente d’informarla che suo marito è stato ucciso.»

    La donna rimase ammutolita, scuotendo nervosamente la testa quasi volesse negare a se stessa ciò che era accaduto, ma rassegnata alla fine abbassò lo sguardo e d’impeto iniziò a piangere disperatamente. In quel momento delicato John preferì lasciarla sfogare, attendendo che riprendesse un po’ di lucidità per poterle chiedere altro, pur manifestando un’impassibilità per la sua reazione.

    «Non posso crederci!» esclamò la donna, facendogli a malapena cenno di entrare e richiudendo in seguito la porta.

    John la accompagnò in salotto, restando in piedi a osservarla gettarsi sul divano con le lacrime che tornavano a rigarle il volto.

    «Lo abbiamo rinvenuto stamattina, nei pressi del lago all’altezza di Rogers Park.» proseguì lui, avvicinandosi di pochi passi «Comprendo che non è il momento adeguato, ma devo farle alcune domande sul conto di suo marito.»

    «Fortuna che i suoi non ci sono più, una notizia del genere li avrebbe di certo uccisi!» strillò la donna, asciugandosi il viso con la manica del maglioncino «Ma, quando è successo?»

    «Credo ieri sera sul tardi, stando ai primi rilievi.»

    «Non ci voglio pensare, no!»

    «Forse vuole bere qualcosa, per alleggerire lo shock?»

    «Sì, forse è meglio.» convenne la donna, singhiozzando e rialzandosi «Andiamo di là.»

    Condusse il tenente in cucina, invitandolo ad accomodarsi, poi frugò freneticamente da uno scaffale e scantonando via alcuni barattoli e scatole prese una bottiglia di whisky. Con la mano tremante ne versò in una tazza, bevendo a più sorsi e riacquistando un po’ di calma.

    «Va meglio?» le chiese John, occupando una sedia del tavolo.

    «Per così dire.» replicò la donna, posando rumorosamente la tazza svuotata sul lavello «Vuole dei pancake, o che le prepari un caffè?»

    «No, la ringrazio.»

    «Come… come è morto Elliott?»

    «È stato strangolato.»

    La donna riabbassò nuovamente lo sguardo, tenendosi appoggiata al ripiano e sforzandosi per non dare in escandescenza.

    «Ma com’è possibile?» mormorò tra sé «Chi diamine può aver fatto una cosa del genere!?»

    «Innanzitutto, come mai suo marito era così lontano da casa?» insisté John.

    «Avevamo litigato, non era una cosa infrequente per noi. Quando succedeva lui prendeva la metropolitana e se ne andava in giro, a bazzicare in qualche bar o a farsi una passeggiata per sbollire, soprattutto verso Rogers Park. Come ho già accennato però non era mai stato via così a lungo.»

    «Lei sa se suo marito aveva qualche nemico?»

    «No, no. Mio marito era una persona pacifica, che andava d’accordo con tutti, mai avuto problemi con nessuno.»

    «Proprio con nessuno non direi, sapeva che aveva dei precedenti per aggressione?»

    «Sì, me ne ha parlato, un fatto che successe poco prima che ci sposammo. Ma è stato assolto, il processo terminò qualche anno fa.»

    «Chi era la parte lesa del processo?»

    «Una studentessa di college.» rispose la donna «So cosa sta pensando, ma mio marito era innocente.»

    «Non spetta a me giudicare. Quello che voglio sapere è se, vista la situazione, qualcuno magari abbia voluto vendicarsi dell’assoluzione di suo marito.»

    «A parte l’aula di tribunale non abbiamo mai avuto a che fare né con quella ragazza, né con i suoi familiari, comunque dopo il processo ci siamo trasferiti in questo quartiere. Anche se Elliott era stato assolto i nostri rapporti con i vecchi vicini non furono più gli stessi. Il loro modo di fare, come ci guardavano… è stato meglio andarsene.»

    «Per ora basta così.» concluse John, rialzandosi «Devo chiederle di tenersi a disposizione, per eventuali altre domande.»

    «Sì, certo.»

