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FERDINANDO RANCAN

IL SENSO
DEL VIVERE

Uomo - Tempo - Eternità

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(cenno biografico sull’autore)

Don Ferdinando Rancan è nato a Tregnago, Verona, il 14 giugno 1926.


Dopo aver conseguito la maturità classica, si laurea in Scienze Naturali nel 1955
presso l’Università «La Sapienza» di Roma.
Tornato a Verona e completati gli studi teologici, riceve l’Ordinazione Sacerdotale e
si dedica per parecchi anni all’insegnamento nel Seminario diocesano e nei Licei
della città.
Dopo essere stato parroco per vent’anni presso la “Pieve dei Santi Apostoli” in
Verona, attualmente svolge il suo ministero sacerdotale presso la chiesa di
Sant’Eufemia nella sua città di Verona.

Altri scritti:

“Là dove cielo e terra si incontrano” – (La preghiera e la Messa nella vita del cristiano)

“Ricevi questo anello...” (Riflessioni sull’amore umano e il matrimonio).

“Non presentarti a mani vuote davanti al Signore” - Come santificare il tempo –


Ed. Segno di Udine

“Fiori di melograno” Raccolta di poesie. Ed. Athesis

“In quella casa c’ero anch’io” – Vita di Gesù narrata da un piccolo.


Ed. Fede & Cultura

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PREFAZIONE

Un millennio muore, un millennio nasce!


Il tempo di fronte all’eternità: l’uomo di fronte a Dio.
La ruota del tempo non conosce stanchezze, ma anche il suo moto non soffre
impazienze. Il tempo non invecchia mai, è il giovane compagno di viaggio di tutte le
cose.
Quanti millenni avrà visto nascere l’umanità? Quanti ancora ne vedrà
tramontare? Le ere del cosmo sono nascoste nell’età delle stelle, e le vicende della
terra giacciono sepolte negli strati della sua corteccia; ma i millenni della storia,
quelli passati e quelli che verranno, sono scritti in un libro che nessuno conosce.
«Non è dato a voi di conoscere i tempi e i momenti...».
Eppure, da sempre, l’uomo ha sentito il bisogno di misurare il tempo e le
cose, segno che in lui qualcosa sfugge ad ogni misura; egli è misurato dal tempo ma
è anche misura del tempo; qualcosa in lui attinge ad una coordinata trascendente:
l’eternità.
Per secoli il sole è stato l’unico orologio dell’uomo. Poi un giorno gli
antichi inventarono la clessidra; vi facevano scorrere l’acqua o la sabbia, ma in realtà
vi vedevano scorrere il tempo. Infatti, l’assillo profondo del cuore umano non sta nel
desiderio di misurare le cose, ma sta nel bisogno di capire il lento e inarrestabile
scorrere del tempo che gli ricorda il problema cruciale dell’esistenza: che senso
hanno le cose, e soprattutto che senso ha ciò che scorre dentro il tempo, cioè la vita.
E così ciascuno di noi tiene nelle proprie mani la sua clessidra.
C'è chi la guarda come un giocattolo e magari ci scherza e se ne trastulla:
sono le anime superficiali che si giocano la vita per il tempo, mentre le anime nobili
e sagge si giocano il tempo per la Vita.
C'è chi guarda la sua clessidra con terrore: anime assillate dall'angoscia per
il tempo che, inesorabile, non si ferma mai, e anime in ansia per la paura che
improvvisamente si svuoti la clessidra e il tempo finisca nel nulla.
C'è chi guarda la sua clessidra giocondamente; vorrebbe che scorresse lenta
per godersi il tempo; sono anime di buontemponi che "non hanno tempo" per la Vita.
C'è poi chi guarda la clessidra con gli occhi smarriti di chi s'interroga
sull'oggetto che tiene tra le mani e non sa che farsene perché non sa a che cosa serve;
non conosce né il tempo né la vita perché non conosce sé stesso.
C'è infine chi la clessidra non la vorrebbe guardare affatto, vorrebbe
nasconderla, eliminarla: la vede come un giudice implacabile che gli ricorda diritti e
doveri, compiti e mansioni, progetti e responsabilità... gli ricorda la Vita.
Ma la clessidra è sempre lì, incollata alle nostre mani. Non abbiamo
alternative: o usarla per misurare il tempo, o usarla per misurare la Vita.

Il cristiano guarda alla sua clessidra con gli occhi luminosi di un figlio di
Dio. Ama la clessidra perché ama la Vita; vive la vita e perciò gioisce della
clessidra. La tiene nelle sue mani senza scuoterla o abbandonarla, e quando è il
momento la capovolge, perché il cristiano continuamente "ricomincia" nella sua vita
di figlio di Dio.
Il cristiano sa che gli appartiene la vita e gli appartiene il tempo, e non li
separa perché, in noi creature, la vita senza il tempo è un'utopia e il tempo senza la
vita è il nulla.

3
*********
Abbandonata la clessidra, la tecnica ci ha dato l’orologio. Orologi sempre
più sofisticati, autentici capolavori di fantasia per la forma e di precisione per la
tecnica stanno scandendo su tutti i meridiani della terra gli istanti infinitesimali della
vita umana. E così abbiamo prodotto milioni di orologi, ma forse abbiamo perduto il
senso del tempo e smarrito il cammino della vita.
Dio è l’unico, vero orologio dell’uomo, il solo che possa illuminare il nostro
cammino nel tempo e far scorrere nel tempo il flusso della Vita. Dobbiamo tornare al
Sole, il sole divino: Gesù Cristo. E’ lui la «pienezza del tempo». Egli abbraccia il
tempo da cima e fondo e lo illumina tutto: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e
l’Ultimo, il Principio e la Fine... Colui che era, che è e che viene». Da duemila
anni questo Sole illumina il mondo, ma da sempre e per sempre Egli illumina
l’umanità. E’ lui l’orologio della storia umana, lui: Gesù Cristo, unico Salvatore,
ieri, oggi e nei secoli.

Pronunciare queste parole nella società di oggi è come parlare un linguaggio


indecifrabile, estremamente lontano e incomprensibile, di cui si è perso
completamente il vocabolario.
Gesù Cristo: la cultura secolarizzata in cui viviamo ha tolto a Gesù di
Nazareth ogni rilevanza storica, lo ha ridotto ad una figura fra le tante, perduta nella
nebbia del passato. Tutt’al più serve come pretesto per tavole rotonde o per fictions
televisive e cinematografiche.
Unico Salvatore: il significato di queste parole esula completamente dai
problemi dell’uomo contemporaneo. L’uomo, oggi, ha bisogno di medicine che
sconfiggano i grandi nemici dell’umanità: il cancro, l’Aids, la senilità, ha poi
bisogno di lavoro, di libertà, di strutture sociali che lo garantiscano e gli forniscano
sicurezza. Di quale «salvezza» sia portatore Gesù Cristo, l’uomo del nostro tempo
non lo comprende. Tutt’al più, quello che egli riesce a scoprire in Gesù di Nazareth è
un affascinante esempio di solidarietà umana, di onestà, di fortezza e coerenza
morale che lo collocano tra i grandi spiriti, tra i leaders morali e religiosi
dell’umanità, destinato quindi a condividere con loro lo spazio riservato ai problemi
spirituali dell’uomo, in un pluralismo religioso dove tutte le risposte rivestono uguale
dignità.
Ieri, oggi e nei secoli: anche questa espressione contiene categorie che la
nostra cultura, soprattutto occidentale, ha perduto da tempo. Nel senso tradizionale,
cioè nel senso comune dell’umanità, ieri ha una sua consistenza oggettiva e
appartiene alla storia. Nella cultura attuale non esiste un «ieri» vero e proprio, ma
un «passato» puramente soggettivo che non appartiene alla storia ma alla memoria,
un «passato» che diventa interpretazione puramente soggettiva di una memoria
rovinata da ideologie e corrotta dalla menzogna. Così pure, l’oggi dell’uomo
moderno non ha un suo valore, un suo contenuto oggettivo, si riduce a pura fruizione
di ciò che il benessere può offrire insieme all’angosciosa tensione verso un futuro-
utopia conteso fra timore e desiderio.
In altre parole, l’uomo del nostro tempo, ormai abbuffato di cultura
scristianizzata, non conosce più la realtà, quella vera, quella profonda, quella che
dura sempre perché radicata nei valori perenni che non passano e non invecchiano. E
così gli è rimasto solo il moto, il fluire superficiale di ciò che passa, di ciò che è
effimero e apparente. E’ la cultura del «non-senso», della «mancanza di significato»,
cultura di cui è imbevuto l’uomo contemporaneo.
Ebbene, proprio a quest’uomo della società secolarizzata, che non ha più né
mezzi né categorie culturali per capire, l’unica voce disponibile che può aiutarlo e
può rendergli possibile la conoscenza della Verità è la voce di Gesù Cristo che
continua ad offrirsi al mondo come Via, Verità e Vita.

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Occorre ripeterlo con forza: Gesù Cristo è l’unico Salvatore, ieri, oggi e nei secoli:
lo «ieri» di Cristo è la sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione
nella loro realtà storica come i Vangeli ce l’hanno consegnata e nel loro perenne
valore salvifico;
l’«oggi» di Cristo è la Chiesa; in essa, con il Vangelo e i sacramenti, Cristo
continua la sua presenza di Salvatore. Il cristiano - occorre ripeterlo - non crede ad
un uomo del passato, ad uno dei grandi spiriti dell’Umanità. Budda è morto,
Confucio è morto, Maometto è morto, Socrate e Platone sono morti; e sono morti
anche Abramo, Mosè e i Profeti. Cristo è vivo perché è risorto e ha vinto la morte.
Infatti la sua stessa morte non è stata una «morte», ma è stata il sacrificio della sua
Vita per la salvezza del mondo.
infine, i «secoli dei secoli» sono la sua eternità, dove Cristo risiede alla
destra del Padre nella gloria come unico, grande intercessore per tutta l’umanità.

********
Natale 1999: la Chiesa entra dunque nel terzo millennio della sua storia.
Vi entra con una rinnovata e più profonda consapevolezza che Colui che
duemila anni fa è nato a Betlemme, l’ha costituita come «segno levato fra le
Nazioni». Un «segno» che ha attraversato secoli di storia segnati dal sangue dei
martiri, dall’eroica dedizione di tanti pastori, dalla vita di innumerevoli testimoni
dell’amore di Dio; ma anche un segno che è passato attraverso venti impetuosi e
terribili tempeste che hanno inferto dolorose ferite e lasciato profonde cicatrici sul
suo corpo, e tuttavia è un «segno» del quale tutti i popoli della terra, oggi come non
mai, hanno bisogno.
L’umanità, questa folla sterminata di esseri umani che copre la terra, appare
sempre più come un gregge sbandato senza pastore. Negli ultimi secoli molti
mercenari hanno preteso di essere pastori, e i lupi hanno sbranato interi popoli, e i
popoli stessi sono diventati lupi rapaci gli uni per gli altri.
Un’umanità stremata e sbandata approda così, col suo carico di valori e di
orrori, al terzo millennio dell’era cristiana come su un altopiano dopo una lunga e
faticosa scalata. L’ultima rampa di questa scalata, il secolo ventesimo, è stata la più
dura e drammatica di tutto il suo lungo viaggio nella storia. Questo secolo dilaniato
dalle ideologie, drogato dai successi tecnici e materiali, rimarrà come uno dei più
crudeli e disumani nell’esperienza dell’umanità. Milioni di esseri umani sono stati
sacrificati dall’odio: guerre senza interruzione, crudeli e devastanti, hanno
attraversato quasi tutte le regioni del pianeta, idee impazzite e princìpi deliranti
hanno costruito lager, gulag, foibe, forni crematori, hanno giustificato genocidi,
pulizie etniche, deportazioni forzate, violenze e terrorismi che non hanno risparmiato
esseri innocenti e indifesi. Un secolo duro e violento in cui si è distrutto molto e
costruito sul nulla, un secolo in cui la dignità della persona umana ha subito violenze
e umiliazioni che hanno pochi riscontri in altre epoche della storia.
Questa progressiva pazzia che si è scatenata contro l’uomo e contro Dio ha
procurato alla Chiesa migliaia di martiri: dall’Estremo Oriente al Messico, dalla
Spagna ai Paesi dell’Est, in molte regioni dell’Africa e dell’America Latina...
Davvero, al termine di questo secondo millennio «la Chiesa è diventata nuovamente
Chiesa di martiri» (TMA n. 37). Essa dunque continua ad essere più che mai segno
di contraddizione, e tuttavia l’unico segno levato fra le Nazioni che offra all’umanità
confusa e stressata una Verità certa e una salvezza vera.

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Verità e salvezza hanno un Nome che è di origine divina perché è stato
imposto dall’alto: «Lo chiamerai Gesù», cioè «Dio-che-salva». E’ dunque un nome
costitutivo della persona e della sua missione. La persona è il Figlio di Dio, la
missione è la salvezza degli uomini. L’una e l’altra non possono venire meno, ma
riempiono il Tempo e la Storia. Incontrare Cristo, vivo e vivente nella Chiesa, è la
grande sfida del terzo millennio alla quale sono chiamati tutti i popoli della terra,
tutte le Nazioni, tutte le culture e le civiltà. E’ questo il grido profetico lanciato al
mondo dal Pietro del 2000: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! Alla sua
salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici,
i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è
dentro l’uomo. Solo lui lo sa. Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro,
nel profondo del suo animo, del suo cuore, così spesso è incerto del senso della sua
vita su questa terra. E’ invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete,
quindi, - vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia - permettete a Cristo di
parlare all’uomo. Lui solo ha parole di vita, si! di Vita Eterna».

Anche noi, guardando a Cristo lungo le pagine di questo libro, terremo in


mano la nostra clessidra, ricordandoci che il tempo è un tesoro che Dio ci ha
consegnato. Ciò che scorre nella clessidra non è più sabbia e nemmeno oro o
brillanti, è un tesoro molto più prezioso: è la Vita, quella umana e quella divina che
Cristo ci ha portato e che l’Amore trasformerà in Eternità.

L’Autore

Verona, 14 settembre 1998 -


Festa dell’esaltazione della Santa Croce

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IL TEMPO

1 - Una leggenda

Alfonso il Savio, re di Castiglia e di Leòn, una delle personalità più


rappresentative del Medio Evo europeo, ha raccolto in una delle sue "Cantigas de
Santa Maria" un'antica leggenda mariana che nella sua graziosa ingenuità può farci
sorridere e tuttavia possiede la forza delle cose vere, delle verità che fanno pensare.
La leggenda narra che un pio monaco, la cui semplicità potrebbe degnamente figurare
nei fioretti di S.Francesco, fu preso da un vivo desiderio di conoscere il Paradiso.
Teneramente devoto com'era della Vergine Santa, si rivolse a Lei pregandola di
ottenergli il privilegio di vedere il cielo, anche solo per un momento. La Madonna
accolse il desiderio di quel monaco e lo fece portare in Paradiso, ma quando fece
ritorno nel suo monastero, egli si trovò completamente smarrito; non riusciva a
riconoscere nessuno dei suoi compagni. In realtà, la sua permanenza in Cielo nella
contemplazione della gloria di Dio, permanenza che gli era sembrata brevissima, era
durata tre secoli.
Il Beato Josemarìa Escrivà, che cita questa stessa leggenda in una delle sue
1
omelie (la applica al mistero della Santissima Eucarestia, dove Gesù Cristo da venti
secoli ci attende, ci ama e ci cerca), fa osservare che per un cuore innamorato venti
secoli sono come un soffio.
Ma la singolare vicenda di quel monaco potrebbe suggerirci un'altra
riflessione, su una verità anch'essa importante per ogni cristiano, anzi per ogni uomo:
esiste un nesso essenziale tra la nostra vita sulla terra e la nostra vita nel cielo, fra il
tempo e l'eternità. In sostanza, l'esperienza vissuta dal pio monaco della leggenda è
stata questa: un solo istante di gloria nel cielo ha riempito tre secoli della sua vita
sulla terra; come dire che il valore del tempo sta nel suo peso di eternità. Tutta la
nostra vita sulla terra, quella più breve e quella più longeva, come anche la stessa
vicenda umana con tutti i millenni della sua storia, ricevono valore e significato
dall'Istante Eterno, cioè da Dio che chiama tutte le creature a partecipare della sua
gloria.

2 - Il mistero del tempo

Il mistero del tempo ha sempre affascinato e tormentato l'intelligenza umana;


pensatori e filosofi, scienziati e poeti, hanno inseguito le ragioni profonde di questo
mistero e si sono cimentati con i più raffinati strumenti del sapere filosofico,
scientifico e poetico, in risposte che fossero luce per la precaria condizione terrena
dell'uomo e ne appagassero l'inquieto bisogno di immortalità. La stessa coscienza
dell'uomo comune, l'uomo di tutti i tempi, è stata fortemente toccata da questo
fascino, e tutti conosciamo gli innumerevoli riferimenti al mistero del tempo che in
ogni cultura e civiltà hanno caratterizzato tradizioni popolari, riti religiosi,
1
Beato Escrivà, E' Gesù che passa, n. 151
7
consuetudini sociali e rappresentazioni mitiche, e che hanno influenzato letteratura e
folclore. Tutto questo è la conferma che il mistero del tempo coinvolge
intimamente il senso stesso della vita umana, chiama in causa il significato della
nostra esistenza sulla terra; in definitiva, pone il problema del nostro destino, il
destino di creature che sentono di avere qualcosa che non si può ridurre al semplice
divenire, al puro fluire della vita e delle cose. Ciò che scorre sotto i nostri occhi e
dentro di noi, accendendo desideri e progetti ma insieme consumando energie, risorse
e prospettive non è tutta la realtà; c'è qualcosa di immutabile e di eterno nella parte
più intima del nostro essere.
Il desiderio stesso che spinge l'uomo verso i grandi valori della vita non
sarebbe possibile se questi valori non fossero in qualche modo già presenti
nell'uomo, se non a livello di esperienza, certamente come intuizione profonda del
suo essere razionale; così l'aspirazione insonne alla felicità, all'amore, alla pace, così
il bisogno stesso di Dio. Anche il desiderio di eternità che è dentro di noi e che
nessuna negazione o scetticismo possono eliminare, è un sintomo di questa presenza
che corre lungo tutto il filo della storia umana. In altre parole, la nostra vita
terrena è assetata di vita eterna, l'esistenza temporale dell'uomo suppone
l'eternità come sua misura e suo valore.
D'altra parte Dio non poteva lasciare inappagato l'essere che Egli ha creato a
sua immagine e somiglianza, e dentro gli smarrimenti e le amare sconfitte della
vicenda umana, l'eternità rimane la coordinata del tempo e della storia; tutto ciò che
è temporale trova il suo fondamento nell'eterno, e tutte le creature hanno perciò la
loro traiettoria in Dio. E' questo il punto focale del mistero del tempo e dell'eternità,
il luogo della loro analogia e perciò della loro eventuale commensurabilità; e
pertanto di qui bisogna passare per una vera comprensione di tutto ciò che esiste. C'è,
dunque, nell'essere umano un bisogno naturale di eternità, bisogno che conferma la
trascendenza spirituale del nostro essere.

3 - Tempo ed eternità

Lo scopo di queste pagine non è quello di percorrere ciò che gli uomini
hanno detto o pensato su questi argomenti, né di ascoltare la voce delle cose nel loro
inarrestabile fluire. All'intelletto umano, sorretto dalle sole forze naturali, il mistero
del tempo non ha mai svelato pienamente il suo volto, né ha aperto le profondità del
suo abisso. Davanti al mistero del tempo, la mente umana è stata dominata da un
senso di smarrimento come davanti a una cosa troppo opaca e immanente per essere
penetrata e insieme troppo irriducibile e trascendente per essere dominata. L'autore
del Qoelet, il noto libro sapienziale dell'Antico Testamento, tutto pervaso da un senso
di angoscia davanti alla precarietà del mondo, ricorda l'impotenza dell'intelletto
umano di fronte al mistero del tempo: "Ho considerato l'occupazione che Dio ha
dato agli uomini... Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la
nozione dell'Eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire
l'opera compiuta da Dio dal principio alla fine". 2
Solo la Rivelazione ha svelato pienamente il significato del tempo, lo ha
illuminato e reso trasparente, ha aperto un varco attraverso il quale l'eternità ha fatto
irruzione nel mondo. C'è un passo stupendamente solenne che leggiamo nella liturgia
del Natale: "Dum medium silentium tenerent omnia, omnipotens Sermo tuus, Domine,
a regalibus sedibus venit", 3 che possiamo liberamente tradurre: "Il tuo Verbo
onnipotente, o Padre, dalle sedi eterne del cielo ha rotto il silenzio del tempo e delle
cose ed è entrato nel mondo". Cristo, la sua Umanità Santissima, ecco l'immensa
finestra spalancata sul tempo: attraverso essa l'eternità ha inondato di luce la storia
2
Qo. 3,10-11
3
Sap. 18,14-15
8
del mondo.
Seguiremo, dunque, la strada della Parola di Dio; essa non esclude
l'intelligenza e la riflessione degli uomini, ma vi aggiunge la luce della fede.
Attraverso questa luce scopriremo che l'eternità non solo è la coordinata del tempo,
ma anche la sua "pienezza" e il suo significato, e costituisce la garanzia del suo
compimento.

4 - “O cara Eternità”

La Parola, il Verbo di Dio, che nella "pienezza dei tempi" si è fatta Carne,
costituisce il punto di riferimento per ogni evento del pensiero e della vita
dell'umanità. L'Incarnazione del Figlio di Dio nel grembo verginale di Maria, evento
che non ci meraviglia più, tanto vi siamo abituati, resta il fatto determinante nella
storia dell'umanità e nell'intera creazione; esso divide il tempo in due, dando alla
vicenda umana il senso di un "ritorno al Padre", che diventa il senso ultimo e finale
della storia. Alla luce di Cristo, Luce vera che illumina ogni uomo, il tempo e
l'eternità svelano il loro volto e il loro mistero: il tempo appare così il luogo della
fede, l'eternità il luogo della visione; al tempo appartiene la speranza,
all'eternità appartiene il possesso; nel tempo ferve il desiderio, nell'eternità
esplode l'amore. Fede, speranza, desiderio: il tempo; visione, possesso, amore:
l'eternità. E tuttavia, in Cristo, la fede già contiene la visione, la speranza contiene il
possesso, il desiderio contiene l'amore. Tutto però in modo imperfetto. Infatti, finché
siamo sulla terra non è possibile "vedere" se non per speculum et in aenigmate, di
riflesso come in uno specchio, nell'oscurità della fede; non possiamo amare se non
nella speranza, perché quaggiù nessun vero possesso è possibile.
L'eternità misura il tempo e, in un certo senso, rivela l'atteggiamento del
cuore umano. Ci sono "anime di eternità" che vivono profondamente immerse nella
luce della fede così da non avere quasi cognizione del tempo; per loro il fluire degli
avvenimenti è un fatto accidentale perché la realtà vera, quella che scorre sotto il
loro sguardo contemplativo, è ciò che Dio compie in quegli avvenimenti. Ci sono poi
"anime del tempo", che appartengono solo al tempo, che sono come naufragate nel
fiume delle cose e degli avvenimenti, dove tutto viene divorato dalla precarietà.
Sono anime che non sanno vedere un futuro oltre le cose, e rischiano di perdere tutto
il loro passato.
Ma ci sono anche anime che soggiornano nella mediocrità perché vivono il
tempo con una fede senza rischi, con una speranza senza pazzie, col cuore precluso
all'estasi dell'amore. Il cristiano che vive nel mondo è chiamato a coniugare insieme,
nella sua vita, tempo ed eternità, a percorrere cioè la strada della santità nelle
situazioni ordinarie della sua esistenza. Non c'è altra strada per essere felici. I
cammini della fede, della speranza, del desiderio portano a Cristo, "Via, Verità e
Vita". Gesù Cristo: il Tempo e l'Eternità; è Lui la pienezza del tempo, è Lui
sostanza dell'eternità.
Così il tempo cessa di essere un mistero e diventa un tesoro. Non un "tesoro
nascosto" ma un tesoro che nasconde la stupenda ed esaltante avventura dell'uomo
che cerca, incontra e incessantemente desidera il suo Dio.
Dopo aver sperimentato l'incontro con la misericordia di Dio, in un
crescendo splendidamente irresistibile, S. Agostino esclama:"O aeterna Veritas, et
Vera Caritas, et cara Aeternitas! O eterna Verità, o vera Carità, o cara Eternità! Tu sei
il mio Dio, a Te sospiro giorno e notte (...) Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica e
tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti
cercavo. Mi avventavo, io deforme, sulle cose belle da te create, che, se non fossero

9
in te, neppure esisterebbero." 4 Quel "tardi", così pieno di nostalgia e di rimpianto,
contiene tutto il tempo che abbiamo perduto lontani da Dio, ad inseguire i fuochi
fatui della superbia o a giocare con i fantasmi dell'amor proprio, ad ingannarci con le
menzogne del piacere. O cara Aeternitas! O Tesoro nascosto nel tempo! Luminoso
Mistero che non ti dischiudi "ai sapienti e agli intelligenti ma ti riveli ai piccoli». A
Te convergono i cammini della fede, i sentieri della speranza, tutti i desideri
dell'Amore!

L'ESSERE NEL TEMPO

5 - L’essere e il tempo

Si dice che il tempo non è una realtà sussistente, un'entità a sé, ma è una categoria
delle cose, un modo di essere della realtà creata. In effetti, il tempo in sé non esiste.
Ciò che invece esiste è l'essere: l'Essere per eccellenza, Dio, Colui-che-è,
infinitamente; e gli esseri finiti, le creature. Gli esseri finiti sono tali perché limitati,
sono quindi misurabili. Lo spazio e il tempo sono misure, misurano appunto gli
esseri creati.
Dio è la pienezza dell'Essere, non ha limiti, non soggiace quindi a nessuna
misura. Dio non è né spazio né tempo, l'Essere di Dio è l'Eternità. L'essere delle
creature è tempo e spazio, e nel tempo e nello spazio è misurato il loro movimento. Il
moto fondamentale delle creature è quello iniziale, il passaggio dal non-essere
all'essere, dal nulla di sé stesse all'esistenza. E' un moto possibile solo se l'esistenza
viene partecipata da Colui che è l'Essere da sempre, l'Essere-da-sé e per-sé. Il tempo
è dunque misura dei rapporti tra gli esseri finiti e misura del loro moto, ma è anche
rivelazione del legame profondo che gli esseri finiti hanno con l'eternità. L'essere
creato è infatti partecipazione all'Essere di Dio, e questo ci ricorda una verità
fondamentale che tocca l'aspetto esistenziale del nostro essere: la creaturalità. Il
nostro "essere-creature" fonda la vincolazione esistenziale che abbiamo con Dio.
Una delle carenze che più incide sulla cultura moderna e che ha indebolito
paurosamente il pensiero dell'uomo contemporaneo è la perdita della consapevolezza
di essere creatura. L'uomo ha così falsato la realtà di sé stesso, ha smarrito la propria
identità e ha compromesso radicalmente i suoi rapporti con la verità delle cose.
L'angoscia esistenziale che caratterizza le ideologie moderne di ogni colore, - non
dimentichiamo che l'ottimismo marxista, così come quello scientista o laicista
mascherano un profondo pessimismo sull'uomo - può essere superata solo
ricuperando la dimensione creaturale dell'essere, una creaturalità che rimanda alla
Sorgente, a Colui che è Fonte di ogni realtà, a quell'Essere divino che libera l'uomo
dalla caducità esistenziale, dalla perdita della propria identità.

6 - L’essere della creatura

La perdita del senso creaturale è conseguenza della negazione e del rifiuto di Dio.
L'uomo, rifiutando il suo riferimento ontologico a Dio, e quindi la sua creaturalità,
crede di celebrare la propria libertà e la propria autonomia, crede di diventare il
demiurgo della propria vita e del proprio destino; in realtà si ritrova travolto dal
tempo senza appigli per le sue aspirazioni più profonde e per i suoi desideri più
sublimi, chiuso nel suo essere contingente, senza prospettive e senza futuro.
4
S. Agostino, Confessioni, 1.7,27
10
In fondo, l'angoscia dell'uomo che ha perduto Dio e ha rifiutato la fede non è
che una claustrofobia dello spirito. Il suo pensiero ripiegato su sé stesso ha perduto il
respiro dell'eternità, l'apertura agli orizzonti di Dio. Il termine stesso "esistenza",
ex-sistere, indica che il mio essere viene da un Altro; io "in-sisto" su un
fondamento che non sono io, mi appoggio, mi radico fuori di me stesso. Il mio
rapporto esistenziale con Dio è ciò che mi definisce, mi fa essere, mi rende
intelligibile. Senza Dio, io non sono nemmeno pensabile.
Del resto, se l'uomo non è creatura di Dio, chi è?...Forse un prodotto della
Natura, cioè di una matrigna che non ha nome, non ha volto, non ha identità? Forse il
frutto di una forza cieca, anonima, indefinibile? L'uomo, così, non sa più da chi
viene e perché esiste. Un senso acuto di smarrimento lo pervade, lo minaccia una
sensazione di paura davanti a ciò che egli non sa prevedere o non sa dominare, lo
avvolge una insicurezza di fondo che si scatena nel bisogno di appropriarsi di sé
stesso, di trovare certezze nelle proprie risorse, spesso in atteggiamenti di
aggressività intellettuale, di violenza edonistica e di presuntuoso pragmatismo. In
realtà queste reazioni tentano di coprire una profonda tristezza, una nostalgia, un
malessere esistenziale che insegue implacabilmente l'uomo che ha perduto Dio. E' la
"sindrome dell'orfanello", di chi non sa chi è suo padre, di chi ignora la sua
appartenenza e la sua famiglia.

7 - L’uomo e la sua identità

Abbandonato Dio, l'uomo cerca disperatamente di sostituirlo; ma avendo


perduto il senso del suo essere-creatura non trova che idoli, fantocci di cartapesta che
lo beffano, lo deridono e lo deludono, e infine, avendo smarrito le sue "radici" e la
sua identità, si trova spaesato nella scena del mondo, come un attore che ha perso il
filo e non sa più ricordare il suo personaggio. Dire che siamo sulla terra per recitare
una parte, può sembrare offensivo, certamente genera fastidio o irritazione. Eppure,
ognuno di noi è inserito in un dramma colossale, cosmico, il cui copione è scritto
eternamente dalla sapienza di Dio, nostro Autore.
In questo dramma, che l'umanità è chiamata a "recitare" sullo scenario della
creazione, ognuno di noi è un personaggio e deve recitare la sua parte, parte che può
sembrare importante o secondaria ma che è comunque la nostra parte, la
realizzazione di noi stessi secondo il disegno di Dio. Quando ci allontaniamo da
Dio, perdiamo il filo della nostra esistenza, non rispondiamo più al disegno del
nostro Autore. E quando un uomo perde il filo della vita, disorienta totalmente la
sua coscienza e finisce per sopravvivere senza sapere cosa deve fare sulla terra; se
poi non ricorda più il suo personaggio, andrà vagando smarrito nella scena di questo
mondo, oppure diventerà una maschera del proprio orgoglio, del desiderio carnale,
della propria sete di potere e di successo, la maschera di uno o dell'altro degli
innumerevoli idoli creati dal Maligno.
Noi uomini siamo "personaggi in cerca del proprio autore", e quando
vogliamo fare a meno dell'autore, trasformiamo quella che dovrebbe essere una recita
corale stupenda, un'immensa sinfonia di voci e di personaggi, nella rissa scomposta,
stupida e crudele, che va insanguinando la scena di questo mondo, il palcoscenico
della nostra storia terrena. Senza Dio, noi siamo esseri anonimi, che sorgono e
tramontano senza motivo, la nostra vita si riduce a una "inutile passione" (Sartre),
un'assurda commedia, un incubo insopportabile.

11
8 - Ritrovare le origini

Dobbiamo tornare a Dio; dobbiamo ritrovare la strada che conduce a


Lui perché abbiamo bisogno di ritrovare noi stessi, di riscoprire il nostro nome e
la nostra "immagine", perché si illumini dentro di noi la nostra identità e il nostro
destino. Dobbiamo ritornare al nostro posto di creature docilmente vincolate a Dio,
all'Autore di tutto: del nostro essere, del nostro vivere, della nostra sorte futura. "In
manu tua tempora mea" 5 , nelle tue mani sono i tempi e le stagioni della mia
esistenza. Dobbiamo tornare a Dio come creature sue per riassaporare il gusto della
libertà, per uscire dall'inganno di altre appartenenze, per rompere dentro di noi il
cerchio della solitudine. Nessuno può cacciare Dio, nessuno può evitare la sua
presenza, eludere la sua luce. Non c'è buio, non c'è nascondiglio che possano
accogliere le nostre fughe da Dio. Victor Hugo ha messo in versi struggenti il
disperato tentativo di Caino di proteggersi dall'Occhio di Dio che lo inseguiva
ovunque. Ma Dio non ha bisogno di inseguirci; Egli è con noi sempre, è nel profondo
del nostro essere. Egli, scrive S. Agostino, è "intimius meo", è nelle più inaccessibili
profondità di me stesso. Là dove nessuno può raggiungermi, Egli è presente.
Chi può raccontare l'onda di gioia che sgorga dal profondo del nostro cuore
quando ci apriamo a Dio affidandoci a Lui, quando ci lasciamo prendere dalle sue
mani, mani grandi, potenti, tenere, come grembo dolcissimo, che scioglie con la
forza del suo calore il freddo di una solitudine senza riparo, di una vicenda senza
nome! Chi può tradurre in parole umane il fremito di giubilo, l'estasi di felicità che
percorre ogni fibra del nostro essere quando arriva al cuore, dal fondo dell'eternità, la
Voce che invade di stupore il silenzio dell'anima: "Filius meus es tu, ego hodie genui
te". 6 Sei mio figlio! oggi, adesso, ti genero alla mia vita?
Filius meus! non un prodotto della Natura, imprevisto e fatalmente
programmato; Filius meus! non un oggetto smarrito da recapitare al Monte di pietà
delle strutture umane; Filius meus! e non una "res nullius", cosa di nessuno, da
contrassegnare con un numero o una sigla in attesa di un proprietario. Filius meus!
Filius meus! Filius meus! Quale sapore di miele queste parole lasciano nell'anima
quando il nostro essere si schiude alla voce di Dio, alla sua potenza di Creatore e
Signore della nostra vita!

9 - Il nostro posto di creature

L'uomo è un capolavoro firmato. Non possiamo togliere quella firma; non


possiamo distruggere quell'Immagine che è in noi. Lasciarsi dipingere da Dio con le
inesauribili invenzioni della sua tavolozza è come lasciargli realizzare un sogno.
Narra la Bibbia che Dio, prima di creare l'uomo, stette un attimo in silenzio, come fa
un grande artista che si concentra in sé stesso, chiude gli occhi e contempla
sull'orizzonte sconfinato della sua immaginazione l'opera alla quale vuol dare
esistenza e vita: "E Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra
somiglianza". 7 Ognuno di noi è un sogno di Dio; egli ci ha contemplati nelle
profondità della sua sapienza da tutta l'eternità. Abbandonarsi a lui e accettare di
essere "creature" è accettare che si compia in noi la sua opera divina. Così, vivendo
la nostra assoluta dipendenza da Dio, potremo realizzare la nostra umanità in tutta la
sua ricchezza e verità.

5
Eb. 31,16
6
Salmo 2, 7
7
Gn, 1, 26
12
Questo rapporto di creatura può aprirsi a un dialogo divino, a un colloquio
intimo, o anche a un silenzio d'amore dove le parole sono intensi moti dell'anima che
guarda a Colui che l'ha creata e contempla le meraviglie della sua sapienza e della
sua onnipotenza. "Dominus, Dominus noster, quam admirabile est nomen tuum",
Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra. 8
In noi cristiani questo atteggiamento contemplativo si fa orazione, che
diventa canto di lode, di adorazione, di gratitudine. La gloria di Dio, che è lo
splendore delle perfezioni divine, si dispiega davanti agli occhi stupiti dell'anima che
non trattiene il suo grido di ammirazione e di esultanza: Laudamus Te! Benedicimus
Te! Adoramus Te! Glorificamus Te! Lode a Te! Adorazione a Te! Grazia e
benedizione per la tua gloria immensa, o Dio, mio Dio!
Stare con verità al nostro posto di creature è stare davanti a Dio avendo
deposta ogni sufficienza, ogni pretesa, ogni malumore, ogni diffidenza, ogni
aggressività. E' libertà, libertà vera, piena; è capacità di muoversi in mezzo a tutte le
creature senza legami, perché quando si contempla il volto di Dio ogni altro volto
svanisce, ogni creatura rivela la sua analogia che rimanda totalmente a Lui, alla sua
onnipotenza, al suo splendore, alla sua grazia. Tutte le creature, anche le più perfette,
le più seducenti, le più affascinanti, hanno un'unica risposta alla inquietudine
dell'animo umano: quaere super nos! cerca sopra di noi. (S.Agostino)
Così il massimo di dipendenza - quella di creatura che è tutta da Dio e che è
tutta per Iddio, a Lui totalmente votata - è anche il massimo di libertà. E' la vera
"devozione" cristiana. Il latino "de-vovere" significa appunto libertà da ogni legame
per diventare decisione interiore di servire Dio e la sua causa. Tutte le creature sono
allora voci amiche che non ci distraggono da Dio ma ci raccontano invece la sua
gloria esplosa nella creazione. "I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue
mani annuncia il firmamento". 9 Il cristiano sa essere contemplativo in mezzo al coro
delle cose create e anche nel frastuono delle realtà terrene: il lavoro, le attività della
vita quotidiana, gli affetti nobili e puliti, le vicende che accadono nella vita della
società e dei popoli.
Dobbiamo metterci al nostro posto di creature e guardare a Dio per
vivere in profondità. La profondità della vita, anzi la profondità di tutte le cose
consiste nel loro rapporto con Dio; solo allora le cose diventano una strada per
arrivare a Lui. Perciò lo strepito di tutto ciò che può accadere intorno a noi non
impedirà il nostro raccoglimento interiore, né ci toglierà la pace che è propria di chi
sa di vivere sicuro nelle mani di Dio. Chi non sa pensare sé stesso come creatura
amorosamente vincolata al suo creatore non sarà mai un contemplativo, né di Dio né
del creato, e finirà sepolto nel chiasso di avvenimenti che non hanno storia né
significato. Non c'è solitudine più opprimente e insieme più assordante di quella in
cui precipita un'anima quando ha perduto Dio o rifiuta il proprio rapporto con Lui.
Il tempo diventa un baratro se gli togli l'eternità! E tu non sei fatto per il
baratro o per la disperazione. Non ingannarti: quando l'uomo smarrisce o
semplicemente dimentica Dio, dimentica l'Eternità, e diventa un vagabondo nel
tempo, un errante nella propria storia, un barbone senza fissa dimora, sperduto tra le
cose, una sorta di ubriaco che gira su sé stesso, intorno a sé stesso...; la sua esistenza
terrena sarà un cammino doloroso e difficile, diventerà un viaggio agitato, in tutte
le direzioni senza direzione, e alla fine si concluderà in un naufragio, senza certezze
e senza speranza. Se ritrovi Dio, le sue braccia forti, sicure, dolcissime, hai ritrovato
il filo della tua vita, hai ritrovato te stesso, la tua eternità, la tua pace. Camminerai
verso la vita, la verità, la gioia. "Ciò che il nostro tempo chiede è tempo e solo
tempo, mentre ciò di cui ha bisogno è Eternità". (Kierkegaard).

8
Salmo, 8, 2
9
Salmo 18, 1-2
13
IL TEMPO:
ITINERARIO DELLA FEDE

Quale Fede?

10 - Fede e Vita Eterna

"Questa è la vita eterna: che conoscano Te, l'unico vero Dio e Colui che tu
hai mandato, Gesù Cristo". 10 Con queste parole Gesù si rivolge al Padre nella
preghiera sacerdotale al termine dell'ultima Cena. La "Vita eterna" nell'insegnamento
di Gesù è il fine supremo dell'uomo; si identifica con la gloria di Dio, che è il fine
ultimo di tutte le cose. Gesù ci presenta la vita eterna come una realtà definitiva,
perfetta, permanente, rispetto a tutto il resto che è transitorio, imperfetto, caduco; le
sue parole dal tono paradossale sono categoriche: "Se il tuo occhio ti è occasione di
scandalo, càvalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita (eterna) con
un occhio solo che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco" 11 .
Come dire: l'unica cosa necessaria per l'uomo, la sola che valga la pena, è la Vita
Eterna, e perciò conoscere l'unico vero Dio e Colui che Egli ha mandato, Gesù
Cristo, è l'unica conoscenza veramente importante.
Affermare queste cose in un mondo come l'attuale, che dà importanza a tutto,
anche alle cose più effimere e insignificanti, a tutto fuorchè a Dio, può sembrare un
linguaggio provocatorio, incomprensibile. Lo è certamente per la mentalità di questo
mondo, ma è il linguaggio della verità perché è Parola di Dio, parola che non
inganna. Questa conoscenza del vero Dio, - di Colui che ha creato tutte le cose, che
si è rivelato in Gesù Cristo, Figlio suo e Redentore dell'uomo - questa conoscenza
commisura il tempo e l'eternità: il tempo perché qui sulla terra essa è oggetto della
nostra fede, l'eternità perché in cielo sarà causa della nostra beatitudine. In cielo,
infatti, la conoscenza di Dio sarà immediata e diretta, infusa e trascendente.
Immediata, perché non avverrà attraverso i nostri concetti ma attraverso l'essenza
stessa di Dio; diretta, perché non conosceremo Dio attraverso sue opere ma in sé
stesso; infusa, perché non sarà frutto della nostra attività intellettuale ma di un
intervento esclusivo di Dio; e infine sarà trascendente, perché supererà ogni capacità
creata. In altre parole, conosceremo Dio "come Egli è". 12
Questa conoscenza è chiamata "visione" - "vedremo" Dio -; visione che
richiede in noi una facoltà soprannaturale che i teologi chiamano "lumen gloriae", la
luce della Gloria; ed è chiamata visione "beatifica" perché, proprio nel "vedere Dio
come Egli è" consisterà la nostra beatitudine eterna. La "visione beatifica" non
interesserà soltanto la nostra facoltà conoscitiva ma coinvolgerà interamente il nostro
essere; sarà una conoscenza di comunione intima e piena con l'Essere stesso di Dio.
Nessuna esperienza umana, per quanto esaltante, può paragonarsi, anche
lontanamente, alla beatitudine della Vita Eterna, né può esserci sulla terra un termine
di confronto che possa esprimere la nostra comunione con Dio nel cielo.

10
Gv. 17,3
11
Mt. 18,9
12
1 Gv. 3,2
14
Intanto, "finché abitiamo nel corpo, in esilio lontano dal Signore,
camminiamo nella fede e non nella visione". 13 "La Chiesa, scrive S.Agostino,
conosce due vite: una è nella fede, l'altra nella visione; una nel tempo del
pellegrinaggio, l'altra nell'eternità della dimora; una nella fatica, l'altra nel riposo;
una lungo la via, l'altra nella patria; una nell'attività, l'altra nel premio della
contemplazione". 14 Qui sulla terra, la nostra conoscenza del vero Dio, del Dio Uno e
Trino rivelato da Gesù Cristo, non può essere che velata e mediata. Velata perché ha
bisogno di segni, mediata perché passa attraverso i concetti e i simboli intellettuali.
E' comunque una conoscenza che esige, anch'essa, una luce soprannaturale, il "lumen
fidei", la luce della fede. "Nessun uomo in verità ha mai visto Dio né lo ha fatto
conoscere, ma Egli stesso si è rivelato. E si è rivelato nella fede, alla quale soltanto è
concesso di vedere Dio". 15

11 - Fede umana

La fede - il "lumen fidei" - è dunque una conoscenza soprannaturale. Ci viene


infusa nell'anima col Battesimo e ci porta ad accogliere la Rivelazione di Dio. Non
dobbiamo perciò confondere la fede cristiana con altre manifestazioni analoghe.
Esiste infatti una fede umana che consiste nell'accogliere la parola di un uomo,
e ha per fondamento la testimonianza umana. Così il bambino crede ai genitori,
l'alunno crede all'insegnante, l'amico crede all'amico. La fede umana vale quanto vale
la parola dell'uomo. Ora l'uomo può ingannarsi a volte, e può anche ingannare e
tradire. Eppure molto spesso crediamo ciecamente al giornale, al dossier televisivo,
ai testi scolastici, alle affermazioni degli "esperti", e così via. Possiamo affermare
che un'alta percentuale delle cose che sappiamo le conosciamo per fede umana.
Ora, è giusto avere fiducia nell'uomo, anzi è doveroso; ma i gradi di certezza
di questa fede variano enormemente e dipendono dal grado di credibilità offerto dalla
testimonianza umana. Questa fede umana è ancora una fede pre-religiosa, appartiene
cioè ai preamboli della Fede. E' una fede estremamente importante, indispensabile
sul piano umano, perché senza di essa non si possono stabilire rapporti umani validi
quali occorrono per una vera convivenza sociale e famigliare; non si dà nemmeno
vera cultura né scienza credibile. Vedremo la sua importanza anche come presupposto
della Fede cristiana.

12 - Una fede “falsa”: le sètte.