    «Inoltre, devo chiederle di presentarsi oggi pomeriggio all’obitorio per il riconoscimento della salma, credo la chiameranno tra non molto per darle le informazioni esatte. Si tratta soltanto di una formalità, ma è necessario che si presenti almeno un parente, lei capisce.»

    La donna annuì rassegnata, sospirando profondamente, e destandosi dal suo stordimento accompagnò il tenente all’ingresso, salutandolo e richiudendo di nuovo la porta dietro di lui. In silenzio John ripercorse a ritroso il vialetto, vagamente alleggerito per la scomoda incombenza appena compiuta, e tornando in breve al suv dove l’altro agente stava aspettando pazientemente.

    «E anche questa è fatta.» disse, risalendo a bordo.

    «Hai scoperto qualcosa d’importante?» domandò il collega, mettendo in moto.

    «È presto per dirlo. Ora sarà meglio recarsi alla centrale.»

    «Sì certo.»

    Mentre partivano John osservò ancora la casa, insistendo a immaginarsi lo stato d’animo della donna ma, allo stesso tempo, cominciando a elucubrare alcune teorie su chi avesse potuto commettere l’omicidio. Questo lo aiutava anche a distrarsi dalla monotonia del tragitto, lasciando all’agente che lo accompagnava l’incombenza di prestare attenzione lungo le strade. I monumenti che s’intravedevano in giro per la città, gli imponenti grattacieli e soprattutto gli spettacolari ponti sul fiume che si aprivano per far passare le navi di certo attraevano i forestieri e i turisti, ma per John erano soltanto lo sfondo della consueta routine, infatti si ridestò dalle sue congetture solo quando vide i due alberi malandati che introducevano il viale del distretto. Questo era un vecchio palazzo di pietra, col tetto in bronzo usurato dalla pioggia e dal sole, che lo stato aveva messo a disposizione della polizia e ristrutturato per l’occorrenza delle sue particolari esigenze. Il suv accostò brevemente allato del marciapiede, permettendo a John di scendere, dopodiché proseguì sparendo nella rampa dietro l’edificio per scendere nel parcheggio interrato. John salì rapidamente le scale che conducevano all’ingresso, varcando il portone e facendo un cenno all’agente annoiato nella guardiola dell’atrio, che ricambiò allo stesso modo. Si avvicinò agli ascensori, chiamandone uno che arrivò quasi subito, ed entrandovi schiacciò il tasto del terzo piano, riservato esclusivamente alla sezione omicidi. Appena vi giunse girò per il corridoio e fece la sua comparsa nell’ampia sala animata dal solito chiasso dei colleghi, intenti a discutere vivacemente per scambiarsi informazioni sui casi assegnati o seduti alle scrivanie a parlare al telefono. Salutando frettolosamente quelli di cui incrociò lo sguardo si diresse alla sua postazione, quasi a ridosso della parete in fondo. Lì dentro l’aria era sempre calda, così per prima cosa si tolse il cappotto, che collocò sul piolo dell’attaccapanni accanto, e si raddrizzò la fondina della pistola che teneva agganciata alla cintura. Soppresse uno sbadiglio, celando la stanchezza per essersi alzato presto, quando un giovane collega si avvicinò a lui.

    «Buongiorno tenente.» esordì con tono amichevole.

    «Come va David?» disse John, accennando un sorriso.

    «Il capitano Edmond le vuole parlare, è per l’omicidio nei pressi del lago.»

    John acconsentì, volgendosi verso la stanza appartata in fondo alla sala, dove stava l’ufficio del suo superiore e, attraverso le pareti di vetro, lo intravide intento a leggere dei documenti.

    Facendosi largo tra i colleghi si preoccupò di raggiungerlo, bussando per formalità all’uscio prima di entrare, ma senza il bisogno di aspettare il relativo invito. Richiuse la porta, avanzando fino alla scrivania dietro la quale stava accomodato il capitano, che posati i fogli si mise a fissarlo.

    «Mi voleva vedere signore?» chiese gentilmente John.

    «È per l’omicidio di quel Hadhung.» ribadì l’uomo «Ho sentito che Daniel ha contattato te per andare a vedere com’era la situazione.»

    «Sì, e Frank era già sul posto.»

    «I particolari della morte me li hanno già riferiti, così del fatto che sei stato tu ad avvisare la moglie della vittima.»

    «È vero. Ne ho approfittato per raccogliere alcune informazioni, da qualche parte si dovrà pur cominciare.»

    «Vedo che non hai perso tempo, mi fa piacere.» replicò il capitano in modo sarcastico «Va bene, se proprio ci tieni a occuparti di questo caso…»

    «Grazie signore.» rispose John, con un mezzo sorriso «C’è altro?»

    «No, mettiti pure al lavoro.»

    John si congedò con un piccolo inchino del capo, uscendo dalla stanza e lasciando il capitano a concentrarsi nuovamente sui suoi documenti. Erano anni che aveva fatto l’abitudine al modo di fare di Edmond, i cui discorsi poco prolissi in realtà mal celavano una volontà di conoscere in modo immediato ogni mossa dei suoi sottoposti, senza giri di parole da lui giudicati sempre inutili. John apprezzava quel modo di fare, ma come i colleghi si ravvedeva bene dal discuterci nei suoi momenti di collera, che non mancavano mai quando i casi andavano a rilento o precipitavano in rovinose sconfitte. Tornato alla sua postazione John tirò la sedia a ruote da sotto la scrivania e si sedette, accendendo il computer e allentandosi la cravatta che gli stringeva troppo. Nell’attesa che caricasse il sistema operativo aprì un cassetto, prendendo il notes e una penna, e iniziò a scrivere le teorie sull’omicidio che si era immaginato venendo al distretto.

    Aveva constatato di persona lo sconvolgimento della moglie di Hadhung nel sapere la sua perdita, ma l’intuito lo spingeva a dubitare della mancanza di collegamento con il processo che aveva subito per aggressione alla ragazza del college.

    Quando terminò la stesura consultò il computer, ticchettando sulla tastiera il nome della vedova, dal momento che una delle sue ipotesi vedeva la donna come probabile colpevole, magari spinta dalla vergogna per le accuse che erano state rivolte al marito. Era bizzarro e allo stesso tempo possibile, ma presto perse parte della credibilità poiché eccetto i dati sensibili non appariva nessun reato ascritto nella sua fedina penale.

    John decise di accantonarla, almeno temporaneamente, anche perché gli tornò in mente che l’assassino doveva essere piuttosto robusto, così indirizzò l’attenzione sul processo a carico dell’uomo.

    «Vediamo un po’…» mormorò tra sé, leggendo le notizie salienti sullo schermo «Accusa di aggressione, vittima Anna Sewranset, studentessa di medicina. Denuncia sporta dal padre, Henry Sewranset. Inizio della causa nel 2012, fine della causa 2014. Assolto a formula piena da tutte le accuse, avvocato della difesa Palmdale…»

    John rimase sbigottito nel constatare il nome di quel legale, che era uno dei più rinomati di tutta la città, motivo per cui le sue parcelle se le potevano permettere in pochi. Non riuscì a fare a meno di chiedersi come mai Hadhung, se fosse stato davvero innocente per l’accaduto al college, si fosse procurato un avvocato del calibro di Palmdale e, accanto la teoria che a commettere l’assassinio potesse essere stato un parente della ragazza, ve ne aggiunse una nuova, ossia che l’uomo potesse essere stato ucciso da qualcuno al quale doveva una grossa somma di denaro. Una tesi complicata da accertare, in quanto avrebbe dovuto chiedere il permesso per esaminare i conti della vittima e verificare le eventuali anomalie dei movimenti. John prese la cornetta del telefono, digitando il numero del giudice a cui si appoggiava il distretto, e passarono solo alcuni squilli prima di ottenere risposta.

    «Buongiorno.» esordì la voce del segretario dall’altra parte.

    «Sono il tenente Valzer, mi passi il principale per favore.»

    «Subito tenente.»

    John attese qualche breve momento, prima che l’uomo si facesse sentire.

    «Sì?» fece questi «A che debbo questa chiamata tenente?»