Esiste invece una fede umana che si presenta come fede religiosa ed è invece
la grande "Scimmia", quella che nell'Apocalisse è chiamata la Bestia, la quale,
operando grandi prodigi, "seduce gli abitanti della terra". 16 Questa "fede", che ha
la pretesa di essere "religiosa", di esprimere cioè il nostro rapporto con Dio ed è
invece una diabolica falsificazione della religiosità, si regge su una forma corrotta
di fede umana, da cui prolifera il fanatismo, l'irrazionalità, spesso la perversione
degli stessi rapporti umani: è la "fede" delle sètte e di altri movimenti pseudo-
religiosi.
Gli uni e le altre utilizzano elementi della religiosità umana e perfino elementi
della fede cristiana (riti liturgici, passi della Bibbia, formule della dottrina
cristiana...) per "scimmiottare", adulterandolo e deformandolo, il senso religioso
insito nella coscienza dell'uomo, riuscendo spesso a farsi annoverare tra le
13
2 Cor. 5,6
14
S.Agostino, Tratt. 124,5-7
15
Lettera a Diogneto
16
Ap. 13,14
15
espressioni della religiosità ufficiale.
Se le ideologie rappresentavano una forma di razionalismo rigido ed
esasperato, una pazzia più o meno lucida dell'intelligenza, le sètte e i movimenti
pseudo-religiosi hanno le caratteristiche dell'irrazionalità, della negazione
dell'intelligenza; sono espressioni, a livelli più o meno intensi, di una emotività
esasperata e confusa che cerca la sua sicurezza nel fanatismo di massa o nella figura
di un leader religioso, un santone, un "predicatore" illuminato, un guru, un qualsiasi
"fondatore" purchè carismatico, la cui personalità sappia incarnare gli ideali di forza,
di successo e di potenza che si nascondono nel "super-uomo" mancato, presente in
tante psicologie deboli, o che almeno costituisca, tale leader, una garanzia contro le
proprie frustrazioni, contro la carenza di senso esistenziale, o la perdita di consenso
nel proprio ambiente di vita: la famiglia, la professione, il ruolo sociale, sia esso
civile o religioso.
Si tratta dunque di una "fede" umana ma adulterata, fondata cioè tutta su una
testimonianza umana assolutamente inaffidabile perché sganciata da ogni riferimento
con la realtà, da ogni supporto storico legato a fatti o ad avvenimenti, farcita di
principi astratti pseudo-scientifici e pseudo-mistici che hanno impatto sull'emotività
e scatenano atteggiamenti acritici, istintuali. Da qui il loro facile aggancio al mondo
dello spiritismo, della magia, della stregoneria, con rituali iniziatici e occulti.
A questa fede umana falsificata e corrotta è pienamente applicabile il noto
anatema di Geremia: "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nella carne
il suo sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore". 17

13 - Dignità e importanza delle religioni.

Noi cristiani abbiamo una testimonianza maggiore di quella degli uomini; è la


testimonianza di Dio. 18 La prima testimonianza che egli ci ha lasciato la troviamo
nella nostra coscienza. La coscienza è la voce della natura, cioè della nostra stessa
ragione umana, che dentro di noi parla di Dio e ci spinge verso di Lui. Nasce da qui
l'autentica fede religiosa.
Tuttavia, questa fede, già in sé altamente importante, non è ancora la fede
cristiana, la fede soprannaturale infusa da Dio. Infatti, nascendo dalla nostra
coscienza di creature razionali che spontaneamente si aprono alla conoscenza e al
culto di Dio, la fede religiosa è ancora una fede naturale, una fede che si manifesta
nelle più diverse espressioni religiose come quelle che troviamo nelle grandi
religioni storiche; e tuttavia, pur nobili e degne di rispetto e pur contenendo elementi
che richiamano la Rivelazione, esse sono essenzialmente un'espressione del senso
religioso naturale insito nello spirito umano.
Ora, appunto perché procedono dalla religiosità naturale, le religioni non
salvano, non hanno la forza di redimere; non sono salvifiche come non lo è tutto ciò
che nasce dall'uomo, dalle sue forze naturali. Tuttavia, anche se non sono causa di
salvezza, esse possono essere condizione per ricevere la salvezza. La religiosità
naturale, infatti, unita alla buona fede e sostenuta dalla retta coscienza, è tale da
costituire un valido presupposto affinché la grazia, scaturita dal sacrificio della
Croce, possa operare nell'uomo non cristiano la salvezza di Cristo. In questo consiste
la grande dignità delle religioni e la loro importanza. Perciò, i veri nemici della fede
cristiana sono l'indifferenza religiosa, lo scetticismo razionalista e l'ateismo,
atteggiamenti presenti finora nella nostra civiltà occidentale ma che vanno
diffondendosi nel mondo sotto la spinta di una "civiltà dell'uomo" sempre più
secolarizzata.
Tuttavia le religioni naturali possono costituire un ostacolo alla fede cristiana
17
Ger. 17,15
18
cfr. 1 Gv. 5,9
16
quando esse si identificano con la cultura, la storia, la vita di un popolo e a volte con
la sua politica; è il pericolo del nazionalismo religioso. In questo caso le religioni
"somatizzano", perdono in profondità spirituale e sfociano nel fondamentalismo
fanatico e intollerante. Al contrario, la salvezza offerta dalla fede cristiana è
destinata, per volontà di Cristo, a tutti i popoli, di tutte le razze e di tutte le culture.
Di di esse e di ogni altra civiltà, la Chiesa può e deve salvare, valorizzare e utilizzare
tutto ciò che si presenta umanamente valido, nobile e compatibile con la verità
rivelataci da Dio.
Infine, la fede cristiana non va confusa con il vago teismo di chi dice di
credere in "Qualcuno" che è al di sopra di noi, non importa con quale nome venga
chiamato dai vari popoli, il nome non ha importanza, l'importante è sapere che
Qualcuno c'è. Sotto queste affermazioni, del resto molto superficiali, si nasconde un
atteggiamento scettico e offensivo che prescinde da qualsiasi conoscenza di Dio e da
qualsiasi culto verso di Lui. Sono affermazioni prive di contenuto religioso;
esprimono solo un teismo vago e teorico, assolutamente ininfluente, che non costa
nulla e lascia in noi le cose come sono, senza minimamente influire sulla vita.
Eppure, a questo livello è scaduta la "fede" in molti cristiani, è diventata una
religiosità rozza ed elementare che non ha niente in comune con la vera fede.

14 - La fede del cristiano: incontro con Dio in Gesù Cristo.

Ma Dio non ha lasciato gli uomini nell'ignoranza e nemmeno nella confusione


e nell'incertezza riguardo alla verità primaria e fondamentale per la loro vita e anche
per la loro intelligenza. La stessa conoscenza naturale di Dio, quella raggiungibile
con la sola ragione creata, non appagherebbe pienamente il desiderio di felicità
radicato nel cuore dell'uomo, anzi, per le conseguenze negative del peccato originale,
resterebbe una conoscenza estremamente povera, imperfetta ed esposta a insuperabili
errori e deformazioni. Dio ha voluto andare oltre la natura e con la Rivelazione ci ha
aperto gli orizzonti sconfinati della sua realtà divina e le meraviglie compiute dal suo
amore. Noi siamo soliti condensare questa Rivelazione nelle due verità fondamentali
della nostra fede: l'Unità e la Trinità di Dio; l'Incarnazione, la Passione, la Morte e la
Risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. E' questa la "fede cristiana"; una fede
che non solo illumina, completa e perfeziona sommamente la nostra conoscenza
naturale di Dio, ma stabilisce tra noi e lui un rapporto nuovo, soprannaturale, divino.
Occorre infatti ricordare che queste verità della fede non sono teorie o
astrazioni intellettuali, sono realtà vive e presenti. Questo passaggio è fondamentale;
senza di esso la fede rischierebbe di trasformarsi in uno schema mentale o peggio in
una ideologia, senza diventare vita e cammino. Il conoscere della fede non si limita
alla penetrazione intellettuale puramente scientifica delle verità intorno a Dio; è una
conoscenza vitale. E' l'incontro personale con Colui che non solo conduce con
sapienza e amore tutte le cose, ma è fonte della mia stessa esistenza, tiene nelle sue
mani paterne tutta la mia vita e mi ha amato a tal punto da darmi il suo Figlio
Unigenito. La fede, dunque, è l'incontro con Dio rivelatosi in Gesù Cristo, incontro
che me lo fa "vedere" presente nella mia vita, con una presenza personale e viva,
creatrice e salvifica.
Avviene nella fede ciò che avvenne per Paolo sulla via di Damasco: 19 il Gesù,
che era per Saulo un personaggio del passato, un uomo giustamente sepolto nel suo
inganno, soltanto un nome da dimenticare, stava invece lì davanti a lui, vivo e
presente nella sua realtà di Signore e di Salvatore. La conseguenza di questo incontro
folgorante con la persona di Cristo, vivo e presente, è stata immediata: "Che devo
fare, Signore?". 20 La fede diventa la nuova coordinata della sua vita, il nuovo
19
cfr. Atti, 9,3-6
20
Atti, 22,10
17
criterio di valutazione di ogni cosa, la presenza determinante di Cristo che d'ora in
avanti deciderà di tutta la sua esistenza. Anche in noi, questo atteggiamento di
assoluta e totale apertura a Dio è presupposto indispensabile per la vera fede. "Fede
cristiana" - lo ripetiamo - è precisamente questo: l'incontro personale con Dio in
Gesù Cristo, al quale rispondiamo con una adesione piena e totale.

I CAMMINI DELLA FEDE

15 - L’epopea della Salvezza.

Ma apriamo la Bibbia: nel libro dell'Esodo è descritto un famoso viaggio che


tutti abbiamo sentito raccontare fin da bambini, e che può servirci per meditare sul
nostro viaggio nel tempo perché è simbolo, anzi, vera figura profetica della vicenda
umana sulla terra e può essere applicata non solo alla storia dell'umanità ma anche
alla storia di ognuno di noi. Si tratta del viaggio che portò gli Ebrei dall'Egitto, dove
erano vissuti in condizioni di schiavitù, alla terra di Canaan, indicata da Dio come
"Terra Promessa". Il viaggio potrebbe intitolarsi: Epopea della Salvezza. Noi ce ne
serviremo per la nostra meditazione sulla fede; ci convinceremo che la fede è l'unica
strada sicura per il nostro viaggio nel tempo.
L'epopea dell'Esodo prende inizio da un evento che possiamo ritenere
fondamentale per la storia dell'umanità: la Teofania sull'Oreb, cioè la manifestazione
di Dio a Mosè nel roveto ardente. 21 In quella teofania, Dio rivela a Mosè il suo nome:
IO SONO. E' una dichiarazione solenne e misteriosa che ci rivela l'Essere di Dio e
illumina la nostra conoscenza naturale di Lui; ma è anche la rivelazione che apre
definitivamente il cammino della fede sulla terra, quella fede che Dio aveva suscitato
un giorno nel cuore di Abramo. Davanti a questa strada della fede, aperta dalla
teofania del Roveto, Mosè si turba e si spaventa. Egli si rende conto di trovarsi a tu
per tu con Dio, davanti a una manifestazione divina che implica un disegno su di lui
e sul suo popolo. Dio entra nella sua vita, la sconvolge e la cambia radicalmente, per
realizzare un progetto di salvezza. "IO SONO" non indica soltanto l'Essere di Dio
nella sua infinita trascendenza, cioè nella sua eternità, ma anche la presenza di Dio
nel tempo, presenza che diventa un intervento di salvezza: "Io sono qui, per
salvarvi". Infatti Dio spiega a Mosè: "Ho visto la miseria del mio popolo...e ho udito
il suo grido. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da
questo paese verso un paese dove scorre latte e miele". 22
Mosè capisce che da quel momento la sua vita non potrà prescindere da questa
presenza: "Io sarò con te", insiste la voce dal roveto. Quella presenza guiderà la sua
vita per cammini non facili, non sempre umanamente spiegabili o comprensibili, anzi
spesso duri e difficili, segnati dalla persecuzione e dalla contraddizione, ma saranno
comunque sempre cammini di salvezza, i cammini tracciati dalla potenza salvifica di
Dio. Dal giorno di quella teofania, Dio veglierà amorosamente sulla vita del suo
servo Mosè, ma anche guiderà la storia del suo popolo e preparerà la salvezza di tutti
gli uomini.

16 - Gesù: il Roveto ardente.

Ora l'umanità può conoscere che il vero Dio, Colui che l'ha creata e l'ha
predestinata da tutta l'eternità, non è un Dio lontano, inaccessibile, che dall'alto della
21
cfr. Es. 3,1-15
22
Es. 3,7-8
18
sua trascendenza contempla impassibile la storia degli uomini. Il Dio del cielo e della
terra, il Creatore di tutte le cose, pur restando un Dio "nascosto", perché trascendente
ad ogni conoscenza, si è fatto vicino agli uomini, si è fatto presente con la sua
potenza di creatore e soprattutto con la sua misericordia di Redentore: "Ho visto la
miseria del mio popolo e sono sceso per liberarlo". Diventare consapevoli della
presenza di Dio nella nostra vita, "vederlo" come colui che ci salva, questa è la fede.
Mosè viene interpretato dalla tradizione patristica come figura profetica di Gesù
Cristo; ma potrebbe essere anche il prototipo di ogni credente. Anche noi abbiamo la
possibilità di udire la voce di Dio che ci parla: il nostro roveto ardente è l'Umanità
Santissima di Gesù. Lì il Padre è presente, lì ci rivolge la sua parola, lì rivela sé
stesso e attua il suo disegno di salvezza. Gesù stesso lo afferma esplicitamente:
"Filippo, come puoi dire: mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il
Padre è in me?". 23
Allo stesso modo del roveto ardente dell'Oreb, che "bruciava nel fuoco e non
si consumava", l'Umanità Santissima di Gesù resterà ormai per sempre in mezzo
agli uomini come il "luogo" della presenza salvifica di Dio, evento determinante
nella storia umana, fonte di verità e di salvezza per tutti coloro che nella fede si
avvicineranno a Lui.
Ma occorre imitare Mosè, che si è lasciato attirare dal roveto ardente; anche
noi dobbiamo lasciarci attirare da Cristo, senza ingannarci con gli idoli falsi del
mondo, anche noi dobbiamo "toglierci i sandali", rinunciando alle nostre presunzioni,
all'orgoglio dell'intelligenza e del cuore; anche noi dobbiamo ascoltare la sua voce e
non opporre resistenza agli inviti di Dio. Il tempo è ormai dominato da ciò che è
accaduto a Betlemme, a Nazareth, a Gerusalemme. Senza quel "Roveto ardente" gli
uomini sarebbero rimasti, come Mosè nella terra di Madiam, errabondi e smarriti nel
deserto della loro esistenza, a pascolare il gregge delle proprie dottrine e delle
proprie vane realizzazioni, senza nemmeno sapere che sono fatti per una "Terra
promessa", per un "paese grande e spazioso dove scorre latte e miele". 24
La fede è un dono grande di Dio. E' un dono che eleva la nostra intelligenza e
la rende capace di conoscere e penetrare le verità che Dio ci ha rivelato. Alla luce di
queste verità la nostra mente può cogliere il senso soprannaturale del nostro cammino
sulla terra e le profondità eterne del tempo presente.
Il dono della fede è associato al grande dono della grazia. E' come un dono nel
dono. La fede, infatti, ci viene infusa con la grazia santificante nel Battesimo e
cresce in noi col crescere della grazia. Dio non si limita a farci conoscere il suo
disegno di amore; con la Rivelazione Egli ci fa anche dono di sé stesso, ci chiama a
una conoscenza che implica la partecipazione vitale alle verità che Egli ci ha
rivelato.

17 - In Gesù il compimento delle Scritture.

Tornando all'esperienza di Mosè e del popolo ebreo, sappiamo che Dio si è


manifestato sempre più apertamente attraverso segni prodigiosi da lui compiuti "con
braccio forte e con mano potente", e che vengono ricordati nella Bibbia come le
"meraviglie di Dio" - Magnalia Dei -. Egli infatti, mediante il sangue dell'agnello,
ha liberato dalla schiavitù il popolo eletto, lo ha fatto passare illeso attraverso il Mar
Rosso, lo ha condotto nel deserto guidandolo con la nube luminosa e la colonna di
fuoco, lo ha nutrito con la manna e dissetato con l'acqua fatta zampillare dalla roccia,
lo ha salvato dalla morte con il segno del serpente di rame innalzato sopra gli
accampamenti, infine lo ha reso vittorioso sui nemici con la preghiera di Mosè. Con
questi "segni" della sua potenza, Dio mostrava di essere in mezzo al suo popolo e di
23
Gv. 14,10
24
Es. 3,8
19
accompagnarlo nel suo cammino; si trattava dunque di una presenza salvifica che
avrebbe portato a una libertà nuova in una terra nuova.
Ma tutto questo era anche una figura che anticipava profeticamente la vera
salvezza. Quei "segni" infatti, diventeranno «realtà» in Cristo; in Lui si compirà
la salvezza vera, la salvezza dal peccato e dalla morte. E' Lui infatti la salvezza di
tutto il genere umano; la sua Umanità Santissima è il "segno efficace" della presenza
salvifica di Dio nel mondo. Gesù stesso si richiama a quei segni quando spiega alle
folle e ai suoi apostoli come in lui si sono compiute le Scritture. Quei segni compiuti
da Dio per mezzo di Mosè, erano puramente "indicativi" e operavano solo una
salvezza temporale; in Cristo i segni della salvezza diventeranno "efficaci", cioè
opereranno realmente la salvezza eterna per ogni credente.
Così, l'agnello sacrificato, il cui sangue ha scampato gli Ebrei dallo sterminio
e li ha liberati dalla schiavitù, è figura di Cristo sacrificato sulla croce: il suo sangue
fa dell'intera umanità un "popolo redento", e il suo sacrificio verrà perpetuato ogni
giorno sugli altari nella Santa Messa; le acque del Mar Rosso, che seppellirono il
Faraone e salvarono la vita a Mosè e al suo popolo, diventeranno le acque del
battesimo che seppelliscono "l'uomo vecchio", schiavo del peccato, e lo rigenerano
alla Vita; la manna, che ha nutrito il popolo nel deserto, sarà per noi l'Eucaristia,
"pane vivo disceso dal cielo" che ci nutre e ci sostenta nel nostro cammino sulla
terra; il serpente di rame che guariva dai morsi dei serpenti, è figura di Cristo
crocifisso che perdona e ci guarisce dai morsi letali delle nostre colpe quando a lui
"guardiamo" attraverso il sacramento della Confessione; l'acqua viva scaturita dalla
roccia percossa dalla verga di Aronne è lo Spirito Santo che sgorga dal cuore trafitto
di Cristo Crocifisso; infine, nella colonna di fuoco che guidava il popolo e nella nube
luminosa che lo proteggeva nel deserto, possiamo vedere l'opera dello Spirito che,
con la sua presenza nella Chiesa, guida e custodisce nel cammino coloro che Cristo
ha liberato. La fede, dunque, ci conduce a Cristo presente nella Chiesa e operante nei
suoi Sacramenti. Così il "Dio-che-salva" è ormai definitivamente presente in mezzo
agli uomini.
Perciò: Fede e Grazia. La fede da sola non basta, occorre la grazia, e Dio
ha voluto che "la verità e la grazia venissero a noi per mezzo di Gesù Cristo". 25
Gesù poi continua ad essere presente e ad operare nel mondo attraverso la Chiesa
che, per mezzo del vangelo e dei sacramenti, fa arrivare la verità e la grazia a tutti gli
uomini. Dio ha voluto che questi fossero i mezzi normali per raggiungere la
salvezza. Non c'è dunque vita cristiana senza sacramenti, e la fede stessa senza la
grazia è morta.

18 - Fede: alleanza tra Dio e il suo popolo.

La Teofania del Roveto ardente e i segni prodigiosi nei quali Dio si rivelava al
suo popolo, culminarono in un'altra grande manifestazione: la Teofania del Sinai. Dio
chiama Mosè sulla montagna e lo fa mediatore di una solenne alleanza con il suo
popolo. 26 Come pegno e documento di questa alleanza gli consegna le tavole della
Legge: "Mosè convocò tutto Israele e disse loro: Il Signore nostro Dio ha stabilito
con noi un'alleanza sull'Oreb (...), Egli disse: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho
fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile (...). Non ti farai idolo né
immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra (...)
non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai. Perché io, il Signore tuo
Dio, sono un Dio geloso (...) Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio
(...) Osserva il giorno del Sabato per santificarlo, come il Signore tuo Dio ti ha
comandato (...) onora tuo padre e tua madre, perché la tua vita sia lunga e tu sii
25
Gv. 1,17
26
Es. 19,16 seg.
20
felice nel paese che il Signore tuo Dio ti darà. Non uccidere. Non commettere
adulterio. Non rubare. Non pronunciare testimonianza falsa contro il tuo prossimo.
Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo,
né il suo campo, né il suo bue (...)". Queste parole pronunciò il Signore parlando a
tutta la vostra assemblea sul monte, dal fuoco, dalla nube e dalla oscurità, con voce
poderosa, e non aggiunse altro. Le scrisse su due tavole di pietra e me le diede". 27
I Comandamenti diventano così agli occhi degli Ebrei uno dei segni più
evidenti e insieme più commoventi della presenza di Dio in mezzo a loro; una
garanzia che Dio non li aveva abbandonati e che si prendeva cura di loro. Tutta la
storia d’Israele è sotto il segno di questa alleanza, e la Legge, che sarà considerata da
tutto Israele come un dono di predilezione, rimarrà il termine di confronto nel
rapporto tutto singolare del Popolo eletto con il suo Dio.
Ora, la fede ci fa vedere in Cristo il nuovo e definitivo legislatore
dell'umanità, il nuovo e unico Mediatore della nuova Alleanza tra Dio e gli
uomini, Colui che ha portato la grazia all'interno della Legge e ha dato ad essa una
nuova dimensione: la dimensione della libertà e dell'amore. Perciò la Legge diventa,
in Cristo, vocazione ad essere perfetti secondo le Beatitudini del Vangelo, cioè
secondo la nuova dignità di figli di Dio. Se viene meno la fede, anche la coscienza,
come testimone della legge, si oscura, e se manca la grazia, non solo rimane
incomprensibile la morale delle Beatitudini, ma gli stessi Comandamenti
dell'Alleanza risultano gravosi e spesso impraticabili.

19 - Fede e morale “laica”.

Possiamo renderci conto di tutto questo guardando la nostra società attuale. La


cultura moderna ha rifiutato la fede e si è allontanata da Dio. Lungi dal riconoscere
nei Comandamenti la voce premurosa del Creatore, l'uomo moderno ha voluto
affermare la propria libertà inventando la "morale laica"; una morale senza
Comandamenti perché senza Dio. Si è rivelata così una morale tragica, perché
quando l'uomo pretende di erigersi a norma di sé stesso, instaura inevitabilmente la
peggiore delle tirannie, quella dell'egoismo, e sancisce la legge del più forte.
Quando ci lasciamo ingannare da questa morale laica seguendo i suoi roboanti
principi, avvertiamo una profonda solitudine dentro di noi! Sentiamo che manca un
vero interlocutore per la nostra coscienza: l'interlocutore divino, che magari ci
disapprova e ci condanna, ma anche ci indica la strada giusta, quella della verità e
del bene, che è anche quella della libertà, quella che ricompone l'ordine e la pace nel
nostro mondo interiore.
Non c'è deserto tanto arido e tanto duro quanto la morale laica, dove l'unica
strada è quella disegnata dal vento dell'orgoglio, gli unici riferimenti sono i miraggi
fatui delle passioni, l'unica voce è l'eco del proprio io che recita a sé stesso la farsa
dell'autonomia. Invece, quando il cuore si apre alla fede, allora il nostro deserto
fiorisce, si apre davanti a noi la strada sicura dei Comandamenti che diventano "luce
ai nostri passi e lampada per il nostro cammino". 28 Non c'è più solitudine dentro di
noi; sperimentiamo la verità e la dolcezza di quelle parole di Gesù: "Se uno mi ama,
osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo
dimora presso di lui". 29
Scopriremo anche che proprio i Comandamenti di Dio e la legge morale che
egli ci ha dato sono garanzia e difesa dell'essere umano e della sua dignità, sono
il più autorevole baluardo contro ogni sopruso ed ogni violenza, e infine sono il
fondamento più solido alla retta convivenza tra gli uomini. Con ragione Israele
27
Deut. 5,1..22
28
Salmo n. 118
29
Gv. 14,23
21
considerava la Legge un dono immensamente prezioso, segno della predilezione di
Dio.
Il Signore tuttavia dovette rimproverare frequentemente il popolo ebreo per la
"durezza del suo cuore", perché non seppe leggere con la fede quei "segni" e non si
fidò della parola del Signore: "Mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere
(...) e io dissi: sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie". 30
Quando Mosè scese dal Sinai, trovò il popolo "che sedeva a mangiare e a bere
e si alzava per divertirsi" e danzava davanti al vitello d'oro cantando: "Ecco il tuo
dio, o Israele, colui che t'ha fatto uscire dal paese d'Egitto!". 31 Non c'è dubbio che il
consumismo sfrenato dell'uomo contemporaneo è uno dei sintomi più evidenti
dell'abbandono della fede, e si presenta come la somma di tutte le innumerevoli
idolatrie che hanno contagiato il cuore dell'uomo.
Proprio nel Deuteronomio, Mosè mette in guardia il popolo dall'uomo
consumistico che, dimentico di Dio, è tutto intento ad adorare il suo vitello d'oro.
"Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio, così da non osservare i suoi
comandi, le sue norme e le sue leggi (...) quando avrai mangiato e ti sarai saziato,
quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo
bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e
abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il
tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile; che ti ha
condotto in questo deserto grande e spaventoso (...) per farti felice nel tuo avvenire
(...) guardati dunque dal pensare: la mia forza e la potenza delle mie mani mi hanno
acquistato queste ricchezze (...)". 32

20 - La Chiesa. Arca dell’Alleanza.

Affinché il popolo non dimenticasse i prodigi compiuti da Dio per la sua


liberazione e non venisse meno all'alleanza, Dio stesso fece costruire come richiamo
perenne alle generazioni future un'Arca detta appunto dell'Alleanza. 33 Era, questa,
uno scrigno d'oro dove venivano conservati i "segni" della potenza salvifica di Dio,
segni che indicavano la sua presenza vicino a Israele: erano le tavole della Legge, la
manna e la verga di Aronne.
Come gli altri "segni" anche l'Arca andò distrutta, ma Dio costruì un'altra
Arca, definitiva, perenne, per mezzo della quale ha stipulato un'Alleanza nuova che è
per tutta l'umanità e per sempre: Gesù Cristo. L'Umanità di Gesù è non solo il Roveto
ardente dal quale Dio parla all'umanità, è anche lo Scrigno d'oro che contiene tutta la
potenza, tutta la grazia, tutto l'amore misericordioso di Dio.
Compiuta l'opera della salvezza e prima di salire al cielo con la sua Umanità
glorificata, Gesù ha voluto istituire la Chiesa perché continuasse la sua presenza
visibile sulla terra. La Chiesa, come Corpo Mistico di Cristo, è vera Arca della
Nuova Alleanza e contiene i "segni efficaci" della salvezza. Alla Chiesa, infatti,
Cristo ha affidato non tanto le tavole della legge ma il suo Vangelo e tutta la
ricchezza del suo insegnamento, non la manna ma i Sacramenti che comunicano la
grazia e la Vita, non la verga di Aronne ma il suo sacerdozio con cui pasce e conduce
il gregge del Padre. La Chiesa diventa così il "segno levato sulle Nazioni", perché gli
uomini non dimentichino, perché sappiano che c'è Dio in mezzo a loro, perché
comprendano finalmente che possono ottenere salvezza e redenzione, e che li attende
una "terra promessa" costituita da "cieli nuovi e terra nuova" dove "Dio sarà tutto in
tutti".
30
Salmo 94,10
31
Es. 32,4-6
32
Deut. 8,11...
33
Es. 25,10...
22
21 - Camminare senza la fede è perdere il tempo.

Il nostro cammino sulla terra, il nostro viaggio nel tempo è, dunque, un


viaggio nella fede. E' anche un viaggio che non ha i confini del tempo: è cominciato
in Dio dall'eternità, e terminerà in Dio quando, usciti dalla scena di questo mondo,
approderemo nelle sue braccia. Dall'eternità all'eternità, attraverso il tempo.
Questa nostra vicenda terrena ha però un'importanza decisiva: in essa siamo
chiamati a decidere di noi stessi in ordine al disegno di Dio. E' una vicenda
terrena precaria, finita, segnata dal male e dal dolore ma che vale tutta l'eternità,
conta quanto conta la gloria di Dio, pesa tutto il peso di felicità che può essere
portato da una creatura. Il popolo ebraico non era nato in Egitto, né in condizioni di
schiavitù, era nato dalla fede di Abramo per abitare una terra "dove scorre latte e
miele"; ma a nulla servì essere figli di Abramo senza avere la fede di Abramo, essere
liberati dall'Egitto e condotti nel deserto senza aver capito il senso e il significato di
quel viaggio nel quale "videro le opere di Dio...ma non hanno conosciuto le sue
vie...e perciò non entreranno nel luogo del suo riposo". 34 A nulla serve essere nati
da Dio se non viviamo questo tempo come figli di Dio; a nulla serve il nostro viaggio
nel tempo se non è un viaggio nella fede.
Ascoltare la voce di Dio e non indurire il cuore, saper vedere le opere di Dio e
camminare nelle sue vie: solo così il nostro viaggio nel tempo è un viaggio verso la
libertà e verso la vita; senza la fede invece il nostro cammino terreno è una corsa
verso la morte. E' orribile e tragico finire nella morte quando invece siamo stati
creati per la vita e proprio da Colui che è la Vita. Non possiamo dimenticare le parole
di Gesù: "In verita, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna"... "Io sono la
risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in
me non morrà in eterno". 35 Dio è il Vivente, è il Dio della Vita; Egli ci ha chiamati
ad "abitare nella terra dei viventi" dove non avremo più bisogno di teofanie, non di
salire sul monte Oreb, né sul monte Sinai, perché conosceremo Dio non più nella
nube e nel fuoco ma nella luce e nello splendore: "in lumine tuo videbimus lumen", e
Dio toglierà il velo che copre la sua faccia, e vedremo il suo Volto in una
contemplazione senza fine. La fede avrà lasciato il posto alla visione!
Dall'Eternità all'Eternità! lungo il filo del tempo; per noi, sulla terra, il
tempo è il luogo della fede. Perdere la fede è perdere il tempo.

22 - Il viaggio dei Magi.

Abbiamo paragonato la nostra vita sulla terra al viaggio degli Ebrei nel
deserto, un viaggio di speranza che ha avuto come strada la fede. Ma c'è un altro
viaggio nel quale possiamo ritrovare esplicite analogie con quell'avventura umana e
divina che è il nostro cammino sulla terra: è il viaggio dei Magi sulla strada per
Betlemme. Anche per loro c'è stato un "roveto ardente" dal quale il Signore li ha
chiamati e si è loro manifestato come in una teofania: "Abbiamo visto sorgere la sua
stella e siamo venuti per adorarlo". 36
Quella stella è stata per loro una rivelazione, il segno di una chiamata, di un
invito a cercare il "Dio-che-è-venuto-a-salvarci". Per loro, pagani e uomini di
mondo, la salvezza aveva il significato della regalità, il "Redentore" avrebbe
ristabilito la signoria di Dio su tutte le cose, avrebbe riunito tutti i popoli della terra

34
Sal. 94,11
35
Gv. 11,25
36
Mt. 2,2
23
in un unico regno, governato con giustizia e nella pace. Quei Magi risposero alla
chiamata e si misero in cammino alla ricerca di Cristo "per adorarlo", disposti cioè a
riconoscerlo come Re e Salvatore, a sottomettersi a Lui e a servirlo.
Commuove innanzitutto la prontezza con la quale questi uomini saggi e
potenti rispondono alla chiamata di Dio; si lasciano condurre con fiducia e senza
incertezze dalla fede e non temono di affrontare un viaggio di cui non conoscono il
percorso, la durata, le difficoltà, un viaggio che offriva una sola certezza: li avrebbe
portati a incontrare il Re dei Giudei, il grande Atteso da tutti i popoli.
E difficoltà ne hanno certamente incontrate prima di arrivare a Gerusalemme:
fatiche, stanchezza, sacrifici. Ma la certezza che veniva loro dalla fede è stata più
forte di tutti i timori e di tutti i dubbi che venivano dalle situazioni difficili di un
viaggio pieno di incognite e, umanamente parlando, molto simile a una pazzia.
Arrivati poi a Gerusalemme, la prova della loro fede toccò il momento più
duro e cruciale. Si aspettavano di trovare la città in festa, tutta un tripudio per la
nascita del Gran Re; trovarono invece una città indifferente, dominata dal sospetto e
dalla paura. Per di più quella che era stata la loro certezza e la loro guida, la stella
apparsa in Oriente, scompare dal loro cammino. Le stesse informazioni, pur esatte e
sicure dei sacerdoti e degli Scribi, celavano una strana freddezza e un inspiegabile
disinteresse. Infine l'ignoranza di Erode, pur cammuffata da un ostentato entusiasmo,
come poteva accordarsi con l'importanza di un fatto così grande e atteso?
Ebbene, nonostante tutto questo i Magi continuano a "credere"; non dubitano,
non desistono, non si lasciano scoraggiare o fermare. Avevano visto la stella e non
potevano dubitare. Gli uomini possono anche ingannarsi o ingannare, e possono
anche tradire, ma il Cielo no! Il loro viaggio non era finito e la strada intrapresa,
anche se per un momento nascondeva la sue tracce, non poteva esaurirsi nel nulla,
come nella sabbia del deserto. Bisognava continuare, insistere, cercare; la meta era
certa, il cammino sicuro, la direzione era giusta. Fu allora che la stella riapparve, e
con la stella la luce e la gioia: il cielo confermava il suo messaggio.
Giunsero così a Betlemme, e quella stessa fede che li aveva guidati li fece
cadere in ginocchio senza esitazioni e senza scandalo anche se il grande Re, l'Atteso
delle genti, si presentava a loro in un alloggio umile e disadorno, nella debolezza e
nella semplicità di un Bambino che non aveva nulla di regale, in un luogo lontano dai
centri della potenza mondana. Videro il Bambino e adorarono il Re, videro l'uomo
e credettero in Dio.

23 - Perseverare nella fede.

Il nostro viaggio sulla terra conosce le stesse esperienze e gli stessi momenti
del viaggio compiuto dai Magi: incontreremo il dubbio, la stanchezza, la tentazione e
tante altre difficoltà; anche la stella della fede sembrerà eclissarsi sul nostro
cammino e a volte ci potrà apparire come un'illusione o un inganno. Incontreremo la
freddezza e l'ostilità di un ambiente dominato dallo scetticismo e dalla miscredenza;
troveremo folle che vanno in senso contrario al nostro cammino perché stanno
allontanandosi da Dio; potranno assalirci il timore del ridicolo e la paura della
emarginazione, o anche lo sconcerto per il silenzio di Dio davanti alla violenza delle
passioni umane....; ma non dobbiamo fermarci, non possiamo dubitare. Abbiamo
visto anche solo una volta, magari da bambini, la stella della fede nel cielo della
nostra anima? Abbiamo udito, sia pure tra mille voci assordanti, la voce della Chiesa
che ci indicava la strada? Ebbene, non dubitiamo, non lasciamoci intimorire o
fermare da nulla e da nessuno. La meta non potrà essere che la grotta di Betlemme
con il Bambino e sua Madre. Lì, in quella grotta, si incontrano la verità di Dio e la
verità dell'uomo, lì la vita prepara la sua rivincita sulla morte, lì la nostra offuscata
dignità di creature trova lo splendore della nuova dignità di figli di Dio.
24
24 - Il cammino dei discepoli di Emmaus.

Sulle orme dell'Esodo, abbiamo seguito il viaggio degli Ebrei nel deserto, un
viaggio epico verso la salvezza. Lo abbiamo chiamato "Epopea della Salvezza" e
l'abbiamo paragonato al viaggio che l'intera umanità è chiamata a percorrere sulla
terra attraverso il cammino della fede.
Abbiamo poi calcato le orme dei Magi perché anche ciò che è sapiente, nobile
e potente sulla terra deve trovare la strada che porta a Betlemme e scoprire
nell'umiltà di un Bambino la sapienza di Dio e la potenza di Dio.
Ma c'è nel Vangelo il racconto di un altro viaggio, un viaggio meno grandioso
e imponente, un viaggio quasi in incognito, senza rumore, ma non meno drammatico,
che può suggerirci alcune riflessioni sulla fede utili a ciascuno di noi e ad ogni anima
che voglia incontrare il Signore. In quel viaggio, non è un popolo che si muove verso
una terra promessa, non sono dei nobili e dei sapienti che vanno a Gerusalemme per
cercare il Re di tutta la terra, ma sono due viandanti, uno anonimo e l'altro di nome
Cleopa, che viaggiano proprio nel giorno in cui si è compiuta la salvezza: il giorno
della Risurrezione, il giorno della Fede; ma camminano non sulla strada della fede
bensì su quella del dubbio, dello scetticismo, della tristezza. Infatti si allontanano da
Gerusalemme, la città di Dio, città della pace, la meta cui deve tendere ogni anima.
Narra dunque San Luca 37 che nel giorno stesso di Pasqua, due discepoli erano
in cammino verso Emmaus, un villaggio a quindici chilometri da Gerusalemme;
erano tristi e delusi, convinti di essersi ingannati sul conto di Gesù, sulla sua persona
e sulla sua missione: "Noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele!". Frattanto
Gesù in persona si accostò e si fece viandante con loro, "Ma i loro occhi erano
incapaci di riconoscerlo". Allora Egli cominciò a spiegare loro le Scritture, partendo
da Mosè e dai Profeti, su tutto "ciò che si riferiva a Lui".

25 - Resta con noi, Signore!

Ci vengono qui richiamati due aspetti fondamentali che caratterizzano la fede


cristiana: capire le cose di Dio e saper vedere accanto a noi la presenza del Signore
risorto come Redentore. I due discepoli non avevano capito le Scritture e non
avevano compreso il disegno di Dio su Gesù, perciò non riuscivano a riconoscerlo
accanto a loro lungo la strada. E' questa la condizione di chi cammina nella vita
senza la fede; e anche di chi tiene la fede sepolta sotto un velo di tristezza perché ha
permesso al dubbio, alla delusione, allo scetticismo di invadere il suo cuore.
Se non comprendiamo le cose di Dio non capiremo il valore di tutto ciò che
esiste, né il senso di ciò che accade intorno a noi e nel mondo. Così pure, se non
sappiamo riconoscere Cristo che ci accompagna nel nostro cammino sulla terra,
nessun'altra presenza potrà sottrarci alla solitudine e alla tristezza di chi ha perso
speranza e amore; una solitudine che rimane anche nel chiasso delle ambizioni e dei
piaceri mondani, e ancor più rimane nel vuoto alienante delle discoteche e degli
stadi.
Tuttavia dobbiamo mantenerci fermamente convinti che Gesù non si stacca da
noi mai, che continua ad accompagnarci soprattutto nei momenti più duri e difficili
del nostro cammino. Qualunque cosa succeda, qualunque situazione interiore possa
verificarsi, non dobbiamo mai allontanarci dal Signore. I due discepoli, pur senza
riconoscerlo e pur appesantiti dallo scoraggiamento, trattennero Gesù durante il
viaggio e lo forzarono a fermarsi con loro come ospite. Se lo avessero lasciato andare
37
Lc. 24,13-35
25
e proseguire oltre non sarebbe successo nulla; forse avrebbero smarrito
definitivamente la fede e sarebbero naufragati nello scetticismo, delusi per sempre.
Dobbiamo continuare a frequentare Cristo nel Vangelo, nella preghiera e
nei Sacramenti, anche se tutto ci sembra inutile e falso, anche se non avvertiamo
più in modo sensibile la sua presenza, anche se tutte le nostre speranze e le nostre
certezze sembrano crollate. Non ci può essere dentro di noi una notte così buia che
non possa essere illuminata dalla Parola di Dio; non ci può essere nel nostro cuore
una tristezza tanto cupa e tanto fredda che non possa essere riscaldata dalla presenza
dolce e amorosa di Cristo.
Dobbiamo "volere" fermamente la fede; cioè, dobbiamo anche noi, come i due
discepoli di Emmaus, saper "trattenere" Gesù, quasi costringerlo a continuare il suo
cammino con noi. Si scioglieranno nella nostra anima le durezze, le oscurità, le tristi
freddezze; arriveremo anche noi a dire, per averlo provato direttamente: "Non ci
ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, mentre
ci spiegava le scritture?". 38 Non stacchiamoci da Cristo, mai! Egli vincerà i nostri
dubbi, le nostre angosce, le nostre delusioni. Ritornerà la luce, fiorirà la speranza,
rinascerà la gioia." Non si turbi il vostro cuore e non abbia timore, non vi lascerò
orfani, ritornerò a voi (...) Ora siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo, (e anche
voi mi vedrete) e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra
gioia". 39
Comprendere le cose di Dio, riconoscere Cristo accanto a noi anche quando
avvenimenti difficili e dolorosi lo nascondono ai nostri occhi: ecco il cammino della
fede, il nostro itinerario che deve portarci sulla strada di Gerusalemme. E la nostra
gioia dovrà essere così contagiosa da trascinare con noi verso il Signore tanti
discepoli scoraggiati e delusi che hanno smarrito la strada della fede, la strada della
pace. Dobbiamo avere in noi tanta fede, tanta certezza da essere un altro Gesù
per quanti incontriamo nella vita, e per quanti incrociano la nostra strada.

FEDE E VITA CRISTIANA

26 - La fede nella vita cristiana.

Ogni creatura vive nel tempo e si muove nel tempo, ma l'uomo fatto a
immagine e somiglianza di Dio vive e si muove nel tempo in modo unico e singolare:
a lui è dato di vivere con dimensione di eternità. In questo viaggio nel tempo noi
cristiani abbiamo come strada la fede. Su questa strada possiamo muoverci con
passo deciso e sollecito ma anche con passo lento e faticoso, magari con scivoloni e
cadute, come pure possiamo muoverci speditamente e senza fatica con l'aiuto di
mezzi comodi e veloci che il Padrone della strada - il Signore - ci mette a
disposizione. Sul nostro cammino della fede, infatti, il Signore è presente con la luce
della sua verità - il suo vangelo - e con la grazia dei suoi sacramenti. Inoltre la
Chiesa ci guida e ci accompagna lungo il percorso con l'attenzione e la cura proprie
della sua missione materna. Talvolta succede anche che il Signore ci fa "volare" nella
fede con interventi particolari della sua grazia e con i doni dello Spirito Santo.
Da parte nostra i passi che muoviamo su questa strada corrispondono ai singoli
atti di fede che esprimiamo nella nostra vita aderendo di volta in volta al Signore.
Ora, ci sono cristiani che non compiono mai atti di fede; sono coloro che hanno

38
Lc. 24,32
39
Gv. 16,20
26
dimenticato Dio nella loro vita e hanno abbandonato la preghiera e i sacramenti. In
loro la fede è morta e la loro vita non è molto diversa da quella dei pagani che non
conoscono Dio. Senza la fede, il loro cammino sulla terra è molto simile a un
viaggio nel buio, nella nebbia più fitta, e non sanno da dove viene e dove conduce il
loro sentiero. Il lungo silenzio che li separa da Dio e che dura da anni, conosce solo
il vociare assordante dei ragionamenti umani; essi continuano nella vita
accontentandosi delle provvisorie certezze del sapere umano, della buona salute, del
successo economico ma in realtà portandosi dentro un immenso bisogno di Dio.

27 - La virtù della fede.

Ci sono poi cristiani che compiono solo raramente atti di fede; la loro vita
infatti si svolge quasi abitualmente secondo i criteri di questo mondo. Sono anche
persone perbene, si comportano onestamente, ma non sanno vedere la loro esistenza
in riferimento a Dio. Ogni tanto pregano, ma per motivi molto umani e, "quando se
la sentono", vanno anche in chiesa, soprattutto nelle occasioni tradizionalmente
sentite dalla massa dei credenti. Per loro le cose che veramente contano sono il
lavoro, la buona salute, la carriera, i conforts della vita e la posizione sociale. La
fede è rimasta come rattrappita dentro il loro cuore, quasi soffocata da un
materialismo pratico dove il Signore appare raramente e con fatica. Fanno ricordare
il terreno occupato dalle spine nella parabola evangelica del seminatore.
Ci sono ancora cristiani che compiono frequentemente e anche abitualmente
atti di fede. Ricorrono a Dio nella preghiera ogni giorno, compiono i doveri
quotidiani con rettitudine sapendo di dover rendere conto a Dio, sanno compiere
sacrifici per aiutare gli altri, santificano abitualmente le feste e ricorrono con
frequenza ai sacramenti, sanno prendere dalle mani di Dio quanto accade nella loro
vita. Gli atti di fede sono in loro frequenti, la fede è diventata pressoché abituale, un
"abito" appunto: hanno la virtù della fede. Come ogni creatura umana, hanno limiti e
difetti, debolezze e cedimenti, ma lottano con umiltà e perseveranza appoggiandosi
all'aiuto e alla misericordia di Dio. In essi si può vedere realizzata l'espressione
biblica: justus autem meus ex fide vivet. 40 Nell'uomo che cerca la santità la fede è
diventata vita.
Infine, ci sono cristiani che vivono la fede eroicamente; in essi questa virtù è
diventata non solo così abituale da dare senso soprannaturale a tutte le cose piccole e
grandi della loro vita, ma ha portato la loro anima all'unione intima, quasi abituale,
con Dio. Nulla li turba più: non le tribolazioni della vita, non la malattia, non il
disonore, non la fatica..., Tutto hanno abbandonato nelle mani di Dio. Avvertono
quasi istintivamente quello che Dio chiede a loro e si lasciano guidare, quasi portare
da Lui, con assoluta docilità. Vivono talmente uniti a Dio che si lascerebbero
uccidere piuttosto che dispiacergli in qualche cosa. La fede è per loro criterio e
misura di tutto, ed è arrivata a permeare profondamente tutte le altre virtù cosicché
non si nota più distinzione tra fede e amore; tutto nella loro vita è illuminato dalla
fede, tutto è mosso dall'amore.

28 - Fede e preghiera.

Possiamo dire che il grado di fede raggiunto dalla nostra anima può darci la
misura della nostra vita cristiana. Vediamolo in alcuni aspetti particolari della vita
spirituale dove la fede ha un ruolo insostituibile. Innanzitutto il rapporto tra fede e
preghiera. E' un rapporto reciproco: senza la fede non si dà preghiera cristiana e
40
Ebr. 10,38
27
senza la preghiera la fede manca del suo respiro e si spegne.
Abbiamo detto "preghiera cristiana", cioè la preghiera di Cristo, quella che lui
ha praticato e che lui ci ha insegnato. La preghiera di Gesù si differenzia da tutte le
altre forme di preghiera che troviamo nella religiosità umana. Nelle varie religioni la
preghiera nasce dall'uomo; suppone un naturale bisogno del divino che spinge la
mente e l'animo dell'uomo a cercare Dio. La preghiera assume così la forma di
invocazioni propiziatorie, di riti e pratiche cultuali che hanno forte incidenza sulla
emotività e che a volte si esprimono con formule elaborate e di effetto, oppure si
sviluppano in forme più interiori come meditazioni intellettuali, esercizi spesso
impegnativi di ascesi e di purificazione, tecniche psicologiche per approppriarsi del
proprio corpo e del proprio mondo interiore. Esprimono comunque la nostalgia
dell'animo umano che ha sempre desiderato Dio e lo ha affannosamente cercato.
Tuttavia l'unione con Dio è una realtà che trascende l'uomo e ogni sua iniziativa, una
realtà della quale non ci si può impossessare con nessuno sforzo naturale e con
nessuna tecnica umana per quanto raffinata.
La preghiera è l'elevazione dell'anima a Dio. Noi cristiani sappiamo di non
poter appoggiarci su alcuna forza nostra per arrivare al trono di Dio, e sappiamo
anche di non avere titoli per essere da Lui ascoltati: non abbiamo meriti, non
abbiamo virtù, non abbiamo opere proporzionate. L'unico titolo che abbiamo è quello
conferitoci da Gesù: siamo figli. Lui stesso ce lo ha ricordato: "Quando pregate dite
così: Padre..." Già questo, di rivolgerci a Dio e di chiamarlo Padre, è un grande atto
di fede; ma poi ogni preghiera, da quella più semplice a quella più sublime deve
nascere dalla fede nella paternità di Dio. Quanto più viva è questa fede tanto più la
nostra preghiera si trasforma nel colloquio intimo di un figlio con suo padre.
La strada dell'orazione si identifica dunque con quella della fede. Una fede
vera, autentica, genera in noi un senso vivo e gioioso della nostra filiazione divina, ci
mette subito al nostro posto, non solo di creature ma di figli che Dio ha chiamato alla
sua intimità, alla partecipazione della sua stessa vita. E' una prospettiva così bella e
affascinante che dovrebbe rendere la preghiera facile e spontanea, invece la nostra
superbia, la nostra paura, il demonio stesso, ce la rendono così difficile e faticosa che
il Signore ha dovuto rimproverarci: "Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone
ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che
glielo chiedono". 41

29 - Preghiera “cristiana”: preghiera di Cristo.

La filiazione divina diventa così il fondamento del nostro rapporto con Dio, e
perciò il fondamento di ogni nostra preghiera. Tale è stata la preghiera di Gesù. Chi
mai potrà penetrare il mistero sublime di tante notti passate da Gesù in intimo
colloquio col Padre? Quella preghiera, che ha impressionato così profondamente gli
apostoli, è diventata per ogni cristiano, discepolo del Signore, il modo nuovo e
assolutamente esemplare di stare con Dio e di parlare con lui. Per questo una
preghiera che nasca dalla filiazione divina è sempre efficace perché Dio non vuole
rifiutare nulla a un figlio che crede in lui e si abbandona al suo amore paterno. Anzi,
sappiamo che Dio ascolta anche i peccatori quando la loro preghiera scaturisce da un
cuore umile e contrito, quando si riconoscono bisognosi della sua misericordia e si
affidano alla sua bontà di Padre. Il vero impedimento alla preghiera è la superbia;
essa ci fa stare davanti a Dio con l'atteggiamento della pretesa, come se avessimo
dei diritti o potessimo contare sui nostri meriti.
La nostra condizione davanti a Dio è quella di debitori insolventi che non
hanno di che pagare. 42 Anche le nostre opere buone più preziose non sono che poveri
41
Lc. 11,13
42
Mt. 18,25
28
spiccioli che valgono ben poco agli occhi di Dio. Gli unici meriti che possiamo
vantare sono quelli che ci ha guadagnato Gesù sulla croce. Il suo sacrificio ha
accumulato per noi un tesoro infinito, e solo attingendo a questo tesoro noi possiamo
pagare i nostri debiti con Dio e riparare il male fatto con i nostri peccati. Gesù porta
ancora nella sua carne i segni della passione, e con essi sta davanti al Padre nella
gloria del cielo come nostro Grande Intercessore. Perciò la Chiesa, nella sua liturgia
conclude tutte le preghiere rivolgendosi al Padre "per i meriti di nostro Signore Gesù
Cristo.".
Questa umiltà è caratteristica esclusiva della preghiera cristiana; è anche
l'atteggiamento che garantisce autenticità e gioia al nostro rapporto con Dio.
Possiamo infatti stare davanti a Lui e dirgli con assoluta fiducia: "Padre, sono tuo
figlio, peccatore e pieno di miserie, ma tuo figlio. Tu hai chiesto a Gesù, il tuo figlio
prediletto, di dare la sua vita per me; io te lo offro, e insieme con lui ti offro me
stesso, la mia vita, tutte le cose che porto nel mio cuore. Ti offro anche tutto ciò che
mi appartiene, non esclusi i miei peccati, le mie miserie, la mia debolezza".
Noi saremo ascoltati da Dio non per la nostra preghiera, ma per la nostra
fede; quella fede che ci porta ad essere fermamente convinti che Dio ci ama, e ci ama
non per i nostri meriti, per le nostre virtù o qualità che spesso non ci sono, ci ama
solo in forza della sua paternità divina. Dubitare di Lui è il torto più grave che
possiamo fare a Dio, perché è mettere in dubbio quello che lui ha fatto per noi: ci ha
fatti suoi figli e ci ha dato Gesù come Redentore. Sono questi i due punti di forza
della nostra preghiera.
Questa fede umile ma fermamente convinta ci libera dalla pretesa e ci riempie
invece di audacia santa, secondo quelle parole di Gesù: "In verità, in verità vi dico:
se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, Egli ve la darà. Finora non avete
chiesto nulla nel mio nome. Chiedete ed otterrete, perché la Vostra gioia sia piena". 43
Chiedere nel suo nome vuol dire appoggiare la nostra preghiera su Cristo crocifisso,
ma vuol dire anche che dobbiamo pregare come ha pregato Gesù: Egli si è sempre
fidato e affidato alla volontà del Padre. Dal primo momento, da quando è entrato nel
mondo - "Vengo, o Padre, a compiere la Tua volontà" - fino al momento estremo
della passione - "Padre, non sia fatta la mia ma la tua volontà" - tutta la vita di
Cristo è stata una preghiera di obbedienza al Padre. Anche noi, quando andiamo a
pregare, andiamo a consegnarci con assoluta fiducia nelle mani di Dio; Egli sa più di
noi, e ci ama.

30 - La fede e la croce.

Il riferimento a Cristo crocifisso ci porta a considerare un secondo aspetto


della preghiera, quello del suo rapporto con la Croce. Innanzitutto, la croce del
Signore è essa stessa una preghiera: la più grande, la più sublime preghiera in tutta la
storia umana. Da allora, da quando il Figlio di Dio ha preso su di sé il dolore e la
morte, ogni sofferenza umana può diventare preghiera. Saper vedere nel Cristo
sofferente disteso sulla croce, con le braccia aperte verso il cielo, la preghiera
vivente, la preghiera che sgorgata dal cuore del Sommo ed Eterno Sacerdote, penetra
nei cieli e sale fino al Padre ottenendo la salvezza per tutta l'umanità, è questo uno
dei frutti più consolanti della fede.
Questa stessa fede aiuta poi ognuno di noi ad unire al dolore di Cristo le
proprie sofferenze, piccole o grandi che siano, soprattutto le sofferenze che non
riusciamo a capire, come la sofferenza innocente, quella ingiusta, quella provocata da
cattiveria gratuita e crudele o da calamità che fanno pensare ad una natura matrigna e
impietosa, in una parola le sofferenze che sembrano senza senso, assurde per la
ragione e per il cuore. Saper unire queste sofferenze al dolore dell'unico Innocente,

43
Gv. 16,23-24
29
di Colui che "nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti
grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà...
e divenne causa di salvezza eterna per coloro che gli obbediscono" 44 , è un frutto
prezioso della nostra fede.
La croce di Gesù santifica il dolore, lo riscatta dalla maledizione,
impedisce che diventi bestemmia, trasformandolo invece in preghiera, in
espiazione, in salvezza. Anche in questo trova valore e significato la nostra
partecipazione al sacrificio della Messa. Sul Calvario accanto a Gesù Crocifisso e
Innocente c'erano due colpevoli condannati alla stessa pena. Uno di loro si
contorceva nella ribellione e trasformava il suo dolore in bestemmia, l'altro,
consapevole che il dolore nasce dal peccato o comunque è sempre segno del peccato,
seppe trasformare la sua sofferenza in preghiera: "Gesù, ricordati di me nel tuo
regno!". In quel momento il dolore dell'uomo diventa dolore di Cristo, l'unico dolore
veramente innocente, che salva e che redime. "In verità ti dico, oggi sarai con me in
Paradiso". 45
Talvolta la sofferenza arriva improvvisa e violenta, come un urto, mette alla
prova la solidità della nostra fede, rivela quali sono i veri atteggiamenti della nostra
anima, e mostra fino a che punto sia abituale in noi la preghiera e quanto sia filiale il
nostro rapporto con Dio. La sofferenza può portare allora a quella forma
squisitamente cristiana di preghiera che chiamiamo "preghiera di abbandono"; Gesù
l'ha vissuta in modo sublime nel momento supremo della sua vita: "Padre, nelle tue
mani abbandono il mio spirito". 46

31 - Guardare “oltre” la croce.

Quando il dolore ci sembra ingiusto e crudele, disumano e ingiustificabile,


l'unica risposta è la preghiera di abbandono; cioè l'atteggiamento di una creatura
piccola che non comprende ma che si consegna nelle braccia di suo Padre. E', questo,
l'atteggiamento degli umili e dei semplici, di chi è convinto che Dio non è un Signore
lontano, che assiste indifferente e impassibile al dolore degli uomini, ma un Padre
"ricco di misericordia" che, come racconta la parabola del buon samaritano, ha
inviato suo figlio a raccoglierci "percossi e feriti" su questa strada di Gerico che è il
nostro cammino sulla terra, a fasciare le nostre ferite, versandovi "l'olio e il vino"
della sua pietà e della sua consolazione.
Se la fede è la virtù di chi cammina nel tempo, essa è particolarmente preziosa
quando il cammino si fa aspro e dolente, quando le lacrime della sofferenza si
mescolano al sudore della fatica, e diventa indispensabile quando il dolore tocca il
suo vertice nel momento del sacrificio supremo, quello che conclude la nostra
vicenda terrena; la morte è l'ultima nostra preghiera, il nostro definitivo abbandono
al Dio della vita.
L'itinerario della fede non è facile, deve superare lo scandalo della Croce,
deve passare attraverso il Venerdì Santo, e saper anche accettare che la luminosa
certezza di Cristo Risorto rimanga un mistero; esso attende la sua piena rivelazione
nella "Parusia", cioè al ritorno del Signore. Solo allora comprenderemo il significato
di tutte le cose.
Intanto la fede rimane una continua provocazione ad "andare oltre": oltre il
sentire, oltre il conoscere, oltre il comprendere. La fede ci permette di rompere la
crosta delle cose, di andare oltre il mondo delle apparenze; ci permette di vedere
ciò che sta "dietro" gli avvenimenti, dietro la storia e le vicende umane. La fede è
vedere Dio presente e nascosto; Dio che tiene in mano i fili di ogni esistenza e va
44
Ebr. 5,7
45
Lc. 23,42-43
46
Lc. 23,46
30
tessendo l'arazzo della nostra vita in un misterioso e commovente dialogo tra la sua
grazia e la nostra libertà. L'arazzo più prezioso e stupendo è fatto di tanti fili di lana
che, presi uno per uno, non dicono nulla; potresti sfilarli uno dopo l'altro e
distruggere l'arazzo. Solo vedendoli nel loro insieme, cioè nel loro rapporto col
disegno dell'Artista, puoi capire il senso di ogni filo. Anche una cattedrale romanica
è fatta di mattoni; potresti levarli uno per uno e la Cattedrale non esisterebbe più, e
dove prima ogni mattone aveva il suo posto, il suo significato, ora non ci sarebbe che
un mucchio di pietre senza senso. Qui sulla terra, solo la fede può farci intravedere
il disegno di Dio; ma non possiamo scorgerlo con chiarezza e completamente perché
il tempo non basta per spiegarlo e il nostro sguardo è incapace di abbracciarlo per
intero.
Anche ogni avvenimento della tua vita è un filo di lana che, preso da solo, può
apparirti insignificante e a volte assurdo. Anche inserito nell'insieme può sembrarti,
visto in questa vita, come un groviglio inestricabile. Devi attendere - la fede è anche
attesa - di passare "dall'altra parte", dalla parte dell'eternità. Solo allora vedrai ogni
cosa con chiarezza; allora non solo l'arazzo della tua vita, ma tutta la storia e la
vicenda umana riveleranno il loro volto, la loro bellezza, il loro splendore. E capirai
che la fede non ti ha ingannato, che la sua oscurità è stata l'unica certezza che abbia
veramente illuminato il tuo cammino sulla terra.

L'ATTO DI FEDE

32 - L’atto più nobile.

Abbiamo visto qual è l'oggetto della nostra fede: Dio che rivela sé stesso e
realizza, per mezzo di Cristo, il suo progetto di salvezza, la redenzione dell'uomo,
chiamandolo alla perfetta comunione con Lui. Ma al fine di fortificarci nella fede e
di comprendere più chiaramente la nobiltà e la preziosità di questo dono, giova ora
esaminare l'atto di fede in sé stesso, così come si compie in noi. Sulla terra non c'è
atto più nobile di quello di aderire a Dio attraverso la fede; è questo, infatti, l'atto più
sublime dello spirito umano.
Ogni atto di fede impegna profondamente tutto l'uomo, la sua facoltà
intellettiva, la sua volontà, il suo cuore; è un atto profondamente umano e tuttavia è
un atto totalmente soprannaturale perché esige l'azione di Dio nella nostra anima;
ogni atto di fede è un mistero di libertà e di grazia. Dall'analisi sul ruolo che
ciascuna facoltà del nostro spirito svolge nell’atto di fede, comprenderemo anche la
necessità di una sempre più generosa purificazione interiore perché la fede si liberi
pienamente e pervada tutta la nostra vita.
Vediamo innanzitutto il ruolo dell'intelletto. Ci riferiamo, ovviamente, a un
intelletto normale, cioè sano nel suo modo naturale di conoscere, libero quindi dalle
ideologie, quelle malattie dell'intelligenza che rendono l'uomo incapace di formulare
il benché minimo atto di fede.
Il ruolo dell'intelletto è fondamentale, non solo perché la fede implica
un'attività conoscitiva, ma anche perché l'intelligenza è chiamata a svolgere un
triplice lavoro nell'atto di fede: 1) ci documenta l'esistenza di verità rivelate da
Dio; 2) ci mostra che queste verità sono credibili, perché vengono da Dio e sono
accompagnate dalla sua testimonianza; 3) ci ricorda, infine, il dovere di assentire a
queste verità perché Dio è il Signore, e ha diritto all'omaggio anche intellettuale della
sua creatura.

31
33 - L’intelletto nell’atto di fede.

La prima attività dell'intelligenza è dunque documentativa, ha cioè lo scopo di


dimostrarci l'esistenza della Rivelazione come ci viene documentata nella Sacra
Scrittura e in particolare nei Vangeli. E' infatti dai Vangeli che emerge la verità
fondamentale della nostra fede: Gesù è Figlio di Dio, Salvatore dell’uomo. Viene
dunque chiamata in causa l'attendibilità dei Vangeli, cioè la loro storicità e il loro
valore come documenti.
I Vangeli come documenti storici non erano mai stati messi in discussione da
nessuno; vennero impugnati per la prima volta dall'Illuminismo settecentesco, e poi
dai suoi eredi naturali: il Razionalismo positivista del secolo scorso e la cultura
immanentista e atea del nostro secolo. Precedentemente i Vangeli furono disattesi,
combattuti, anche rifiutati ma non furono mai accusati di falso o di mistificazione. Il
pensiero moderno lo ha fatto; e lo ha fatto non come conclusione di un serio esame di
critica storica, ma come conseguenza di un presupposto aprioristico: l'impossibilità
del soprannaturale e la negazione della trascendenza. Poiché, dicono, il
soprannaturale non è possibile o non esiste, i documenti che pretendono di affermarlo
sono falsi, spuri, o mitici, comunque non sono storici.
La conseguenza di questo atteggiamento è la miscredenza, anche quella che si
presenta sotto forma di fideismo. Infatti queste posizioni, che all'epoca del
razionalismo ufficiale erano drastiche e categoriche, sono oggi riciclate sotto forma
di morbide affermazioni fideiste che, col pretesto degli enormi progressi compiuti
dalle scienze umane, vorrebbero demitizzare la storia per salvare la fede.
L'importante - si dice in questi ambienti - non è sapere ciò che Gesù ha detto o ha
fatto, se cioè i fatti narrati dai Vangeli corrispondano veramente alla realtà storica,
ciò che interessa è sapere qual è stata la fede delle prime comunità cristiane. In altre
parole, i Vangeli non sarebbero una testimonianza su Gesù di Nazareth, sulla sua vita
e le sue opere, ma documenterebbero la fede delle prime comunità cristiane, come se
gli apostoli non avessero conosciuto Cristo.
Ora San Giovanni, che ultimo fra gli apostoli scrive con lucidità assoluta la
sua esperienza vissuta con Gesù - ricorda con chiarezza perfino l'ora esatta del suo
primo incontro con lui - ha parole durissime contro coloro che dubitavano della realtà
storica di Cristo: "Molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo i quali non
riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l'Anticristo!". 47
Sappiamo dunque dalla fede che i Vangeli sono stati ispirati da Dio, ma
sappiamo anche dalla scienza critica che sono documenti storicamente affidabili. Essi
riportano la testimonianza esplicita di coloro che furono testimoni diretti, in prima
persona, degli avvenimenti che narrano. Testimoni, gli apostoli, che furono
perseguitati, imprigionati, uccisi, ma che nessuno ha mai potuto accusare di falso o
di menzogna. San Luca, all'inizio del suo Vangelo, dice apertamente di essere andato
a consultare coloro che furono testimoni fin da principio, e di aver fatto ricerche
accurate su ogni circostanza fin dagli inizi, per poter farne un resoconto ordinato; e
questo proprio perché la nostra fede fosse solida, cioè fondata.
A conferma della nostra convinzione su questi presupposti della fede,
ricordiamo le parole del Concilio Vaticano II: "La Santa Madre Chiesa ha ritenuto e
ritiene con fermezza e costanza massime, che i quattro Vangeli, di cui afferma senza
esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù, Figlio di Dio, durante la
sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza fino
al giorno in cui fu assunto in cielo". 48

47
2 Gv. 7
48
Dei Verbum n. 19
32
34 - Purificare l’intelligenza.

A questo punto diventa necessaria una purificazione dell'intelligenza, che


consiste nel liberarla dal dubbio gratuito, dal pregiudizio intellettuale e
dall'ignoranza. Il dubbio gratuito non è un dubbio vero e serio; è spesso un
atteggiamento da adolescenti che negano tutto per partito preso, un atteggiamento
superficiale e sciocco; più frequentemente si tratta di una tentazione, e la tentazione
si vince cacciandola mediante un atto esplicito di fede che diventa preghiera.
Il pregiudizio intellettuale nasce da lacune o deformazioni nella propria
preparazione culturale; spesso vuol coprire altre motivazioni dove non è estraneo
l'amor proprio o l'attaccamento a opinioni personali, attaccamento che arriva fino a
difendere come verità scientifiche quelle che sono pure ipotesi tutte da dimostrare.
L'ignoranza infine non è soltanto la non conoscenza dei Vangeli e della
Rivelazione; questa è purtroppo un'ignoranza molto diffusa e costituisce uno dei
peggiori nemici della fede. Sul vuoto prodotto da questa ignoranza prende posto la
cultura del dubbio e del sospetto così largamente distribuita nelle scuole e dai mass-
media. E' tuttavia un'ignoranza che si può vincere facilmente con lo studio, con la
lettura del Vangelo e attraverso l'insegnamento della Chiesa. Ma c'è un'altra
ignoranza più pericolosa, e che potremo definire ignoranza saccente: è l'ignoranza di
chi, appoggiandosi a pregiudizi pseudo-scientifici, magari paludati da sfoggio di
erudizione, ignorano il serio lavoro della critica storica che ha fatto dei Vangeli i
libri più studiati, analizzati e documentati di tutta l'antichità, arrivando a conclusioni
che confermano la plurisecolare tradizione della Chiesa; tradizione che ha sempre
proposto i Vangeli come documenti non solo ispirati ma anche autentici, e legati
fedelmente alla testimonianza storica degli apostoli.
Da questa ignoranza presuntuosa viene l'uomo della "modernità", così tipico
della nostra civiltà occidentale: scettico, diffidente, che crede solo a sé stesso e a chi
gli dà ragione, che non si fida della Chiesa e del Vangelo, e che guarda con sospetto a
Gesù Cristo. Eppure, con quale fermezza e rigore gli Apostoli si appellavano alla
propria testimonianza! Scrive San Giovanni: "Ciò che noi abbiamo udito, ciò che
noi abbiamo veduto coi nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le
nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo anche a
voi". 49 In nome di questa testimonianza obiettiva e verace egli invita alla fede
affinché possiamo anche noi aver parte con i credenti alla conoscenza di Gesù Cristo.

35 - “Credibilità” delle verità di fede.

La seconda attività dell'intelletto è persuasiva. Con essa l'intelletto ci mostra


che le verità rivelate da Dio e testimoniate dagli Apostoli, anche se non sono evidenti
in sé stesse, sono tuttavia credibili. Il ragionamento di Nicodemo, uomo saggio e
sincero, uomo di scienza, vale per tutti: "Rabbi, sappiamo che sei un maestro venuto
da Dio; nessuno infatti può fare i segni che fai tu se Dio non è con lui" 50 . Proprio
perché Gesù viene da Dio è un testimone degno di fede. Del resto il Padre stesso gli
ha reso testimonianza: "Le opere che io sto facendo testimoniano di me che il Padre
mi ha mandato". 51
Non è dunque l'evidenza delle cose che muove la nostra intelligenza alla fede,
- non sarebbe più fede ma scienza - è il fatto che Gesù è testimone di Dio. "Dio
nessuno mai l'ha visto: proprio il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre, Lui lo
ha rivelato". 52 Inoltre, le verità che Gesù ci ha rivelato sono spesso oscure e
impenetrabili alla nostra mente. "E' duro questo discorso; chi può intenderlo?"
49
1 Gv. 1,1
50
Gv. 3,2
51
Gv. 5,36
52
Gv. 1,18
33
mormorava la folla davanti alle parole di Gesù sul Pane vivo. Ma proprio allora
l'intelligenza è chiamata a dire con Pietro: "Signore, tu solo hai parole di vita eterna
e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio.". 53
A questo punto la purificazione dell'intelligenza richiede il rifiuto della
pretesa razionalistica. Pretendere di capire tutto, significa pretendere che Dio sia
a misura dell'uomo. La ragione stessa invece comprende che la verità è più
grande di noi perché Dio trascende infinitamente l'uomo. L'orgoglio intellettuale,
che non ammette limiti alla ragione umana e che rifiuta tutto ciò che non è
umanamente comprensibile, cioè contenibile nelle categorie della ragione, considera
la fede come umiliazione dell'intelligenza. Questa pretesa trova oggi consensi
soprattutto negli ambienti delle scienze. Il potere della scienza non avrebbe limiti e il
suo progresso sarebbe inarrestabile. Nulla dunque può esserci oltre i confini della
scienza se non il mito e la superstizione.
La fede, secondo il pregiudizio illuminista, equivarrebbe ad un'aperta
dichiarazione di impotenza intellettuale, di ignoranza, e continuerebbe a mantenere
l'uomo in una umiliante condizione di inferiorità e di oscurantismo; tutt'al più si
potrebbe accettare la fede come stadio transitorio, una sorta di immaturità
intellettuale da superare e abbandonare quanto prima. Ora, questi intelligenti secondo
il mondo, questi luminari del sapere scientista, sono in realtà degli stolti, vittime di
un orgoglio che è riduttivo dell'intelligenza, oltre che del sapere. Senza dubbio le
parole di Pietro: "Signore, tu solo hai parole di Vita Eterna; e noi abbiamo creduto
che tu sei il Figlio di Dio", sono una confessione di ignoranza che spinge ad affidarsi
ad un altro; ma Pietro aveva una chiara consapevolezza che nella fede egli si affidava
a "Colui che sa" e che è degno della più assoluta fiducia.
La fede è partecipazione al sapere di Dio, e contiene l'affidabilità propria della
santità di Dio. "Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio
è più grande; e la testimonianza di Dio è quella che ha dato al suo Figlio". 54 Per
questo, la fede non è soltanto potenziamento dell'intelligenza umana, ma anche segno
di grande saggezza. E' la sapienza che fa grande lo spirito dell'uomo. 55

36 - Il dovere di credere.

La terza attività dell'intelletto, nell'atto di fede, è di natura morale: ci ricorda


il nostro dovere di creature verso l'autorità di Dio. Nella Rivelazione, Colui che ci
parla è Dio e non un uomo; è Colui dal quale tutte le cose hanno principio nel cielo e
sulla terra; a Lui noi tutti siamo vincolati nella nostra stessa esistenza di creature.
Quando colui che ci parla è Dio, noi abbiamo il dovere di prestargli attenzione e di
dargli il nostro assenso, tanto più che nella sua Rivelazione non ci comunica opinioni
umane, ma la sua Verità. E la Verità è vincolante non solo dell'intelligenza ma di
tutta la nostra persona: è necessario attuare nella vita la verità in cui crediamo. "Io
sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce
della vita". 56 Non si respinge impunemente la Rivelazione di Dio, perché in essa Dio
impegna la sua autorità. "Chi non crede a Dio fa di lui un bugiardo perché non crede
alla testimonianza che Dio ha reso a Suo Figlio. E la testimonianza è questa: Dio ci
ha dato la Vita eterna e questa vita è nel Suo Figlio". 57
L'intelligenza dunque ci ricorda il nostro posto di creature davanti a Dio e
il dovere fondamentale che abbiamo di ascoltarlo quando egli ci parla.
53
Gv. 6,68-69
54
1 Gv. 5,9
55
Proprio in questi giorni, Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Fides et Ratio», al capitolo
secondo, tratta della fede come sapienza.
56
Gv. 8,12
57
1 Gv. 5,10
34
Ricordiamo Mosè davanti al roveto ardente. Per questo S.Paolo parla della fede come
di un "ossequio" della nostra persona, e S.Giovanni la chiama "un comandamento".
Istintivamente l'uomo non si fida di ciò che non capisce; se lo accetta, è
perché si fida di un altro "che sa", e che attesta onestamente quello che sa. E' un
atteggiamento senza dubbio valido e ragionevole, e lo è in sommo grado quando chi
sa e chi attesta è Dio stesso. Ma quando si pensa che la fede non offre le stesse
garanzie della scienza o la stessa sicurezza offerta dalla propria esperienza, dalle
proprie convinzioni, o dalle stesse evidenze razionali, allora la fede è guardata con
sospetto e con diffidenza, come se fosse un tranello, oppure come un palliativo per
mascherare la propria ignoranza.
Quando poi la fede sembra contrastare le proprie decisioni personali o le
proprie scelte di vita, allora viene istintivamente rifiutata come una limitazione alla
libertà interiore e un impedimento alla propria maturità. Se infine si arriva, come
nelle moderne ideologie, a trasformare il sapere in potere, la conoscenza in dominio,
la libertà di pensiero in volontà di potenza, allora l'autorità è respinta come una
minaccia e l'ossequio della fede rifiutato fino alla ribellione in nome della propria
coscienza, considerata fonte della libertà. Il libero pensatore e l'anarchico sono
sempre andati a braccetto sulle strade di tutte le ribellioni.

37 - “Intelletto cristiano”

Ma il compito dell’intelletto nei riguardi della fede non si limita a rendere


possibile l’atto di fede e a giustificarlo razionalmente, compito che in certo senso è
previo alla fede, ma va anche oltre: cioè l’intelletto ha un proprio ruolo all’interno
della fede stessa. Del resto, non potrebbe essere diversamente dal momento che la
fede è una «conoscenza», e noi non abbiamo altra facoltà conoscitiva che l’intelletto.
Perciò, anche il contenuto della fede non può prescindere dalla ragione.
Qual è dunque questo compito o servizio che l’intelligenza svolge all’interno
della fede? Per comprendere meglio, ricordiamo il mistero dell’Incarnazione: il
Figlio di Dio si fa uomo e assume la nostra natura umana nella sua limitatezza; dal
canto suo la nostra natura mette a disposizione della seconda Persona della
Santissima Trinità le proprie facoltà umane per mezzo delle quali il Dio-Figlio agisce
come uomo e può compiere la missione ricevuta dal Padre: la Redenzione.
Analogamente, le verità che Dio ci ha fatto conoscere nella Rivelazione e che
sono oggetto e insieme contenuto della fede, sono proposte all’intelletto umano il
quale, a sua volta, mette a servizio della Rivelazione le categorie razionali che, sia
pure nella loro limitatezza, servono ad esprimere rettamente quelle verità; esprimere
rettamente, servono cioè non a spiegare ma a formulare senza deformarle le verità
rivelate da Dio.
In altre parole la fede, sia per il contenuto come anche per la sua origine e
per il suo fondamento, trascende l’intelletto umano ma nello stesso tempo non
può farne a meno perché ha bisogno delle sue categorie razionali per esprimersi.
In un certo senso la Rivelazione si «incarna» nell’intelletto umano, lo eleva ma anche
ne utilizza i mezzi per rendersi «conoscibile».
D’altra parte questo servizio che la ragione rende alla fede è ben ripagato
perché la fede – virtù teologale infusa con la grazia nel Battesimo – «eleva» la
ragione e la rende capace di conoscenze che prima le erano totalmente sconosciute, e
di altre che le erano molto oscure e difficili. Così, ad esempio, la conoscenza intorno
a Dio e al suo mistero, la conoscenza intorno all’uomo: la sua identità naturale, la
sua origine, il suo destino, concetti come quelli di persona, natura, grazia, ecc. sono
conquiste che la ragione umana ha realizzato nella luce della fede. Mediante la
rivelazione divina, la fede potenzia la ragione, la rende più penetrante, capace di
raggiungere quella Verità di cui l’intelletto umano sente un insopprimibile e mai
35
appagato desiderio.
L’approfondimento razionale dei contenuti della fede è compito di una
scienza, che possiamo chiamare la regina di tutte le scienze umane: la scienza
teologica. Il lavoro della teologia è proprio quello di offrire alla fede le categorie
razionali più adeguate ed efficaci per penetrare sempre più profondamente le verità
rivelate e illuminare il loro rapporto con la vita dell’uomo e con il suo destino;
inoltre, anche se tali categorie sono inadeguate a spiegarci il mistero, possono
tuttavia indicarci dove sta il mistero davanti al quale al nostro intelletto non resta che
inginocchiarsi e adorare.
Ora, non tutte le categorie razionali sono adatte ad esprimere rettamente, senza
deformarli, i contenuti della fede. Ed ecco che in aiuto all’intelletto umano, Dio ha
provveduto istituendo la Chiesa che, col suo Magistero, garantito dall’azione dello
Spirito Santo, può discernere fra le categorie razionali elaborate dalla teologia,
quelle che sono più idonee ad esprimere correttamente le verità rivelate.
La fede, dunque, non ha nulla da temere dalla ragione e la ragione non ha
nulla da temere dalla fede; l’una e l’altra fanno parte di quella «strada della luce» che
conduce l’uomo verso la Verità, strada garantita dall’azione dello Spirito Santo
attraverso il Magistero della Chiesa. Esiste perciò una continuità tra ragione e fede,
continuità che garantisce quella unità profonda della vita cristiana che qualifica la
nostra identità di cristiani nel mondo. La fede fa del nostro intelletto un «intelletto
cristiano»; è questo l’effetto specifico assolutamente originale e fondamentale
che la fede opera sulla ragione umana. Infatti la fede «eleva» il nostro intelletto
nel senso che non solo lo rende capace di più alte conoscenze (le Verità rivelate) per
le quali è spinto ad elaborare categorie razionali adeguate restando tuttavia un
intelletto puramente umano, potremmo dire «mondano», ma anche lo eleva nel senso
che lo trasforma in un intelletto «cristiano», capace di «pensare cristiano», di vedere
cioè l’esistenza, la storia e tutte le realtà create in modo cristiano, e di muoversi
costantemente nella luce soprannaturale della Rivelazione. E’ appunto questo uno
degli aspetti essenziali di quell’unità di vita che ci identifica come cristiani. Ed ecco
perché può verificarsi il paradosso di un «teologo» non credente, che non si muove
all’interno della fede, contrariamente a quanto afferma la S. Scrittura: iustus meus
ex fide vivit, il giusto vive di fede e per la fede.

38 - L’omaggio della volontà nell’atto di fede

Il compito decisivo nell'atto di fede spetta allora alla volontà. E' lei in
definitiva che si piega in adorazione davanti all'autorità di Dio, e mette la nostra
ragione in ginocchio davanti a Cristo, "Credi tu nel Figlio dell'uomo? - chiese Gesù
al cieco nato - ed egli disse: "Io credo, o Signore!" e gli si prostrò dinnanzi". 58 . In
altre parole l'intelligenza indica alla coscienza dell'uomo e alla sua libertà, a chi e
che cosa deve credere e perché deve credere, ma poi l'atto di fede dipende dalla
volontà. L'uomo crede se vuole credere, e se non vuole non crede, quali che siano i
ragionamenti e anche le evidenze razionali che gli vengano presentate. E' così che
l'atto di fede diventa un atto di adorazione all'autorità di Dio.
A questo punto la purificazione dell'intelligenza è strettamente legata alla
rettitudine della volontà in quella che è la virtù più difficile per il nostro spirito:
l'obbedienza. E' una virtù che viene considerata, come abbiamo visto, indegna
dell'uomo perché ritenuta lesiva della sua libertà, di quella libertà soprattutto che si
ritiene costitutiva dell'uomo adulto e autonomo: la libertà di pensiero. Non c'è dubbio
che l'ossequio intellettuale sia la forma più profonda e più impegnativa di obbedienza
e costituisca un vero "omaggio", cioè sottomissione della nostra persona in ciò che

58
Gv. 9,35
36
gli appartiene di più nobile e prezioso: l'intelligenza; la fede come obbedienza -
oboedientia fidei - è perciò una vera e propria oblazione della nostra persona
all'autorità di Dio.
Ma la nostra intelligenza dovrebbe allora ricordarsi che abbracciare la
Verità è diventare profondamente liberi, che "servire Dio è regnare". Tra verità e
libertà c'è un rapporto assoluto, quasi univoco. Nella menzogna non c'è libertà. La
forma di menzogna oggi più diffusa è il mancato rispetto della verità delle cose,
verità che viene sostituita dal pensiero inteso come criterio ultimo di verità, e dalla
coscienza soggettiva eretta a norma suprema di comportamento.
Il principio evangelico: "La Verità vi farà liberi" 59 ha enorme importanza
riguardo ai problemi della conoscenza, come vedremo. Qui interessa ricordare il peso
morale che ha la coscienza ai fini di un atto di fede che sia omaggio della nostra
libertà all'autorità di Dio. Solo una coscienza integra può combattere con successo
una battaglia che esige lealtà, umiltà, sincerità e fortezza per arrivare alla
oboedientia fidei, obbedienza che è la più alta espressione di libertà e insieme è
l'atto di adorazione più nobile che possiamo compiere verso Dio.
Talvolta questa decisione della volontà di consegnarsi a Dio nell'atto di fede
comporta un’intensa sofferenza, è accompagnata da una lotta interiore che fa gemere
la coscienza. Ma è una decisione estremamente liberante, e fa sperimentare la verità
delle parole di Gesù che possiamo così parafrasare: "Chi vorrà salvare la propria
libertà, la perderà, ma chi perderà la propria libertà per me, la salverà".
Infine questo omaggio della nostra libertà, questo chinarsi della volontà
all'autorità di Dio, costituisce il valore meritorio dell'atto di fede, come avvenne ad
Abramo, che credette a Dio contro ogni speranza, e Dio glielo accreditò come
giustizia. 60 La Chiesa nella sua liturgia definisce Abramo: "nostro padre nella fede";
egli obbedì a Dio fidandosi totalmente ed eroicamente di lui anche quando ciò che
Dio gli chiedeva - come il sacrificio del figlio Isacco 61 - appariva incomprensibile e
umanamente assurdo, anzi crudele e inaccettabile. Credere è aprire un credito con
Dio, il quale ripaga restituendo il cento per uno.

39 - L’importanza del cuore nell’atto di fede

In tutto questo, importanza non trascurabile ha il cuore. Dicendo "cuore" non


intendiamo semplicemente il luogo dei sentimenti, almeno nel loro significato
puramente emotivo. Le emozioni rappresentano spesso un fatto piuttosto superficiale.
E nemmeno vogliamo riferirci a qualcosa che presiede agli stati d'animo; anche gli
stati d'animo interessano prevalentemente la parte periferica della nostra personalità.
Troppo spesso si parla della fede come di un sentimento, con tutte le conseguenze di
volubilità, di fragilità, di superficialità che sono proprie dei sentimenti e degli stati
d'animo.
La fede è qualcosa di ben diverso e coinvolge un centro ben più profondo della
nostra persona. In questo senso il cuore è come la camera nuziale dell'intelletto e
della volontà; dal loro incontro scaturiscono e si accumulano dentro di noi le
esperienze vissute: le vittorie e le sconfitte, le decisioni e le fughe, le virtù e le
vergogne...., tutte quelle vicende interiori che hanno delineato la fisionomia profonda
della nostra persona. Il cuore è appunto la nostra fisionomia interiore, la radice
profonda dei nostri atteggiamenti, il centro delle disposizioni dell'anima. Si
parla perciò di un cuore buono o malvagio, di un cuore docile o ribelle, di un cuore
freddo o generoso. Potremmo definirlo il centro vitale che presiede all'orientamento

59
Gv. 8,32
60
Gen. 15,6
61
Gen. 22,1-18
37
profondo della nostra anima. "Dove c'è il tuo tesoro, lì c'è pure il tuo cuore". 62
E' anche vero che il cuore è il luogo di risonanza delle situazioni emotive; lì si
accumulano i dati delle nostre sensazioni e delle nostre esperienze. E quando queste
sono state negative, hanno cioè provocato dolore, lacerazioni o ferite, possono
diventare determinanti nell'orientare in senso negativo il nostro cuore. In persone di
natura particolarmente sensibile, certe umiliazioni subite nell'adolescenza, i vuoti
affettivi dell'infanzia, le ingiustizie patite, gli insuccessi nella vita professionale o
sentimentale, possono provocare atteggiamenti di protesta, di rifiuto e anche di
chiusura alla fede e al rapporto personale con Dio.
Ancora peggiore è la situazione di un cuore corrotto, un cuore che si sia
abbandonato ad amori illeciti o ignobili, ai piaceri dei sensi o alle comodità della
vita, all'avidità delle ricchezze o alle soddisfazioni di questo mondo, al disordine di
una vita senza ideali e senza scrupoli. Tutte queste cose contribuiscono a legare
l'uomo alla terra, a gettarlo nel disordine di una vita senza valori. E' il caso dell'uomo
carnale che non comprende le cose di Dio.
A un cuore corrotto Dio risponde con il silenzio; tale fu il comportamento
di Gesù davanti ad Erode. Possiamo perciò comprendere facilmente l'importanza
della purificazione del cuore in ordine all'atto di fede. "Beati i puri di cuore, perché
vedranno Dio". 63 La fede non è possibile quando il cuore non è retto e pulito.
La purificazione del cuore comincia dalla sincerità interiore alla quale
corrisponde la sincerità della vita e della condotta. Molti non credono "..perché le
loro opere sono malvage. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla
luce perché non siano svelate le sue opere". 64 Il rifiuto della fede è spesso
conseguenza di una vita bugiarda: "Voi avete per padre il diavolo... egli non ha
perseverato nella verità perché in lui non c'è verità. Quando dice il falso, parla del
suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me invece voi non credete,
perché dico la verità". 65
Un secondo aspetto della purificazione del cuore consiste nella lotta interiore
contro le passioni. Sono soprattutto due le passioni che appesantiscono il cuore:
l'impurità e la cupidigia delle ricchezze. L'una è come fango appiccicoso e malsano
che toglie ali alla fede, l'altra è una sorta di pinguedine spirituale che soffoca il
respiro dell'anima. Sono come catene che imprigionano il cuore e gli impediscono di
muoversi verso Dio.

40 - La grazia nell’atto di fede

In tutto questo sforzo di purificazione per liberare la fede dentro di noi, è


assolutamente necessaria la grazia che viene da Dio. L'atto di fede, per il fatto di
essere un atto squisitamente soprannaturale, ha bisogno della Grazia. Nessuno
raggiunge Dio con le proprie forze; la fede è un moto verso l'alto, anzi verso
l'Altissimo, ed è un viaggio che trova le risorse umane assolutamente inadeguate.
Se l'uomo può raggiungere Dio è perché Dio è venuto fino a noi. Ci è stato
"dato" di diventare figli di Dio. Gesù non è soltanto l'oggetto della nostra fede, è
anche la strada della fede. "Io sono la via... Nessuno viene al Padre, se non per
mezzo di me". 66 Rimane un mistero profondissimo l'intervento di Dio in ogni nostro
62
Mt. 6,21
63
Mt. 5,8
64
Gv. 3,19
65
Gv. 8,44-45
66
Gv. 14,6
38
atto di fede; Egli precede e accompagna ogni nostra decisione con la sua grazia. E'
Dio che illumina la nostra intelligenza, sostiene la nostra volontà, risana la coscienza
e purifica il cuore. Perciò chiunque vuole avvicinarsi alla fede deve anzitutto
chiederlo con umiltà e perseveranza al Signore, e poi ricorrere alla forza dei
Sacramenti. Quanti dubbi sono svaniti dopo un'umile e sincera confessione dei propri
peccati! E quante difficoltà nella fede sono crollate ai piedi di un sacerdote che
alzava la propria mano su una coscienza ferita di dolore e di contrizione.
Intelligenza, volontà, cuore, libertà e grazia: tutto questo è presente
nell'atto di fede e fa di esso un momento di grande intensità spirituale che
giustifica la preziosità della fede nella nostra esistenza sulla terra. Certamente,
per la profonda unità dell'essere umano, che coinvolge anche l'organismo
soprannaturale creato in noi dal battesimo, non è possibile comprendere l'atto di fede
isolandolo dalle altre virtù teologali, soprattutto dall'amore. Non si crede
"veramente" se non si ama, e d'altra parte non si ama ciò che non si conosce.
La conoscenza della fede non è mai un atto puramente conoscitivo,
intellettuale. La fede "vera" apre all'amore ma anche suppone l'amore ed è condotta
dall'amore per strade d'amore. La grande fede, nelle anime grandi, è sempre sposata
ad un grande amore. I grandi credenti furono sempre grandi innamorati, perché solo
un'anima innamorata può penetrare profondamente nella conoscenza di Dio.
Ancora una volta Teresa d'Avila ci fa da maestro: 67
Con ali
di purissimo amore
volare
agli stupori
di conoscere
Dio!