    «Buongiorno signor giudice.» salutò John «È riguardo l’omicidio di Elliott Hadhung, l’operaio ritrovato stamane al lago.»

    «Sì, me ne hanno già riferito diversi direttori di giornale.»

    «Ecco, siccome sono io a seguire il caso credo sia opportuno vagliare sui conti di Hadhung. Ho appena scoperto che nel processo che lo coinvolse fu difeso dall’avvocato Palmdale.»

    «Palmdale?» ripeté sorpreso il procuratore «E come diamine è riuscito a pagare quel milionario, con i mattoni?»

    «Il mio dubbio preme proprio su questo.»

    «Ho capito, sospetta un regolamento di conti dall’ambiente dell’usura.»

    «Esattamente. Posso sperare allora per l’autorizzazione?»

    «Gliela farò avere nel giro delle prossime quarant’otto ore. A presto risentirci.»

    «Salve di nuovo.» disse John, chiudendo la telefonata.

    Era rimasto perplesso dalla conversazione con il giudice, aspettandosi qualcosa di più preciso che la solita liquidazione generica che, a seconda dell’umore, a volte si traduceva in un permesso concesso molto in ritardo rispetto al termine garantito. John sapeva che glielo avrebbe potuto accordare molto prima, se solo si fosse scrollato un minimo dalla recita allusiva del gioco dei ruoli, e quell’attesa in un caso del genere non lo aiutava. Non volendo perdere tempo, John decise di concentrarsi sull’altra ipotesi redatta nel notes. Nella sua carriera gli era capitato diverse volte di vedere padri rispettabili che compromettevano irreversibilmente la propria libertà per vendicarsi con violenza sugli aggressori delle loro figlie, quindi ticchettò ancora sulla tastiera per cercare l’indirizzo di Henry Sewranset, che scrisse in fondo al foglietto. Senza indugiare spense il computer e si alzò dalla sedia, prendendo il blocchetto e riponendolo nel cappotto che s’infilò nuovamente mentre si apprestava a uscire dalla sala.

    Non era infrequente per un poliziotto, in particolare per un ufficiale della omicidi, di passare al distretto per qualche attimo e poi riuscire subito, in un andirivieni che a volte si protraeva anche oltre la fine del turno. In verità John cercava di evitare di starsene dietro la scrivania preferendo piuttosto una visione diretta sul campo, dove il contatto con la gente, ogni sguardo o parola veniva setacciato con l’intuito effetto di una provata esperienza. Inoltre, era di vitale importanza evitare qualsiasi tentennamento per riuscire a catturare il colpevole nel minor tempo possibile, scongiurando il rischio di perdere elementi preziosi con cui inchiodarlo. Sceso nell’atrio con l’ascensore John entrò in un ufficio, dove stava l’agente incaricato di assegnare i veicoli di servizio, e ne uscì poco dopo con in mano le chiavi di una berlina parcheggiata sul marciapiede davanti la centrale.

    Salito in auto si allontanò rapidamente dal distretto alla volta dell’abitazione di Henry Sewranset, situata quasi dalla parte opposta della città. Il traffico ormai era molto denso e John vi impiegò parecchio per raggiungerla. Era una villetta situata in una tranquilla zona residenziale, e un uomo dai capelli grigi stava passando il taglia-erba sul giardino innanzi all’ingresso fischiettando spensieratamente. Questi si fermò appena vide John incamminarsi nel suo vialetto e, spegnendo il suo arnese, gli si avvicinò incuriosito dall’inaspettata visita.

    «Posso fare qualcosa per lei?» chiese con tono cordiale.

    «Salve, sono il tenente Valzer, polizia di Chicago.» rispose questi, sfoggiando il distintivo «Lei è Henry Sewranset?»

    «Sì, che cosa vuole?»

    «Sono venuto a proposito di Elliott Hadhung.»

    «Ancora quel bastardo!» esclamò l’uomo, con una repentina collera «Sono stufo di sentire il suo nome! Dovete aspettare che violenti per intero una povera ragazza prima di arrestarlo!?»