41 - La fede di Maria

Con Santa Teresa d'Avila è interminabile il corteo di anime che, come Abramo,
Mosè, i Profeti, gli Apostoli e i Martiri, hanno percorso la strada della fede nel loro
cammino sulla terra, e potremmo anche dare spazio a più profonde e ampie riflessioni
sul dono e sulla virtù della fede, ma tutto sarebbe insufficiente e incompleto se, alla
fine, non fermassimo lo sguardo e il cuore davanti a Colei che, come nessun'altra
creatura si pone a modello e ad esempio di fede, e che sulla strada della fede precede
ogni credente. E' lei, la Vergine credente, che nella fede ha accolto il disegno di Dio
per la salvezza degli uomini - "Sono la serva del Signore; avvenga di me quello che
tu hai detto" 68 - è lei, la Vergine madre, che attraverso l'obbedienza della fede ha
concepito e partorito il Figlio di Dio fatto uomo; è lei, la Vergine corredentrice che,
unita alla morte del Figlio, ha accettato che fosse piantata la croce anche nel suo
cuore - "Una spada ti trapasserà l'anima" - è lei, la Vergine Sposa, che nel Cenacolo
ha atteso nella fede lo Spirito Santo diventando madre della Chiesa pellegrinante nel
tempo.
Questa fede di Maria costituisce la sua beatitudine sulla terra - "Beata Colei
che ha creduto" 69 - ed è questa la beatitudine riservata ad ogni credente, ad ogni
cristiano che voglia imitare Maria e seguirla nel cammino della fede. "Beati gli
occhi che vedono quello che voi vedete" 70 , e "Beati coloro che pur non avendo
visto, crederanno". 71 La sera del Venerdì Santo, la fede si era spenta sulla terra; Lei,
67
S.Teresa D'Avila, Castello Interiore, 5 M.2
68
Lc. 1,38
69
Lc. 1,45
70
Lc. 10,23
71
Gv. 20,29
39
la Vergine Maria, ha perseverato nella fede quando più nessuno credeva, ha
conservato la speranza quando più nessuno sperava, è rimasta fedele quando tutti
erano fuggiti.
Credere è "vedere" Dio: vedere Dio nel mistero dell'Universo che mi circonda;
vedere Dio nell'uomo-Gesù, Figlio di Dio-Padre, il quale ha posto in Gesù la
pienezza della divinità; vedere Dio nel Crocifisso, che ha dato sé stesso per la
salvezza dell'umanità; vedere Dio negli uomini che Egli ha posto come fondamento
della sua Chiesa e li ha mandati nel mondo per annunciare il Vangelo ad ogni
creatura; credere è vedere Dio "nascosto" nei segni sacramentali: nell'acqua del
battesimo che mi fa figlio di Dio, nel pane e nel vino che nell'Eucarestia diventano il
Corpo e il Sangue di Cristo sacrificato per me, nell'accusa umile e contrita dei miei
peccati sui quali, nel sacramento del perdono, scende la misericordia di Dio per mano
del sacerdote, nel dono casto e fecondo del proprio corpo nell'amore coniugale per
servire la vita; credere è vedere Dio nel futuro della mia esistenza, oltre la morte,
quando, dopo avermi accolto nelle sue braccia, Dio chiamerà il mio corpo alla
risurrezione e mi renderà partecipe della sua vita eterna.
Su questa traiettoria dell'esistenza umana, lungo questo cammino della fede,
Maria ci precede, ci apre la strada, ci fortifica e ci ottiene di perseverare con fedeltà
e tenacia. Il suo fiat, un sì pieno e totale a Dio che la interpella, che la chiama, che
si impossessa di lei per farla madre della nostra salvezza, un fiat che esprime la sua
fede umile e innamorata è la radice della sua beatitudine: "Beata colei che ha
creduto".
In un mondo secolarizzato che ha voltato le spalle a Dio, lo ha emarginato
dalla propria vita e lo ha dichiarato inutile se non ingombrante ed oppressivo, vivere
la fede in lui è andare contro mano, contro la cultura ufficiale che ha forgiato la
mentalità scettica e mondana oggi dominante. Maria sta davanti all'umanità come
colei che "indica la strada" - la Odigitria - e gli uomini devono convincersi che la
vera felicità, la "beatitudine" non conosce altre strade se non la strada della fede che
porta a Gesù Cristo e, attraverso di lui, al Padre. Beata colei che ha creduto, ma
anche Beato chiunque accoglie la parola di Dio e la osserva. 72

72
Lc. 11,28
40
IL TEMPO:
CAMMINO DELLA SPERANZA

QUALE SPERANZA?

42 - Il pane della Speranza.

La fede è la strada. Vivere nel tempo senza la fede è vivere senza una
direzione, senza una meta che ci orienti. E' come vagare in un deserto senza orme,
smarriti sotto un cielo senza stelle, chiusi da un orizzonte tutto uguale. E' vagare
inutilmente intorno a sé stessi, intorno alle proprie orme. E si finisce col morire di
sete.
Ma aver trovato la strada non basta, né basta conoscere la meta. Occorre la
convinzione che la meta è possibile e che la strada non tradisce: occorre la Speranza.
E' un errore di prospettiva pensare che l'eternità cominci dove finisce il tempo e che
la meta sia al di là della strada. La meta invece è a portata di mano perché l'eternità
non ha una durata, è tutta "presente", in ogni attimo del tempo. La meta dunque è
possibile e la strada non delude.
Nella vita non possiamo camminare senza il pane della speranza. Per noi
cristiani questo pane è la fiducia in Dio, e la meta è la perfetta comunione con Lui
nel cielo. Il pane della speranza è forza e sostegno per la nostra anima perché genera
in noi la certezza che Dio non inganna. Per chi cammina senza speranza la strada non
finisce mai, e la meta non ha nome. La speranza è come una rugiada mattutina per
l'anima, è come la manna che alimentò quotidianamente gli Ebrei nel deserto. Senza
il pane della speranza ogni strada si fa deserto e nessuna meta è possibile.
Esiste un pane mondano da cui dobbiamo guardarci, un pane fraudolento, che
delude la fame del cuore umano e tende a surrogare la speranza cristiana: è
l'ottimismo mondano. A questo pane allude Gesù quando raccomanda agli Apostoli:
"...guardatevi dal lievito dei Farisei e dal lievito di Erode". 73 I Farisei ed Erode sono
i falsi fornai di questo mondo: i Farisei si preoccupano che la speranza abbia la
forma del pane anche se non è pane vero, perché mettono la loro fiducia non in Dio
ma nella legge; Erode, che nega la legge, pone la sua fiducia nella libertà e non
nell'Amore.
La forma di ottimismo mondano più diffusa nella nostra epoca e in tutta la
cultura moderna è l'ottimismo ideologico. Nasce dalla Ragione considerata fonte
unica di ogni progresso e si esprime in una fede assoluta nelle risorse
dell'intelligenza umana: le certezze del pensiero scientifico, le realizzazioni della
tecnica, il potere della politica e dell'economia. In questo ottimismo terreno l'unica
preoccupazione è l'efficienza, il successo nella soluzione dei problemi economici e
sociali, prescindendo totalmente dalla valenza morale dei mezzi e delle realizzazioni.
In un simile contesto culturale, nel quale manca ogni riferimento alla dignità
dell'uomo e alla sua dimensione religiosa, non ci sono alternative all'efficienza
ottimistica se non il caso, con le sue leggi cieche e deterministiche. Perciò, o
l'ottimismo o la rassegnazione.

73
Mc. 8,15
41
43 - La speranza mondana.

In questo modo di pensare, la speranza cristiana è del tutto assente, anzi


sconosciuta; il termine stesso speranza ha perduto il suo contenuto religioso e
soprannaturale. L'ottimismo mondano prescinde da Dio e ha per oggetto quella
"società perfetta" che è l'utopia di tutte le ideologie moderne. Una società perfetta
che non riguarda solo le strutture e le infrastrutture sociali e politiche dalle quali
rimarrebbero per sempre eliminate ingiustizie, emarginazioni, violenze, e ogni altro
male incompatibile con l'utopia vagheggiata dalla Ragione, ma riguarda anche il
singolo individuo che verrebbe liberato dalle varie schiavitù: il lavoro, l'ignoranza, la
precarietà fisica e tutti i condizionamenti che pregiudicano la qualità della vita; in
una parola, l'ideale dell'ottimismo mondano è una società felice dove ognuno vive
felice.
La strada di questo ottimismo è il Progresso, uno sviluppo indefinito e
ininterrotto, di conquista in conquista, che viene considerato legge fondamentale
della storia. L'errore fatale dell'ottimismo mondano è quello di identificare l'eternità
col tempo, il Regno di Dio con la Storia. Scrive il card. Ratzinger: "L'ottimismo
ideologico è in realtà pura facciata di un mondo senza speranza, di un mondo che,
con questa illusoria facciata, vuole nascondere la propria disperazione. (.....) A
questo punto si colloca anche il problema della morte. L'ottimismo ideologico è un
tentativo di dimenticare la morte con il continuo discorrere di una storia protesa alla
società perfetta. Qui si dimentica di parlare di qualche cosa di autentico e l'uomo
viene calmato con una bugia; lo si vede sempre quando la morte stessa si avvicina.
Invece la speranza della fede apre su un vero futuro oltre la morte e solo così i veri
progressi che ci sono diventano un futuro anche per noi, per me, per tutti". 74
Questo non vuol dire che il desiderio e l'impegno per un mondo migliore siano
estranei alla speranza cristiana, quasi che essa si collochi oltre o al di fuori della
storia. Ogni sforzo e ogni iniziativa che tendano a rendere il mondo presente più
giusto, più pulito, più degno dell'uomo, non solo entrano pienamente nella speranza
cristiana ma ne sono, in certo senso, il necessario presupposto e insieme la prima
conseguenza. I "cieli nuovi e la terra nuova" che sono oggetto della nostra speranza
di cristiani, non sono una entità completamente nuova, diversa dal mondo attuale,
come se essi dovessero uscire dall'annientamento totale dell'universo presente; essi
saranno gli stessi cieli e la stessa terra che Dio ha creato e che ora giaciono sotto il
potere del maligno, ma liberati dal peccato e fatti partecipi della gloria di Cristo
risorto. E' questa una delle tesi fondamentali dell'ottimismo cristiano: " La creazione
stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata
sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha
sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della
corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene
infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nella doglie del parto; essa
non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo
interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché
nella speranza noi siamo stati salvati". 75
La fede ci ricorda che il mondo attuale non risponde più al disegno di Dio e
che esso, per quanto purificato e reso più vivibile dallo sforzo umano, può diventare
solo una figura, l'ombra, del mondo futuro. Perciò la lotta contro il peccato e le sue
conseguenze - l'ingiustizia, la violenza, il dolore, la malattia, la morte stessa (ultimo
nemico che Cristo abbatterà) - è un elemento costitutivo della speranza cristiana, che
nell'impegno di umanizzare questo mondo, anzi di santificarlo, tende a renderlo più
conforme al progetto di Dio, come figura di quel mondo nuovo che appartiene alla
resurrezione e alla vita eterna, dove "non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento,
74
J. Ratzinger, Guardare Cristo. (Jaka Book-MI 1989)
75
Rom. 8,19-24
42
né affanno, perché le cose di prima sono passate". 76

44 - La speranza teologale.

Accanto all'ottimismo ideologico esiste un ottimismo mondano più comune


che è frutto di speranza puramente umana, e che emerge in espressioni frequenti sulle
labbra di molti, come: "speriamo che tutto vada bene" o "auguriamoci che le cose si
mettano su una buona strada" ecc.. Sono espressioni che indicano l'atteggiamento di
chi si affida prima alle risorse della scienza e dell'esperienza e poi alla buona sorte.
E' un ottimismo che spesso si allea al felice temperamento di un'indole naturalmente
ottimista e positiva, ma che ha ben poco in comune con la virtù della speranza; è
tutt'al più un suo buon alleato, ma resta sempre un ottimismo intra-mondano.
Ben diverso è l'augurio dell’Apostolo Paolo a Timoteo: "Paolo, apostolo di
Gesù Cristo, per comando di Dio nostro Salvatore e di Cristo Gesù, nostra speranza:
grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù nostro Signore". 77 Noi
cristiani siamo chiamati a percorrere il tempo della nostra vita sostenuti dalla virtù
teologale della speranza. Virtù teologale perché ha come oggetto Dio o meglio la
comunione perfetta con Lui nel cielo. La meta della speranza cristiana, la speranza
dei figli di Dio, è dunque altissima; è il Sommo Bene, conosciuto, desiderato e amato
da noi come l'unico bene veramente prezioso e importante.
Conosciuto e amato: la speranza infatti sta tra la fede e l'amore. E' virtù
tipicamente transitoria, legata esclusivamente al tempo, alla nostra vita sulla terra.
Nell'eternità la fede cambierà il suo modo di conoscere e l'amore cesserà da ogni
desiderio. Dalla fede, che qui sulla terra ci dà una conoscenza di Dio "per speciem",
cioè attraverso i concetti umani, passeremo a una conoscenza di Dio "faccia a
faccia", attraverso Dio stesso, cioè attraverso la sua essenza divina; così l'amore: da
desiderio insonne e inappagato di incontrare Dio si trasformerà in una comunione
piena e stabile con lui, sarà un possesso e un essere posseduto dell'amato nell'Amante
in un'estasi senza fine. In queste condizioni la speranza non ha più senso, non è più
possibile. Per davvero: finito il tempo, finita la speranza. Quaggiù la speranza sta
tra la fede e l'amore, e dalla fede e dall'amore dipende, anzi partecipa dell'una e
dell'altro. Per questo, se finisce la speranza anche il nostro viaggio si ferma.
Inoltre, il nostro cammino sulla terra conosce ostacoli e difficoltà ed è
contrassegnato da momenti di stanchezza, di tentazione e di oscurità. Sono i momenti
in cui avvertiamo più intensamente la necessità della speranza. In quei momenti il
desiderio di superare gli ostacoli e di vincere le difficoltà contrasta con il senso vivo
della nostra debolezza e della nostra impotenza, e forse siamo assaliti dallo sconforto
e dall'angoscia. Parlavamo del pane della speranza; di speranza, infatti, si nutre non
solo il nostro desiderio di Dio, desiderio di vederlo e desiderio di possederlo, ma
anche il nostro vivere quotidiano, fatto di vicende e di situazioni che mettono alla
prova la nostra perseveranza, la nostra continuità, in una parola, la nostra volontà di
continuare la strada, di servire Dio e di piacergli in ogni cosa.

45 - Speranza e santità.

Dire che l'oggetto ultimo della speranza è Dio stesso in una perfetta ed eterna
comunione con lui, è come dire che siamo chiamati alla santità. E' una meta che va
oltre ogni possibilità umana e nessuno potrebbe aspirare a tanto se non sapesse che
ciò corrisponde ad una precisa volontà di Dio; questo infatti è il suo progetto su di

76
Ap. 21,4
77
1 Tim.1,1
43
noi dall'eternità: "In lui (in Cristo) ci ha scelti prima della creazione del mondo, per
essere santi e immacolati al suo cospetto". 78 La meta è tanto alta che pochi cristiani
sono veramente convinti di essere chiamati alla santità. Sono invece molti che
giudicano perfino poco praticabili i Comandamenti di Dio e vogliono adattarsi ad una
vita cristiana più "normale". La loro speranza non va oltre le esigenze della
mediocrità, si accomodano su un livello di vita onesto, da galantuomini, limitandosi a
non fare del male a nessuno e a rispettare tutti. Tarpano così le ali della speranza
cristiana che in tal modo non conosce più le divine audacie della santità evangelica,
le pazzie di un amore che non si appaga di mediocri desideri.
Dicevamo che la speranza sta tra la fede e l'amore, e partecipa dell'una e
dell'altro. Ora, se la fede "è fondamento delle cose che si sperano", 79 poco spera chi
poco crede. E poiché sulla terra il nostro modo di amare è il desiderio e non si può
sperare ciò che non si desidera, poco spera chi poco ama. Più grande è la fede, più
profondo è l'amore e più audace diventa la nostra speranza. "Non volare come le
galline quando puoi elevarti come le aquile". 80
I Vangeli si concludono con l'Ascensione, e tutto il Nuovo Testamento si
chiude con l'invocazione dell'Apocalisse: "Vieni, o Signore Gesù". Tra i Vangeli e
l'Apocalisse ci sono in mezzo gli Atti degli Apostoli, come dire che tra la salita di
Gesù al cielo e il suo ritorno nella gloria c'è in mezzo il cammino della Chiesa nei
secoli. E' il cammino della speranza.
Una speranza, questa della Chiesa, assoluta, piena, tanto intensa da essere
traboccante. E' fondata sulla certezza che si sta realizzando il disegno di Dio e si
vanno compiendo le sue promesse. Questo atteggiamento traspare evidente da tutto il
comportamento degli Apostoli, e da ogni parola dei loro discorsi e delle loro lettere.
Tanto che Pietro ricorda ai primi cristiani di essere stati "rigenerati per una speranza
viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce". 81 I
cristiani perciò devono essere testimoni sempre pronti a "rendere ragione della
speranza che è in loro". Il martirio infatti è stato sempre, agli occhi dei primi
cristiani, la prova della loro speranza.

46 - Santità per tutti.

In tutto il Vangelo non troveremo una sola frase di Gesù che sappia di
mediocrità. Egli non dubita di additarci la perfezione più alta, la santità di Dio: siate
perfetti com'è perfetto il Padre vostro. Possiamo capire meglio queste espressioni di
Gesù, espressioni che ci sembrano paradossali, assolutamente improponibili, lontane
da qualsiasi possibilità e aspirazione, se teniamo presente che l'essenza della santità è
Dio stesso e che "Dio è amore". La perfezione cristiana consiste dunque nell'amore
di Dio - un amore che prende tutto il cuore, tutta l'anima, tutta la mente e tutte le
forze -, e nell'amarci fra noi "come Dio ci ha amati". Quel "come" vuole ricordarci le
esigenze senza limiti dell'amore cristiano e il modo divino di esercitarlo. Certamente
esso colloca la meta della perfezione cristiana ad un livello immensamente lontano
dalle nostre possibilità, e tuttavia nessuno al mondo pensa di non sapere amare. Tutti
siamo convinti di avere un'inesauribile capacità d'amore, e perciò tutti possiamo
essere santi, tutti possiamo e dobbiamo tendere alla pienezza dell'amore.
Non dimentichiamo che Gesù proponeva la strada e la meta della santità come
volontà di Dio alle folle della Galilea, prescindendo totalmente dalle loro circostanze
e dalla loro situazione. Erano infatti persone di ogni età e condizione: vecchi,
bambini. malati, pescatori, madri di famiglia, piccoli artigiani, autorità, perfino
78
Ef. 1,4
79
Ebrei, 11,1
80
Cammino, n. 7
81
1 Pt. 1,4
44
pubblici peccatori come i pubblicani, i profittatori, le prostitute. Di una di esse ha
affermato: "Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato". 82
Dunque tutti, perché tutti possiamo amare, possiamo tendere alla santità.
Possiamo amare nelle poche cose grandi che ci è dato di fare nella vita, ma
soprattutto possiamo molto amare nelle tante cose piccole della vita quotidiana, nei
piccoli doveri di ogni momento. E' questa la strada "ordinaria" della santità, quella
che il beato Escrivà chiamava l'eroismo di fare con perfezione - per Amore - le
piccole cose di ogni giorno. E' così che la nostra comunione con Dio, meta ultima
della nostra speranza, diventa una realtà meravigliosa che illumina ogni momento
della nostra giornata. Il "pane della speranza", è un pane quotidiano; non deve venir
meno nella nostra bisaccia di viandanti, perché deve sostentarci in ogni passo del
nostro cammino sulla terra.

LE "ALI" DELLA SPERANZA

47 - La Croce: potenza di Dio.

Nessuna creatura può raggiungere Dio ed entrare in comunione con Lui con le
sole possibilità della natura. La speranza di arrivare ad una meta così alta, ad un bene
così grande, non può avere altro fondamento che Dio stesso. Solo Dio può fare in
modo che lo possiamo raggiungere, e lo ha fatto abbassandosi fino a noi: "per noi
uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo" (Credo). Dio, infatti, "ha tanto
amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui abbia la
Vita eterna". 83 E' Gesù Cristo, dunque, la nostra speranza; in Lui c'è la potenza di
Dio e la fedeltà di Dio
Riflettiamo per un momento su questi due attributi di Gesù: potenza di Dio e
fedeltà di Dio. Nel Credo noi proclamiamo l'onnipotenza di Dio Creatore: egli ha
dato l'esistenza a tutte le cose e tutto sussiste per mezzo di lui. Ma egli è anche
intervenuto, soprattutto nella storia degli uomini, molte volte e "con mano forte e
braccio potente". Già nell'Eden il serpente maligno aveva ingannato i progenitori ma
il Signore aveva promesso la rivincita su di lui: "Io porrò inimicizia fra te e la
donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa". 84 Questa
rivincita fu realizzata da Gesù con la sua vittoria sul maligno. I miracoli da Lui
compiuti sulle malattie, sugli spiriti immondi, sulle leggi della natura, su tutte le
forze del male, per cui le folle e gli Apostoli stessi esclamavano meravigliati: "donde
vengono a costui questa sapienza e questi miracoli?", 85 sono segni e insieme prove
che "il principe di questo mondo sarà cacciato fuori".
Ma la vera vittoria di Cristo, là dove si è rivelata tutta la potenza di Dio, è
stata la Risurrezione. Quel sepolcro vuoto vale quanto il "fiat" della creazione.
Anzi vale di più; la creazione è la vittoria della potenza di Dio sul nulla delle
creature, la Risurrezione di Cristo è la vittoria di Dio sulla "corruzione" delle
creature. La Risurrezione infatti è inseparabile dalla croce e la presuppone. Gesù
crocifisso appare come la sconfitta di Dio e vittoria del Maligno; ma fu vittoria
apparente, perché sulla croce è stato crocifisso "l'uomo vecchio", l'uomo del peccato.
Il Crocifisso infatti rivela la nostra condizione: la condizione dell'uomo "mortale",
82
Lc. 7,47
83
Gv. 3,16
84
Gen. 3,15
85
Mt. 13,54
45
sconfitto, ripudiato da Dio, l'uomo fatto maledizione, devastato dal peccato e dalla
morte. Cristo crocifisso ha preso su di sé la sconfitta dell'uomo. Gli Apostoli,
invece, e tutti noi, siamo tentati di vedere nella croce la sconfitta di Dio e perciò la
fine di ogni speranza. Per tutti noi, come per gli Apostoli, la croce rimane uno
"scandalo", una incomprensibile assurdità, e comprendiamo perfettamente
l'atteggiamento di Pietro che tenta di distogliere Cristo dalla decisione di "salire a
Gerusalemme".
Nella prospettiva della croce, la vicenda di Gesù appariva sconcertante,
contraddittoria. Gesù era sempre stato signore delle situazioni e degli avvenimenti,
aveva mostrato di conoscere i pensieri e le intenzioni di tutti e non era mai caduto nei
tranelli e nelle insidie dei suoi nemici. La sua potenza soprannaturale, - "Dio era con
Lui", diceva la gente - e la sua forza morale erano sotto gli occhi di tutti. Come
spiegare allora la sconfitta della croce? Dove era finita tutta quella "forza che usciva
da Lui e sanava tutti?". 86 Gesù nella passione appariva irriconoscibile e inspiegabile.
Il suo contegno di assoluta remissività, la sua impotenza di fronte agli avvenimenti,
la sua debolezza davanti a tante accuse ridicole e ingiuste, il suo abbandono totale in
balìa dei suoi nemici...., tutto questo era incomprensibile. La morte di Gesù appariva
perciò come la sconfitta totale, la catastrofe che travolgeva ogni attesa e ogni
speranza. "Noi speravamo che fosse lui!...." dicevano tristi i due discepoli di
Emmaus. Né il fatto impensabile della risurrezione, né le spiegazioni, pur così
chiare e persuasive di Gesù, servirono a illuminare il mistero della sua morte. Per gli
Apostoli come per tutti noi, capire la croce, saper vedere in essa non la sconfitta di
Dio, ma la sua vittoria, non la fine di ogni speranza, ma l'inizio della vita e della
redenzione, sarà un dono dello Spirito Santo. Lo troviamo come uno dei temi
fondamentali nella predicazione di San Paolo. Egli vedeva nella morte di Gesù non
la debolezza di Dio ma il trionfo della sua potenza. "Noi predichiamo Cristo
Crocifisso, ... potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è
più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini". 87

48 - La croce e la speranza cristiana.

La Risurrezione esige la croce, ma dalla croce è scaturita la vittoria della


Risurrezione. Su quel legno è stato inchiodato il decreto di condanna e di morte che
pesava su di noi. Senza la croce di Cristo non esisterebbe per noi alcuna speranza.
Quel Crocifisso è la nostra forza davanti a Dio, perché è la debolezza di Dio davanti
alla nostra preghiera. Con Cristo crocifisso fra le mani possiamo presentarci con
fiducia davanti al Padre e chiedergli ogni cosa; se Egli ci ha dato suo Figlio, non
potrà negarci più nulla. Cristo crocifisso è la "preghiera vivente" che noi
possiamo offrire a Dio.
La croce e la preghiera sono perciò le armi della nostra speranza, e sono la
conferma che la speranza cristiana è totalmente soprannaturale anche nei mezzi. Del
resto la Croce è il fondamento di ogni realtà soprannaturale: dalla Croce, infatti,
vengono la remissione dei peccati, il dono della grazia, il pegno per la vita eterna, e
dalla croce anche la preghiera trae tutta la sua efficacia.
La Croce di Gesù è sigillo di garanzia. Il Signore lo imprime non solo su
quegli avvenimenti straordinari che per il loro peso di sofferenza e di responsabilità
costituiscono le prove della nostra vita, ma anche lo imprime sulle circostanze
ordinarie della vita quotidiana: ecco la fatica che accompagna il nostro lavoro, lo
sforzo nella lotta interiore di ogni giorno, ecco l'impegno nei piccoli doveri della vita
famigliare, il sacrificio gioioso di sé stessi per rendere felici gli altri, ecco l'umile
pazienza nelle contrarietà della giornata, la fedeltà mille volte rinnovata agli inviti
86
Lc. 6,19
87
1 Cor, 1,24-25
46
della grazia, il ricominciare con ottimismo e fiducia dopo ogni insuccesso compreso
quello dovuto alle nostre debolezze e alle nostre miserie che tanto ci umiliano. E' la
croce di ogni giorno. A questo si riferiva Gesù con le parole: "Se qualcuno vuol
venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua". 88
Perciò: "Quando vedi una povera Croce di legno, sola, senza importanza e senza
valore... e senza Crocifisso, non dimenticare che quella Croce è la tua Croce: quella
di ogni giorno, quella nascosta, senza splendore e senza consolazione..., che sta
aspettando il Crocifisso che le manca: e quel Crocifisso devi essere tu". 89
Ma dobbiamo imparare a stare accanto a Gesù e a seguirlo da vicino. "E'
meglio per me, Signore, subire la tribolazione avendoti accanto, che regnare senza di
te, godere senza di te, gloriarmi senza di te". 90 Solo così non saremo più soli e
impauriti di fronte al dolore, ma sperimenteremo tutta la forza che ci viene da lui.
Egli ci precede, traccia la strada e la percorre con noi, una strada che non finisce sul
calvario perché si apre alla luce e alla gioia della Risurrezione. Così la croce non
sarà più un peso, ma sarà il segno e la garanzia di tante vittorie. Sperimenteremo che
dalla croce nasce la gioia perché fonte di Salvezza, e uniremo la nostra voce a quella
della Chiesa che non teme di cantare nella sua liturgia: "Ave, Crux spes unica!" Ti
salutiamo, o Croce, nostra unica speranza!

49 - Cristo, la fedeltà di Dio.

Ma Gesù è la nostra speranza anche perché in Lui si è manifestata la fedeltà di


Dio. "Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è
fedele colui che ha promesso". 91 Nella Bibbia, infatti, la fedeltà appare come
attributo principale di Javè, ed è messo in risalto soprattutto in riferimento
all'alleanza col suo popolo: Dio è fedele alla sua Alleanza e non viene meno alle sue
promesse. Ora, la grande promessa che Dio ha fatto all'umanità è Gesù stesso; in lui
Dio ha mantenuto e realizzato l'impegno di salvezza che si era preso con noi. Gesù,
infatti, è il "Servo fedele"; Egli ha compiuto la volontà del Padre che lo voleva
Salvatore e Redentore di tutti gli uomini.
La certezza che Dio non viene meno nella sua fedeltà e porta a compimento
l'opera che ha intrapreso per noi, è anche fondamento della nostra fedeltà. Infatti Dio
non si pente dei suoi doni, non ha stanchezze o debolezze, e anche se noi manchiamo
di fedeltà verso di Lui, "Egli rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso". 92 Il
Signore è dunque la nostra roccia, la nostra perseveranza; "Beato l'uomo che in lui si
rifugia!"
Ma Dio è fedele non solo perché immutabile e non può rinnegare sé stesso, ma
anche perché misericordioso. Tutta la Bibbia è un inno alla misericordia di Dio che
ha avuto pietà di noi e non si è fermato davanti all'infedeltà dell'uomo; al nostro
peccato egli ha risposto con la sua misericordia inviando suo Figlio a prendere su di
sé le nostre colpe. Cristo è la misericordia del Padre verso gli uomini.
Perciò, qualunque cosa succeda nella nostra vita, non possiamo mai
dubitare di Dio, non possiamo abbandonarci alla sfiducia o al pessimismo.
Dubitare della sua misericordia e della sua magnanimità è l'offesa più brutta che
possiamo fare al Signore ed è anche l'ostacolo più pericoloso sulla strada della
speranza, perché ci tiene lontani da Dio e ci paralizza in una vita cristiana mediocre e
triste. Infatti, dubitare della fedeltà di Dio è dubitare della sua misericordia e non
avremo più argomenti per la nostra speranza.
88
Lc. 9,23
89
Cammino, n. 178
90
S. Bernardo, Sermone 17
91
Ebrei 10,23
92
2 Tim. 2,13
47
Nei momenti difficili, come quelli segnati dalla fatica, dal dolore,
dall'insuccesso, o quelli che testimoniano le nostre sconfitte personali, le cadute, le
oscurità o i cedimenti, e così in tutte le altre tribolazioni, il nemico più pericoloso
per la speranza è lo scoraggiamento e la tristezza. Noi cristiani non possiamo
permettere a questi "alleati del nemico" di insinuarsi in noi e di prendere posto nel
nostro cuore. In quei momenti potremo attingere molto aiuto e molto conforto dalle
parole che Gesù rivolse agli apostoli nell'ultima Cena. Il Signore sapeva che i suoi
stavano per passare attraverso la grande tribolazione del venerdì santo, che avrebbe
messo alla prova soprattutto la loro speranza; perciò s'intrattenne con loro, in una
lunga, intensa e affettuosissima conversazione, con lo scopo di sostenerli e di
fortificarli nella speranza. Possiamo riassumere le sue parole in quella affermazione
che Egli ripeté più volte e con la quale concluse quella sua conversazione: "Non sia
turbato il vostro cuore e non abbiate timore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede
anche in me (....) nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate fiducia: io ho vinto il
mondo!". 93 Come se avesse detto: Non lasciatevi prendere dalla tristezza e dal
timore, ma fidatevi di Dio, della sua forza e della sua fedeltà.

50 - Speranza e filiazione divina.

Questo, che è l'aspetto "passivo" della speranza, dovrebbe in teoria facilitarci


l'esercizio di questa virtù; invece, particolarmente in certe stagioni della vita, quando
siamo consapevoli delle nostre possibilità umane ed essendo nel pieno possesso dei
nostri mezzi ci sentiamo portati a un'assoluta fiducia in noi stessi, questo filiale e
totale abbandono nelle mani di Dio, pur sapendo che sono mani forti e paterne, ci
risulta difficile, quasi fosse una umiliante dichiarazione di debolezza e di impotenza.
La speranza diventa allora una questione di umiltà e di fede. La superbia è sempre
cattiva consigliera, ci porta non solo a confidare esclusivamente nelle nostre forze,
oppure nella "fortuna", ma spesso ci spinge a ricorrere all'astuzia, alla scaltrezza
mondana, agli appoggi dei potenti.
Il senso vivo della filiazione divina ci porta invece a considerare la nostra
condizione di creature piccole, amate da Dio, che si affidano a Lui con la certezza
che nulla di male potrà loro accadere, perché le braccia di Dio sono il luogo più
sicuro e anche il più amabile dove una creatura può vivere. "La filiazione divina è
una verità lieta, un mistero di consolazione. Riempie tutta la nostra vita spirituale
perché ci insegna a trattare, conoscere, amare il nostro Padre del cielo, e colma di
speranza la nostra lotta interiore, dandoci la semplicità fiduciosa propria dei figli più
piccoli. Più ancora: dal momento che siamo figli di Dio, questa realtà ci porta anche
a contemplare con amore e ammirazione tutte le cose che sono uscite dalle mani di
Dio, Padre e Creatore. In tal modo è amando il mondo che diventiamo contemplativi
in mezzo al mondo.". 94

I FRUTTI DELLA SPERANZA

93
Gv. 14,27
94
Beato J. Escrivà, E' Gesù che passa, n. 65
48
51 - La Speranza, madre della pazienza.

Nella lettera ai Gàlati San Paolo ricorda tra i frutti dello Spirito una virtù che
Gesù stesso raccomanda a quanti attendono la sua venuta: la pazienza. E' una virtù
che nasce dalla speranza ed è strettamente legata al tempo. La pazienza, infatti, è la
perseverante e operosa sopportazione delle sofferenze che si incontrano per
raggiungere ciò che si spera. La speranza diventa allora attesa fiduciosa, un'attesa
sempre docile, docile al tempo e docile alla vita; sa infatti che il cammino della
speranza, come tutte le cose, appartiene al tempo e alla vita, e il tempo e la vita sono
galantuomini, non deludono. Perciò la speranza sa attendere e sa accettare senza
inquietudine le difficoltà che incontra, e diventa così fonte di serenità e di pace.
C'è una pazienza per così dire spicciola, quella legata alle situazioni ordinarie
della vita quotidiana: una persona molesta, un contrattempo inopportuno, un
imprevisto fuori orario, una difficoltà nel lavoro, un piccolo malanno di salute ecc.
Per essere legata a tante piccole circostanze della giornata, non significa che questa
pazienza abbia poca importanza. Non c'è di peggio che muoversi tra le cose della vita
quotidiana con inquietudine, con affanno o con insofferenza. Il Signore vuole che
conduciamo una vita serena, che sappiamo prendere le contrarietà con spirito
positivo e con buon umore, sapendo dare a ogni cosa il "suo" tempo: il suo e non
il "nostro", che spesso non coincide col "passo di Dio". Questo modo di vivere la
pazienza è molto umano e molto soprannaturale. Molto umano perché tale pazienza
va forgiando a poco a poco il nostro carattere, lo semplifica, lo rende più amabile e
disponibile, e insieme è molto soprannaturale perché tale pazienza nasce da una
visione di fede che ci fa considerare le cose secondo la loro giusta misura, in
riferimento a Dio e al nostro profitto spirituale.
I frutti di questa pazienza sono tutti preziosi; essa ci aiuta a raggiungere un
sempre maggior dominio di noi stessi, contribuisce ad una maggiore stabilità
d'animo, permette di vivere meglio la presenza di Dio e ci fa seminatori di pace e di
allegria in famiglia, sul lavoro e dovunque svolgiamo le nostre attività.

52 - Pazienza e fortezza.
Ma c'è anche una pazienza che gli autori spirituali mettono in relazione più
direttamente con la virtù della fortezza: è la pazienza necessaria per testimoniare
la nostra fede o per portare a compimento i nostri doveri e la nostra missione
nonostante gli ostacoli e le difficoltà che si possono incontrare. Questa pazienza è
vista come virtù dei forti, di quelle anime che sopportano le tribolazioni e le
persecuzioni a causa della loro fede, per amore di Dio e di Gesù Cristo, restando a lui
fedeli fino al sacrificio supremo. Molti servi di Dio furono mirabili esempi di questa
pazienza, ad esempio: Abramo, Mosè, Giobbe..., per non parlare dei martiri che
portarono all'eroismo questa virtù.
Ma l'ideale supremo di pazienza rimane il "Servo di Jahvè": Gesù; egli, nella
sua passione, ci ha lasciato di questa virtù il documento più commovente:
"Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto
al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori". 95
Ma anche per noi, e per ogni cristiano, la pazienza come fortezza riveste
un'importanza a volte decisiva se pensiamo che nella nostra vita non mancheranno le
tribolazioni e le avversità, e che la fedeltà al nostro cammino di cristiani deve essere
frequentemente pagata con le persecuzioni. Perciò Gesù avvertiva: "Sarete odiati da
tutti per causa del mio nome. (...) Con la vostra perseveranza - fedeltà paziente -

95
Isaia 53,7
49
salverete le vostre anime". 96
La mentalità del mondo è portata a considerare la pazienza nelle prove non
come fortezza bensì come debolezza. E' forte - si dice- chi si ribella, chi protesta e
magari reagisce alle avversità con la violenza. Si guarda perciò con sospetto
all'ascetica cristiana. E' vero che a volte si rischia di confondere la pazienza con la
rassegnazione inerte e passiva; dobbiamo allora ricordarci che grava su di noi il
dovere di difendere la verità, la giustizia e la pace fra gli uomini, e che il compito è
arduo ed esige sempre molta paziente fortezza.
Anche qui il nostro modello supremo è Gesù; Egli, che "non spezzerà la canna
incrinata e non spegnerà il lucignolo fumigante" 97 e si proporrà a noi come esempio
di mansuetudine - "imparate da me che sono mite e umile di cuore" 98 - ha, tuttavia,
agito con divina fermezza nel difendere la verità e la giustizia a favore di tutti,
specialmente dei piccoli, dei poveri e perfino dei peccatori.
Del resto, in tutta la Bibbia ci viene frequentemente ricordata la lunga
pazienza di Dio con gli uomini: Egli non vuole la morte del peccatore ma che si
converta e viva. Egli stesso si è dato il titolo di "Paziente" riferendosi alle continue
infedeltà del suo popolo.

53 - Speranza e pazienza: attesa di Dio.

Questa pazienza di Dio, espressione non tanto della sua fortezza quanto
piuttosto della sua misericordia, ci conduce a considerare l'altra forma della
pazienza, cui abbiamo accennato, e che in noi è più direttamente legata alla virtù
della speranza: l'attesa. Si tratta di una pazienza più profonda, molto interiore; è la
pazienza dello spirito. Sperare, in questo senso, è saper attendere; ma di un'attesa
non suggerita dalla neghittosità o dalla paura, motivi che non hanno nulla in comune
con la speranza, bensì di una "at-tesa", cioè di una tensione viva e al tempo stesso
serena verso il compimento di ciò che Dio ha promesso.
In questo senso la pazienza è "camminare al passo di Dio". E' una pazienza
squisitamente soprannaturale perché è figlia della speranza teologale; è la certezza
che Dio compirà la sua opera; come e quando non lo sappiamo, ma sappiamo che il
"passo di Dio" non conosce stanchezze e anzi suppone perfino la debolezza e la
miseria umana e ha previsto anche gli ostacoli che il male suscita continuamente sul
percorso della Grazia divina. Perciò non sono gli ostacoli, le persecuzioni, le umane
resistenze che possono fermare le opere di Dio, ma la nostra mancanza di fede, la
nostra carenza di umiltà, le nostre impazienze mondane. L'impazienza diventa allora
presunzione di abbattere gli ostacoli subito e con le nostre forze, tentativo di saltare i
tempi e forzare la natura delle cose, pretesa di sostituirsi a Dio nel governo del
mondo e delle stesse vicende della nostra vita.
La speranza paziente conosce invece l'orazione, un'orazione "lunga",
perseverante e fiduciosa; si appoggia a un lavoro silenzioso e sacrificato che non
risparmia nessun mezzo umano; non rifugge dallo sforzo di costruire situazioni
terrene che formino il presupposto per il "momento della grazia"; in altre parole,
rispetta e collabora con il misterioso dialogo tra l'umano e il divino, tra il tempo e
l'eternità, tra la storia degli uomini e il progetto di Dio.
Esempio mirabile di questa speranza paziente è stata l'attesa dei Profeti che
per secoli hanno aspettato e invocato Colui che doveva venire, l'Atteso da tutta
l'umanità. Dio non ha mai forzato i ritmi della natura o degli eventi; dall'eternità Egli
ha preparato la "pienezza dei tempi" per l'Incarnazione del Verbo. Gesù stesso ha
camminato decisamente verso la "sua ora", quella del sacrificio supremo, ma ha
96
Lc, 21,12
97
Mt. 12,20
98
Mt. 11,29
50
atteso il "momento" segnato dal Padre. Così pure gli Apostoli hanno atteso con
Maria, ma nella preghiera, "l'adempimento della promessa del Padre", 99 l'effusione
dello Spirito Santo. Del resto Gesù aveva avvertito i suoi discepoli: la cosa
importante non è conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua
scelta, quello che conta è mantenersi fedeli ed essere suoi testimoni nel mondo "fino
alla fine dei tempi e fino agli estremi confini della terra". 100

54 - Un male oscuro: la fretta.

Fra i vari atteggiamenti che sono in contrasto con la pazienza cristiana ne


troviamo uno oggi particolarmente diffuso: la fretta. E' un atteggiamento alquanto
superficiale ma assai pericoloso perché finisce col soffocare la speranza cristiana
nelle speranze terrene. Per molti il tempo è fretta, soltanto fretta. Non sanno
nemmeno loro perché, ma la fretta li ha contagiati come un morbo; anzi ne siamo
contagiati un po' tutti. Tutti ci sentiamo come incalzati dalle cose, dagli avvenimenti,
dalle persone, senza possibilità di difesa, tanto che ormai ci siamo convinti che
dobbiamo andare di fretta tutti per non sentirci in colpa verso una società così
dinamica, così rapida, così efficiente.
E così la fretta ci ha messi tutti in fila, in fila all'ufficio postale, al mercato,
alla fermata dell'autobus, in file lunghissime sulle autostrade. Si dice che la fretta è
conseguenza della società industriale, organizzata, competitiva, dove il ritmo non dà
respiro e ci lega l'uno all'altro come un convoglio che non ha fermate. Sembrerebbe
fretta di produrre, ma in realtà è fretta di consumare. Si consuma tutto e
rapidamente. Non solo i prodotti propriamente consumistici, futili, banali, fatti per il
capriccio, per i quali si creano bisogni fittizi e condizionamenti, - segno di questo
consumismo forsennato sono le montagne di rifiuti che vanno ormai accumulandosi
inquinando ogni ambiente vitale - ma si consumano anche i prodotti meno
commerciabili, quelli che per loro natura dovrebbero sfuggire alla fretta perché
esigono riflessione, meditazione, impegno interiore. Così si è diventati voraci
consumatori di cultura, di sentimenti, e anche del dolore e della pietà altrui, di
drammi segreti di tante coscienze; valori che sono degni del più profondo rispetto e
che esigono attenta e delicata riflessione interiore.
Inoltre, spesso si impegnano le energie più nobili e più alte, come
l'intelligenza e il pensiero, per creare prodotti ignobili e avvilenti, (e qui
l'inquinamento diventa ancora più grave, perché le immondizie ideologiche e
culturali che derivano da questo consumismo sono senza confronti più tossiche e
deleterie). Il tempo allora diventa solo una insana fretta di godere. La ressa
scomposta di coloro che si accalcano attorno al tavolo di questo mondo imbandito di
piaceri e di interessi egoistici per contendersi qualche fetta della loro misera torta,
non ha bisogno di descrizioni. Tutti sentiamo intorno a noi il chiasso, le urla, le
baruffe di tanti poveri animali in cravatta o in jeans che si azzuffano non
risparmiandosi colpi, per un guadagno, per una poltrona, per un piacere o per una
soddisfazione in più. La fretta di consumare piaceri è un desiderio mai sazio.

55 - La fretta: un modo sbagliato di vivere.

Ebbene, dobbiamo guardarci dall'essere uomini della fretta consumistica, anzi


dobbiamo salvarci semplicemente dalla fretta, perché la fretta uccide il tempo e
uccide la vita. La fretta non è nelle cose. Da millenni il sole, gli astri, gli esseri

99
Atti, 1,4
100
Atti, 1,8
51
viventi seguono ritmi e tempi che non conoscono fretta, che non vengono mai
scavalcati; davvero "natura non facit saltus" come dice un antico proverbio. La fretta
è un male oscuro che è dentro di noi, è una dimensione sbagliata del nostro spirito, è
un modo falso perché sfasato di metterci di fronte al mondo, e soprattutto di fronte a
noi stessi e alla nostra vita. In definitiva, è un modo sbagliato di stare con Dio.
Perciò la fretta è sterile, porta con sé la tristezza della infecondità. La
fecondità della pazienza esige invece il saper stare nelle cose con perseveranza e
portarle con il loro peso, esige di sapersi dedicare al proprio compito e al proprio
dovere fino in fondo, di saper stare nel lavoro portandolo a compimento fino
all'ultima pietra. Il Signore non conosce la fretta fin da quando ha creato il cielo e
la terra. Conosce invece la pazienza: "Davanti a lui mille anni sono come il giorno
di ieri che è passato". 101 L'uomo ha dovuto attendere miliardi di anni per apparire
sulla terra. Fa pensare molto questo lungo tempo dell'universo senza l'uomo, che pure
era predestinato ad esserne il re, perché l'universo senza l'uomo appare come
qualcosa di afono e anche di opaco: una pura vibrazione senza suono, come si
esprimono i miti dei popoli antichi, un buio senza luce. L'uomo infatti è la voce delle
cose e la sua intelligenza illumina il creato. Perciò un solo attimo di coscienza
umana, un solo istante di vita spirituale vale più di tutti i cicli delle ere geologiche,
di tutti gli accadimenti della natura. In un solo istante dello spirito c'è tutto il tempo
dell'universo: l'uomo è, nel tempo, una densità trascendente.
L'universo dunque conosce la lunga pazienza di Dio creatore, una pazienza
operosa che rimane mistero ma che riempie tutti i millenni delle ère del mondo. Ma
anche la vita cristiana, la nostra crescita spirituale, ha i suoi tempi e i suoi ritmi; essa
cresce ora lentamente e ora più rapidamente lungo tutta la nostra vita terrena. E' Dio
che ha l'iniziativa e bisogna lasciare a Lui "i tempi e i momenti". La fretta è un modo
sbagliato di collaborare con la grazia di Dio; spesso contiene l'orgoglio
dell'autosufficienza che vuole prescindere dal lavoro dello Spirito Santo nell'anima
per puntare solo sulle proprie forze e sulla propria iniziativa. Così la fretta uccide la
speranza ed apre la strada allo scoraggiamento e alla sfiducia.
Non dimentichiamo che il Battesimo ha messo la grazia e la fede nella nostra
anima come un seme. Il suo sviluppo conosce il "passo di Dio" e la pazienza del
tempo. Scriveva San Giacomo ai primi cristiani: "Siate dunque pazienti,
fratelli...Guardate l'agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della
terra finché abbia ricevuto le piogge d'autunno e le piogge di primavera. Siate
pazienti anche voi". 102 E' la stessa pazienza che devono avere i sacerdoti con le
anime, i genitori con i figli, gli insegnanti e gli educatori con gli alunni, e tutti coloro
che lavorano nella vigna del Signore e collaborano a qualsiasi attività apostolica.
Spesso, come per il seme dentro la terra, anche la crescita della grazia dentro
le anime non ci è dato di avvertirla e siamo tentati di pensare che Dio non agisca.
Ma Gesù ci assicura: "Il Padre continua ad operare" Dio opera incessantemente, ma
è anche paziente. La pazienza è dunque sempre operosa perché è frutto della
speranza. Nel Padre nostro chiediamo che si affretti il Regno di Dio sulla terra;
perciò la pazienza non ha niente a che vedere con la sterile rassegnazione e tanto
meno con la neghittosità; si esprime invece nella fedeltà piena alla missione, al
compito e alla responsabilità, anche piccola, di ciascuno; una fedeltà senza
inquietudini, senza abdicazioni e precipitazioni, ma anche senza lentezze, senza
rinvii, senza approssimazioni.

56 - Fedeltà e operosità.

Nella Chiesa e nella società occorrono uomini capaci di pazienza, che


101
Salmo n. 90, 4
102
Gc. 5,7
52
sappiano stare nella propria vita con la stessa fedeltà di Dio. Spesso la fretta
nasconde le nostre infedeltà: vogliamo scavalcare i disegni di Dio e deviamo per altri
cammini che non sono quelli voluti da lui, o più spesso, restiamo indietro sulle sue
attese. Se pensiamo che il tempo è il luogo della nostra fedeltà a Dio ci torna alla
memoria un episodio del Vangelo narrato da San Marco. Un giorno di primavera,
uscendo di buon mattino, Gesù ebbe fame. Lungo la strada che esce da Betania, ecco
un albero di fico che sembra messo lì apposta per la fame del Signore, un albero
rigoglioso con una chioma florida e invitante. Ma sotto tutta quell'abbondanza Gesù
non vi trova un solo frutto. E subito si abbatte su quell'albero la maledizione del
Signore: "Nessuno possa mai più mangiare i tuoi frutti" 103 ; una maledizione che ci
sembra eccessiva e quasi ingiusta. Così sembrò anche ai discepoli che, presi dallo
stupore, gli fecero notare che era primavera, non era dunque il tempo dei frutti! Gesù
certamente lo sapeva e tuttavia maledisse quell'albero; ciò che egli non sopportò fu
l'apparente vitalità di quel fico e la sua reale infecondità.
Abbiamo a disposizione molti modi per ingannarci, per condurre una vita
apparentemente laboriosa ma in realtà sterile e inefficace. Una madre di famiglia può
agitarsi in mille cose lungo la giornata, un uomo d'affari può correre molto nelle
ventiquattro ore, un operaio può sudare abbondantemente alla macchina o al suo
strumento di lavoro, ed un politico impegnarsi in molte battaglie sociali, come pure il
sacerdote nelle sue "battaglie pastorali", ma tutto questo può portare in sé l'inganno,
la tristezza dell'infecondità. Possiamo fare molto rumore e "lavorare" pochissimo,
correre molto ma invano, senza frutti.
Non è una critica a chi fa molte cose nella sua giornata; tutti dobbiamo avere
mani così operose che non ci avanzi un solo minuto del nostro tempo. Ciò che
dobbiamo temere è l'inganno della presunzione, credere nella sola efficienza umana
dei nostri mezzi, accecarsi con l'orgoglio di chi vede solo sé stesso in quello che fa;
voler edificare sul vuoto della vita interiore, pretendere di misurarsi solo sul volume
e sulla risonanza del proprio lavoro; insomma, lavorare molto ma col cuore lontano
da Dio. La fretta diventa così la chioma frondosa della nostra vanità. Dobbiamo
convincerci che ogni istante della nostra vita è "tempo dei frutti". L'unica fretta che
possiamo avere è che in ogni istante si compia in noi la Volontà di Dio.

57 - Speranza e povertà.

Gesù, nel Vangelo, ci parla insistentemente e con forza delle virtù della fede e
dell'amore; non parla mai esplicitamente della speranza. Il Signore non intende certo
ignorare o negare l'importanza di questa virtù, ma la considera così intimamente
unita alla fede e all'amore che diventa superfluo parlarne. In realtà, tutto il Vangelo
resterebbe incomprensibile se si prescindesse dalla speranza. Gesù stesso, il Figlio di
David, appariva agli occhi degli apostoli e delle folle di Palestina come la
realizzazione delle promesse di Dio; era dunque una speranza fatta certezza. Ma
vediamo alcuni insegnamenti del Signore che contengono un implicito riferimento
alla speranza.
Particolarmente importante è il suo insegnamento circa il nostro rapporto con
le cose e con i beni della terra: speranza e povertà. Nel Discorso della montagna, il
Signore ci mette in guardia ripetutamente dal pericolo di attaccare il nostro cuore ai
beni della terra. Già nelle Beatitudini, che possiamo definire "il cammino della
speranza", il Signore afferma: "Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei
Cieli". 104 Vale a dire che il Regno dei Cieli non può essere retaggio di chi ha messo
il cuore nei beni della terra, perché non si può "servire a Dio e a Mammona". E' una
scelta che non ammette alternative; infatti, "difficilmente un ricco entrerà nel regno
103
Mc. 11,14
104
Mt. 5,3
53
dei cieli". Perciò Gesù conclude: "Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola
e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori
nel cielo dove né tignola né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non
rubano. Perché, là dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore". 105
San Luca nel capitolo dodicesimo del suo Vangelo ha raccolto una parabola
del Signore che ci mette in guardia dalla cupidigia come da uno degli ostacoli più
temibili per la speranza cristiana. "La campagna di un uomo ricco aveva dato un
buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò? perché non ho ove riporre i miei
raccolti, e disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e
vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni, poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a
disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma
Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita e quello che hai
preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce
davanti a Dio". 106
L'uomo di questa parabola è il tipico uomo d'affari che la gente di mondo
giudica fortunato e previdente: sa utilizzare la sua fortuna e sa programmare con
intelligenza e realismo il suo futuro. Ma Gesù condanna quest'uomo; lo condanna
non per la sua intraprendenza e per la sua intelligente concretezza, ma per la sua
miopia e mancanza di prospettiva. La sua speranza si esauriva nelle certezze
offerte dai beni della terra, e tutto finiva nella felicità dell'effimero. Quest'uomo
fortunato e intelligente agli occhi del mondo era, in realtà, un idiota agli occhi di
Dio. Aveva dato più peso e più importanza alla felicità del benessere che alla dignità
della propria persona, soffocando nella quantità di beni terreni la sete incolmabile
della sua anima, e aveva commisurato l'eternità, che configura il futuro della vita
umana, alla durata effimera delle cose che passano. Sono gli stolti che costruiscono
sulla sabbia; tutte le cose della terra, infatti, le ricchezze e i tesori di questo mondo
sono sabbia mobile che non può offrire alcun fondamento al desiderio di felicità che
urge nel nostro cuore.

58 - Speranza e povertà operosa.

Si dice che tutte le cose passano, ed è vero. Ma Gesù, nella parabola del ricco
stolto, sembra dirci anche che siamo noi a passare perché abbiamo un'altra
dimensione, mentre le cose in qualche modo restano: "Stolto! questa notte stessa ti
sarà chiesta la tua anima; e tutto quello che hai preparato di chi sarà?" Come dire
che le cose hanno per misura il tempo, noi abbiamo per misura l'eternità. Ci
ricordiamo delle parole della Scrittura: "Non abbiamo quaggiù una cittadinanza
permanente, sed futuram inquirimus , ma andiamo verso la patria futura". 107
C'è dunque un legame profondo tra speranza e povertà, tra speranza cristiana e
la libertà interiore di chi si sforza di viaggiare nella vita "senza valigie". Quelli,
infatti, che mettono il cuore nei beni della terra sono per definizione "coloro che non
hanno speranza". 108 C'è tuttavia un modo per usare le cose della terra e camminare in
mezzo ad esse senza che diventino un ostacolo per il nostro cammino o un peso per la
nostra speranza: orientarle a Dio perché proclamino la sua gloria, e impiegarle
per il bene di tutti gli uomini.
Infatti tutte le cose dell'universo sono state create perché manifestino la gloria
di Dio, e rivelino la misericordia divina verso l'uomo, il quale nella varietà,
abbondanza e ricchezza delle creature, può contemplare la magnanimità di Dio,
rendergli grazie, e utilizzare ogni cosa per elevare non solo la qualità della sua vita
105
Mt. 6,19-20
106
Lc. 12,16-21
107
Ebr,. 13,14
108
1 Tess. 4,13
54
terrena, ma soprattutto per affinare lo spirito e promuovere la generosità nel servizio
di Dio. L'uomo è chiamato così a dare voce a tutte le creature, e a diventare
interprete del loro valore e del loro significato. E' questo l'aspetto positivo della
povertà cristiana, che fa di essa una virtù non rinunciataria bensì fortemente
operativa.
Il cristiano poi è chiamato a glorificare Dio nel lavoro, nella professione, negli
affetti nobili e onesti della vita, nelle responsabilità sociali e politiche, e quindi ha
bisogno di mettere in opera tutti i talenti che il Signore gli ha dato e di utilizzare tutti
i mezzi umani che servono per la maggiore efficacia della sua attività. La speranza
cristiana genera una povertà operosa, che si adopera generosamente a
promuovere il progresso umano in tutte le sue espressioni. Il male, dunque, non
stà nelle ricchezze ma nell’egoismo del cuore. Le ricchezze vanno collocate,
perciò, al loro posto: sono mezzi, strumenti che devono servire perché si realizzi il
progetto di Dio nell'uomo e nel mondo. Farle diventare il fine della vita significa
falsare la loro identità, e soprattutto ingannare miseramente noi stessi.
Dobbiamo dunque fissare il cuore là dove deve tendere la nostra speranza;
realizzeremo così quella libertà interiore che è necessaria per mettere mano ai beni e
alle ricchezze della terra senza timore e senza timidezza, con l'audace iniziativa e con
la coraggiosa intraprendenza di chi sente la responsabilità di operare per un mondo
più giusto e più degno dell'uomo. E' vigliaccheria lasciare alla mercè dei figli
delle tenebre che operano al servizio dell'egoismo umano le risorse e i beni della
terra che Dio ha destinato al bene di tutta l'umanità.

59 - Speranza e libertà.

Questo distacco non è facile e non è mai scontato. Il denaro si sposa


facilmente a tutte le altre inclinazioni disordinate: alla superbia, alla sete di dominio,
alla ricerca del piacere come fine a sé stesso, alla vanità, alla prepotenza.
"L'attaccamento al denaro, infatti, è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato
desiderio alcuni hanno deviato dalla fede, e si sono da sé stessi tormentati in molti
dolori". 109
Invece il distacco cristiano, frutto della speranza, ci libera dalla schiavitù delle
cose e ci permette così di esercitare su di esse il nostro dominio, quello giusto,
quello voluto da Dio quando disse: "Riempite la terra e soggiogatela". 110 La prima
espressione di questo dominio è il rispetto delle cose, riconoscendole come creature
di Dio. Lo spreco, la noncuranza degli oggetti, il degrado a cui lasciamo andare gli
strumenti che usiamo, e ogni altra forma di abbandono delle cose, è disprezzo di Dio
e offesa verso l'uomo.
Il più grande innamorato della povertà, Francesco D'Assisi, fu anche il più
grande innamorato delle creature. Egli ci ha insegnato che la sete di possesso, il
desiderio di "appropriarsi" delle cose, per motivi di egoismo, di prestigio o di potere,
è la forma più brutale di violenza che possiamo esercitare sulle creature, perché in tal
modo esse vengono deviate dal loro fine. Si capisce allora perché la mentalità
consumistica dei nostri giorni è la negazione della povertà e della speranza cristiana:
perché è anch'essa una forma di violenza sulle cose, vuole asservirle al capriccio, alla
vanità, alla comodità egoistica.
Altra espressione di un giusto dominio sulle cose è la capacità di
"sacrificarle", offrirle in dono, staccandosi effettivamente da esse. Pensiamo con
quanta facilità accumuliamo cose, per cui finiamo col possedere molto più di quanto
ci serve per vivere decorosamente, per assolvere i nostri doveri, per realizzare le
giuste aspirazioni della nostra personalità. "Sacrificarle" significa, allora, metterle a
109
1 Tim. 6,9
110
Gen. 1,28
55
disposizione del bene comune, cominciando da quello della propria famiglia, ma
anche al servizio di iniziative sociali o di attività apostoliche.
L'alternativa a questo distacco praticato volontariamente durante la vita è il
distacco forzato in punto di morte, dopo aver accumulato beni sui quali forse
litigheranno eredi e parenti. Ben diverso è l'avvertimento del Signore; Egli ci invita
a procurarci amici con il bene compiuto attraverso le ricchezze di questo mondo,
amici che verranno ad accoglierci quando arriveremo alla vita eterna. Infatti, ci
porteremo via da questo mondo non quello che abbiamo accumulato ma solo
quello che abbiamo donato.
Possiamo chiedere a Dio questa libertà che nasce dalla speranza con la
preghiera della liturgia della Chiesa:
"O Dio, nostra forza e nostra speranza,
senza di te nulla esiste di valido e di santo;
effondi su di noi la tua misericordia
perché, da te sorretti e guidati,
usiamo saggiamente dei beni terreni
nella continua ricerca dei beni eterni."
(Domenica XVII Tempo ord. )

60 - Inno alla speranza.

L'operosità insita nella speranza cristiana si rivela particolarmente importante


nella lotta interiore, nella testimonianza che dobbiamo rendere a Cristo e
nell'impegno dell'apostolato. La speranza cristiana tende a un bene futuro e
difficile, ma non rimanda mai al futuro, né si affida solamente alle circostanze
facili e favorevoli; non dice mai "domani", o "la prossima volta"; non si rassegna
all'impotenza. Chi è animato dalla speranza prova e riprova, studia, esamina, riflette,
si consiglia, cerca nuovi mezzi, insiste; sa che una vittoria può venire dopo numerose
sconfitte, che un primato arriva dopo tanti tentativi falliti. La speranza non si arrende
nemmeno all'impossibile, perché sa che "nulla è impossibile a Dio". Perciò gli
ostacoli, le apparenti sconfitte, le eventuali umiliazioni, come anche le resistenze
dell'ambiente e delle persone non hanno importanza. "Cristo non è fallito: la Sua
dottrina e la Sua vita stanno fecondando il mondo incessantemente" Perciò la "cosa
più importante da scorgere nella chiesa (e nel mondo) non è il modo con cui
rispondono gli uomini, ma l'azione di Dio". 111
Un cristiano che crede e che ama, è impossibile che non abbia speranza.
Monica ha inseguito per anni il figlio Agostino, con le sole armi della preghiera e
delle lagrime, sapendo che la luce vince le tenebre, che la verità è più forte
dell'errore, e che l'amore può sciogliere ogni durezza e ogni ribellione; sapeva che
Dio non ha indebolito la sua forza di fronte alle resistenze dell'uomo, e non poteva
deluderla.
La speranza non si ferma mai; come le acque dei torrenti, sa aprire strade tra
le montagne, nelle gole e nei deserti, inter medium montium pertransibunt acquae.
Pensiamo all'emorroissa nel Vangelo di Marco: la sua perseveranza nel tentare ogni
mezzo, la sua fatica ad aprirsi un varco tra la folla che seguiva Gesù, i disagi per
superare la calca con le inevitabili spinte, insulti, umiliazioni, l'ansia per non sapere
quali reazioni avrebbe incontrato da parte di Gesù....; ma la speranza di non restare
delusa ha prevalso, l'ha sostenuta nei suoi sforzi e nella sua perseveranza. 112
Infine, la speranza è sempre accompagnata da una santa inquietudine interiore;
è un'inquietudine che non significa la perdita della pace ma l'insonne, gioiosa,
dolcissima ricerca di Colui che è l'oggetto di un intimo desiderio d'amore. Vengono
111
Beato J. Escrivà, E' Cristo che passa n. 129,131
112
Mc. 5,25-34
56
alla memoria le parole del Cantico: "...lungo la notte, ho cercato l'amato del mio
cuore; l'ho cercato ma non l'ho trovato. "Mi alzerò e farò il giro della città; per le
strade e per le piazze; voglio cercare l'amato del mio cuore". L'ho cercato ma non
l'ho trovato. Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: "Avete visto l'amato
del mio cuore?". Da poco le avevo oltrepassate, quando trovai l'amato del mio
cuore". 113
E' questa speranza propria degli innamorati la vera speranza cristiana. Se la
fede sposata alla speranza genera la fiducia, la speranza sposata all'amore genera la
fedeltà e la perseveranza. Un innamorato non cessa mai di sperare; in lui la speranza
è una forza incontenibile, che lo spinge su tutte le strade della vita interiore finché
non trova "l'Amato del suo cuore"; una speranza laboriosa, anche sofferta, ma che già
contiene la gioia della vittoria, la felicità dell'abbraccio con l'Amato del suo cuore.
Un tempo il pane veniva preparato e distribuito dalla madre di famiglia:
impastava la farina, la faceva riposare, la ripartiva in pani e la cuoceva riempiendo la
casa di fragranza. Per noi, figli di Dio, il pane della speranza ce lo prepara e ce lo
dona Colei che è Madre nella Chiesa e della Chiesa, Colei che ha confezionato il
Pane con le mani verginali del suo grembo, e ce lo dona spezzato dal dolore e
dall'amore sulla tavola della Croce, perché ognuno di noi lo porti con sé nella sua
bisaccia lungo il viaggio della vita, lungo i cammini della terra.
"Cristo, nostra Speranza". Maria, fiducia dell'umanità, "vita, dolcezza,
speranza nostra", prega per noi!

113
Ct. 3,1-4
57
IL TEMPO:
LUOGO DEL DESIDERIO

QUALE AMORE?

61 - Dio è amore.

La nostra vita di figli di Dio sulla terra è un viaggio nella fede, nella speranza,
nell'amore. La fede è la luce, la speranza è il pane, l'amore è la vita. L'uomo, si dice,
non può vivere senza amare e senza essere amato. Dove non c'è amore, non c'è vita.
La vita è dono, è sete d'amore, è capacità d'amore.
Dove non c'è amore, non c'è nemmeno vera convivenza umana. Infatti
percorriamo il nostro viaggio sulla terra non da soli; siamo una moltitudine, un
fiume, e non possiamo stare insieme senza amarci.
E tuttavia l'amore non è di questa terra. "Dio è Amore!", afferma S. Giovanni
in una delle espressioni più folgoranti di tutta la Bibbia. L'amore, infatti,
appartiene a Dio, all'essenza stessa dell'Essere divino. Se nelle creature c'è
capacità d'amore è perché Dio si è fatto presente nel tempo, si è fatto dono alle sue
creature. L'Amore fluisce da Dio alle creature, le unisce a sé e tra di loro; l'amore
congiunge il tempo e l'eternità. Tutta la creazione e tutta la storia degli uomini
costituiscono un poema splendido e grandioso, un inno immenso all'Amore di Dio e
all'Amore di Colui che, fattosi uomo, ha voluto chiamarsi lo Sposo.
Tutto nel tempo è stato acceso da un atto d'amore: Dio crea perché ama; la
creazione è Amore. La storia del mondo è tutta percorsa dall'amore: Dio custodisce le
cose che ha creato e le conduce con forza e con grazia perché ama; la Provvidenza è
Amore.
Ma la creatura che più di tutte le altre rivela al mondo l'amore di Dio è l'essere
umano. Nell'uomo, Dio-Amore ha impresso il sigillo della sua immagine e ha
comunicato il dono della sua somiglianza. L'uomo è "immagine" di Dio per lo
spirito ed è "somiglianza" di Dio per la Grazia. Lo spirito tende al bene e vuole il
bene: ama; la Grazia fa l'uomo partecipe della vita divina e perciò dell'amore.
L'amore è dunque costitutivo della nostra natura di persone: possediamo una duplice
conformità, naturale e soprannaturale, all'Essere di Dio, al suo Essere-Amore.
Ma l'immagine di Dio è in noi non soltanto per la nostra natura di persone, ma
anche per la natura relazionale del nostro essere. Dio, infatti, nel creare l'uomo a sua
immagine e somiglianza, "maschio e femmina li creò", fissando così la forma più
profonda di relazione interpersonale, quella dell'uomo e della donna nell'amore
nuziale. 114 Infatti Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo". 115 Il Signore aveva
posto Adamo nell'Eden, nel Grande Giardino del mondo, di fronte allo splendore del
creato. I suoi occhi potevano riempirsi di ogni bellezza: il verde intenso e tenero
delle foreste, l'azzurro del cielo, il bianco luminoso delle nubi, il turchino del mare,
il rosso vivo delle rocce, e i fiori...; non c'era bellezza che non fosse presente in
114
G.iovanni Paolo II, Catechesi (febbraio 1979)
115
Gen. 2,18
58
quella immensa sinfonia di fogge e di colori. Tutta la tavolozza con cui Dio aveva
dipinto il mondo era lì, davanti ai suoi occhi, in tutto il suo splendore... Ma il cuore
di Adamo era triste.
Allora Dio fece sfilare sotto lo sguardo di Adamo, come in una grande parata,
tutti gli esseri viventi nelle loro perfezioni: la forza del leone, l'agile potenza della
tigre, la solennità dell'elefante, la tenera mansuetudine dell'agnello, la raffinata
eleganza dell'antilope,... e tutti gli uccelli del cielo con il loro canto e nella splendida
varietà del loro piumaggio... Ma il cuore di Adamo era triste: "...non trovò un aiuto
che gli fosse simile".
"Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo che si addormentò;
gli tolse una delle costole... e plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una
donna, e la condusse all'uomo". Adamo, svegliatosi dal sonno, vide accanto a sé Eva
e un grido gli uscì dalla bocca e dal cuore: Ecco! questa sì "è carne dalla mia carne
e osso dalle mia ossa!" 116 e la tristezza se ne andò dal suo cuore. In quel momento
nacque l'amore sulla terra, e l'uomo, già "immagine" di Dio come persona, divenne
immagine della Trinità del cielo, come "due in una sola carne".
L'amore sponsale infatti è fondamento di tutte le altre dimensioni dell'amore
umano: l'amore paterno e materno, l'amore filiale, l'amore fraterno, lo stesso amore
coniugale, e anche l'amore famigliare in tutte le sue diramazioni: la parentela, la
nazione, la razza, fino all'immensa e unica famiglia costituita dal genere umano;
infine, l'amore verginale, che realizza la forma più sublime della sponsalità.

62 - La benevolenza.

Tutte le espressioni dell'amore hanno una radice comune: la benevolenza,


ossia la naturale tendenza a scambiarsi il bene, a volere il bene per noi stessi e per gli
altri; o, più profondamente, è benevolenza l'apertura al dono di sé, alla comunione
con gli altri. Questa benevolenza è il fondamento dell'amicizia e raggiunge la sua
espressione più alta quando dal semplice "volere il bene" per la persona amata, passa
a "volere la persona" stessa; una specie di intima felicità perché quella persona
esiste. Lo stesso amore coniugale si fonda sulla benevolenza: se due coniugi non
diventano sinceramente amici tra di loro, così da essere profondamente felici l'uno
dell'altro, rischiano di far naufragare il loro amore. Volere una persona, volere che
esista ed esserne felici, è la forma d'amore che fa l'uomo più somigliante a Dio.
Infatti, l'amore che Dio porta alle sue creature è sola e infinita benevolenza.
Per ora consideriamo che Dio è l'Essere per definizione e perciò Egli è la vetta
più alta per ogni amore creato. Nasce di qui la profonda inquietudine del cuore
umano, un'inquietudine che definisce la nostra condizione nel tempo: viandanti. E' un
viaggio, il nostro, che non può essere percorso in solitudine e che non ha quaggiù il
suo approdo ultimo. L'amore, nel tempo, è desiderio; desiderio di eternità, desiderio
di Dio. "L'amore non può trattenersi dal vedere ciò che ama; per questo tutti i santi
stimarono ben poco ciò che avevano ottenuto, se non arrivavano a vedere Dio. Perciò
l'amore che brama vedere Dio, benché non abbia discrezione, ha tuttavia ardore di
pietà". 117
Ma questa tendenza verso il bene, in particolare verso il Bene Sommo, così
profondamente radicata nel nostro essere, ha un nemico mortale: il peccato. Dio
infatti aveva partecipato il suo amore all'uomo in modo ineffabile e trascendente con
il dono soprannaturale della Grazia. Nel Paradiso terrestre Adamo conversava
familiarmente con Dio. Era come un rapporto "alla pari", un'amicizia divina, una
partecipazione intima all'amore increato. Ma Adamo non si fidò di Dio e gli oppose
un rifiuto. Non appena i nostri progenitori si sono ribellati a Dio hanno cominciato
116
Gen. 2,20-23
117
S. Pietro Crisologo
59
ad accusarsi reciprocamente; l'amore era finito.
Il peccato è infatti la negazione dell'amore, il rifiuto di lasciarsi amare; è quasi
un tentativo di distruggere l'amore. Il nostro allontanamento da Dio ha lasciato via
libera all'egoismo, che si è introdotto nel nostro cuore portando un duro colpo alla
nostra capacità di amare. La volontà, facoltà spirituale propria dell'amore, rimasta
profondamente ferita e debilitata, viene facilmente portata fuori strada da un
intelletto non più capace di vedere il bene e di indicarlo con chiarezza e con verità.
Così l'odio ha cacciato l'amore, e il desiderio è diventato disperazione.

63 - L’Amore in Dio: lo Spirito Santo.

Ma Dio, che è solo Amore e non cessa mai di amare, è entrato nella storia
umana come Misericordia: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna". 118 Gesù
Cristo: ecco la risposta dell'Amore divino alla miseria dell'uomo. Con Gesù inizia
così il tempo della misericordia, il tempo della Salvezza. E' il tempo della Chiesa
chiamata a portare il dono dello Spirito a tutti gli uomini. Scrive Sant'Agostino:
"Amare Dio è esclusivamente un dono di Dio. E' lui che, amandoci quando noi non lo
amavamo, ci ha concesso di amarlo. Siamo stati amati quando ancora gli eravamo
sgraditi, affinché ci fosse in noi qualche cosa per piacergli. Infatti lo Spirito del
Padre e del Figlio, che amiamo unitamente al Padre e al Figlio, riversa la carità nei
nostri cuori". Dunque, lo Spirito Santo. E' lui, anima della Chiesa, che accende nei
nostri cuori il fuoco dell'amore di Dio e la fiamma del desiderio. "Charitas Dei
diffusa est in cordibus nostris", l'amore di Dio è stato effuso nel mondo per mezzo
dello Spirito Santo che abita nei nostri cuori.
L'amore dunque è nell'uomo, ma non viene dall'uomo; è un dono che trascende
completamente le possibilità della creatura. L'amore viene da Dio. Viene dal Padre,
che ha creato per amore e conduce ogni cosa con sapienza e amore; viene dal Figlio,
che si è fatto uomo per amore e ha dato sé stesso sulla croce per amore; viene dallo
Spirito Santo che, dono increato ed eterno, si è fatto vita dell'anima e vita della
Chiesa. L'amore è la Trinità Santissima.
Possiamo dire che il dono dell'Amore divino è analogo al dono della filiazione
divina. L'unico figlio di Dio è il Figlio, la seconda persona della Trinità Beatissima;
noi diventiamo figli per partecipazione, figli nel Figlio. Così l'Amore; l'unico Amore
è lo Spirito Santo che sussiste in Dio come ineffabile Dono reciproco del Padre e del
Figlio, Dono sussistente nella terza Persona della Santissima Trinità: a noi è dato di
amare per partecipazione, amanti nell'Amante. Questo Amante, "ospite dolce
dell'anima", accende in noi il fuoco dell'Amore, e se ci lasciamo condurre da Lui, la
fiamma del desiderio divamperà nella nostra anima con "gemiti inenarrabili". Infatti,
come per la partecipazione alla vita divina "noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò
che saremo non è ancora stato rivelato" 119 , per cui "la creazione stessa attende con
impazienza la rivelazione dei figli di Dio" 120 , così è anche per l'amore. Esso è già
effuso nei nostri cuori, poiché "possediamo le primizie dello Spirito", ma ancora non
possediamo ciò che amiamo, per cui "gemiamo interiormente aspettando l'adozione a
figli". 121 Sulla terra nessun vero possesso è possibile, perciò quaggiù non
possiamo amare che desiderando. "Il tuo volto, o Signore, io cerco il tuo volto!"

64 - Ferita d’amore.

118
Gv. 3,16
119
1 Gv. 3,2
120
Rom. 8,19
121
S. Paolo, Lettera ai Romani, 8, (passim)
60
Molte anime grandi, le anime innamorate come quelle dei santi, hanno
sperimentato sulla terra il dolore dolcissimo del desiderio di Dio, un desiderio
insaziabile di comunione con Lui e di contemplazione del suo volto. Perciò molti
mistici definiscono questo desiderio: "una ferita d'amore". Ferita dolorosa e insieme
dolcissima che guarisce solo nella vita eterna. Pensiamo alle pagine ardenti e alle
espressioni infuocate uscite dalla penna di S.Agostino, di S. Bonaventura, di Teresa
d'Avila, di Caterina da Siena, di Bernardo di Chiaravalle, di Sant'Alfonso de' Liguori,
e di tanti altri che hanno sperimentato quale peso di felicità e di dolore comporti,
sulla terra, l'effusione dell'amore di Dio nell'anima. Sono giustamente famosi questi
versi di Santa Teresa: 122
L'alto fuoco d'amore mio Prigioniero, Dio!
da cui vivo afferrata ma a pensarmi signora
donò libertà di Colui che voglio e adoro
al mio spirito felice; muoio perché non muoio.

In queste condizioni l'anima non ha altro desiderio che di identificarsi


pienamente con il suo Dio. E' un desiderio insito nell'amore fin dal suo inizio. In
tutto il Nuovo Testamento quando si parla di amore lo si attribuisce sempre
all'iniziativa di Dio: "non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato
noi". 123 Il nostro atteggiamento non può essere allora che la docilità, l'obbedienza
del Figlio; una obbedienza intensamente attiva perché esige un continuo "si" alla
volontà amabilissima di Dio. E' quanto diciamo nel Padre Nostro: Venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà; in altre parole, il nostro amore verso Dio consiste nel
lasciarci amare da Lui e rimanere nel suo amore. "Come il Padre ha amato me,
così anch'io ho amato voi, rimanete nel mio amore". 124 Lasciarci amare e rimanere
nell'amore significa aderire intimamente a Dio e alla sua volontà. Questa infatti è
l'attività propria dell'amore: volere la persona amata. Fare la volontà di Dio è volere
ciò che Lui vuole; in definitiva, è volere Lui stesso.
Ma la nostra volontà è impotente riguardo all'essere di una persona; non è in
nostro potere fare in modo che una persona esista. Possiamo però contemplarla ed
essere felici che esista. Questo vale in senso assoluto riguardo a Dio. Non è in nostro
potere volere la sua esistenza, accade invece esattamente il contrario: è Lui che ha
voluto e vuole continuamente la nostra; è infatti Lui che ci ama. Possiamo invece
essere sommamente felici che Egli esista. E' una felicità che si alimenta
incessantemente nella contemplazione di Dio e nell'adesione intima a Lui. Essere in
Dio e rimanere nel suo amore: è questa la radice della nostra felicità. Concludeva
infatti il Signore: "Vi ho detto questo - di rimanere nel mio amore - perché la mia
gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena". 125

65 - Culto pagano e amore cristiano.

Che l'amore venga da Dio e che sia stato effuso sulla terra con lo Spirito
Santo, lo dimostra anche il fatto che l'amore soprannaturale non lo troviamo in
nessun'altra espressione cultuale umana, in nessun'altra religione. In tutte le epoche
gli uomini hanno praticato verso la divinità un culto di adorazione, di
propiziazione, di invocazione, mai di amore. La stessa "pietas" pagana verso gli dèi
era l'esercizio dei doveri di culto, la cui fedeltà rendeva l'uomo religioso un "uomo
pio", ma il culto restava sempre l'espressione di sentimenti che rimanevano estranei
all'amore. Gli dèi erano onorati, temuti, propiziati, mai amati.
122
S.Teresa D'Avila,
123
1 Gv. 4,10
124
Gv. 15,9
125
Gv. 15,11
61
E d'altra parte la divinità era considerata qualcosa di lontano, al di sopra dei
sentimenti umani. Tra gli déi e gli uomini esisteva una sorta di incommensurabilità.
La divinità poteva essere verso l'uomo benevola, non ostile, benigna e protettrice,
mai avrebbe potuto avere sentimenti d'amore. L'amore suppone ed esige una certa
"proporzione" fra le persone che si amano; ma nessuna proporzione era pensabile tra
l'uomo e Dio
Inoltre, nella religiosità cosmico-naturalista che troviamo nelle religioni
primitive, nelle varie religioni orientali e che arriva ad infiltrarsi anche nel pensiero
filosofico occidentale (vedi il panteismo di Spinoza, lo Spirito eterno di Hegel, il
vago teismo massonico-razionalistico che rivive in certe frange del laicismo
contemporaneo, ecc.), la divinità è concepita come una realtà impersonale, indistinta
dal mondo, nella quale l'uomo può venire assorbito perdendosi come un frammento
nel tutto. (Nirvana). Evidentemente ogni rapporto tra Dio e l'uomo rimane
radicalmente cancellato, in particolare diventa impossibile ogni rapporto d'amore.
Anche l'amore che esisteva tra le persone, era sempre un amore "profano"; non
nasceva da Dio ma si fondava sulla affinità, una specie di convergenza di forze
istintuali, affettive, culturali, etniche o semplicemente di simpatia, che portavano a
rapporti interpersonali poveri di contenuto, limitati, nei casi migliori, all'amicizia e
alla solidarietà.
Il paganesimo, poi, aveva portato a un indurimento dell'animo umano, a una
atonia dei sentimenti. Un autore antico scrive che i Romani erano "sine affectione",
privi di sentimento, incapaci di affetto e di commozione. Lo testimoniano la durezza
delle consuetudini, la condizione degli schiavi, il trattamento dei bambini e della
donna, la crudeltà delle punizioni, la brutalità disumana nei giochi gladiatori.
Nelle lettere scritte dagli Apostoli alle prime comunità cristiane troviamo
molte descrizioni della condotta perversa presente nella società pagana di allora,
società che non conosceva né l'amore di Dio né l'amore del prossimo, e alla quale
appartenevano anche i cristiani prima della loro conversione. Valga per tutti questo
passo della lettera di S.Paolo a Tito: "Anche noi un tempo eravamo (come loro)
insensati, ribelli, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella
malvagità e nell'invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda". 126
Purtroppo, lungo i secoli, sono molti i paganesimi che hanno conosciuto
analoghe malvagità di uomini senza sentimento. Ai nostri giorni le ideologie della
miscredenza hanno inventato i lager, le camere a gas, le torture spietate e crudeli, le
deportazioni forzate, i gulag, la tratta e il commercio dei bambini e innumerevoli
atrocità che hanno del diabolico, dove l'odio verso Dio diventa odio verso l'uomo. Si
comprende perciò la gioia che pervade il cuore di S.Paolo e che traspare nel brano
immediatamente successivo: "Quando però apparve la bontà di Dio, salvatore nostro
e il suo amore per gli uomini, - benignitas et humanitas salvatoris nostri Dei - Egli
ci ha salvati.... per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione nello
Spirito Santo effuso da Lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo
nostro Salvatore". 127

66 - Amore cristiano: “connaturali” con Dio.

Il tempo della Chiesa è dunque il tempo dello Spirito Santo, il tempo della
vocazione all'Amore. Gli uomini devono capire che non è possibile costruire nessuna
"civiltà dell'amore" se non in Dio, creatore e padre di tutti; in Cristo che ci ha amato
e ha dato sé stesso per noi; nello Spirito Santo che, effuso nei nostri cuori, vi accende
il fuoco del desiderio e della contemplazione di Dio. Lo Spirito Santo ha reso
possibile l'amore tra l'uomo e Dio, perché la sua azione nell'anima ha prodotto
126
Tito, 3,3
127
Tito, 3,3-6
62
una sorta di "proporzione" fra noi e il Padre. Siamo diventati "connaturali" con
Dio per il dono della Grazia. Perciò non siamo più "stranieri né ospiti, ma
famigliari di Dio". 128 «Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di
Dio. E, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» 129 .
E' questo il fondamento della nostra amicizia col Signore. Vivere come amici
di Dio, amici che non hanno segreti, che si parlano cuore a cuore, che si trattano con
intimità e fiducia; questo, a pensarci bene, può apparire impossibile, quasi inaudito.
Eppure, in Gesù, Dio ha voluto farsi amico degli uomini: "Non vi chiamo servi, ma
amici." Dobbiamo dunque perdere la paura, dobbiamo non trattare il Signore a
distanza, dobbiamo avvicinarci a Lui fino a vedere il colore dei suoi occhi, il sorriso
delle sue labbra, ascoltare i battiti del suo cuore. Come Giovanni, come gli Apostoli.
Dobbiamo arrivare all'audacia santa di volergli bene, di chiamarlo per nome,
di dirgli: Gesù, mi succede questo e questo..., ma tu sei la mia forza, la mia certezza,
la mia luce; tienimi vicino a te, perché voglio esserti fedele, voglio lavorare con te e
per te, voglio che i miei amici diventino tuoi amici, che ti conoscano e ti amino."
Volergli bene e insieme sapere che egli mi vuol bene, è il cuore della vita
spirituale, è l'antidoto più efficace contro la mediocrità, è il segreto della fedeltà e
della pace. Molti cristiani si sono allontanati dalla fede, sono caduti nella
tiepidezza o non hanno desideri di santità perché non sono convinti che Dio li
ama e che possono avvicinarsi a Lui sicuri di essere accolti, capiti, perdonati,
amati.
Quando un'anima non crede all'amore di Dio, quando non si sente amata ma
solo giudicata da Lui, è condannata a vivere un cristianesimo triste, angosciato e
mediocre, perché si affannerà a cercare in sé stessa titoli e motivi per essere amata,
per meritarsi l'amore di Dio, ma non trovandoli, diventerà facile preda dello
scoraggiamento e della tristezza.
Dobbiamo lasciarci attirare dall'amore di Cristo, un amore divino e umano
perché ci arriva attraverso un cuore di carne come il nostro, che conosce l'affetto
umano e il calore dell'amicizia. Egli ci chiede il cuore - praebe mihi cor tuum -, ma
noi pensiamo che ci domandi cose: un po' di tempo, di lavoro, opere buone,
prestazioni.... L'amore non è dare le nostre cose, anche tutte, preziose o meno, ma è
dare il cuore, dare noi stessi, perché questo ha fatto il Signore. "Dilexit me et
tradidit semetipsum pro me" 130 , esclamava in un impeto di commozione l'Apostolo
Paolo - mi ha amato, fino a dare sé stesso per me! - E' davvero sconvolgente il
pensiero che Dio si è fatto uno di noi, e donandosi a noi come Figlio e come Spirito
Santo ci ha resi partecipi dell'intimità del suo Essere divino e del suo Amore.

FARSI DONO

67 - L’amore è dono.

Dio è amore e l'amore, in Dio, è dono; dono del Padre al Figlio e del Figlio al
Padre: lo Spirito Santo, Donum Dei. L'Amore non può essere che dono; ogni amore
porta al dono e si fa dono. Perciò l'amore è la vita, perché la vita è dono, tutta e
soltanto dono. Dono che si riceve e dono che si offre. Ricevere e donare, sono come
le pulsazioni della vita; come il battito del nostro essere. Ricevere e donare: come i
movimenti del cuore; se viene meno uno dei due momenti la vita si spegne. Anche

128
Ef. 2,19
129
Rm. 8,16
130
Gal. 2,20
63
l'esistenza umana senza il battito dell'amore si spegne; anch'essa è scandita dal ritmo
dell'amore.
In Dio troviamo solo il donare. Egli è la pienezza dell'essere, ed è totalmente
sufficiente a sé stesso, non vincolato, non necessitato, assolutamente esaustivo. Dio,
quindi, può agire solo donando, anzi possiamo dire che solo Lui può donare. Tutto
quello che Egli ha creato è puro dono, è puro amore.
Da questo amore viene ciascuno di noi. La nostra esistenza creaturale è pura
ricettività, è piena apertura all'essere, al dono che ci viene dall'Alto. Dono
assolutamente gratuito perché dal nulla veniamo. Tutto in noi è dono. Siamo dono e
continuiamo ad esserlo in ogni istante della nostra vita: siamo dono a noi stessi, e
siamo chiamati a diventare dono di noi stessi. E' questa la struttura intima della
nostra creaturalità. E' questa la libertà; libertà di ricevere, libertà di donare. Libertà
dell'amore.
Questo ritmo dell'esistenza ha un senso: va dal ricevere al donare, non
viceversa. Si riceve per donare. Perciò ogni egoismo, ogni ripiegamento su noi stessi,
ogni chiusura al dono è perdita di libertà, è perdita di essere. Tutto ciò che abbiamo
ricevuto è per essere donato. Dobbiamo farci dono totale, pieno, incondizionato, a
immagine e somiglianza di Dio.
Ogni persona si realizza se si apre alla vita; si apre alla vita se ama, ama
se si dona. Tutte le malattie dell'esistenza, molti malesseri spirituali e molti disturbi
psichici della personalità nascono dal fatto che non ci siamo realizzati come dono,
non abbiamo saputo trovare un modo oblativo di stare nella nostra vita e nel mondo.

68 - La vita: una corsa verso il dono.

Tutto il nostro viaggio nel tempo deve così diventare un anelito verso il dono di
sé. La stessa maturità umana coincide con la perfetta capacità di farsi dono. Perciò
l'egoista è un immaturo, e l'egocentrico è incapace di un’autentica vita intellettuale e
affettiva, di vita sociale. Già l'atto di nascere è dono, anzi lo stesso concepimento e,
prima ancora, l'incontro coniugale sono dono. Durante un rapporto d'amore, che sia
vero e autentico, la donna sa e sente di essere recettiva, tanto che in quel momento il
suo modo di essere è quello dell'abbandono totale di sé all'uomo, apertura piena al
dono, e avverte con un'esperienza intimamente esaltante e inesprimibile che il seme
che riceve è il dono che l'uomo fa di sé stesso al suo essere donna.
Dopo quell'incontro, l'atteggiamento di abbandono recettivo diventa in lei
trepida attesa di un altro dono: il concepimento, l'intervento misterioso della natura -
del Creatore - che trasforma il dono ricevuto dall'uomo in un dono più grande. E
quando la donna si accorge di aver concepito sente di essere stata profondamente
gratificata; tutto è avvenuto in lei senza di lei; un grido di gioia, che è gratitudine
verso Colui che ha dato al suo grembo il dono della fecondità, risuona nel suo intimo
come se venisse liberata da un incubo: la paura della sterilità, la paura di restare
esclusa dal grande mistero della vita. Anche il suo modo di essere cambia, da
recettivo diventa sempre più consapevolmente attivo; essa avverte che sta
misteriosamente trasformando il dono ricevuto in un dono da offrire, e nell'atto del
parto, nonostante il dolore e l'angoscia, essa sente che quella creatura è un dono
immenso che lei fa non solo all'uomo ma a tutta l'umanità, e insieme, quella creatura
è anche il dono che lei fa a sé stessa nel contempo che lo riceve dall'Alto.
Tutta la dinamica dell'incontro coniugale è governata dal significato del
dono e quindi dalla legge dell'amore. Ecco perché la contraccezione è un
controsenso; essa distrugge il dono nell'atto stesso di farlo; uccide l'amore
trasformandolo in egoismo e umilia la dignità della donna nella sua vocazione ad
essere dono per il dono: la maternità.
C'è di più: quando la donna concepisce nel suo grembo, avverte istintivamente
64
che quello che è avvenuto in lei non è un puro fenomeno naturale, è un intervento
divino "sempre"; è sempre un dono di Dio prima ancora di essere un dono dell'uomo.
Perciò un figlio è sempre da accettare come un dono, anche quando fosse frutto di
violenza. In tal caso quel figlio non è un dono dell'uomo, è un dono tutto e solo di
Dio. Perciò va amato ancora di più. La violenza è dell'uomo, la vita e l'amore sono di
Dio.
Parimenti, contrasta profondamente con la realtà e la natura del dono
l'atteggiamento della "pretesa". Un figlio non è mai un diritto, è sempre un dono. Il
volere un figlio a tutti i costi, con qualsiasi mezzo, non nasce dall'amore perché la
pretesa è figlia dell'egoismo. La scienza biologica può manipolare le leggi della vita
e può anche "fabbricare" un figlio, ma un figlio "artificiale" rischia di restare figlio
della scienza, cioè figlio di nessuno. Il desiderio della maternità è senza dubbio
l'aspirazione più nobile e profonda nascosta nell'essere della donna, è anzi la sua
vocazione, ma se il desiderio diventa pretesa, quella vocazione si trasforma in
arbitrio, e il figlio "preteso" difficilmente sarà amato come un dono perché è
posseduto come una proprietà. Esiste la violenza dell'uomo sulla donna, ma esiste
anche la violenza della donna sulla natura; il femminismo ha molte facce, questa è
certamente una delle più brutte. La donna, brutalmente aggredita dalla nostra cultura
edonistica e derubata dei valori più preziosi della sua femminilità, deve trovare il
senso autentico del suo essere donna, soprattutto la sua profonda capacità di amare
che si esprime nel servizio gioioso e nel sommo rispetto verso l'essere umano che le
viene affidato come un dono, e infine deve riscoprire la dimensione trascendente
della maternità.
Sappiamo infatti che la fecondità naturale, biologica, come la maternità fisica
non sono le uniche e nemmeno le più alte e gratificanti forme del dono che l'uomo e
la donna possono ricevere e possono scambiarsi. Esiste una maternità (e una
paternità) spirituale che va oltre e può anche prescindere dalla maternità fisica, e anzi
ne costituisce il contenuto profondo; è come l'anima stessa della maternità. Nessuna
donna può dimenticare questa vocazione e questa missione di farsi dono,
missione che costituisce il volto autentico della sua femminilità, perché a lei Dio
ha affidato l'essere umano, ogni essere umano.
E' una maternità, quella spirituale, che quando è associata al dono della
verginità, intesa come amore sponsale che lega a Dio interamente, raggiunge le vette
più alte e più gratificanti del dono perché partecipa all' Essere divino, all'Amore, in
modo più trascendente e soprannaturale. Chi può dire che Caterina da Siena, Teresa
d'Avila e mille altre donne fino a Madre Teresa di Calcutta siano state meno madri,
perché vergini, di tutte le altre donne che hanno concepito e partorito figli? La
fecondità secondo lo spirito è un dono assai più grande della fecondità secondo la
carne, ed è un privilegio che diventa insieme un dovere per ogni donna.
Anche il bambino, appena uscito dal grembo materno, nel suo essere spinto
verso la vita, nell'incominciare in quel momento la sua magica avventura nel mondo,
la sua progressiva apertura verso l'esistenza, avverte inconsciamente quasi
biologicamente che deve farsi dono. E subito il suo aggrapparsi ai seni materni, la
ricerca del contatto fisico col corpo della madre, il sussulto nel sentire risuonare la
voce paterna, non rispondono soltanto a un bisogno di sicurezza, ma anche
esprimono il suo modo, tutto istintivo e affettivo, di sentirsi dono per i suoi genitori.
Le esperienze negative nel primo periodo dell'infanzia, quando il bambino non
si sente accolto e amato, creano nodi affettivi e blocchi istintuali che possono gravare
pesantemente sullo sviluppo della personalità; sviluppo che deve esprimersi come
apertura verso il dono di sé, sempre più profondamente e compiutamente nelle
successive stagioni della vita.