    «Non sarà necessario niente di ciò che dice.» replicò John, cercando di placarlo «Hadhung è stato ritrovato stamani, ucciso.»

    «Ucciso?» ripeté l’uomo, mutando atteggiamento «Forse la giustizia esiste, in fondo…»

    «Eviterei questi commenti fossi in lei. Sono venuto a conoscenza del processo a carico di Hadhung.»

    «Sì e allora? Pensa che sia stato io a ucciderlo?»

    «Lei dove si trovava ieri sera, diciamo tra le ventidue e le ventitré?»

    «Al pub in fondo alla strada, con alcuni amici del bowling. Siamo stati lì dopo la solita partita, a bere qualche bicchiere, e ce ne siamo andati dopo la mezzanotte. Potranno testimoniarlo sia loro sia tutti gli altri che si trovavano al pub.»

    «Va bene, va bene. E, sua figlia?»

    «È fuori all’estero per uno stage di lavoro, finalmente si sta godendo un po’ di pace, se lo merita. Non ho altri figli, e se vuole sapere anche di mia moglie, è scomparsa qualche anno fa, forse di crepacuore per l’accaduto spiacevole al college. La mia famiglia è stata solo una vittima di quel maledetto.»

    «Sua figlia conosceva Hadhung prima dell’aggressione?» riprese John.

    «No, si erano visti per la prima volta al college. Lui era lì per lavori di manutenzione con una squadra di operai, ne avevano almeno per due settimane, sparsi in giro continuamente tra gli studenti. Stando a quanto mi ha riferito mia figlia, aveva notato che Hadhung le rivolgeva un certo tipo di sguardi, se sa cosa intendo. Poi una sera, mentre Anna tornava sola in stanza dopo una festa, quel bastardo le si era avvicinato improvvisamente. Era rimasto appostato al college molto fuori dall’orario di lavoro, capisce? E solo per fare… non voglio nemmeno pensarci. Per fortuna Anna è riuscita a scappare in tempo, attirando l’attenzione di altri studenti e chiamando aiuto.»

    «Ho capito, e il processo?»

    «Me ne ricordo come se fosse ieri.» spiegò l’uomo, scuotendo la testa «Appena entrai in aula e vidi Hadhung negli occhi capii subito che era colpevole. Anna faceva fatica a guardalo, e per la maggior parte del tempo se ne stava con il volto basso, come se fosse lei la colpevole. Le venne addirittura da piangere quando fu chiamata dall’accusa a riferire ciò che era successo. Hadhung invece se ne stava tranquillo, scambiando ogni tanto commenti sottovoce con il suo avvocato.»

    «Che tipo di commenti?»

    «Credo strategie difensive, ma non ne sono sicuro. Comunque, quel colletto bianco si è aggrappato a tutto, riuscendo a far scagionare Hadhung dall’accusa di aggressione. È riuscito a far credere ai giurati che mia figlia era uscita sbronza dalla festa, e che era stata lei a provocare Hadhung con un atteggiamento sconveniente. Quel bastardo ha fatto passare mia figlia per una poco di buono, e alla fine ha vinto. Hadhung se l’è cavata soltanto con una multa per essersi trattenuto al college fuori dal normale orario, dicendo che si stava portando avanti col lavoro.»

    «Avete avuto a che fare con Hadhung dopo la fine del processo?»

    «No, l’ultima volta che lo vidi fu quando il giudice pronunciò la sua assoluzione. Fu il momento più umiliante, e fui costretto a vedere Hadhung che se ne usciva dall’aula sotto braccio alla moglie, sorridendo come se niente fosse. Avrei voluto ucciderlo davvero allora…»

    «Ma non l’ha fatto, vero?»

    «No, gliel’ho detto. Evidentemente Hadhung si era inimicato altre persone, che agiscono meglio dei giudici.»

    «O dei poliziotti?» ribadì John, cogliendo il senso della frase.

    «Mia figlia ha detto la verità. Se ha letto il fascicolo del processo sa chi fu il legale di Hadhung. Uno che è innocente non si svena con un super avvocato per farsi assolvere, non le pare?»