69 - La conoscenza: moto d’amore.


65
Ma torniamo ora a riflettere, per un momento, su quella risposta del
catechismo: Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo sulla terra. Essa ci
ricorda che non solo il nostro essere ma anche le facoltà fondamentali della nostra
natura spirituale (intelletto, volontà, capacità operativa) sono un dono e si realizzano
soltanto facendosi dono.
L'atto di conoscere è l'aprirsi dell'intelligenza alle cose in sé stesse; è dunque
un atto oblativo dell'intelletto alla verità delle cose. E' vero che l'atto intellettuale è
un ap-prendimento, un prendere la realtà e portarla dentro di me, ma prima c'è un
moto che mi porta fuori di me, verso la realtà, c'è l'at-tenzione, una tensione verso
l'oggetto da conoscere al quale faccio dono della mia intelligenza. Non a caso il
verbo "conoscere" nel linguaggio biblico assume il significato dell'amore coniugale.
L'attività più nobile e sublime della nostra intelligenza è quella che la porta
verso Dio. Quando l'intelletto si dona a Dio aprendosi senza timori e riserve alla
verità, realizza il massimo della sua potenzialità e della sua libertà, ma quando
l'intelletto si chiude alla verità e si ripiega su sé stesso, si aliena dalla realtà, finisce
prigioniero della propria coscienza soggettiva e rimane totalmente soggiogato da un
"io" ingombrante ed egoista. Non per niente la santità esige l'oblio totale di sé stessi
secondo le parole di Gesù: "Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi sé
stesso...", 131 cioè tolga di mezzo il proprio io, perché solo così l'anima può dirigersi,
concentrarsi e perdersi in Dio e nella sua verità.
Conoscere, dunque, una persona è amarla con l'intelligenza. Cos'è, infatti,
l'amore contemplativo se non un moto irresistibile dell'anima che supera sé stessa e
sale alle altezze di un intelletto abbagliato dalla presenza della persona amata? Così,
una madre che guarda in silenzio la sua creatura, l'ama con gli occhi e la contempla
con l'anima; così un innamorato che fissa lo sguardo sulla persona amata, la
contempla illuminandola e a volte trasfigurandola con la luce del cuore; così
un'anima mistica che inondata dalla luce della fede avverte intensamente la presenza
di Dio, si sente rapita in una contemplazione d'amore che può salire fino alla più
ineffabile estasi dello spirito.

70 - Dono di sé: conoscere, amare, servire.


Queste forme, naturali e soprannaturali, di amore contemplativo ci fanno
capire l'importanza dell'intelligenza nel moto d'amore. L'amore ha bisogno
dell'intelligenza non solo per essere ordinato, ma anche perché deve difendersi dai
condizionamenti dei sensi e degli istinti. I sensi cercano il piacere e gli istinti il
proprio appagamento, e quando sono essi a dominare in noi impediscono la libertà
dell'amore, il suo itinerario oblativo verso la pienezza del dono. Allora si ama ciò che
piace, perché piace, finché piace. Molti slogan firmati "I love" sono l'espressione
generalizzata di questa falsificazione dell'amore.
Sensazioni, stati d'animo, emozioni, sono il substrato bio-psichico di una
attività che è in sé stessa squisitamente spirituale. Come l'intelletto passa attraverso i
sensi ma si emancipa da essi per sciogliere le vele alla libertà dell'intuizione, così la
volontà nel tendere all'oggetto del suo amore produce necessariamente una risonanza
di sentimenti e di moti istintuali, ma anche li trascende nell'esaltante alienazione di
sé per perdersi nella gratuità del dono all'amato.
Molte anime di orazione conoscono la sofferta fatica di questa gratuità
dell'amore, quando il loro cammino attraversa la "notte oscura dei sensi". E' l'amore
nudo, spoglio di ogni consolazione, privo di qualsiasi gratificazione sensibile, muto e
arido come un deserto; un amore che non è più avvertito come amore, e tuttavia è

131
Mc. 8,34
66
accompagnato dal senso vivo di Dio, della sua amorosa presenza, e dalla ferma
intenzione di non abbandonarlo per nessuna cosa al mondo. L'amore è tanto più
vero, quanto più conosce la purificazione del dolore, del distacco, della
contrizione del cuore. L'amore perfetto va dunque verso la perfetta libertà, verso
l'assoluta gratuità.
L'amore che vuol essere dono si trasforma, allora, in opere d'amore. Come
Dio, che ci ha amato con opere. La creazione è amore; la Provvidenza è amore; la
Rivelazione è amore; la Salvezza è amore. Gesù Cristo è il dono dell'amore assoluto
e totale. "Dio infatti ha tanto amato il mondo da darci il suo Figlio Unigenito...., il
quale ci ha amati e ha dato sé stesso per noi... perché chiunque crede in lui non
muoia ma abbia la vita eterna". 132 Sono queste sono le grandi opere dell'amore di
Dio per noi.
Anche in noi, l'amore deve esprimersi in opere. Le nostre opere d'amore sono:
l'osservanza dei comandamenti di Dio, l'adempimento fedele dei nostri doveri e il
servizio gioioso e generoso dei nostri fratelli. "Non c'è amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici". 133 Dare la vita significa servire, saper sacrificarsi
per gli altri, specialmente per i più poveri, i più deboli e per quelli che sono lontani
da Dio. Servire vuol dire dare la vita, non solo la nostra nel dono di noi stessi
vissuto quotidianamente in famiglia, sul lavoro, nelle responsabilità civili e sociali,
ma soprattutto dare "la Vita", quella divina, quella eterna, quella che Cristo ci ha
guadagnato col suo sacrificio sulla croce. Servire Dio è farci strumenti di grazia per i
nostri fratelli. "Se ami il Signore, devi "necessariamente" sentire il peso benedetto
delle anime, per condurle a Dio". 134
Conoscere, amare, servire. E' questo il senso oblativo della nostra vita sulla
terra. Conoscere: dono dell'anima alla verità di Dio; amare: dono della libertà alla
libertà di Dio; servire: dono del nostro lavoro e delle nostre fatiche al lavoro di Dio,
un lavoro di salvezza verso tutti gli uomini. E' così che l'amore ha aperto sulla terra
le vie della pace e della gioia. Avvenne a Nazareth; lo Spirito Santo ha fatto di
un'umile Donna il luogo del Dono; dono dell'umanità a Dio: ecce Ancilla Domini, e
dono di Dio all'umanità: et Verbum caro factum est.
Ma ognuno di noi può essere, deve essere, il luogo di questa pace e di questa
gioia. Il luogo dell'Amore!

AMORE E PERFEZIONE MORALE .

71 - Bontà di Dio e bontà delle creature.

"E Dio vide quanto aveva fatto; ed ecco era cosa molto buona". 135 Tutte le
cose create possiedono una caratteristica fondamentale: la bontà. Ogni essere in
quanto tale è un bene; un bene che, secondo il grado di perfezione della sua natura, si
inserisce nella bontà globale dell'universo come una nota in un immenso poema. Il
mondo creato è un ventaglio grandioso e stupendo che dispiega i mille volti
dell'unica bontà divina.
E tuttavia Gesù, rispondendo allo Scriba, affermava: "Perché mi chiami
buono? Nessuno è buono se non Dio solo". 136 Gesù vuole ricordarci che solo Dio è la
fonte di ogni bene e di tutto il bene. Tutta la bontà presente nelle creature è una
132
Gv. 3,16
133
Gv. 15,13
134
Forgia, n. 63
135
Gen. 1,31
136
Mc. 10.18
67
partecipazione alla bontà di Dio, ed è misurata dalle perfezioni distribuite in vario
grado e forma nelle creature; esse appaiono così ordinate al Creatore secondo un suo
sapientissimo disegno. Perciò gli esseri creati manifestano l'infinita bontà di Dio non
solo come causa prima ma anche come fine ultimo di ogni bontà. Tutto da Dio
procede e tutto a Lui si ordina.
In questa sinfonia di voci che proclamano la bontà divina, l'uomo occupa un
posto e un ruolo unico; egli partecipa alla bontà di Dio innanzitutto come sua
immagine per lo spirito, e ancor più come sua somiglianza per la filiazione divina.
Ma a questa bontà creaturale, "discendente", che procede da Dio, deve corrispondere
una bontà morale, "ascendente", che ordina l'uomo a Dio.
Questa bontà morale, che mobilita le nostre facoltà spirituali e impegna quindi
la nostra responsabilità, consiste nell'orientare a Dio la nostra vita e il nostro agire,
rispondendo alla chiamata divina di collaborare alla edificazione del regno di Dio, al
suo disegno di salvezza. Ora, è accaduto che l'uomo, buono per creazione, si è fatto
cattivo per sua decisione, disorientandosi da Dio e allontanandosi dalla sua bontà.

72 - Amore e santità cristiana.

Ciò si ripete ogni volta che la nostra libertà di creature, che ci è stata data per
poter amare, si ritorce invece su sé stessa spegnendosi nell'egoismo, o s’impenna
nella superbia e nella ribellione autodistruggendosi nel male. Ora, il nostro agire
deve porsi come perfettivo del nostro essere; ma lo sarà solo se realizzerà in noi la
bontà di Dio, se risponderà all'amore con cui Dio ci ha amato prima della creazione
del mondo. La nostra bontà morale di creature, fatte a immagine di Dio, dovrà
dunque avere essenzialmente la dimensione dell'amore. Abbiamo già visto che il
nostro cammino di figli di Dio sulla terra è un viaggio nella fede, nella speranza,
nella carità, virtù teologali infuse da Dio nel Battesimo. Di esse S. Paolo scrive:
"Sono le tre cose che contano, ma di tutte la più grande è la carità". 137
Infatti se manca l'amore la fede è morta, la speranza è inefficace, la vita
cristiana si spegne. Ciò significa che la carità non è semplicemente una virtù, ma
l'essenza stessa della vita cristiana. Se "Dio è Amore", allora è cristiano solo colui
che accoglie l'amore di Dio, si lascia trasformare da questo amore e lo espande
intorno a sé. E' la carità, col suo dinamismo interiore, che rende possibile in noi la
crescita della vita soprannaturale; la carità fonda la nostra "bontà teologale", la sola
bontà che corrisponde alla nostra dignità di figli di Dio.
Ma la vita teologale del cristiano ha anche un aspetto morale; è chiamata a
percorrere la via dei Comandamenti, delle Virtù e delle Beatitudini. I
Comandamenti sono come la base, il fondamento della vita morale, le virtù sono il
suo sviluppo, le Beatitudini sono la sua perfezione. Ebbene, anche nella via dei
comandamenti, delle virtù e delle Beatitudini, la legge fondamentale del cristiano
rimane l'amore, e solo l'amore può dare la misura della perfezione morale dell'uomo.
Infatti, la legge dell'amore include innanzitutto la legge dei comandamenti:
"Se mi amate, osserverete i miei comandamenti". 138 Questa affermazione di Gesù, che
troviamo ripetuta più volte durante le affettuose conversazioni dell'ultima Cena, si
presta a una duplice interpretazione; la prima è la più ovvia: l'osservanza dei
comandamenti è la prova della sincerità dell'amore. "Non chiunque mi dice: Signore,
Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio" 139 ;
l'altra interpretazione, ribaltando il significato della frase, vede affermata nell'amore
la vera osservanza dei comandamenti; in altre parole, l'osservanza dei comandamenti
è autentica e sincera solo se nasce dall'amore. Per quanto possa sembrare assurdo, ci
137
1 Cor, 13,13
138
Gv. 14,15
139
Mt. 7,21
68
può accadere di osservare i comandamenti di Dio, anche i più piccoli, e non
amare.
Lo possiamo constatare a proposito del fratello maggiore del "figliol prodigo"
nella ben nota parabola di San Luca. 140 Quel fratello maggiore, che non si era
rattristato quando il fratello più piccolo se n'era andato malamente da casa (anzi,
forse aveva pensato in cuor suo, come traspare dalle parole del padre, che gli sarebbe
rimasta tutta l'eredità paterna), e si rattrista invece quando il fratello pentito viene
accolto con gioia festosa dal padre, quel fratello fa notare a suo padre di essergli
sempre rimasto fedele. Infatti da tanti anni lo serviva senza aver "mai trasgredito un
suo comando". Ma gli mancava l'amore, era vissuto più da servo che obbediva
anziché da figlio che amava. Perciò, osserva davvero i comandamenti solo colui che
è mosso dall’amore.

73 - Amore e morale “laica”.

Già abbiamo ricordato la sottile ipocrisia nascosta nella "morale laica". In essa
i Comandamenti, arbitrariamente mutilati e ridotti, sono assimilati a un codice di
comportamento, a una regola di vita per persone civili. Ma anche molti cristiani
considerano i Comandamenti di Dio semplicemente una legge, e rischiano di limitarsi
alla pura osservanza di essa. Atteggiamento facilitato dal fatto che i Comandamenti
sono l'espressione della legge naturale scritta nella nostra coscienza, e induce in chi
li osserva un certo "benessere morale", proprio di chi "si sente a posto" con i propri
doveri. Da questo atteggiamento moralistico è facile finire nel moralismo puramente
legale, astratto e impersonale, il quale dimentica che l'essere naturale dell'uomo è
definito dal suo rapporto personale e amoroso con Dio, e non dal rapporto con
un codice o una legge. Diventa così più comprensibile l'altro significato delle parole
di Gesù: solo chi ama, osserva veramente i Comandamenti di Dio.
Ma l'osservanza amorosa dei Comandamenti non può essere sporadica, non
può fermarsi a qualche atto isolato, compiuto saltuariamente. Esso deve trasformarsi
in una disposizione abituale della nostra volontà, che ci porta ad agire costantemente
in conformità ai valori affermati dai Comandamenti.
Questa disposizione stabile, attiva, che porta a compiere abitualmente atti
buoni è ciò che chiamiamo "virtù morale"; essa diventa forza interiore, energia
spirituale che ci orienta decisamente verso il bene e tende a radicarci fermamente e
stabilmente nei valori che contribuiscono alla perfezione morale della nostra persona.
La statura morale di un uomo è data dalle virtù che egli possiede e dal
grado di perfezione che in esse egli ha raggiunto. Non solo: anche il bene comune,
il progresso autentico e ordinato di una società, di un popolo, di una qualsiasi
comunità hanno il loro fondamento nelle virtù morali dei cittadini, e non soltanto
nelle leggi sagge e giuste del loro ordinamento giuridico. Non basta una
Costituzione di alto e nobile contenuto legislativo, non bastano perfette strutture
sociali o un elevato progresso tecnico-economico per garantire il bene comune e il
vero progresso umano di un popolo se non si promuovono e non si favoriscono nel
contempo le virtù morali e civili dei singoli cittadini.
Perciò, se è vero che si attenta al bene comune emanando leggi ingiuste o
inique, ed evadendo dalle leggi giuste costituite, ancor più si attenta al bene della
comunità e alla sua ordinata convivenza quando si provoca o si coopera al degrado
morale dei cittadini demolendo i principi e i valori che sono fondamento delle virtù
morali. In questo campo, enorme è la responsabilità dei movimenti politici e
culturali, dei potentati che detengono i mass-media, i quali spesso uniscono l'agire
delittuoso alla viltà di mascherarsi dietro presunti diritti all'informazione e alla

140
Lc. 15,11-22
69
libertà di espressione per avallare invece il libertinaggio morale. L'aver separato il
progresso tecnico-scientifico, l'organizzazione politica e sociale dall'etica e dalle
virtù morali è una delle falsificazioni più rovinose operate dalla ideologia
laicista.
Fondamento di ogni società è la persona umana con i valori morali che essa
incarna; e se è vero che non tutti possono essere buoni architetti, buoni poeti,
filosofi, scienziati, buoni tecnici, ognuno può essere però buon cittadino, o
semplicemente un uomo buono. Non dunque la scienza, la politica, l'arte o qualsiasi
attività professionale sono alla base del valore di una persona, ma il suo essere
morale, le sue virtù, che costituiscono anche il fondamento di ogni retta convivenza
sociale.
E tuttavia non basta un uomo virtuoso per fare un cristiano. Il cristiano è tale
per il Battesimo che ha ricevuto, cioè per la grazia che lo ha fatto partecipe della
natura divina come figlio di Dio. Perciò, se le virtù morali sono ordinate a
perfezionare l'uomo naturale come immagine di Dio, per noi cristiani è necessaria la
Carità, cioè l'amore soprannaturale, che forgia e promuove in noi la filiazione divina,
ci configura sempre più a Cristo e ci fa entrare per mezzo di lui in una più profonda
intimità con Dio.
Nel cristiano, dunque, le virtù morali che già costituiscono la base della bontà
naturale, devono aprirsi ad una bontà più alta, soprannaturale, alla santità, che è la
pienezza dell'amore di Dio, Amore che trova la sua perfezione nelle Beatitudini.

74 - Un nemico: l’ipocrisia.

Sappiamo che tutto questo è opera di Dio che agisce in noi per mezzo dello
Spirito, ma sappiamo anche che c'è in noi un nemico mortale che si oppone all'amore
di Dio: la superbia. E' così che si possono praticare le virtù ma cercando
esclusivamente la propria perfezione, cioè per amore di sé stessi. Si può cadere in
una sorta di narcisismo spirituale che porta il nostro io a girare intorno alla propria
immagine e a considerarsi superiore agli altri per le virtù di cui si vede adorno.
Oppure ci si può appoggiare alle proprie virtù per sentirsi meritevoli davanti a Dio e
graditi ai suoi occhi. In altre parole si possono cercare e anche praticare le virtù e
non amare. Se manca l'amore mancherà alle virtù il valore soprannaturale,
l'impronta divina che le fa essere virtù cristiane, veramente perfettive del nostro
essere figli di Dio.
Quante persone si angustiano per la propria perfezione morale e perdono la
pace! Esse inaridiscono intorno ad un ideale astratto di perfezione, misurata sul
corredo di virtù che sono riuscite a indossare. E' fin troppo nota la figura del fariseo
salito al tempio per esporre davanti a Dio le proprie virtù e i propri meriti vantando
la propria superiorità sugli altri considerati invece peccatori. Certo noi difficilmente
indosseremo la sfrontatezza e la presunzione del fariseo, ma il desiderio di apparire
giusti davanti a Dio, non mescolati alla folla dei peccatori, tutti puliti e in ordine per
sfilare senza timore davanti - si pensa- al giudizio di Dio e degli uomini, in realtà
davanti al proprio giudizio, questo pericolo è sempre in agguato in ognuno di noi.
Anche arrivassimo ad avere il guardaroba più ricco e ridondante, il più
completo di ogni virtù, ma ci mancasse la veste nuziale, la carità soprannaturale, la
veste fiammante dell'amore di Dio e del prossimo, il nostro guardaroba servirebbe a
coprire una scimmia, un pupazzo inconsistente, che risulta ridicolo agli occhi di Dio.
San Paolo, nel suo "Inno alla carità", ha affermazioni che non possono lasciarci
indifferenti: "Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi
la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il
dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la
pienezza della fede così da trasportare le montagne ma non avessi la carità, non
70
sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per
essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova". 141 L'amore dunque deve
essere come l'anima di tutta la vita morale dell'uomo, nella sua dimensione naturale e
soprannaturale, "così che ogni esercizio di perfetta virtù cristiana non può scaturire
se non dall'amore e nell'amore ha il suo ultimo fine". 142

75 - Amore e lotta ascetica.

Tutto questo ci fa anche comprendere che le virtù morali non sono spontanee;
sono chiamate virtù acquisite, proprio perché richiedono un esercizio a volte lungo e
faticoso. La nostra vita di cristiani è tutta in salita. E non può essere altrimenti dal
momento che siamo chiamati a una perfezione che è partecipazione alla santità di
Dio. E' vero che le virtù sono opera della grazia, ma Dio concede la sua grazia
quando noi mettiamo il nostro sforzo personale, la nostra lotta interiore. E' uno
sforzo e una lotta che durano tutta la vita, e costituiscono un capitolo importante
dell'ascetica cristiana.
Anche nelle cose importanti di questo mondo nulla si realizza o si
conquista senza sforzo. Perfino nel mondo dello sport, quanti allenamenti (esercizi
atletici lunghi, pazienti, faticosi) sono necessari prima di raggiungere certi primati
sportivi! Non si diventa campioni, si dice, se non si impara a "soffrire", a "lottare", a
"sacrificarsi", in una parola a esigersi e a superarsi costantemente. Tutti questi
termini, che ormai sono entrati abitualmente nel lessico del giornalismo sportivo, in
realtà sono stati presi dal vocabolario dell'ascetica cristiana. Se dunque gli atleti,
scriveva S.Paolo ai Corinti, fanno tutto questo per una corona corruttibile, quanto più
dovremo farlo noi per una corona incorruttibile ed eterna! Perciò, continuava
l'Apostolo, "corro, ma non come chi è senza meta: faccio il pugilato, ma non come
chi batte l'aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù". 143
L'ascetica cristiana ha appunto due aspetti che le derivano direttamente dalla
realtà battesimale: il battesimo ha cancellato in noi il peccato originale ma ci ha
lasciato le inclinazioni al male; perciò è compito della lotta ascetica togliere da noi
ciò che ci allontana da Dio e sanare le ferite lasciate in noi dal peccato, ferite spesso
aggravate da abitudini viziose. Il battesimo ci ha poi conferito la grazia che ha
divinizzato la nostra anima e ha dato valore soprannaturale alle virtù umane che sono
fondamento della perfezione cristiana. Siamo perciò chiamati a perfezionare sempre
più in noi, attraverso l'esercizio della lotta ascetica, gli abiti delle virtù per vivere
secondo la nuova dignità di figli di Dio. Il sacerdote infatti, imponendoci la veste
bianca, ci ricordava che dobbiamo rivestirci di Cristo. "La vita del cristiano è
milizia, è guerra, guerra bellissima di pace che non assomiglia per nulla alle imprese
belliche degli uomini, perché queste si ispirano alla divisione e all'odio, mentre la
guerra che i figli di Dio combattono contro il proprio egoismo si fonda sull'unità e
sull'amore". 144
E' dunque l'amore che deve ispirare e sostenere la lotta ascetica, l'amore
di Dio e non il desiderio di meritarci un certificato di buona condotta. Così non
ci lasceremo prendere dallo scoraggiamento se la nostra lotta personale conoscerà i
momenti di stanchezza, di debolezza e anche di sconfitta, perché l'amore ci porterà a
ricominciare mille volte. Gesù caduto sotto la croce - sotto il peso dei nostri peccati -
non è rimasto a terra; e a farlo rialzare non sono stati i calci e le frustate dei soldati
ma l'amore, l'amore per il Padre e l'amore per gli uomini; e fu l'amore a trascinarlo
fino sul calvario, fino sulla croce.
141
1 Cor. 13,1-3
142
Catechismo Romano, Prefazione
143
1 Cor. 9,24
144
Beato J. Escrivà, E' Gesù che passa n. 76
71
La lotta ascetica, che esige spesso il sacrificio e la penitenza, è precisamente
una partecipazione alla croce di Cristo, ma è anche partecipazione alla sua vittoria, al
suo trionfo, alla sua libertà, alla sua gloria. Il beato J. Escrivà mettendo l'ultima
pietra all'ultima delle sue opere, vi lasciò scritte queste parole, che suonano come un
testamento: Questo è il nostro destino sulla terra: lottare, per amore, fino all'ultimo
istante. Deo Gratias!. Per amore! Dove c'è amore, la lotta interiore diventa gioiosa,
perseverante, efficace, e d'altra parte, la lotta ascetica conferisce all'amore la
garanzia della sincerità e della verità.

76 - Amore e Beatitudini.

Infine, le virtù trovano il loro coronamento nelle Beatitudini del Vangelo. Le


Beatitudini, infatti, costituiscono la vera caratteristica del cristiano perfetto: esse
esprimono il programma essenziale della santità cristiana e conducono alla pienezza
della carità. Perciò senza la carità esse non sono né praticabili e nemmeno pensabili.
Presentano due caratteristiche: proclamano le virtù evangeliche nella loro perfezione
più alta, cammino del perfetto discepolo di Cristo; e hanno poi significato
escatologico, fanno cioè riferimento alla vita eterna e alla condizione che le è
propria: la beatitudine. In altre parole, il perfetto discepolo di Cristo, seguendo le
Beatitudini, vive tali disposizioni interiori da anticipare qui sulla terra le
condizioni proprie della vita eterna.
Non deve apparire strano che nelle Beatitudini non si parli della carità; ci
viene infatti presentata la sua conseguenza più alta, la beatitudine appunto. E'
beatitudine il possesso pieno e perfetto di ciò che si ama, l'appagamento completo e
duraturo di tutte le aspirazioni del cuore e dell'anima, aspirazioni che non hanno
limite perché aperte verso il Bene sommo. Solo la contemplazione di Dio e la
partecipazione piena alla sua intimità possono appagare il nostro essere e inondarlo
dell'Amore beatifico. A questa beatitudine dell'amore fanno riferimento le beatitudini
del Vangelo. "L'amore di Dio, diffuso nel nostro cuore per mezzo dello Spirito Santo
che ci è stato dato, rende capaci i laici di esprimere realmente nella loro vita lo
spirito delle Beatitudini." 145
Il guaio è che non ci crediamo, o non ne siamo seriamente convinti. L'umiltà
perfetta, il distacco perfetto, la castità perfetta, la mansuetudine, l'amore ai nemici, il
perdono delle offese, la fedeltà fino al martirio...., ci spaventano. Pensiamo che in
queste cose non ci possa essere la felicità e tanto meno la beatitudine. E' che non
sappiamo vedere in esse l'Amore. Siamo talmente inclinati a vivere sotto la schiavitù
della legge, che non ci sfiora nemmeno il desiderio di assaporare la libertà
dell'amore.
Vero è che sulla terra la nostra libertà di creature soffre i limiti della
condizione umana segnata dalla debolezza e dal peccato, e perciò ha bisogno della
legge; ma non per questo si sono chiuse le strade dell'amore, perché Dio per mezzo
del Suo Figlio fatto uomo ha riaperto sulla terra i "cammini divini" dell'Amore.
Bisogna diventare anime assetate di Dio per dilatare i confini della libertà. E quando
la sete di Dio diventa desiderio incontenibile, la legge lascia il posto allo Spirito e la
libertà scioglie le vele verso l'amore che diventa un mare senza confini, una luce
inebriante che alimenta fuochi nuovi di desiderio. "Come la cerva anela alle sorgenti
delle acque, così l'anima mia anela a te, o Dio. L'anima mia ha sete di Dio, del Dio
vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?". 146
A questo punto anche la preghiera non ha più parole; è un lungo anelito
dell'anima, come un grido. S.Agostino così commenta le parole del salmo 37:

145
Concilio Vaticano II n. 927 - Ap.Act.n.4
146
Salmo n. 41,2-3
72
"Signore, davanti a te ogni mio desiderio e il mio gemito a te non è nascosto". 147 C'è
un gemito segreto del cuore che non è avvertito da alcuno; (...) è la voce del
desiderio (...) Il tuo desiderio è la tua preghiera: se continua il tuo desiderio continua
pure la tua preghiera.... Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato (che è il
riposo di Dio), non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere di pregare, non
cessare di desiderare. Il tuo desiderio è continuo, continua è la tua voce. Tacerai, se
smetterai di amare. La freddezza dell'amore è il silenzio del cuore, l'ardore
dell'amore è il grido del cuore. Se resta sempre vivo l'amore, tu gridi sempre; se gridi
sempre, desideri sempre; se desideri, hai il pensiero rivolto alla pace". 148

IL COMANDAMENTO DELL'AMORE

77 - Amore e libertà.

Parlando dell'amore abbiamo accennato alla libertà come condizione e


presupposto indispensabile per poter amare. Libertà e amore: quale rapporto? Queste
due parole sono forse quelle che, oggi soprattutto, ricorrono più frequentemente nel
vocabolario degli uomini. Non solo nel vocabolario delle scienze umane e della
cultura in genere ma anche in quello corrente, nel linguaggio dell'uomo comune.
Tutto si decide in nome della libertà, tutto si misura in termini di libertà. Soprattutto
l'amore - si dice - non può essere che "libero"; libertà e amore non conoscono leggi,
non possono avere limitazioni; l'amore nell'uomo è il sentimento più spontaneo, più
libero, e non può soffrire inibizioni.
Si può intuire facilmente a quali equivoci si prestino queste espressioni e come
proprio in queste parole si nasconda la piaga del nominalismo moderno. Un
nominalismo che svuota le parole del loro significato, le priva del loro valore
originario, e poi le utilizza per rivestire concetti pre-costituiti, secondo ideologie che
spesso sono tra loro contraddittorie. Si arriva fino alla falsificazione dei significati
con la inevitabile conseguenza della confusione della lingue. Si confonde così la
libertà con l'istinto, la libertà col capriccio, la libertà col libertinaggio, la libertà
con "le libertà". Ora, l'istinto è una forza cieca che nell'uomo non è ordinata
razionalmente, il capriccio è l'immaturità di chi non ha ancora realizzato il dominio
di sé stesso, il libertinaggio è disprezzo delle persone e delle leggi, "le libertà" sono
le possibili applicazioni della libertà, i campi dove essa può esprimersi ed esercitarsi.
Ma tutto questo non è ancora la libertà.
Uno dei passi più noti di tutta la Bibbia, un passo che viene citato da Gesù nel
Vangelo, esprime i valori della libertà e dell'amore nel loro rapporto più profondo, e
proprio in riferimento alla nostra condizione umana: è il famoso "Shemà Israel", la
preghiera che ogni buon ebreo recita ogni giorno. Essa dice: "Ascolta Israele: il
Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore Dio tuo, con tutto
il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze". 149 E' il comandamento dell'amore, il
primo comandamento della Legge, ma anche il compendio di tutti i comandamenti e
di tutta la legge.

147
Salmo n. 37,10
148
S.Agostino, Commento sui Salmi: Sermone 37,13-14
149
Det. 6,4-5
73
78 - Quale libertà?

Nasce allora una domanda: com'è possibile "imporre" l'amore con un precetto?
Non è forse contraddittorio un simile comandamento? Se l'amore viene imposto gli si
toglie il suo requisito fondamentale: la libertà; lo si priva perciò di autenticità e di
valore. Per rispondere a queste domande, occorre restituire alle parole il loro
significato proprio, occorre cioè uscire da quel nominalismo intellettuale che ha
rovinato tanta parte del pensiero moderno e condiziona tuttora la cultura
contemporanea. Che cos'è veramente l'amore? E la libertà, cos'è essa veramente? Di
quale libertà si parla quando si discute sulla libertà dell'amore? Dovremo
necessariamente limitarci a semplici considerazioni dettate dal senso comune, un
senso comune che, almeno per noi cristiani, gode dell'aiuto inestimabile della fede.
Di solito quando parliamo di libertà pensiamo alle varie espressioni di essa
nella vita corrente: libertà di opinione, libertà di movimento, libertà di espressione,
libertà di scelte professionali, politiche, artistiche, libertà di rapporti umani, di
amicizie ecc. In tutti questi campi ha senso e va rispettata la "libertà di scelta". Di
fatto, nella vita quotidiana, noi esercitiamo continuamente la libertà di scelta.
Scegliamo le scarpe, la cravatta, il rossetto, il menù di mezzogiorno o, più
seriamente, abbiamo possibilità di scegliere la professione, l'ambiente di vita, le
amicizie, i candidati di un partito..., e così si possono scegliere infinite altre cose, ma
tutte relative; relative non solo in sé stesse perché la loro natura è limitata, ma anche
perché contingenti, non necessarie, legate al tempo e alla nostra condizione di
creature.
Ci sono invece cose che non si scelgono, che sfuggono totalmente alla
nostra volontà e alle nostre decisioni, e per le quali la "libertà di scelta" non ha
senso. Così è la vita: non si sceglie ma si riceve; così la verità: non si sceglie, ci
viene data; così il bene: non si sceglie, lo si accoglie. La nostra stessa identità
personale con le caratteristiche di natura, di carattere, di personalità non l'abbiamo
scelta noi, ci è stata data; e ancor più ci viene data la grazia, la vocazione, il nostro
destino. Così è l'amore. Tutte queste cose si possono accogliere o rifiutare, non
scegliere.
In definitiva si tratta della nostra realtà di creature, creature che sono state
"scelte", volute da Dio per amore. "(Egli) ci ha scelti prima della creazione del
mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci
ad essere suoi figli adottivi per opera di Cristo", 150 il quale ricorda ai suoi apostoli:
"Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi". In ultima analisi, Dio non può essere
oggetto di scelta, né Dio né il suo disegno su di noi. La libertà vera, nella sua identità
profonda e radicale, non sta dunque nella possibilità di scelta, ma nella capacità di
aderire pienamente e totalmente a Dio. E' un atto proprio dell'essere spirituale: lo
chiamiamo "responsabilità"; essa suppone in noi il dominio delle nostre azioni e
delle nostre decisioni. Senza libertà non è possibile amare. Ci è stata data la libertà
per poter rispondere all'Amore con l'amore. Ecco perché il rifiuto di obbedire a
Dio e alle sue "chiamate" non è espressione di libertà, ma autodistruzione della
libertà.

79 - Libertà e verità.

Perciò la libertà fine a sé stessa, la libertà per la libertà, diventa un idolo, un


feticcio, un tragico inganno che genera la morte, perché contiene la pretesa
dell’autonomia ontologica ed esistenziale, cioè il tentativo di emancipazione da quel
rapporto con Dio che è costitutivo del nostro essere. Si intuisce allora il profondo
150
Ef, 1,4
74
legame che esiste tra libertà e verità. Rispettare e aderire alla verità, alla verità del
nostro essere e di ogni essere, alla verità che esiste nella realtà delle cose, in una
parola alla verità di Dio, significa tracciare la strada alla libertà, renderla possibile,
significa garantirla nel suo esercizio. Fuori della verità, la libertà si paralizza o
impazzisce; mortifica le più vitali energie dello spirito, o genera distruzioni
irreparabili e tragiche. Tutti conosciamo, e molti di noi ne siamo stati testimoni, di
quali orribili crimini e rovinose catastrofi si sia fatta responsabile, nel nostro secolo,
una libertà impazzita nell'errore e nella menzogna.
E' triste constatare come noi uomini non sappiamo imparare mai abbastanza
dalla storia. Fin da principio, infatti, i nostri progenitori hanno preteso di affermare
la loro libertà rifiutando il disegno di Dio, e hanno considerato il suo comando
"...Dell'albero della conoscenza del bene e del male non dovete mangiarne, perché
certamente morirete" 151 come un inganno, (oggi lo diremmo un atto di terrorismo
psicologico); sono così usciti dalla verità e dalla grazia, rimanendo confusi e
smarriti, nudi di ogni dono di Dio, coperti solo dalla propria vergogna e dalla paura.
Da allora cominciò per l'umanità una lunga storia di oscurità e di miseria, di
oppressione e di violenza, finendo di volta in volta sotto le varie tirannie della
superbia e dell'odio. Ma noi continuiamo a celebrare le nostre liturgie libertarie non
fidandoci di Dio, diffidando di Cristo, rifiutando la Chiesa, per seguire la "libertà di
pensiero", la "libertà di coscienza", la "libertà di scelta", e tutti i dogmi del laicismo
mondano.

80 - La libertà dell’amore.

Tornando dunque al nostro ragionamento, ci sono "le libertà", che riguardano


tutto ciò che è relativo, opinabile, eleggibile, e c'è poi "la libertà" che, invece,
riguarda il fine ultimo, assoluto: il Bene, il Giusto, cioè Dio stesso e ciò che a Lui si
riferisce. Le libertà si perdono con la coazione e con la violenza, la libertà si perde
solo con il peccato. Ora la nostra condizione sulla terra è quella di peccatori. Il
peccato è entrato nel mondo e si è insediato nel cuore dell'uomo. La nostra libertà
ha perciò bisogno della legge, così come la nostra responsabilità e la nostra
fedeltà hanno bisogno della grazia. Ecco giustificato il "Comandamento
dell'amore".
Peccatori, soggetti alla tirannia del peccato, abbiamo perduto la "libertà
dell'amore", abbiamo dimenticato e disimparato ad amare. Ci è rimasto, sì, il
desiderio, la tendenza, il bisogno dell'amore, perché il peccato non ha distrutto la
natura, non l'ha soppressa e non le ha tolto l'immagine di Dio, l'ha però ferita
mortalmente, l'ha resa "dissimile" da Dio, e perciò incapace, senza l'intervento
divino, di vivere nella libertà dell'amore.
Dicendo "intervento di Dio" non intendiamo qualcosa di esterno, un aiuto
saltuario e momentaneo, una mano che Dio ci offre per superare i momenti difficili
della vita; abbiamo bisogno certamente anche di questi aiuti, che la teologia chiama
"grazie attuali" perché legate a momenti e circostanze particolari, e che vanno chieste
continuamente a Dio nella preghiera, ma qui, nella nostra condizione di peccatori, è
necessario un intervento di Dio radicale e profondo: la Redenzione. Si tratta di una
"creazione rinnovata", una ri-creazione dell'uomo a partire dal suo essere profondo,
dalla sua natura, perché diventi conforme al progetto di Dio, e riacquisti la sua
"somiglianza" con Lui, capace di quel destino di eternità al quale l'amore di Dio lo
ha chiamato.
Questo intervento soprannaturale, divino, immensamente commovente, si è
compiuto in Gesù. Egli, Figlio di Dio, facendosi uomo ha ricuperato la nostra natura

151
Gen. 2,17
75
umana, morendo sulla croce ci ha liberati dal peccato, e nella sua risurrezione, ci ha
restituito la nostra dignità di figli di Dio, eredi del Cielo. Ecco dunque da chi viene
la "libertà dell'amore", ecco qual è la vera libertà dell'amore, ed ecco anche perché
sulla terra abbiamo bisogno del comandamento dell'amore, della "legge dell'amore".
Cristo infatti ci ha liberati dal peccato e perciò ci ha liberati dalla legge del peccato:
"Siete liberi di quella libertà di cui Cristo vi ha liberati"; "Quando infatti eravate
sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia ma quale
frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Infatti il loro destino è
la morte. Ora, invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio...avete come destino la
vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte. Ma il dono di Dio è la vita
eterna in Cristo Gesù...o forse ignorate, fratelli, che la legge ha potere sull'uomo
solo per il tempo in cui egli vive?". 152 Nella vita eterna, infatti, non avremo più
bisogno né della legge né della grazia, entreremo nella libertà della gloria, la gloria
dei figli di Dio. Ci sarà dunque solo l'amore, la pienezza dell'amore, la piena «libertà
dell’amore».

81 - Il Comandamento dell’amore.

La misura della nostra libertà è data dalla capacità di amare, la capacità di


rispondere all'amore. Senza libertà non è possibile amare, ma senza l'amore la libertà
si perde. Ben venga dunque il comandamento della Legge: "Amerai il Signore Dio
tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutte le
tue forze". Il Signore è dovuto arrivare fino a questo punto: comandarci di amarlo.
Esaminiamo dunque più a fondo questa legge dell'amore. Dobbiamo "amare
Dio sopra ogni cosa, con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, con tutte
le forze". Questo comandamento afferma innanzitutto la supremazia dell'amore di
Dio su ogni altro amore. Amare Dio sopra ogni cosa infatti significa professare non
solo che Dio è più importante di ogni altra realtà, ma anche che ogni cosa deriva la
sua importanza da Lui. E', in fondo, il contenuto del primo comandamento: Io sono il
Signore, Dio tuo, l'Unico; non avrai altro Dio che me; per cui Gesù poteva dire: "Chi
ama il padre e la madre più di me non è degno di me". 153
Purtroppo la nostra condizione sulla terra ci impedisce di vedere Dio, di
riconoscerlo con evidenza come il Sommo Bene. Perciò spesso i beni parziali di
questo mondo ci attirano più di Lui e ci portano a mettere Dio non al primo posto ma
dopo altri interessi, se non addirittura ad eclissarlo nella nostra vita. Il
Comandamento nel quale Dio ci chiede di amarlo sopra ogni cosa viene così
incontro alla nostra debolezza, ci fortifica nei momenti di incertezza e di
oscurità, e contribuisce a rendere più convinta e sincera la lotta contro ciò che può
allontanarci da lui. Dio è il Primo e dobbiamo perciò metterlo al primo posto; prima
della salute, prima del lavoro, prima della carriera, prima degli interessi materiali,
anche prima dei figli e perfino dei genitori. Questo non significa che l'amore di Dio
debba competere o addirittura entrare in alternativa con gli amori nobili e belli della
nostra vita; anzi, amare Dio sopra ogni cosa ci porta ad amare ogni cosa con amore
giusto e ordinato perché è amare le creature come Dio le ama. Diversamente ci
allontaniamo dalla verità, non la pratichiamo e lasciamo entrare il disordine nella
nostra vita.

82 - Amare con tutta l’anima, con tutta la mente.

152
Romani, 6,20
153
Mt. 10,37
76
Di qui la seconda cosa affermata da questo comandamento: l'amore esige tutto
ed esige lotta. Amare con tutta l'anima, con tutta la mente, con tutto il cuore, con
tutte le forze significa che tutto il nostro essere è coinvolto nell'amore di Dio e che
nulla di noi e in noi può restare estraneo a questo comandamento. Anche l'elenco
delle facoltà - tutta l'anima, tutta la mente, tutto il cuore, tutte le forze - che
dobbiamo impegnare nell'amore di Dio ha un suo significato, perché non sempre la
nostra persona risponde completamente e simultaneamente alla domanda d'amore.
Si ama con tutta l'anima quando Dio riempie tutto il nostro mondo interiore: la
memoria, la fantasia, soprattutto la nostra intenzionalità. Per anima s'intende qui il
centro operativo della nostra persona, da cui nasce tutta la nostra attività spirituale,
le aspirazioni, le decisioni intime, i desideri profondi. A questo livello l'amore è
sostenuto dal dono soprannaturale della Sapienza che ci apre alla contemplazione;
diventa amore contemplativo che muove l'anima e la accompagna in tutte le sue
operazioni, anche nei momenti più impensati della vita. Ma solo dopo lungo tempo la
nostra anima arriva a godere di questa luce e ad assaporare questo amore;
normalmente è combattuta fra l'amore di Dio e il desiderio delle creature, le quali
continuano a esercitare la loro attrattiva sulla fantasia, sui ricordi, sui nostri moti
interiori.
Ma può anche verificarsi una situazione di pesantezza e di smarrimento che
avvolge l'anima come in una nebbia. E' allora il momento di ricorrere alla nostra
intelligenza sostenuta e illuminata dalla fede: cioè, amare con "tutta la mente". La
mente è come la punta dell'anima con la quale essa può emergere dall'incertezza e
dall'esitazione. Amare Dio con l'intelligenza significa stimarlo per quello che egli
è: il Bene Assoluto, Signore e Creatore di ogni cosa, e aderire a lui in forza della
sua parola. L'amore è allora sostenuto dal dono soprannaturale dell'Intelletto e
alimenta l'orazione di fede. In questa situazione è necessario ripetere frequentemente
atti espliciti di fede per sostenere il nostro amore di fedeltà; occorre ripetere adagio,
quasi facendole echeggiare nella nostra anima, le parole dell'apostolo Pietro:
"Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna" 154 e io ho creduto alla
tua parola e al tuo amore.

83 - Amare con tutto il cuore, con tutte le forze.


Ma può accadere che la nebbia dell'incertezza raggiunga anche la punta della
nostra anima, la nostra mente, e che la fede non ci dica più una chiara parola di
certezza. Sembra che l'intelligenza non ci segua più, anzi non è nemmeno capace di
fermarsi sulle verità della fede, incespica, balbetta, si perde nei ragionamenti. E' il
momento del cuore. Amare con "tutto il cuore", inteso proprio come centro dei
sentimenti più intimi, delle emozioni rette e sincere, significa orientare al Signore
tutto l'affetto di cui siamo capaci. Non si tratta di pura emotività o di sensibilità
superficiale; è, questo, un amore che esige una profonda semplicità interiore, la
semplicità di chi si sa figlio di Dio, amato teneramente da suo Padre. E' l'amore
affettivo che ha la sua forza e il suo fondamento nel dono della Pietà.
Non dobbiamo aver paura di amare Dio con il nostro cuore di carne
perché Dio stesso ha voluto amarci così, con l'affetto umano proprio di un cuore
che sa vibrare e commuoversi, gioire e intenerirsi, che sa comprendere, perdonare,
soffrire. Tale fu il cuore di Cristo, un cuore che non la lancia del soldato ma l'amore
verso gli uomini ha squarciato e aperto perché potessimo vedere l'abisso dell'Amore
divino e trovassimo in lui il nostro riposo e la nostra pace. "Sono venuto a portare il
fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso!". 155
Quando la nostra mente è torpida e stanca, la nostra anima confusa e
154
Gv. 6,70
155
Lc. 12.46
77
sonnolenta, facciamo agire il cuore; mettiamolo accanto al fuoco portato da Cristo
perché si riscaldi e si apra a sentimenti di lode, di gratitudine, di gioia, di amicizia,
di contrizione, di fiducia, di serenità; e tutto questo senza bisogno di parole, senza
faticosi ragionamenti. E' l'orazione affettiva, la "contemplatio ad amorem".
Infine può capitare che anche il cuore entri in uno stato di apatia e di
indifferenza. Non solo l'anima tace, non solo i pensieri balbettano, ma anche il cuore
rimane freddo, insensibile, e ciò che prima lo infiammava, lo inteneriva, lo faceva
vibrare, ora sembra cenere spenta.
E' allora il momento della volontà, il momento di amare con "tutte le forze".
Tutte, a cominciare da quelle fisiche impedendo al corpo di lasciarsi andare a pigrizie
o a pesantezze che spesso conseguono alla aridità interiore; e più ancora con le forze
psichiche, non cedendo agli stati d'animo, alla malavoglia o alla ripugnanza di fronte
ai propri doveri e al proprio lavoro, reagendo pazientemente ma inflessibilmente a
quella astenia interiore che minaccia di paralizzare le energie dello spirito; infine
smascherando l'inganno che può nascondersi in vari pensieri di scoraggiamento e di
diserzione, come ad esempio giudicare inutile tutto quello che facciamo, pensare che
quella preghiera senza fervore e senza entusiasmo non valga nulla, credere alla
sensazione di essere tornati indietro e di lavorare senza frutto, per cui non vale la
pena di lottare, di continuare a impegnarci.
Ma soprattutto sono le forze spirituali che dobbiamo mobilitare, le energie che
fanno capo alla volontà. In queste condizioni interiori è lei, una volontà forte e
tenace che deve prendere in mano la situazione, collocarsi al centro del nostro mondo
interiore ed esercitare con fermezza il suo ruolo di facoltà operativa. Allora, amare
"con tutte le forze" significa amare con opere: portare a compimento il proprio
dovere anche il più piccolo, anche se ci costa, con voglia o contro voglia, con gusto o
con ripugnanza; essere fedeli ai compiti, agli incarichi, al lavoro affidatoci; dedicarci
agli altri in mille gesti, piccoli o grandi, di carità e di apostolato, con generosità, con
perseveranza, senza attendere compensi. Tutto questo è amare con opere, è volere
ciò che è gradito a Dio e perché è gradito a Dio.
Anche l'orazione richiede, allora, sforzo e pazienza; è simile al lavoro faticoso
di chi cava acqua dal pozzo con la forza delle braccia, secchio dopo secchio, con la
sensazione di raccogliere ben poco con tanto sudore. Fare le cose per pura volontà e
andare avanti nel cammino per pura fedeltà, è, allora, l'unico modo per dire al
Signore che gli vogliamo bene. E' certo un amore faticoso, arido, poco gratificante,
ma è amore autentico, amore squisitamente soprannaturale, che Dio premia con
grazie abbondanti e con doni di sapienza.

84 - Il Comandamento nuovo

Ma il precetto divino che ci comanda di amare diventa particolarmente urgente


e impegnativo, data la nostra condizione di peccatori, quando si tratta dell'amore del
prossimo. Abbiamo già detto che il nostro viaggio sulla terra non lo percorriamo da
soli; siamo una moltitudine, un fiume e non possiamo stare insieme senza amarci.
Eppure il peccato ha reso così difficile l'amore reciproco che Gesù, nel lasciarci
come testamento l'imperativo dell'amore fraterno, ha dovuto chiamarlo "il
comandamento nuovo". E nuovo è davvero questo Comandamento del Signore non
solo perché gli uomini ne avevano perduto il ricordo, e con esso la capacità e la
volontà di praticarlo, ma anche perché il contenuto, le motivazioni e il modo di
viverlo indicati da Gesù ne fanno una novità assoluta.
Nell'Antico Testamento l'amore del prossimo era commisurato esclusivamente
sulla giustizia: "Amerai il prossimo tuo come te stesso", per cui "tutto quanto volete
che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro". Il Comandamento nuovo
portato dal Signore esige invece che l'amore al prossimo sia una partecipazione
78
dell'amore stesso di Dio. Se amiamo Dio, ameremo anche col suo amore e
ameremo tutto ciò che egli ama. L'uomo è l'unica creatura che egli ama per sé
stessa e perciò non è possibile amare Dio senza amare ogni uomo. In definitiva, non
esiste che un solo comandamento, come esiste un solo amore: l'amore verso Dio; un
amore che da Lui si espande sulle creature a cominciare dal nostro prossimo.
L'ideologia della secolarizzazione e la morale laica che ne deriva hanno
compiuto una delle operazioni più deleterie e immorali di tutta la storia della cultura
occidentale: quella di separare l'amore del prossimo dall'amore di Dio. Operazione
che rientra nell'antica e assurda pretesa autonomistica della creatura che rifiuta il suo
creatore, dell'uomo che respinge Dio. Cancellato l'amore di Dio è cancellato anche
l'amore per l'uomo, amore che si tenta di far sopravvivere con surrogati che spesso
finiscono nella ipocrisia o addirittura nella menzogna. Così, cancellato l'amore
cristiano, è rimasta la "solidarietà", una solidarietà tuttofare, onnicomprensiva, buona
per tutte le operazioni, che può significare tutto e anche niente. Nella variante
ecologica del laicismo, poi, la solidarietà è per gli uomini, l'amore per gli animali. E'
inevitabile! Emarginato Dio, è cancellato anche l'amore, perché l'amore è Dio stesso.
L'amore di Dio rimane fondamento dell'amore per l'uomo e per tutte le altre creature.

85 - Amore e misericordia.

L'amore cristiano partecipa così alle caratteristiche dell'amore che Dio nutre
verso gli uomini. In Dio l'amore è innanzitutto misericordia. "Siate misericordiosi
come è misericordioso il Padre vostro". 156 E' misericordia la capacità che l'amore ha
di aprirsi al dolore e alle necessità del prossimo, al suo bisogno e alla sua povertà
corporale, ma soprattutto alla miseria morale e spirituale in cui esso può trovarsi. E'
una disponibilità che spinge ad intervenire con gesti concreti di aiuto e di dedizione,
quali sono le "opere di misericordia".
La più grande lezione e l'esempio più commovente di misericordia è Gesù
stesso. E' lui il buon Samaritano che "misericordia motus", spinto dall'amore
misericordioso, si curva sull'uomo che si trova in condizioni di miseria perché
lontano da Dio e mortalmente ferito dal peccato, lo raccoglie, gli fascia le ferite
"versandovi l'olio e il vino" della sua passione e del suo sangue redentore, lo affida
alla Chiesa -"lo portò a una locanda" - alla quale consegna i due denari (il Vangelo e
i Sacramenti), con l'incarico di prendersi cura di lui.
Ma, anche fuori di parabola, Gesù sentì compassione della folla che da tre
giorni lo seguiva e "si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore,
e si mise a insegnare loro molte cose", 157 dopo aver guarito molti malati e
provvedendo poi con la moltiplicazione dei pani alla loro necessità materiale. In
questo comportamento di Gesù, ci vengono indicate le opere di misericordia, quelle
spirituali e quelle corporali. Gesù si commuove alla vista della fame e del dolore, ma
soprattutto si commuove alla vista dell'ignoranza. (Escrivà) E non c'è ignoranza
peggiore di quella di chi ignora la salvezza che viene da Dio.
La verità più consolante che Gesù ci ha rivelato è che il Padre è "ricco di
misericordia verso quanti lo invocano" 158 ; perciò il nostro amore verso il prossimo
trova la sua più alta espressione nella partecipazione alla misericordia di Dio il quale
"vuole che tutti gli uomini siano salvati" 159 . Ora, un amore fraterno che sia
impregnato di misericordia e cerchi la salvezza dei fratelli, esige sacrificio,
dimenticanza di sé stessi e donazione. La strada della misericordia percorsa da Gesù
è quella della croce, espressione suprema del dono di sé; e proprio sulla croce Gesù
156
Lc. 6,36
157
Mc. 6,34
158
Sal. 86,5
159
1 Tim. 2,4
79
ha compiuto il gesto di misericordia più commovente quando, dopo aver chiesto al
Padre di perdonare i suoi crocifissori, ha Lui stesso donato la salvezza al ladrone
pentito: "In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso". 160

86 - Amore e perdono.

Altro contenuto nuovo portato da Gesù al comandamento dell'amore è il


perdono. Prima di Gesù il perdono era considerato debolezza, vigliaccheria,
mancanza di virilità. Gesù ci ha rivelato che l'onnipotenza di Dio, più ancora che
nella creazione dell'universo, si manifesta nella misericordia e nel perdono. 161 Se c'è
una cosa che più ci fa simili a Dio è il perdono. Anzi perdonare, il vero perdono, è
proprio solo di Dio. Il nostro perdono, infatti, rimane esterno alla persona che ci
ha offeso; essa rimane nella sua colpa. Dio, invece, quando perdona raggiunge
l'intimo della nostra coscienza e ci rinnova interiormente. Il perdono di Dio
cancella le nostre colpe e rinnova, "rende nuovo", il nostro cuore. "Crea in me, o
Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo". 162 Perciò il perdono è un
intervento dell'onnipotenza del Padre, è un atto creativo in cui la potenza di Dio si
mette al servizio della sua misericordia. Ecco perché un Dio che perdona commuove
più profondamente di un Dio che crea (Escrivà).
Il nostro perdono, esigenza dell'amore cristiano, anche se non ha efficacia
sulla coscienza della persona, è tuttavia importante per lei e per noi: per lei, perché
col perdono possiamo guadagnare il nostro fratello; per noi, perché nel perdono noi
rinneghiamo il male e giudicando noi stessi peccatori possiamo ottenere il perdono
dei nostri peccati. E' quanto diciamo nel Padre Nostro: "Rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Il nostro perdono deve quindi ispirarsi
al perdono di Dio; perciò dobbiamo perdonare sempre, dobbiamo perdonare di
cuore, dobbiamo perdonare sinceramente e totalmente.
Siamo infatti tentati di perdonare alcune volte - "fino a sette?" domandò Pietro
- e perdonare solo alcune offese; siamo portati a perdonare col cuore stretto, con
qualche rivincita, magari lamentandoci vittimisticamente e perdendo la pace; siamo
infine disposti a perdonare ma a certe condizioni, con clausole di risarcimento al
proprio orgoglio ferito, tenendo sempre pronto in tasca il conto dei torti e dei danni.
Non è questo il perdono di Dio. Se poi ci sforziamo di amare come ci ha amati
Cristo, quel Gesù che appunto dalla croce ha pregato per i suoi crocifissori, allora il
nostro amore fraterno includerà, anzi anticiperà il perdono. Diceva il Beato Escrivà
che egli non aveva mai avuto bisogno di perdonare perché il Signore gli aveva
insegnato ad amare.
Questa espressione ci ricorda un aspetto rivoluzionario dell'amore cristiano:
l'amore verso i nemici. Gesù è stato esplicito: "Avete inteso che fu detto: Amerai il
tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate
per i vostri persecutori perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il
suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli
ingiusti". 163
Tuttavia, la carità fraterna e il perdono non escludono la giustizia, ci aiutano
invece a coniugarla nel modo più nobile e retto. La giustizia ispirata dalla carità e dal
perdono esclude innanzitutto la vendetta, mira poi ad impedire al malfattore di
compiere il male, lo induce a riconoscere lealmente il male compiuto e a pentirsene
per ottenere la salvezza, e gli esige infine il ripararne, nella misura del possibile, le
160
Lc. 23,43
161
Deus, qui omnipotentiam tuam parcendo maxime et miserando manifestas..." Orazione
della 26.ma Domenica T.O.
162
Salmo n. 50,12
163
Mt. 5,43-45
80
ingiuste conseguenze. Tale è la giustizia di Dio, il quale "non vuole la morte del
peccatore, ma che si converta e viva", e tuttavia ha chiesto riparazione per
l'ingiustizia del peccato attraverso la passione e la morte di Gesù, suo Figlio,
offrendo così a tutti noi la possibilità di pagare i nostri debiti. Davanti a Gesù
crocifisso possiamo ben dire: "Giustizia è fatta!", ma nella misericordia e nel
perdono.

87 - Amore e servizio.

Una terza novità di contenuto nel comandamento dell’amore fraterno


lasciatoci da Gesù è la gratuità del dono di sé che si esprime nel servizio. Dopo che
ebbe lavato i piedi ai suoi, Gesù sedette di nuovo e disse loro: "Sapete ciò che vi ho
fatto? Voi mi chiamate maestro e Signore e dite bene perché lo sono. Se dunque io, il
Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni
gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi". 164
Servire, secondo l'insegnamento di Gesù, significa sapersi sacrificare - "dare
la vita" - per gli altri, sapersi sacrificare generosamente e senza desiderare compensi,
"...appunto come il Figlio dell'uomo che è venuto non per essere servito ma per
servire e dare la sua vita in riscatto per molti". 165 Il sacrificio di sé stessi finalizzato
al servizio, come dimensione dell'amore cristiano, esige una profonda umiltà, un
distacco generoso da sé stessi, dalle proprie comodità, da interessi ed ambizioni
personali. Ai due discepoli che ambivano i primi posti nel regno messianico Gesù
ricorda: "Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i
loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol
essere grande tra voi si farà vostro servitore e chi vuol essere il primo tra voi sarà il
servo di tutti". 166 .
Servire, dunque, è l'esatto contrario di dominare, di prevalere sugli altri,
di sottometterli al proprio criterio personale. Le parole di Gesù infatti non
escludono né l'autorità né il prestigio umano e professionale, anzi, esigono proprio
l'esercizio fedele e responsabile dell'autorità per il bene comune, e spingono al
prestigio umano e professionale onde poter servire meglio e con più efficacia i propri
fratelli.
Le applicazioni pratiche di questo atteggiamento sono, nella vita di ogni
giorno, innumerevoli e continue. Nell'ambiente di lavoro, nella vita di famiglia, nelle
responsabilità civili e sociali, le occasioni di sacrificarsi, di servire, di dedicarsi al
bene spirituale e corporale dei nostri fratelli, soprattutto dei più bisognosi, dei più
deboli e indifesi, devono diventare appannaggio di ogni cristiano, un vanto, una santa
ambizione per ogni discepolo di Gesù.

86 - Amare per amore.

Ma il comandamento nuovo è tale non solo per il contenuto nuovo che Gesù vi
ha portato ma anche per le motivazioni e per il modo di viverlo. Nel mondo l'amore
al prossimo ha di solito motivazioni puramente umane. Si ama per simpatia fondata
su un'attrattiva esteriore della persona, o su una comunanza di gusti, di interessi, di
opinioni, o anche per ammirazione verso le doti e le caratteristiche naturali della
persona. Frequentemente si "ama" per interesse; interesse economico, interesse
politico o anche semplicemente per interesse affettivo. In modo più generico si ama
per "solidarietà": apparteniamo alla stessa stirpe, alla stessa comunità umana, siamo

164
Gv. 13,13
165
Mt. 20,28
166
Mc. 10,42
81
legati ai nostri simili con vincoli di parentela, di istituzioni, di popolo, di cultura. E'
una solidarietà che può portare alla filantropia, all'umanitarismo, alla condivisione,
non ancora all'amore. Infine, più raramente, si arriva ad amare per riconoscenza: se
siamo stati oggetto di attenzione, di aiuto, di gratificazione.
Invece l'amore cristiano raggiunge la persona in sé stessa: il cristiano ama
"per amore", un amore che nasce ed è sostenuto da motivazioni soprannaturali.
La prima di esse è fondamentale: ogni uomo è "immagine e somiglianza di Dio".
Ogni essere umano, per quanto abbietto e vile, porta in sé il sigillo di Dio, e amare
l'uomo è amare in lui il Creatore di tutti. Anche l'amore per i genitori, già
ampiamente giustificato sul piano umano, è per il cristiano un amore verso coloro
che sono stati collaboratori di Dio nel dargli la vita; la paternità umana è infatti
partecipazione alla paternità di Dio.
C'è poi l'amore verso i propri fratelli nella fede; esso è motivato dal fatto che
ogni cristiano è immagine di Cristo. E' un’immagine reale, vera, anche se
soprannaturale e mistica; realizzata in noi dai sacramenti. E' infatti nel Battesimo
che diventiamo fratelli di Cristo, partecipi della sua filiazione divina. Nella Cresima,
poi, veniamo configurati a Cristo come suoi testimoni, nell'Eucarestia siamo fatti
partecipi dell'unico Pane e dell'unico Calice, uniti allo stesso sacrificio di Gesù che
ci fa adoratori del Padre; nel matrimonio gli sposi vengono configurati a Cristo-
Sposo, che nella Incarnazione e nella morte sulla croce ha celebrato il suo amore
sponsale verso l'umanità e verso la sua Chiesa; perciò ogni sposo e ogni sposa
cristiana dovrebbero vedere nel coniuge Cristo stesso che santifica il loro amore
coniugale.
Infine, con l'Ordine Sacro, il Sacerdozio di Cristo si comunica al sacerdote che
diventa "Ipse Christus - lo stesso Cristo"; e quando esercita il suo ufficio
ministeriale, soprattutto nel confessionale e sull'altare, egli agisce nella persona
stessa di Gesù. Ogni cristiano quindi è nostro fratello nella fede, ma soprattutto
membro di Cristo, del suo Corpo Mistico che è la Chiesa, a Lui configurato e in Lui
radicato, da essere un altro Cristo, alter Christus. Questi legami che abbiamo con
Cristo e che fondano i motivi soprannaturali dell'amore fraterno ci danno anche la
misura della carità a cui dobbiamo ispirarci noi, discepoli di Gesù. Proprio ai suoi
apostoli Gesù ricordava: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli
altri come io vi ho amati". 167
L'amore di Gesù per noi diventa dunque la nuova misura dell'amore
fraterno. Del resto, amare il prossimo come sé stessi può essere spesso un criterio
inattendibile perché noi per primi non sappiamo amare in modo giusto noi stessi.
Spesso non riusciamo a discernere il nostro vero bene e non cerchiamo la nostra vera
felicità. Gesù ci ha amati e ha dato sé stesso per noi, per la nostra salvezza. Egli ha
guarito molti malati ma non è venuto per guarire le malattie, ha sfamato le folle
moltiplicando il pane ma non è venuto per risolvere i nostri problemi economici, ha
dominato le forze della natura ma non è venuto per offrirci soluzioni ai problemi
dell'agricoltura o dell'ecologia, così come ha insegnato le vie della giustizia e della
pace ma non è venuto per risolvere con formule politiche i rapporti sociali, giuridici
o istituzionali dei popoli. "Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo"
e ha dato la sua vita sulla croce.
Se dunque dobbiamo vivere il comandamento nuovo che ci chiede di amarci
con l'amore stesso di Cristo, saremo aperti generosamente alle necessità, alle
sofferenze, alle attese dei nostri fratelli e ci dedicheremo con impegno e
responsabilità alla soluzione dei problemi sociali, economici e politici per dare a
questo mondo un volto sempre più umano e sempre più conforme alla nostra dignità
di figli di Dio. Ma in tutto questo e al di sopra di tutto questo cercheremo per noi e
per i nostri fratelli la Salvezza, cioè la Vita Eterna. Non dimentichiamo che, se non
arriviamo in cielo, abbiamo miseramente fallito la nostra vita.
167
Gv. 15,12
82
89 - Il “quadrilatero” dell’amore fraterno.

In varie occasioni, il Beato Escrivà suggeriva che per vivere l'amore fraterno i
discepoli di Cristo devono sforzarsi di convivere, comprendere, discolpare e
sorridere. Convivere non significa vivere gli uni accanto agli altri sopportandoci a
vicenda ma restando intimamente estranei; la convivenza cristiana va molto più a
fondo della pura convivenza umana che si limita al rispetto dei diritti altrui. Per noi
cristiani, convivere vuol dire ospitare il nostro fratello dentro di noi, aprirgli il nostro
cuore, i nostri sentimenti; è fargli posto nella nostra vita. Ci è forse capitato qualche
volta di vedere in sequenze televisive le vie delle grandi metropoli: una marea di
persone che camminano in tutte le direzioni ma in perfetta solitudine; scivolano l'una
accanto all'altra come mondi chiusi, estranei, indifferenti. Per il cristiano, convivere
è invece condividere la vita, e non restare indifferente al dolore, alla fatica, alle
sofferenze degli altri, secondo le parole di S. Paolo: "Rallegratevi con quelli che
sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto, abbiate i medesimi
sentimenti gli uni verso gli altri". 168
Ma non basta ospitare il fratello dentro di noi, occorre anche sforzarci di
entrare dentro di lui e capirlo. E' necessario capire per aiutare. Per capire una
persona bisogna conoscerla. E' quanto accade a una madre: essa conosce il figlio, la
sua storia, le sue più intime reazioni come nessun altro; nessuno perciò capisce e
comprende come capisce una madre. La comprensione materna ha però un limite,
perché una madre è troppo coinvolta in prima persona con la vita del figlio e perciò
la sua comprensione può diventare debolezza o anche complicità. Noi dobbiamo
essere profondamente umili per conoscere e per capire, e dobbiamo essere
sufficientemente liberi per non essere complici. Anche qui, solo la vera libertà rende
possibile il vero amore.
Per conoscere poi una persona in profondità occorre saper ascoltare e saper
dimenticarci di noi stessi. Siamo infatti portati ad ascoltare pochissimo gli altri,
siamo invece portati a giudicarli. Perciò: conoscere per comprendere, comprendere
per discolpare. Per discolpare una persona occorre innanzitutto che ci rifiutiamo di
giudicarla. E' un comando esplicito del Signore: "Non giudicate", e se dobbiamo
farlo per ufficio, giudichiamo l'operato ma non le intenzioni, ricordando che "col
giudizio con cui giudichiamo, saremo giudicati, e con la misura con la quale
misuriamo, saremo misurati". 169
Nulla mortifica, inibisce l'iniziativa e condiziona la nostra sicurezza quanto il
saperci continuamente giudicati dagli altri. Solo il giudizio di Dio è stimolante e
liberante, perché solo Dio conosce profondamente il nostro cuore e solo lui sa
distinguere il male dalla persona che lo compie; e mentre respinge il male con
assoluta giustizia, è paziente, benigno e misericordioso con colui che lo compie.
Perciò, discolpare significa anche non condannare. E' ancora Gesù a ricordarcelo:
"Non condannate e non sarete condannati, perdonate e vi sarà perdonato". 170 Tutti
noi abbiamo in cuor nostro un tribunale permanente, davanti al quale facciamo sfilare
le persone sulle quali lasciamo cadere giudizi e condanne, spesso impietosi, che non
ammettono né dubbi, né attenuanti. Dobbiamo demolire dentro di noi ogni tribunale
negativo, e se dobbiamo decidere interventi o prendere misure di giustizia verso i
nostri fratelli, non sarà mai giustizia vendicativa o esclusivamente punitiva, lascerà
aperta la strada alla speranza, al desiderio di conversione, alla possibilità di
riparazione.

168
Rom. 13,15
169
Mt. 7,1
170
Lc, 6,37
83
90 - L’amore perfetto sa sorridere.

Questo amore che non giudica, che tanto meno condanna, che anzi dice stima e
fiducia nel proprio fratello, trova la sua espressione più preziosa nella "correzione
fraterna". Essa realizza quel detto della Scrittura: Frater qui adiuvatur a fratre,
quasi civitas firma. Il fratello aiutato dal fratello è come una città fortificata. 171
Vivere così il "Comandamento nuovo" del Signore, non è facile, richiede
l'esercizio di tante virtù "minori" che sono come il corteo della carità. S. Paolo le
ricorda in varie lettere, soprattutto nella lettera ai Corinti, in quello che è chiamato
l'Inno alla Carità. Noi potremmo riassumerle in una parola che ci ricorda un gesto
tanto semplice quanto dimenticato: sorridere. La nostra epoca è un'epoca scettica,
arida, dura, violenta e conosce più il ghigno, lo sberleffo, la risata, non il sorriso.
Sorridere è un atto squisitamente umano; solo l'uomo è capace di sorridere. Il sorriso
è come il cielo della nostra anima quando è azzurro, pulito, luminoso. Sorridere a una
persona è come offrirle un mazzo di fiori, splendidi, profumati; è come dirle: sono
felice che tu esista, e che tu sia qui, davanti a me. Essere felici che una persona
esista è come partecipare all'atto creativo di Dio, all'Amore che le ha dato
l'essere, l'esistenza, la vita.
Il sorriso è gratitudine, è riconoscenza a Dio e al prossimo. Sorridere è avere il
cuore semplice, libero da invidie, da gelosie, da tristezze, da egoismi; è magnanimità
della fantasia, che immagina quel fratello come un piccolo grande universo dove luci
e ombre si compongono in profondità inesauribili che nascondono meraviglie divine;
il sorriso è stupore dell'anima davanti a un mistero dove libertà e grazia vanno
scrivendo un poema inedito e recondito, mai uguale, che sarà letto nell'eternità. Il
sorriso ha dunque qualcosa della contemplazione; è amore contemplativo che gioisce
del fratello, che vede in lui un dono offerto da Dio. Il sorriso è la versione terrena
della gioia dei Santi, è un lembo di Cielo che anticipa la beatitudine. Il sorriso è
Donna; la Donna umile e stupenda, dolcissima e verginale, che è apparsa come
Sorriso di Dio su ogni essere creato: Maria.

171
Prov. 18,19
84
IL TEMPO E L'UOMO

L'UOMO NELLA CREAZIONE

91 - L’uomo: gloria di Dio.

Ireneo di Lione, genio del pensiero cristiano, l'autore più rappresentativo dei
primi secoli della Chiesa, riassume tutto il mistero dell'uomo in alcune espressioni
che sono tra le più profonde che mai siano state scritte: "Gloria di Dio è l'uomo
vivente; vita dell'uomo è la visione di Dio "; e ancora: "Dio, e tutte le opere di Dio
sono gloria dell'uomo; e l'uomo è la sede in cui si raccoglie tutta la sapienza e la
potenza di Dio". 172 Dunque: l'uomo vivente.
Nel Salmo XVIII leggiamo che "I cieli narrano la gloria di Dio e il
firmamento annunzia l'opera delle sue mani". 173 Tutti infatti restiamo come
abbagliati di fronte allo splendore e all'immensità del creato. Non sempre, invece, è
così davanti all'uomo, soprattutto quando egli si presenta nella sua precarietà, nella
sua povertà e miseria, nella sua fatiscenza fisica e morale. Ci sono situazioni umane
nelle quali tutti i motivi di fascino e di stupore, tutti i segni di grandezza e di
bellezza che ricordino un capolavoro sono scomparsi. Anche l'autore del salmo VIII
esclama: "Che cosa è mai l'uomo perché te ne ricordi?". Tuttavia lo stesso autore
subito aggiunge: "Eppure l'hai fatto poco meno degli Angeli, l'hai coronato di gloria
e di onore, l'hai costituito sopra l'opera delle tue mani". 174
Nonostante tutto, l'uomo è il capolavoro della creazione, "il luogo - ripetiamo
con S.Ireneo - in cui si raccoglie tutta la sapienza e la potenza di Dio". Infatti, se i
cieli "narrano" la gloria di Dio, l'uomo "è" la gloria di Dio, è vanto della sua eterna
sapienza e della sua infinita potenza. Del resto, a chi mai se non all'uomo i cieli
narrano la gloria di Dio? A chi se non all'uomo il firmamento annuncia l'opera
dell'Onnipotente? L'uomo è il destinatario del creato perciò egli è chiamato a
diventare interlocutore e voce di tutte le cose, interprete dell'universo. Senza l'uomo,
il creato resterebbe muto, o sarebbe come una sinfonia immensa e stupenda ma senza
ascoltatori, e non avrebbe senso.
Anche il tempo, possiamo dire, ha avuto il suo vero inizio con l'uomo. Prima,
e senza l'uomo, esisteva solo il moto, il susseguirsi delle cose, il mutevole rapporto
spaziale tra le parti del tutto; solo lo spirito può percepire e misurare nelle cose un
passato, un presente, e un futuro. Il tempo è una grandezza mediante la quale lo
spirito umano intercetta lo spazio e tutto ciò che nello spazio si muove. Lo spirito
tutto abbraccia e tutto misura. E' dunque l'uomo che dà senso ai millenni, a tutte le
ère del mondo, a tutto ciò che è accaduto, accade, e accadrà.
172
S. Ireneo, Adversus haereses, 3,20
173
Salmo n. 18,1
174
Salmo n. 8,5-6
85
92 - L’uomo chi è?

Da un certo punto di vista, non sono in errore quei filosofi e pensatori che hanno
posto l'uomo al centro di tutte le cose; una visione antropocentrica del mondo ha una
sua giustificazione. Occorre perciò conoscere l'uomo, sapere chi è. C'è chi lo ha
definito un essere di frontiera, una cerniera tra due mondi: il mondo della materia e il
mondo dello spirito; un essere che respira il tempo e l'eternità. L'uomo - disse
Giovanni Paolo II - è "come l'orizzonte del creato, nel quale si configurano il
cielo e la terra; come vincolo del tempo e dell'eternità; come sintesi del
creato". 175
Questa duplice estensione fa dell'uomo la sintesi vivente di tutta la realtà
creata. Ma proprio in questa estensione, in questo esistere proteso tra due universi
sta l'essenza del mistero dell'uomo, la sua natura abissale. Pochi temi hanno tanto
appassionato la mente umana. L'uomo è l'unico essere "composto", o meglio,
"coestensivo". Nella natura troviamo esseri che sono pura materia, pura molteplicità;
nel mondo angelico troviamo gli Angeli che sono puro spirito, pura semplicità.
L'essere dell'uomo è invece una "unità duale". Qui sta la radice del mistero
dell'uomo, ma qui sta anche la linea di conflitto, il confine dove si scontrano le
diverse concezioni dell'uomo nella storia del pensiero. C'è chi nega l'unità dell'essere
umano, cadendo in un dualismo che spezza l'uomo e lacera irrimediabilmente la sua
natura; e c'è chi nega la sua dualità cadendo in una concezione riduttiva dell'uomo
impoverendone la natura o falsandone l'identità. In questi errori si nasconde il
desiderio o il tentativo di semplificare il mistero dell'uomo, di spiegarlo o almeno di
capirlo. Ma il mistero rimane. E rimane proprio qui, nella "coestensione" di materia e
spirito, nell'essere, l'uomo, simultaneamente presente e partecipe a due universi che
appaiono tra loro incompatibili e incommensurabili.

93 - Interpretazioni riduttive

Abbiamo così da un lato le varie concezioni dualistiche che dividono l'essere


dell'uomo, e vedono da una parte il corpo, cioè la materia che viene considerata come
principio del male, e dall'altra lo spirito considerato principio del bene, il quale però
è tenuto prigioniero nel corpo. Condividono questa dottrina il dualismo manicheo, il
dualismo cartesiano e il dualismo delle religioni orientali; per queste ultime è un
male che l'anima sia unita al corpo e dal corpo deve liberarsi per realizzare la propria
perfezione in Dio.
Dall'altra parte abbiamo il lungo elenco di concezioni riduttive dell'uomo. La
maggior parte di esse sono riduttive in basso, cioè in senso materialistico. Abbiamo
così i vari materialismi: quello marxista che riduce l'uomo alle sole istanze
economiche, quello freudiano che limita tutto l'uomo alla pura pulsione sessuale,
quello scientista che vede l'uomo come il risultato della sola evoluzione biologica,
quello edonista che vede l'uomo come un fascio di forze istintuali che si appagano
nel piacere sensibile. Altre concezioni, meno materialistiche ma ugualmente riduttive
dell'uomo, sono quella esistenzialista: l'uomo è solo problema, senza soluzione e
senza risposta; quella laicista: l'uomo è sola e assoluta libertà (uomo autonomo);
quella esistenziale per cui l'uomo è nella sua esistenza pura angoscia del limite;
quella faustiana per cui l'uomo è esclusivamente dominato dalla sete di potenza
(Nietzsche); infine la concezione sociologica che dissolve l'uomo nella società o
nello Stato, riducendolo a puri rapporti comunitari.
175
Giovanni Paolo II, Catechesi, (13.9.80)
86
Molto spesso queste concezioni si sposano tra loro dando origine a immagini
dell'uomo ancor più deformate e distorte. Esprimono, tutte, il tentativo della ragione
di spiegare il mistero dell'uomo, e invece lo distruggono. Non ci fermeremo ad
analizzare queste concezioni dell'uomo, che del resto appaiono già da sé stesse
insufficienti ed erronee. Torniamo invece alla espressione di S.Ireneo: "Gloria di Dio
è l'uomo vivente".

94 - Visione biblica dell’uomo

La valenza biblica di questa affermazione, in armonia del resto con tutta la


speculazione teologica del grande dottore, si ricollega a quelle parole della Genesi:
"Il Signore Dio plasmò l'uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un
alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente". 176 Nella Bibbia l'aggettivo "vivente"
indica un attributo proprio di Dio, tanto che ne accompagna frequentemente il nome:
Dio-il Vivente. D'altra parte l'uomo è chiamato nella Genesi "Adam", cioè creta,
polvere del suolo. Perciò, dicendo "uomo vivente" S.Ireneo ha voluto ricordare la
dualità dell'essere umano: il suo corpo materiale e la sua anima spirituale.
La Genesi specifica, poi, quale sia il legame che unisce "l'uomo vivente" al
"Dio Vivente"; è un rapporto di immagine-somiglianza: "Dio creò l'uomo a sua
immagine; a immagine di Dio lo creò". 177 La Bibbia, infatti, non parla mai dell'uomo
isolato, dell'uomo in sé stesso, come può fare la filosofia; l'uomo è sempre visto di
fronte a Dio, nella sua dimensione creaturale e dialogica che è costitutiva del suo
essere, e nella sua vocazione soprannaturale che costituisce il fine della sua
esistenza. Come appunto ricorda S. Ireneo: "Vita dell'uomo è la visione di Dio".
Questo rapporto è anche il fondamento e la ragione della dignità e della
grandezza dell'uomo, per cui egli "è il luogo in cui si raccoglie tutta la sapienza e la
potenza di Dio". Vedremo, poi, come in Cristo, Uomo-nuovo, questa dignità e questa
grandezza si riveleranno pienamente. Intanto possiamo renderci conto di quanto le
concezioni dualistiche e materialistiche sopra descritte siano non soltanto riduttive
ma anche lontane dall'immagine biblica dell'uomo, così che appaiono una negazione,
che è anche tradimento, della sua stessa identità e della sua realtà. Chi non si ispira
all'immagine biblica dell'uomo non ha perciò diritto di parlare in nome della sua
dignità.
Infine, quella scintilla divina, lo spirito, che fa l'uomo-vivente immagine del
Dio-vivente conferisce anche al corpo una dignità nuova e trascendente. Non
dimentichiamo che l'anima umana è uno spirito "incompleto", ha un'intrinseca
esigenza di un elemento corporeo, materiale, che è luogo e con-principio del suo
agire. L'anima "informa", dà forma, cioè sostanza di corpo umano al corpo, e
costituisce con lui una unità profonda, sostanziale: l'essere umano concreto, che si
attua nella identità personale di ciascuno di noi. Una unità così profonda da rendere
ingiustificabile, perché errata, l'espressione: la nostra anima possiede un corpo. Non
possiamo dire: "Io ho, possiedo, un corpo", ma "Io sono il mio corpo". Molte sono le
conseguenze di tutto questo, e vale la pena di vederle brevemente.

95 - La trascendenza naturale dell’uomo

Innanzitutto, il corpo umano non è un puro organismo biologico, sia pure


altamente evoluto così da collocarsi al vertice dell'evoluzione naturale. E' vero che
per il corpo l'uomo appartiene alla natura, soggiace alle sue leggi, mette profonde

176
Gen. 2,7
177
Gen. 1,27
87
radici nel mondo della natura, radici diciamo pure profonde quanto è lunga la sua
filogenesi naturale, ma nello stesso tempo esso, in ogni sua parte e in ogni momento
del suo sviluppo, trascende la natura.
La convinzione che l'uomo costituisce una "discontinuità" nel mondo della
natura è sempre stata presente nella coscienza umana; è un dato elementare nel senso
comune dell'umanità. Del resto questa discontinuità è solennemente affermata dalla
Bibbia nel passo già citato, un passo fondamentale per qualsiasi antropologia. Nel
primo capitolo della Genesi si dice che Dio creò il cielo e la terra, fece poi
germogliare dalla terra le piante e fece uscire dalle acque gli animali; il libro sacro
presenta cioè una specie di "creazione progressiva" che costituisce il "continuum"
della natura. Ma arrivato all'uomo, Dio in certo qual modo si ferma, parla con sé
stesso, si consiglia quasi dovesse prendere una decisione importante e solenne. "E
Dio disse: facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui
pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame e su tutte le bestie selvatiche e
su tutti i rettili che strisciano sulla terra. E Dio creò l'uomo a sua immagine, a
immagine di Dio li creò, maschio e femmina li creò". 178
Ecco qui affermata una discontinuità nella successione naturale delle creature,
un salto oltre la natura: l'Uomo. Non un prodotto della terra, non uscito dalle
acque, non frutto di pure forze naturali, ma voluto direttamente da Dio, frutto di
un suo intervento creativo. Inoltre la superiorità dell'uomo, qui affermata, su tutti gli
altri esseri creati non è soltanto una superiorità di dominio, ma anche una superiorità
di trascendenza. L'uomo, cioè, che pure appartiene alla natura, e ne è l'espressione
più perfetta, tuttavia emerge dalla natura, la trascende, la supera; si sottrae alle
eventuali leggi dell'evoluzione biologica, quasi la interrompe, o meglio introduce nel
mondo una dimensione nuova, diversa, la dimensione dello spirito che costituisce la
trascendenza naturale dell'essere umano.

LA CORPOREITÀ

96 - Trascendenza del corpo

Per questo, il corpo stesso dell'uomo non è riducibile ad un corpo animale.


Dobbiamo riscattare il corpo umano dalla collocazione in cui l'animalismo
naturalistico, oggi così in voga, l'ha situato. L'ideologia scientista del nostro secolo
ha indotto nella mentalità corrente la convinzione che tra gli animali e l'uomo c'è una
differenza puramente quantitativa: la quantità di materia cerebrale o del numero dei
neuroni con la conseguente complessificazione delle strutture e delle funzioni. E
così, non potendo abbassare l'uomo a livello degli animali, - operazione troppo
impopolare e controproducente -, si sono innalzati gli animali a livello dell'uomo. Si
parla perciò di "diritti" dell'animale, di un trattamento "alla pari", di una
"uguaglianza giuridica tra l'uomo e l'animale". In realtà si tratta di una
animalizzazione dell'uomo, ormai dilagante non solo in ambienti scientifici (etologia,
scienze mediche, scienze umane), ma in molte correnti culturali e politiche
condizionate dal materialismo ateo o laicista. In realtà il corpo dell'uomo è un corpo
"umano", e non un corpo puramente animale, anche dal punto di vista strettamente
biologico. C'è infatti più "informazione" genetica in una sola cellula del corpo umano
che non in tutte le cellule animali messe insieme.
Ma soprattutto il corpo dell'uomo è umano perché è già per sua natura
178
Gen. 1,26
88
preforgiato e predisposto per una sostanza spirituale: l'anima. Il corpo umano,
infatti, è tutto e sempre profondamente penetrato dall'anima. Quando io tocco la
mano di una persona, sento che quella mano è viva di una vita non soltanto biologica,
ma trascendente; non è la zampa fredda di un'animale, quella mano ha un'anima; essa
parla, esprime cose e nello stesso tempo nasconde un mistero; c'è "qualcuno" in
quella mano; e così per il volto, per i piedi ecc....Il corpo umano non è mai solo un
organismo: è qualcuno! Anche quando la vita abbandona quel corpo, quando esso
diventa cadavere, continua a conservare la "memoria" di quel qualcuno; lo stesso
disfacimento nel sepolcro, la decomposizione materiale di quel corpo, non è un fatto
puramente biochimico, la fase conclusiva di un ciclo vitale, come per gli animali, ma
è un fatto che appartiene a "qualcuno" che sta subendo l'umiliazione del sepolcro, il
disfacimento del suo essere corporeo come fatto esistenziale che appartiene alla sua
vicenda personale.
Questo spiega perché la Chiesa tratti con sommo rispetto il corpo umano senza
vita, lo asperge con l'acqua benedetta, lo incensa, ne cura la sepoltura con onore, ne
difende la dignità. Perciò non possiamo non pensare con tristezza a certi riti funebri
"laici" in cui si ignora ogni riferimento alla trascendenza di quel corpo, come se esso
fosse la camicia vuota di un nome che non esiste più. La fede ci dice che la
corruzione del sepolcro non è l'ultima parola per il nostro corpo, perché Dio lo farà
risorgere dalla terra così come dalla terra lo aveva plasmato. La risurrezione della
carne, affermata esplicitamente da Cristo e testimoniata dalla sua stessa risurrezione,
è la verità luminosa che ci fa guardare al nostro corpo con il rispetto e con l'amore
che si deve a una creatura chiamata a partecipare alla gloria di Dio.

97 - Il corpo: epifania dell’anima

Altro aspetto che caratterizza il corpo umano è il suo valore epifanico, è


"segno": indica e rivela la nostra anima. E' un segno la cui ampiezza di
modulazione varia da soggetto a soggetto anche in funzione delle circostanze
esteriori (l'ambiente naturale, l'ambiente sociale, l'educazione...), ma le sue
possibilità di sintonia con il nostro mondo interiore sono pur sempre immense. Tutto
il corpo è segno e rivelazione dell'anima: il sorriso, lo sguardo, i gesti, il portamento.
La voce, poi, con l'infinita gamma delle sue modulazioni, è lo strumento più perfetto
perché l'anima si liberi nell'espressione di sé e della sua attività. Infatti, è solo per il
corpo e nel corpo che la nostra anima vive e si muove nel tempo. Separata dal corpo
essa si ferma, resta immobile, impotente; per lei il tempo non scorre più, ed essa non
ha più possibilità di esprimersi se non in Dio. Il corpo è la parola dell'anima, e ci
ricorda il grande mistero dell'Incarnazione. "Il Verbo (la Parola) si è fatto Carne
(Corpo) e venne in mezzo a noi". Quella Parola dunque, si è fatta Rivelazione di Dio,
Verità e Salvezza degli uomini.
Nel rapporto anima-corpo, il ruolo epifanico del corpo è uno dei più delicati e
critici; è un ruolo fragile e drammatico perché pone il problema della verità e della
sincerità. Da vetrina o da specchio dell'anima, il corpo può diventare maschera,
sfinge, alibi. In molti modi possiamo alterare la consonanza tra i moti dell'anima e le
vibrazioni del corpo, tra ciò che abbiamo nella mente o nel cuore e ciò che abbiamo
sulle labbra. Possiamo mascherare i reali sentimenti dell'animo, fingere
atteggiamenti inesistenti nel nostro mondo interiore, sviare altrove le indicazioni
della coscienza, e soprattutto impedire la sintonia tra il pensiero e la parola: tutto
questo è non solo offesa di Dio, che è la Verità, e falsificazione del nostro rapporto
con lui, ma anche una lacerazione nella nostra natura, una violenza al nostro essere,
cioè una ferita profonda all'intimo rapporto anima-corpo. In definitiva, la menzogna
è un attentato all'unità del nostro essere personale. Tant'è che quando si vuol
rimarcare la coerenza e la sincerità di una persona, si dice che è "un uomo tutto d'un
89
pezzo". Del resto, la nostra stessa natura alla fine si ribella. L'insincerità, la
doppiezza, l'incoerenza creano un malessere esistenziale che, prima o poi, porta ad
una profonda crisi interiore, alla rottura dell'equilibrio psicologico o, comunque, a
una dolorosa deformazione della coscienza. L'insegnamento di Gesù: "Il vostro
parlare sia si quando è si, no quando è no". 179 è anche una preziosa regola di sanità
mentale.
Il corpo, dunque, è segno e specchio dell'anima. Ma esso conserva scritta
anche la nostra storia personale, le vicende della nostra vita interiore. Il corpo è, in
certo qual modo, l'archivio storico della nostra esistenza; un archivio dove vengono
registrate le nostre vicissitudini spirituali, il "curriculum" della nostra anima nel suo
agire e nel suo sentire.
Il corpo non possiede né virtù, né vizi, che sono invece propri del nostro
spirito; ha però sensazioni, impulsi e istinti. Questi nell'uomo, a causa del peccato
originale, non sono più ordinati in sé stessi, e inoltre possiedono una memoria
biologica che registra le conseguenze delle decisioni e del comportamento della
nostra anima, secondo i suoi abiti di virtù o di vizio. In altre parole, il nostro corpo,
pur essendo soggetto alle leggi naturali della biologia, soggiace all'influsso della
nostra anima che lo plasma in sintonia col suo proprio modo di essere. L'anima
trascina il corpo nella direzione verso cui essa è orientata. Così il corpo di un santo,
ormai sottomesso interamente allo spirito, si illumina di serenità, di forza, di
dolcezza; il corpo di un vizioso trasuda disordine, durezza, a volte ripugnanza.
Ci voleva la psicologia attuale per inquadrare l'origine spirituale e morale di
molte anomalie e disturbi psico-somatici. Tanto che molte volte potremmo dire che
l'uomo non muore, l'uomo si uccide. Non si fa violenza impunemente alla natura;
essa non perdona mai. Abbandonarsi al vizio è sempre fare violenza al proprio corpo.
Quante malattie sono la paga per il peccato: intemperanza nel cibo, ubriachezza,
fumo, droga, l'omosessualità, ecc. Oggi il mondo è spaventato per l'AIDS, e tuttavia
continua a spingere verso il libertinaggio sessuale, verso la frenesia del piacere,
l'idiozia della discoteca, il fanatismo divistico o sportivo...., cose che per un verso
coprono il vuoto esistenziale, il malessere delle frustrazioni e la povertà morale delle
attuali generazioni, e dall'altro sono il terreno di cultura ideale per tanti virus; e a
farne le spese sono spesso esseri innocenti come i bambini, personale sanitario, i
tanti malati incolpevoli delle loro infermità.