    «Questa è una cosa che verificherò in effetti, come del resto il suo alibi.»

    «Faccia pure il suo dovere, io non ho niente da nascondere, così come non nascondo il mio sollievo che quel bastardo sia morto.»

    John non osò replicare ulteriormente e, lasciando l’uomo a sfogarsi con il taglia-erba nel giardino, tornò silenzioso alla sua auto. Si chiuse dentro, prendendo il notes dal cappotto e appuntando i punti salienti su quella conversazione, quindi ripartì subito. Sfilando lentamente lungo il viale giunse al pub accennato, fermandosi di nuovo per andare a parlare con il personale presente, e vi riuscì poco dopo sentendosi confermato l’alibi fornito dall’uomo. Un riscontro concreto che escludeva davvero la sua responsabilità e che, al tempo stesso, lasciava nella mente di John spazio all’ipotesi di una vendetta dall’ambiente dell’usura, che avrebbe verificato appena avrebbe potuto accedere ai conti della vittima. Mettendo da parte il movente, l’unica cosa cui poteva indagare ora era l’identità fisica dell’assassino, un aspetto forse anche più importante per catturarlo. L’istituto di medicina legale distava soltanto qualche quartiere e, sfruttando le strade secondarie, John riuscì ad arrivarvi evitando il grosso del traffico. Quando lo raggiunse posteggiò nello spazio riservato del cortile interno, accanto ad alcuni furgoni scuri. Vi andava spesso tant’è che la guardia alla porta nemmeno lo fermava più per chiedergli i motivi della visita, limitandosi a fargli firmare il registro delle presenze. Sorpassata l’anticamera aprì un pesante portone e s’inoltrò nella parte riservata alle celle frigorifere contenenti i cadaveri e alle stanze dove venivano eseguite le autopsie. Da una di queste proprio in quel momento uscì Frank, in camice bianco, che teneva in una mano un piccolo panino farcito.

    «Mi hai risparmiato una telefonata alla centrale.» disse l’uomo, incrociando John.

    «Come vedi seguo io il caso.» chiarì quest’ultimo.

    «Vuoi favorire?»

    «No grazie.»

    «Io devo mangiare sempre qualcosa dopo una dissezione, altrimenti do di matto.» confessò il medico, addentando il primo morso «Non ti dispiace, vero?»

    «Non so come fai a mangiare con il lavoro che fai, ma ormai ho rinunciato a chiedermelo.» rimarcò John, dandogli il tempo di inghiottire il boccone «Hai scoperto qualcosa d’importante?»

    «Altroché. Ci avevo sbagliato di poco, la vittima è stata soffocata alle ventitré e trenta di ieri. Ma quello che conta è che sotto le sue unghie ho trovato tracce microscopiche di pelle e tessuto che non appartengono a lui, come se avesse graffiato ripetutamente il suo aggressore tentando di fermarlo.»

    «Quindi abbiamo il suo DNA… quanto ci vuole a estrarlo?»

    «Ho detto ai miei assistenti di tralasciare il resto, e non se lo sono fatti ripetere due volte, se ne parlerà per domani o al massimo dopodomani. Ho voluto dare questa precedenza rispetto ad altri incarichi subito dopo aver fatto l’esame del tessuto, più sbrigativo del resto.»

    «Allora?»

    «Si tratta di un tessuto particolare, un sintetico parecchio usato per abbigliamento fitness, intimo termico direi. Ma la cosa più importante è che coincide con quello rinvenuto nell’omicidio di Roseland.»

    «Diamine…» commentò John, appoggiandosi al muro «ci mancava un cazzo di serial killer, non voglio pensarci.»

    «Non è ancora detto.» replicò Frank, insistendo a mangiare «Sicuramente l’analogia del modus operandi tra i due delitti c’è, ma magari è solo un caso che anche il tipo di tessuto coincida. Me lo insegni tu che non si deve arrivare a conclusioni affrettate.»

    «Spero proprio che tu abbia ragione, un serial killer è proprio l’ultima cosa che serve a questa fin troppo incasinata città.»

    «Senti, io comunque devo stilare il rapporto, mi capisci?»

    «Certo. Me la vedo io a perdere un po’ di tempo con i giornalisti, le conclusioni affrettate fanno più male che bene.»

    «Non avrai problemi a farlo, dopotutto sei abbastanza allenato in questo, dico bene?»

    «Faresti bene a bere dell’acqua per digerire la porcheria che hai ingurgitato.» rispose sarcastico John, con un cenno di saluto.

    «Più tardi ti invio il rapporto dettagliato per posta elettronica.» concluse Frank, gettando l’involucro vuoto del panino nel cesto e scrollandosi le molliche dal camice.

    John uscì rapidamente dall’istituto, rallentando solo una volta fuori, e concedendosi alcuni respiri profondi all’aria aperta per levarsi di dosso l’odore inesprimibile che seppur sottile infestava quel luogo. Era rimasto scosso da ciò che gli aveva riferito il medico, il cui ottimismo spiccio non poteva competere con il suo sesto senso da poliziotto, e il pensiero che dietro quei delitti vi potesse essere davvero un serial killer rimescolava tutte le teorie che si era proposto. Sentiva i nervi già sotto forte pressione, perché non era raro che assassini del genere facessero tribolare la polizia con inutili piste, per poi essere catturati dopo che la memoria delle loro azioni era svanita dalle persone e relegata unicamente in vecchi fascicoli d’archivio.

    «Il capitano non la prenderà per niente bene…» mormorò tra sé John, risalendo in auto per ripartire di nuovo alla volta della centrale.

    2

    «Maledizione!» esclamò il capitano, battendo un pugno sulla scrivania «Un serial killer è l’ultima cosa che ci serviva qui a Chicago!»

    «Sono d’accordo.» disse John, aspettandosi una reazione del genere «Ma preferirei avere confermato l’esito del DNA per sbilanciarmi del tutto.»

    «Senti, Vincent questo periodo è sobbarcato di lavoro, lo sai che è stato scelto come agente in borghese per la visita del governatore in città verso fine novembre. Per il momento dovrai fare a meno di lui, pensaci tu a portare avanti il caso di Roseland, accomunandolo a quello di Hadhung. Se l’esito del DNA sarà quello che penso almeno si dovrà cercare un solo colpevole per tutti e due…»

    «Me ne occupo volentieri.»

    «Okay, dai tu la notizia a Vincent quando lo vedi.»

    «Col suo permesso darò un’occhiata al fascicolo di Roseland nell’attesa che arrivi.»

    «Ottima idea. Va’ pure, e provvedi al rapporto sull’omicidio di Hadhung.»

    John uscì dall’ufficio del capitano e, facendo lo slalom tra alcune postazioni, raggiunse rapidamente la parte centrale della sala dove stava quella del collega. Sapeva che Vincent soleva non chiudere a chiave i cassetti, un’abitudine che John sfruttò data la particolare incombenza, e una volta aperti vi frugò fino a tirare fuori la cartella interessata.

    «Alex Speltwent.» iniziò a leggere, accomodandosi alla sedia «Libero professionista, stabilitosi a Chicago dal 1992 con la moglie Darlene. Due figli, Abel e Jeremy… studio nella zona di Roseland… assassinato nel suo stesso studio nell’agosto di quest’anno, ritrovato dal segretario il giorno dopo l’omicidio…»

    John s’interruppe, girandosi lentamente sulla sedia e fissando il vuoto, mentre la sua mente si metteva all’opera con nuove elucubrazioni basate sulle informazioni appena sfogliate.

    «Agosto di quest’anno.» ripeté tra sé «Hadhung è stato ucciso a ottobre… entrambi sono di sesso maschile, entrambi sposati, città pressoché vicine tra loro…»

    «Che fai, parli da solo?» lo interruppe d’improvviso una voce poco cordiale alle sue spalle.

    «Ciao Vincent.» salutò John senza nemmeno voltarsi, continuando a leggere imperterrito il fascicolo.

    Fu il collega a farsi avanti, sedendosi sulla scrivania e chiudendogli la cartella con un gesto deciso.

    «Non sei molto gentile.» insisté «C’è una ragione specifica per cui sei appollaiato alla mia postazione, a leggere i documenti presi dai miei cassetti?»

    «No, venendo qua mi sono detto di fare la prima cosa che mi veniva in mente.» rispose sarcastico John, scuotendo la testa «L’assassino del tuo uomo con molta probabilità è lo stesso del mio, quello trovato morto stamani, e il capitano ha passato il tuo caso a me, contento?»

    «Per me è un pensiero di meno.» replicò Vincent, lanciandogli uno sguardo d’odio con i suoi occhi scuri.

    «Devo stabilire un solido collegamento tra i due omicidi.» proseguì John, lasciandogli libera la sedia «Puoi dirmi qualcosa di utile?»

    «Proprio oggi sono stato a trovare la vedova di Speltwent, per l’ennesima volta.» spiegò Vincent, accomodandosi e riaprendo il fascicolo «Ho scoperto una cosa forse interessante, che finora era stata nascosta. Sembra che la signora una dozzina di anni fa avesse sporto denuncia nei confronti del marito, che l’aveva picchiata per impedirle di andarsene di casa.»

    «Perché voleva andarsene via?»

    «Mi ha detto che era un periodo in cui non andavano per niente d’accordo, litigavano spesso e sempre più forte, anche davanti ai figli. È strano però, perché a sentire chi li conosceva sono persone che sono state sempre molto legate, e il marito aveva così ben ingranato nel lavoro da garantire a tutta la famiglia una vita piuttosto agiata. Comunque, non sono molto sicuro che il marito fosse il grand’uomo che pensavano gli altri, ma su questo ho pochi indizi.»

    «Va bene, e dopo la denuncia della Speltwent?»

    «Ah dimenticavo, la donna fu convinta dalla sorella a ritirarla. Tornò a casa e da allora non litigarono più, ma comunque non durò molto e poco dopo si separarono.»

    «Un comportamento piuttosto bizzarro.»

    «Ecco perché preferisco restare single, i matrimoni danno troppe complicazioni.»

    «Meglio che torni alla mia postazione.» disse John, stentando un finto sorriso e andandosene via con il fascicolo.

    «Spero che il colpevole non ti faccia penare troppo.» mormorò sarcastico Vincent, girandosi sulla sua sedia.

    John non perse altro tempo con lui e, sebbene gli ultimi commenti avevano volutamente colpito la sua sfera personale, preferì evitare di inscenare un litigio che avrebbe aggiunto solo della tensione inutile distraendolo dalle sue incombenze.

    Il tenente Vincent era noto per il carattere antipatico e scontroso, che si divertiva a provocare con battute pesanti i colleghi, specie quelli di grado inferiore limitati a protestare. Ma la sua intolleranza maggiore era rivolta proprio a John, questo dal giorno in cui fallirono un’importante operazione per catturare un criminale che braccavano da mesi. L’inchiesta che ne seguì li scagionò entrambi tuttavia i due evitarono di parlarsi a meno che non fosse strettamente necessario, e il fatto che lavorassero spesso in coppia non li aiutava.

    Riaccomodatosi alla sua scrivania John accese nuovamente il computer, notando subito sullo schermo l’avviso di un messaggio di posta elettronica proveniente dall’istituto di medicina legale, come anticipato da Frank. Senza ulteriori indugi prese da un cassetto una cartella vuota, vi scrisse il titolo Hadhung con un pennarello e iniziò a stilare il primo foglio con tutte le informazioni finora raccolte, attingendo dal suo notes e dal referto appena ricevuto, preoccupandosi allo stesso tempo di compilare il rapporto richiesto dal capitano. Era immerso nelle sue scritture quando squillò il telefono e, sbuffando per quella interruzione, alzò la cornetta senza nemmeno controllare il numero sul display.

    «Sì?» chiese quasi con indifferenza.

    «Sono Melissa, ciao.»

    «Ciao.» rispose John, cambiando tono «Hai bisogno di qualcosa?»

    «Volevo solo sapere come stavi. Quando quell’agente è venuto a prenderti a casa così improvvisamente mi sono

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