98 - Il corpo: inno alla bellezza

L'anima dunque forgia il suo corpo, lo organizza e lo plasma. Dicendo anima


intendiamo qui lo spirito in quanto è principio vitale del nostro corpo. Ciò significa
che Dio crea la nostra anima all'atto del concepimento di modo che essa esercita la
sua azione sul corpo fin dal primo momento. Del resto, la fede ci dice che nel mistero
dell'Incarnazione il Verbo si fece "Carne" e quindi ebbe un'anima umana fin dal
primo istante del concepimento. L'anima, così, inizia subito la sua attività
organizzatrice del corpo; essa lo va forgiando come "suo" corpo fin dal primo
momento del suo sviluppo. Attraverso il corpo, il nostro spirito non solo si colloca
nel tempo e ne percepisce il fluire, ma anche lo "anima", lo feconda, lo assume in
proprio iniettandogli il flusso della vita, e domina la materia corporea ordinandola in
senso funzionale alle sue esigenze operative, alla sua attività propriamente spirituale.
E' in un corpo da lui animato che lo spirito umano fa l'esperienza vissuta e
consapevole del mistero della vita; possiamo dire che la vita è veramente tale solo
nell'uomo; egli è "il vivente". Se poi pensiamo che, nell’espressione biblica, l'alito di
vita è il soffio di Dio, è immagine e somiglianza dello spirito di Dio, comprendiamo

179
Mt. 5,37
90
la sacralità della vita umana, la grandezza e il valore trascendente della vita
dell'uomo. Perciò ogni violenza, ogni attentato alla vita umana è un attentato contro
Dio. Se poi la violenza è contro la vita che si sta forgiando nel grembo materno, cioè
nella fase in cui la vita è più debole, la violenza è allora un crimine indegno e vile.
Quell'uomo in miniatura che una donna si porta nel grembo non può essere soffocato
o seviziato impunemente. Non sappiamo in che modo Dio riparerà a questa
ingiustizia degli uomini, ma certo il grido di un'anima che reclama il "suo" corpo che
le è stato negato e strappato violentemente, rimane vivo e implacabile davanti a Dio.
Ma il corpo non è soltanto segno e specchio dell'anima, archivio che ne
conserva la storia, non è soltanto il luogo dove lo spirito vive e si muove nel tempo,
esso è anche richiamo alla bellezza e alle perfezioni divine. Dio, creando l'uomo, ha
voluto che anche nel corpo fosse in certo qual modo sua immagine. "Dio creò l'uomo
a sua immagine: maschio e femmina li creò." Anche per il corpo valgono dunque le
parole di S.Ireneo: "L'uomo è la sede in cui si raccoglie tutta la sapienza e la potenza
di Dio". Il corpo umano è un inno alla bellezza, all'armonia, alla vita; è un inno
all'amore. Chi non conosce i capolavori che l'arte, la poesia, la musica hanno creato
per cantare le perfezioni del corpo umano?
Tutto questo, Dio l'aveva già realizzato nel suo progetto originario. Infatti
nell'Eden non c'era bisogno di nascondere il proprio corpo; tutto era armonia,
bellezza, dono luminoso di vita. "Adamo e sua moglie erano tutti e due nudi e non ne
provavano vergogna". 180 Nell'Eden la nudità del corpo era segno dell'integrità
morale e spirituale dell'uomo, del suo rapporto di totale conformità al disegno di Dio.
Fuori dell'Eden quella nudità è diventata il segno della miseria dell'uomo. Il peccato
è passato come un ciclone sull'essere umano, ha spogliato l'anima ribelle al suo Dio
di tutti i doni dei quali era stata adornata, e ha spogliato il corpo ribelle alla sua
anima della sua integrità e docilità. Con il peccato, nell'anima dell'uomo è scesa la
notte e nel corpo è calata la fatica, il dolore, la morte. Di qui la necessità del pudore;
esso è un'autodifesa della propria dignità ferita e oltraggiata, dignità che l'uomo sente
il bisogno di ricuperare e di proteggere; e insieme esso esprime la pietà divina, rivela
la misericordia di Dio contenuta in quel gesto così umano e così divino narrato dalla
Genesi: "E il Signore Dio fece all'uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì". 181
Vestire il corpo appartiene in certo qual modo al mistero della redenzione, fa
riferimento al disegno di Dio di restaurare la dignità dell'uomo. Il Figlio di Dio si è
rivestito del nostro corpo mortale e lo ha fatto diventare il luogo della nostra
salvezza.

99 - Il “culto” del corpo

Sono questi riferimenti al mistero di Cristo che gettano luce di speranza e


offrono la soluzione a problemi angosciosi e impervi alla nostra mente, problemi che
sul piano umano non hanno risposta: il dolore, la malattia, l'handicap, la morte.
L'attuale modo di essere dei corpi è quello proprio della condizione di peccato. In
un'epoca che ignora ogni riferimento al disegno di Dio e ha perduto totalmente il
senso e la nozione di peccato, tale condizione diventa incomprensibile, ingiusta,
maledetta. Quando il materialismo scientista prende il posto della fede,
l'edonismo si sostituisce alla speranza e l'egoismo soppianta la carità, allora il
corpo diventa l'unica realtà della vita, l'unico valore che meriti l'attenzione dei
legislatori e la preoccupazione della gente.
In questo clima pagano si instaura un vero e proprio "culto del corpo". Una
idolatria futile i cui idoli si chiamano: bellezza, prestanza fisica, efficienza atletica, o
peggio, ricerca sfrenata del piacere da quello della tavola a quello dei sensi, a quello
180
Gen. 2,25
181
Gen. 3,21
91
deleterio dell'alcool e della droga. E' perciò una idolatria che divora i suoi idoli e
quelli che li adorano. San Paolo bollava questo paganesimo come una idolatria il cui
dio è il ventre. Del resto, quando si nega l'anima con la sua vita spirituale e
trascendente e con il suo anelito soprannaturale, non resta che il corpo, disordinato
nei suoi appetiti, tirannico nei suoi bisogni, insaziabile nella sue brame. Esso diventa
così la tomba dell'anima che rimane come spenta nell'animalità.

100 - Il corpo e il suo destino di gloria

Inoltre, secondo questa mentalità pagana, tipica dell'uomo animale, come


direbbe S.Paolo, un corpo che non risponde più ad un ideale di bellezza, di integrità,
di salute, un corpo non solo deforme o mutilato, ma semplicemente diverso per
colore della pelle, per proporzioni delle membra, per capacità di lavoro, diventa
motivo di discriminazione, di emarginazione o di rifiuto. Così, un corpo non
appariscente come quello in gestazione nel grembo materno o in demolizione per la
vecchiaia o per una malattia terminale, non ha alcun valore, non merita di essere
protetto e considerato.
Chi di noi è passato anche una sola volta o solo un momento in un ospizio
teratologico, come gli ospedali del Cottolengo, oppure ha assistito all'agonia di una
persona dove si rivela tutta l'impotenza della nostra natura di fronte alla forza
implacabile del male, una forza a volte brutale che costringe la natura a cedere
lentamente ma inesorabilmente fino alla resa finale, costui ha visto in quei corpi
deformi o disfatti quanto la potenza del peccato pesi sulla nostra condizione attuale.
Una condizione che, tuttavia, non è originaria e nemmeno definitiva, e che non ha
cancellato né la nostalgia né il desiderio dell'immortalità e della felicità eterna. Ne
sono testimonianza le credenze erronee della trasmigrazione delle anime e della
reincarnazione che troviamo nelle religioni dualistiche orientali e pagane. La risposta
vera a questa nostalgia dell'uomo viene, invece, da Dio. Egli ce l'ha data in Cristo,
con la sua Risurrezione.
Proprio la nostra attuale condizione di debolezza ci aiuta a capire la forza e la
grandezza della redenzione operata da Cristo. Non c'è corpo umano, per quanto
deforme, per quanto devastato dalla violenza del male, che un giorno non esca
dal sepolcro e dalla terra in cui è stato disperso, integro e perfetto, splendido di
bellezza, di armonia e di vita, non più soggetto all'umiliazione e alla morte. La
Risurrezione della carne, una carne che non sarà più debole né passibile, ma
trasfigurata dalla gloria, è una verità stupenda della nostra fede, un dato che esula
dalle categorie della scienza e da ogni altra categoria, anche religiosa, del sapere
umano, ma è una verità indubitabile che ha il suo fondamento nella potenza di Dio,
che è creatore e padre. Egli è il Dio della vita, il Dio che non sopporta sconfitte, il
Dio che non si pente di ciò che ha creato ma che conduce irresistibilmente ogni cosa
al suo fine. E lo ha fatto in Gesù. Ai Sadducei che non credevano alla risurrezione
Egli dirà: "Voi non conoscete Dio, che è il Dio dei vivi, e non capite la sua potenza".
E aggiungeva: "Chiunque vede il Figlio e crede in Lui ha la vita eterna; e io lo
risusciterò nell'ultimo giorno". 182 Poiché verrà l'ora in cui coloro che sono nei
sepolcri udranno la voce del Figlio, e ne usciranno; quanti fecero il bene per una
risurrezione di vita, quanti fecero il male per una risurrezione di condanna". 183
A queste parole di Gesù fanno eco passi stupendi di S.Paolo:"Sappiamo bene
infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi le doglie del parto; essa non
è la sola, ma anche noi... gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la
redenzione del nostro corpo. 184 E' la redenzione che risplende nella risurrezione di
182
Gv. 6,40
183
Gv. 5,28
184
Rom. 8,22
92
Cristo, "il quale trasformerà il nostro corpo mortale a immagine del suo corpo
glorioso". "E' necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di
incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità. Quando poi questo corpo
corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità si
compirà la parola della Scrittura: "La morte è stata ingoiata per la vittoria: dov'è o
morte la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?". 185

101 - Il corpo nell’amore coniugale

Infine, il corpo è chiamato a servire quell'attività dello spirito che trova nel
sensibile la sua più intensa risonanza: l'amore. Si ama con l'anima, ma essa comunica
al corpo le vibrazioni dell'amore, anzi ha bisogno del corpo per esprimersi e donarsi
nell'amore. Per questo Dio ha creato l'uomo maschio e femmina, uomo e donna. In
mille modi il corpo si presta per esprimere l'amore: la fiamma viva di uno sguardo
innamorato, la carezza tenera e delicata di una mano, il sorriso luminoso di due
labbra innocenti, un bacio affettuoso, un canto, la melodia di una voce appassionata,
la intensa stretta di un abbraccio forte, e tanti altri modi, anche sobri e semplici, che
possono recare ugualmente un intenso messaggio d'amore.
Ma non c'è dubbio che l'espressione dell'amore che ha più bisogno del corpo è
l'amore coniugale, anzi esso si esprime proprio nell'unità di "una sola carne" e
realizza così la forma umanamente più intima ed esaltante del dono; dono per
eccellenza perché è la somma di due amori che celebrano la vita. Ma è anche vero
che l'amore coniugale è l'amore più esposto alle ferite della carne, per cui "l'uomo
carnale" può smarrirsi nell'egoismo degli istinti. Nell'amore coniugale infatti si dona
il corpo ma anche lo si riceve; e quando il ricevere prevale sul donare si imbocca la
strada dell'egoismo e l'amore passa di crisi in crisi fino a spegnersi nei sensi. Il corpo
allora non è più espressione e luogo dell'amore, ma strumento e oggetto di piacere.
Quel corpo non è più il "segno" di una persona che si ama, ma il pretesto per un
momento di passione che appaga solo i sensi.
Mantenere l'amore coniugale all'altezza della sua dignità non è facile in una
cultura come la nostra dove l'esaltazione pagana del sesso ha brutalizzato il rapporto
uomo-donna, ma il cristiano può contare sulla forza di un Sacramento che ha
messo Cristo-Sposo nell'amore umano, quell'amore nobile e generoso che, pur
dovendo passare attraverso il sacrificio e il dolore, sa approdare alla gioia della
fedeltà, e in Cristo diventa fonte di Grazia e di santità. Il corpo di due coniugi
cristiani e l'amore coniugale che li unisce richiamano dunque il mistero di Cristo e
della sua umanità nei suoi due momenti sponsali: l'Incarnazione e il Sacrificio della
Croce.

102 - Il corpo nell’amore sponsale

Nel mistero dell'Incarnazione, la verginità della Madre significa innanzitutto


che la Salvezza viene totalmente ed esclusivamente da Dio, non dall'uomo. Il Figlio
di Dio infatti si fa carne non per opera di uomo ma per la potenza dello Spirito Santo.
L'Incarnazione è anche un inno alla femminilità, una sublime esaltazione della
maternità verginale della Donna: "Ave, o piena di Grazia, il Signore è con te... Lo
Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza
dell'altissimo... ecco, concepirai un Figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù...
sarà Santo e chiamato figlio di Dio... e il Verbo si è fatto carne ed abitò fra noi". 186

185
1 Cor. 15,53-55
186
Lc. 1,28...
93
Così, un Corpo Verginale di donna è il luogo dove il Figlio di Dio ha
celebrato le nozze con l'umanità; il grembo intatto di Maria è diventato
"architriclinium totius Trinitatis", la stanza nuziale della Santissima Trinità. Così,
l’Incarnazione, come mistero sponsale del «Figlio del Re», è intimamente legata alla
verginità di Maria. Attraverso di lei, l'eternità è entrata nel tempo, lo ha percorso da
cima a fondo abbracciandolo interamente, e ha dato a tutta la storia umana una
dimensione divina.
Analogamente, il Sacrificio della Croce è un inno alla "virilità", alla sua forza
soprannaturale per cui ha sconfitto il peccato e la morte. Quel Corpo immolato e quel
Sangue versato è stato il prezzo del nostro riscatto e della nostra pace. "Gesù disse:
Tutto è compiuto e, chinato il capo, spirò... vennero dunque i soldati e vedendo che
era già morto non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il costato
con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua... questo avvenne perché si adempisse
la Scrittura: non gli sarà spezzato nessun osso. E...volgeranno lo sguardo a Colui
che hanno trafitto". 187
Un Corpo integro e verginale di Uomo appeso alla croce è stato il luogo
dove il Figlio di Dio ha celebrato le nozze con la sua Chiesa. La contemplazione
di quel Corpo che, nonostante la violenza brutale ha conservato un' immensa dignità
e un fascino sovrumano, ha dato origine a una delle sequenze più commoventi nella
Liturgia della Chiesa:

Ave, verum Corpus natum Salve, o vero Corpo


de Maria Virgine! nato da Maria Vergine
Vere passum, immolatum umiliato e immolato
in cruce pro homine. sulla croce per gli uomini.
Cuius latus perforatum Dal tuo fianco perforato
fluxit aqua et sanguine; sgorgò sangue ed acqua;
esto nobis praegustatum sii per me, in vita e in morte
mortis in exanime. cibo amabile e desiderato.
o Jesu dulcis, o Jesu pie! O Gesù dolce, o Gesù pio,
Jesu, fili Mariae! O Gesù, Figlio di Maria!

Così, il corpo umano, riportato ad una perfezione ancora più alta di quanto non
fosse il corpo di Adamo nella sua integrità originale - Gesù è il nuovo Adamo, e
Maria la nuova Eva -, è entrato in un più grande disegno di Dio; la femminilità e la
virilità nella loro collaborazione verginale al mistero della salvezza sono diventate
l'espressione più sublime dell'Amore sponsale.

103 - La triplice “corporeità” in Cristo

Se l'uomo, per la sua natura corporea e spirituale, è coestensivo di due


universi, quello della materia e quello dello spirito, nell'Incarnazione Cristo ha reso
l'uomo "coestensivo" con la natura divina; la sua Umanità Santissima è il luogo dove
"abita corporalmente tutta la pienezza della divinità", 188 è la vetta sublime attraverso
la quale l'uomo è penetrato nella vita intima di Dio, nella vita trinitaria. Cristo,
perfetto Dio e perfetto uomo, ha ricondotto ogni cosa al suo «Principio», ha
«ricapitolato" in sé tutto ciò che esiste di spirituale e di corporeo, e ha reso l'uomo
capace di una comunione con Dio assolutamente unica e indicibile.
L'incarnazione del Figlio di Dio ha inaugurato un nuovo ordine di cose, un
nuovo modo di esistere delle creature nel tempo, un modo salvifico: l'ordine
sacramentale. Esso anticipa e prelude la novità definitiva: l'ordine della Gloria.
187
Gv. 19,33
188
Col. 2,9
94
L'umanità di Gesù sulla terra è chiamata "Sacramento della comunione dell'uomo con
Dio", e la Chiesa "Sacramento universale di salvezza". La morte di Cristo sulla croce
ha chiuso il tempo, - "Tutto si è compiuto" - La Risurrezione di Gesù ha inaugurato
l'eternità. L'umanità di Cristo risorto è dunque il Corpo nuovo, per una Umanità
nuova, per un universo nuovo.
Possiamo dire che la corporeità si presenta in Cristo con una triplice
dimensione: temporale, sacramentale, mistica.
• La dimensione temporale è data dal Corpo fisico di Gesù, quello cantato dall'Ave
Verum, un vero Corpo, nato da Maria Vergine, immolato sulla croce e risorto nella
gloria.
• La dimensione sacramentale è data dal Corpo eucaristico di Cristo, quello cantato
dalla Liturgia nell'"Adoro Te devote": Panis vivus vitam praestans homini, un
Corpo "velato" sotto i segni sacramentali del pane e del vino per attuare la nostra
comunione con Dio.
• La dimensione mistica è data dal Corpo mistico di Cristo, cioè la Chiesa, che
realizza l'unità del genere umano, l'umanità nuova che ha il suo compimento
ultimo nella "Città di Dio", la Gerusalemme del cielo.
Così, il Corpo fisico, il Corpo eucaristico e il Corpo mistico di Cristo hanno
fatto del corpo umano "un'Ostia vivente, santa, gradita a Dio; è questo il nostro
culto spirituale". 189 Perché anche il corpo è coinvolto nel culto a Dio. Lo è nel
sacrificio di lode e lo è nella preghiera.

104 - Il corpo “sacrificato”

Quando l'anima si apre alla preghiera e sale verso Dio, anche il corpo ne viene
coinvolto. A volte esso viene indicato come un peso, una specie di zavorra che rende
faticoso e difficile il decollo dell'anima. In questo senso il corpo ha bisogno di
"alleggerirsi" da abitudini e inclinazioni che appesantiscono il suo ruolo e la sua
possibilità di partner dello spirito. E' il lavoro svolto dalla mortificazione. Questa
parola dal suono stridente e dal sapore amaro è stata talmente caricata di senso
negativo che ormai è irreperibile nel vocabolario della società opulenta. Si
reclamizza, sì, la leggerezza del corpo, ma è una leggerezza puramente fisica, per
motivi di futile vanità, ispirata non al dominio del corpo ma al culto del corpo.
La preghiera esige, invece, una leggerezza etica del corpo che si esprime come
duttilità e prontezza agli inviti dell'anima. Un fisico impigrito, sonnolento,
crapulone, un corpo sistematicamente "accontentato" nelle sue richieste non servirà
molto alle spinte di un'anima orante. "Se non ti mortifichi non sarai mai anima
d'orazione". 190
La mortificazione ha dunque un versante negativo, quello di negare al corpo
tanti accontentamenti che ne farebbero un corpo "viziato", riottoso e capriccioso: "Al
corpo bisogna dare un po' meno del giusto. Altrimenti tradisce". 191 Ma la
mortificazione ha anche e soprattutto un versante positivo, più importante e
utile alla preghiera: quello di chiedere al corpo, esigere la sua collaborazione
educandolo al sacrificio, al dono di sé. I frutti di questa mortificazione saranno:
laboriosità e intensità nel lavoro, fortezza nella fatica, pazienza nella stanchezza,
disciplina dei moti istintivi e degli impulsi, affinamento della sensibilità, del tratto e
del comportamento, cadenza nei ritmi (orario), freschezza nelle abitudini, e tutta una
serie di esercizi che rendono il corpo disponibile all'anima. Questo lavoro compete
proprio all'anima che va così acquistando un sempre maggior dominio sul proprio

189
Rom. 12,1
190
Cammino n. 172
191
Cammino n. 196
95
corpo. La mortificazione diventa così "l'orazione dei sensi".

105 - Il corpo “orante”

Ma tutto il corpo concorre all'attività orante dell'anima: l'atteggiamento


delle mani, la genuflessione, il segno della croce, e soprattutto le varie posizioni
del corpo che esprimono e facilitano i diversi atteggiamenti interiori di
preghiera. Così, lo stare in ginocchio esprime adorazione, umiltà, contrizione e se
poi vi si aggiunge la posizione delle braccia distese o delle mani congiunte, esso
esprime la supplica, l'invocazione, la petizione; lo stare in piedi esprime la lode e la
gioia soprattutto quando si accompagna al canto, ma anche esprime l'attenzione
dell'anima pronta al dono di sé, la fede nell'ascolto della parola di Dio, il moto della
preghiera verso l'alto, l'apertura dello sguardo verso il cielo; infine, lo stare seduti
vuol indicare il raccoglimento, la preghiera di meditazione, di conversazione
familiare e intima con Dio, quasi un moto dell'anima che rientra in sé stessa per
trovare Dio in profondità, nell'intimo di sé stessa, quasi a cercare un'orazione di
riposo accanto al Signore. Esiste anche una posizione particolare, non frequente:
quella del corpo disteso bocconi per terra. E' la posizione di Gesù nell'Orto del
Getsemani. Esprime dolore, sofferenza, ma esprime anche la nostra realtà di creature
che riconoscono il proprio nulla davanti a Dio. Generalmente, però, non conviene
tenere posizioni scomode durante la preghiera, potrebbero infatti essere di ostacolo
all'attività orante dell'anima.
Quando poi il nostro corpo è segnato dal dolore, dalla sofferenza, dalla
malattia, allora diventa esso stesso preghiera fino a sostituire l'anima che può restare
inerme, incapace di parlare, di esprimersi, e che altro non può fare se non offrire a
Dio in silenzio il proprio corpo dolorante, magari in disfacimento, come sacrificio di
adorazione, di lode e di espiazione. Ci soccorre l'immagine di Gesù Crocifisso: quel
Corpo, "un quadro di dolori", lacerato e immolato, innalzato tra cielo e terra, è stato
e continua ad essere la preghiera più straziante ma anche la più potente e gradita agli
occhi di Dio che mai sia salita fino a lui dalla faccia della terra.
Ma esiste anche la situazione completamente opposta, quella del corpo
completamente passivo nei confronti dell'anima assorta nella preghiera. Raggiunge il
suo culmine nell'estasi orante. Allora l'anima stessa è assorbita totalmente in Dio,
rapita dalla sua grandezza, completamente pervasa dalla sua presenza. In quelle
condizioni anche il corpo tace completamente, sospende ogni sua attività, i sensi non
rispondono più al alcuna sollecitazione; scende nel nostro essere il silenzio più
assoluto della natura; anche l'anima rimane immobile, dolcissimamente impotente di
fronte alla forza irresistibile dell'amore di Dio che la pervade e la unisce a sé.
L'estasi fa pensare all'umanità di Gesù trasfigurata sul Tabor: "....Prese con sé Pietro,
Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. E mentre pregava il suo volto
cambiò di aspetto". 192 Più l'anima è rapita dalla preghiera e più il corpo si
"trasfigura", quasi si illumina. E' una luce misteriosa ma ancora terrena. E' solo
preludio alla grande luce che trasfigurerà il nostro corpo nel Cielo, quando la Gloria
di Dio lo colpirà con la sua potenza facendolo riverberare di eternità. Allora tutto il
nostro essere sarà proiettato nell'estasi dell'unica preghiera possibile in cielo: Santo,
Santo, Santo è il Signore, Dio dell'universo. A Lui la gloria, la potenza e l'onore nei
secoli dei secoli. Amen. Amen. Amen!

LA DIMENSIONE SPIRITUALE DELL'UOMO


192
Lc. 9,28
96
106 - L’anima

Abbiamo fin qui descritto il corpo dell'uomo, ma in realtà abbiamo parlato


quasi sempre dell'anima. In effetti non è possibile descrivere realisticamente il corpo
umano senza vederlo nella sua identità di co-principio, con l'anima, della persona
umana. Abbiamo già detto che il corpo umano è "umano" proprio perché tutto e in
ogni sua parte penetrato e vivificato dall'anima. Perciò tutte le volte che si è parlato
dell'anima se n'è parlato di riflesso, nelle sue relazioni col corpo. Ciò significa che
non è possibile pensare l'anima, e di conseguenza l'uomo, senza il suo corpo.
Ma viene ora spontaneo domandarci: "Cos'è l'anima umana in sé stessa?" Una
prima cosa che possiamo dire è che pensando all'anima pensiamo a qualcosa di
sottile, di invisibile, di assolutamente leggero, che esiste in sé stesso e per sé stesso.
Ciò significa che l'anima, rispetto al corpo, presenta due caratteristiche: è spirito,
non appartiene cioè al mondo della materia, dove troviamo il peso, il colore, la figura
e tutti gli altri aspetti visibili e misurabili ad essi collegati; secondo, è una sostanza
sussistente, vale a dire che, mentre ha bisogno del corpo per manifestarsi e per
agire, non ha bisogno del corpo per esistere. In altre parole l'anima ha in sé stessa
(anche se non "da" sé stessa) la "forza" di esistere, forza che chiamiamo "atto di
essere" (di cui ci occuperemo ai nn. 172-175) e che essa possiede in proprio, per cui
sopravvive al suo corpo.
L'anima umana è dunque una sostanza sussistente, principio esistenziale di
tutto l'uomo. Ciò comporta due conseguenze: che l'anima è il principio dell'unità
sostanziale dell'essere umano, essere che - l'abbiamo visto - si presenta come "unità
duale", e inoltre che la sorte a cui essa andrà incontro è la sorte che toccherà a tutto
l'uomo, compreso il corpo.
Da tutto questo derivano alcune conseguenze che già sono emerse in tutto
quello che abbiamo detto sui rapporti corpo-anima. Innanzitutto, che l'anima nella
sua essenza è di natura spirituale. La spiritualità dell'anima è già stata ricordata nella
descrizione che abbiamo fatto del corpo e delle sue manifestazioni, ma più ancora
appare, come vedremo nei capitoli seguenti, dal fatto che l'anima possiede le facoltà
proprie e tipiche dello spirito: l'intelletto, il quale a sua volta conta su una facoltà
operativa: la volontà, dotata di una prerogativa fondamentale: la libertà.
L'intelletto rende l'anima "sottile", cioè capace di raggiungere l'essere delle
cose; la volontà rende l'anima padrona dei propri atti per cui essa diventa il soggetto
di attribuzione di tutto ciò che l'uomo compie; la libertà fa l'uomo responsabile di
tutto il suo agire, e perciò lo fa un essere morale.
Ma qual è la spiritualità propria dell'anima? Pur essendo una sostanza
sussistente, con un suo proprio "atto di essere" di natura intellettuale, l'anima
dell'uomo presenta dei limiti che sono inerenti alla sua propria natura, natura di
anima "umana", titolare cioè di una spiritualità "incarnata" che dice esigenza ad un
corpo materiale. Ciò significa che l'anima umana non pre-esiste al suo corpo ma
viene creata da Dio con il suo corpo, al momento del concepimento (cfr. n.171);
inoltre pur potendo continuare nell'esistenza senza il suo corpo, l'anima in tale
condizione verrebbe a trovarsi come in uno stato innaturale, uno stato che le fa
desiderare fortemente e quasi "invocare" il suo corpo. Questa "incompletezza"
dell'anima può considerarsi il presupposto naturale della risurrezione corporea alla
fine dei tempi, risurrezione che resta un dono gratuito della bontà e dell'onnipotenza
di Dio.
Sono considerazioni che possono aiutarci a capire anche il dono preternaturale
dell'immortalità con cui Dio aveva perfezionato la nostra natura nella sua condizione
originaria, e possono anche illuminarci sull'esplicita affermazione di Gesù riguardo
97
alla risurrezione dei morti, risurrezione che sarà per tutti gli uomini: buoni e cattivi.

107 - Preziosità dell’anima

La duplice forma di risurrezione affermata da Gesù - una risurrezione gloriosa


per i buoni, e una risurrezione di condanna per i malvagi - ci porta a riflettere sulla
seconda conseguenza che abbiamo sopra ricordato, che cioè la sorte alla quale va
incontro l'anima umana è la sorte che toccherà a tutto l'uomo, compreso il corpo.
Nella risurrezione, il nostro corpo parteciperà alla condizione dell'anima. Perciò
un'anima pervasa dalla gloria di Dio e dalla beatitudine comunicherà al proprio corpo
la beatitudine della sua condizione gloriosa; al contrario un'anima "immersa nelle
tenebre e nello stridore di denti" avrà un corpo tenebroso al quale comunicherà la
propria disperazione.
Inoltre il corpo sarà partecipe anche del "grado" di gloria dell'anima. "Altro è
lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle;
ogni stella infatti differisce da un'altra nello splendore. Così anche la risurrezione
dei morti". 193 Un solo "grado" di gloria nel Cielo vale per la nostra felicità
immensamente di più di tutte le gioie e le soddisfazioni che possiamo avere in questo
mondo. Il grado di gloria che inonderà la nostra anima con il suo corpo sarà
proporzionato al grado di amore di Dio che essa avrà raggiunto nel suo cammino di
santità sulla terra. L'anima, dunque, comunicherà al suo corpo la propria
"immortalità", cioè il corpo non sarà più soggetto alle attuali leggi fisico-chimiche e
biologiche - "si semina corruttibile e risorge incorruttibile" - perciò avrà leggerezza,
sottigliezza, agilità, in una parola: "Si semina un corpo animale, risorge un corpo
spirituale". 194
Questa condizione dell'uomo trasfigurato, corpo e anima, dalla gloria divina
nella vita eterna, ci richiama alla condizione nostra sulla terra: una condizione di
"redenti", con un corpo tuttora passibile ma un'anima divinizzata dalla grazia con il
dono della filiazione divina. Nella Redenzione ogni anima è costata tutto il sangue di
Cristo e perciò ha assunto un valore enorme davanti a Dio.
La Grazia e la Gloria ci dicono tutta la preziosità della nostra anima, e ci
aiutano a comprendere più profondamente le parole del Signore:"Che cosa l'uomo
potrà dare in cambio della propria anima?". Infatti, "qual vantaggio avrà l'uomo se
guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?". 195
Agli occhi di Dio, una sola anima vale di più di tutti i tesori della terra,
anzi più dell'intero universo. E' per questo che il Buon Pastore lascia le
novantanove pecore al sicuro e va in cerca dell'unica smarrita finché non la trova e
non la porta a casa; e si capisce anche perché si faccia tanta festa in cielo per un solo
peccatore che si converte. 196
Ma il mondo non la pensa così; e anche molti cristiani maltrattano la propria
anima e la espongono stoltamente a tanti pericoli. Hanno magari una cura attenta,
perfino nevrotica, della propria salute e sostengono per essa enormi sacrifici, si
preoccupano del benessere materiale e della qualità della vita senza risparmio, ma
non hanno alcuna preoccupazione per la propria anima; la lasciano in balìa delle
proprie miserie e debolezze, impoverita dall'ignoranza nella fede, inaridita e indurita
da sentimenti di rancore, di superbia, di egoismo, spesso la infangano con cose
ignobili e vergognose, la lasciano intristire senza il conforto della preghiera, o
addirittura languire lontano da Dio senza la veste nuziale della grazia col pericolo di
perdere per sempre la gioia del cielo. E' una pazzia quella che ha portato gli uomini
193
1 Cor. 15,41
194
1 Cor. 15,41
195
Mt. 16,26
196
Lc. 15,10
98
a dimenticarsi della propria anima e a disinteressarsi della sua salvezza. Nel pianto di
Gesù su Gerusalemme, la sua città, c'è tutta l'amarezza del suo cuore divino per ogni
anima che non ha saputo accoglierlo, rendendo vano così il suo sacrificio sulla croce.

108 - Fine soprannaturale dell’uomo

Quanto abbiamo considerato intorno all'essere umano - la trascendenza del


corpo, la natura e la preziosità dell'anima, il mistero dell'unità profonda del corpo e
dello spirito, la nobiltà dell'agire umano, infine la trascendenza del suo destino -
tutto questo rende ragione delle parole di S. Ireneo che sono state ricordate all'inizio:
"Gloria di Dio è l'uomo vivente".
Possiamo ora riassumere la grandezza dell'uomo in un'altra espressione che il
pensiero cristiano andò sempre più approfondendo con lo sviluppo della riflessione
teologica: "L'uomo è persona, chiamata alla comunione con Dio". Questa
definizione dell'uomo dice due cose: 1) la sua grandezza e la sua dignità naturale (è
persona); 2) la grandezza e dignità soprannaturale del suo destino (la comunione con
Dio). Ciò significa che l'uomo non può essere sufficientemente definito, e perciò
adeguatamente compreso, se non si tiene conto del suo destino di eternità, del suo
"fine ultimo". Perciò la risposta alla domanda: "Chi è l'uomo?" deve includere il fine
al quale l'uomo è chiamato; senza questo riferimento, qualsiasi definizione dell'uomo
sarebbe incompleta o insufficiente, e l'uomo resterebbe incomprensibile.
Una conseguenza importante di questa verità sull'uomo la troviamo, sul piano
temporale, nell'ambito socio-politico: il rapporto tra la società civile e la società
religiosa. In senso più specifico, Stato e Chiesa non possono ignorarsi e tanto
meno escludersi. Fu la posizione agnostica del pensiero a sostenere il contrario, e
così è cominciato il laicismo che ha portato poi alla secolarizzazione.
Lo Stato deve occuparsi del bene temporale dei cittadini ma non può ignorare
il destino trascendente a cui gli uomini sono chiamati. Perciò l'autorità civile deve
emanare una legislazione che sia rispettosa dell'uomo non solo nella sua dignità di
persona ma anche nella sua vocazione alla vita eterna. Una legislazione che non
rispettasse i Comandamenti, perché ad esempio li ritiene una legge della Chiesa e
non l'espressione di assoluti morali che sanciscono la dignità della persona umana e
rendono possibile il raggiungimento del suo fine, sarebbe una legislazione non
rispettosa del bene comune e della dignità dell'uomo. Così una legge che legalizzasse
l'adulterio - è il caso del "matrimonio" di divorziati - non è consona al bene
dell'uomo né al bene della comunità, perché non rispetta la dignità della persona e il
fine al quale essa è chiamata. E' questo il significato ultimo dell'espressione di S.
Ireneo: "Gloria di Dio è l'uomo vivente; ma la vita dell'uomo è la visione di Dio":
espressione che contiene la definizione più completa dell’uomo. In essa infatti viene
definita sia la natura umana: Gloria di Dio è l’uomo vivente, sia il suo fine ultimo:
Vita dell’uomo è la visione di Dio. L’uomo dunque è l’unica creatura che include
nella sua definizione il suo fine ultimo. In altre parole, l’uomo non è definibile e
nemmeno intelligibile se non si tiene conto del fine al quale è stato chiamato: la
visione di Dio e l’intima comunione con Lui.
D'altra parte anche la Chiesa, che si occupa del bene soprannaturale dell'uomo,
cioè della sua elevazione alla vita divina che termina nella visione-comunione eterna
con Dio, non può ignorare i valori temporali di cui l'uomo è portatore, valori legati
alla sua condizione di creatura posta nel mondo e che del mondo utilizza i beni e ne
porta le responsabilità. Scrive San Paolo: "Tutto quello che è vero, nobile, giusto,
puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei
vostri pensieri". 197

197
Fil. 4,8
99
Il fine soprannaturale al quale l'uomo è chiamato non esclude la natura ma la
suppone e la perfeziona. Così, la Rivelazione non elimina la ragione, la fede non
umilia l'intelligenza, la legge di Dio non impedisce la libertà, la grazia non vanifica
l'impegno, la storia della Salvezza non ignora la storia umana. L'Incarnazione
valorizza pienamente tutto il positivo della natura umana: Dio che si fa uomo ci dice
quanto l'uomo sia "capace" di Dio. Davvero, l'uomo - anima e corpo - è non solo
la sintesi del creato ma anche il luogo dove natura e grazia si sposano. La natura con
i suoi valori: la ragione, la cultura, la libertà, la scienza, la storia, è la base per il
soprannaturale, il terreno sul quale interviene l'opera divinizzante della grazia.
Ripetendo ancora una volta le parole di S. Ireneo, davvero "l'uomo è la sede in cui si
raccoglie tutta la sapienza e la potenza di Dio."

109 - La persona umana

Ma torniamo alla definizione dell'uomo che abbiamo sopra ricordato; nella


prima parte essa contiene un termine che esprime uno dei concetti più intensi del
pensiero umano: l'uomo è "Persona". Il concetto di persona è tutto cristiano;
nasce da una comprensione sempre più profonda del mistero di Dio rivelatosi in
Gesù Cristo. Il mistero di Dio non sta soltanto nelle infinite perfezioni della sua
natura divina, sta soprattutto nella Trinità delle Persone divine. L'Essere
Tripersonale di Dio, ci illumina sull'essere persona nell'uomo. La natura umana,
considerata in astratto, possiamo definirla come un principio operativo in un
determinato grado di esistenza, quello appunto che è proprio dell'essere uomo; ma in
concreto la natura umana esiste come "persona", cioè ogni singolo individuo che
appartiene alla specie umana è qualcosa di unico, irrepetibile, sussistente in sé stesso
e per sé stesso e porta l'impronta divina in un'anima razionale. La persona umana è
dunque una "modalità dell'essere", una modalità perfetta, completa, eminente.
Da ciò derivano alcune conseguenze che abbiamo ricordato più volte, ma che
giova ripetere perché l'umanesimo ateo e laicista della nostra cultura occidentale ci
ha contagiati profondamente e su ampia scala. L'uomo, abbiamo detto, per la sua
natura appartiene alla Natura, ma come persona la trascende e la domina. Come
individuo l'uomo è un piccolo essere, debole, precario, sperduto nell'immensa
vastità del creato; ma come persona un solo uomo è più "grande" e vale più
dell'intero universo.
Perciò l'uomo non potrà mai essere oggetto di esperimento come altri esseri
naturali. Né la scienza né il progresso dell'umanità possono giustificare la
strumentalizzazione o la manipolazione dell'essere umano, qualunque sia la sua
condizione.
Ancora, l'uomo per la sua natura appartiene alla specie umana, e come
individuo è una "particella" dell'umanità; ma come persona non è subordinato ad
alcuna società, e pur avendo dei doveri verso la comunità, appartiene solo a sé stesso
e a Dio. La società, infatti, trova nella persona umana la sua ragion d'essere ed è
finalizzata alla persona per la sua piena realizzazione. Perciò, ogni massificazione
degli individui va contro la dignità dell'uomo, ogni struttura statale che riduce gli
uomini a numeri o li opprime nella loro libertà è una violenza contro la persona e la
sua dignità.
La natura è "principio di operazioni" ed è comune a tutti gli individui che,
come tali, non hanno un nome; la natura è "anonima". La persona, invece, è
"soggetto di operazioni" , autocosciente, autotrasparente, autodeterminantesi, e
perciò è unica e ha un nome; un nome che le appartiene in esclusiva fra i miliardi di
tutti gli esseri umani. Ogni persona è irrepetibile; e davanti a Dio ha un valore
assoluto.
Il concetto di Persona è una delle più grandi conquiste del pensiero umano-
100
cristiano, e possiamo dire che essa ha operato la più profonda rivoluzione culturale,
civile e religiosa della storia. Ciò spiega perché l'umanesimo cristiano e tutto
l'insegnamento della Chiesa sull'uomo gravitino intorno al valore e alla dignità della
persona umana.

110 - Miseria e grandezza della condizione umana

Tuttavia, il mistero circa la condizione umana rimane. Dio ci ha dato un'anima


immortale in un corpo mortale. Con il volgere del tempo l'anima è spinta a cercare
sempre più la verità, ad andare verso la luce, a salire incontro alla felicità che brama
sempre più intensamente: tende sempre più «all'immortalità». Il corpo, col volgere
del tempo, si ripiega sempre più su sé stesso, cede alla precarietà, alla stanchezza, al
disfacimento; scende sempre più verso la "mortalità". E' la situazione drammatica
dell'uomo, pesantemente gravata dal segno del peccato, situazione che provocava in
San Paolo quel grido che è un'invocazione: "Me sventurato! Chi mi libererà da
questo corpo votato alla morte?". 198
Abbiamo già detto che Dio non voleva l'uomo in questa condizione, anzi aveva
perfezionato la sua natura con doni che lo liberavano da alcuni limiti propri della sua
condizione terrena. Ma abbiamo anche detto che Dio non può essere sconfitto da
nessuno; il suo disegno di amore si compirà comunque, anzi sarà portato ad una
perfezione più alta. Dio ha impresso nell'uomo il suo sigillo; la Trinità
Santissima, l'unico Dio in tre Persone, ha fatto l'uomo a sua immagine, a sua
somiglianza: lo ha fatto "Persona". Ogni uomo, per quanto depravato o deforme,
porta in sé questo sigillo, che è fondamento della sua dignità. Il suo essere-persona fa
l'uomo partecipe di Dio-Trinità.
Il Dio immortale, fonte della vita, non poteva sopportare che andasse perduta e
rimanesse per sempre vittima della morte la creatura che porta in sé l'immagine
divina. Il sigillo di Dio è garanzia per l'uomo. Dio è custode dell'uomo, lo difende da
sé stesso, lo custodisce dal maligno, gli riserva la sua eternità. "Io pongo sempre
innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare - canta David in uno
dei suoi Salmi - Di questo gioisce il mio cuore, esulta la mia anima; anche il mio
corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né
lascerai che il tuo santo veda la corruzione". 199 Ciò è detto soprattutto di Cristo, ma
in Lui è detto di ogni uomo, perché ogni uomo partecipa allo stesso destino di Cristo,
alla sua stessa dignità di figlio di Dio. L'uomo è l'unico essere che Dio ama per sé
stesso, perché in certo qual modo amando l'uomo egli ama sé stesso. Perciò ogni
violenza contro l'uomo è violenza contro Dio, ogni aggressione all'essere umano è un
attentato contro Dio.
Ne consegue che la persona è soggetto primario di diritto. La sua dignità non
dipende dalle istituzioni umane, da convenzioni sociali per quanto universalmente
riconosciute, né dipende da codici o da carte costituzionali elaborate da autorità
umana. La persona precede ogni cosa, ogni altra realtà creata; è come una epifania di
Dio nel tempo. Gesù ha detto: "Chi vede me, vede il Padre"; per analogia possiamo
dire: nella persona umana si intravvede Dio.
E' un’affermazione che vale sia riguardo all'essere che al divenire della
persona. In altre parole, l'uomo non solo porta l'immagine di Dio nella sua struttura
naturale (ontologica), ma ha Dio come traguardo e come ultimo fine anche nel suo
dinamismo esistenziale, cioè nella spinta interiore che lo porta a superarsi
continuamente, ad autotrascendersi senza soste e senza limiti. Come dire che, in
tutto l'universo creato, l'uomo è il massimo di densità ontologica e insieme il
massimo di espansione esistenziale. La persona umana è un cosmo, completo nella
198
Rom. 7, 24
199
Salmo 15, 8-10
101
sua unicità, impartecipabile nella sua solitudine, luminoso nella sua autocoscienza e
che si autopossiede nella sua pienezza; ma insieme è un cosmo che si espande in
tutte le direzioni e confluisce poi, nel suo ineffabile rapporto con Dio, in un'unica
dimensione: l'eternità.

111 - Una nuova “civiltà dell’uomo”

Perciò la grande sventura dell'uomo è perdere Dio. Senza Dio l'uomo si ritrova
smarrito, non riconosce più sé stesso né il suo destino: la sua unicità di persona
diventa un'abisso senza nome; la sua solitudine, disperazione; la sua luminosità,
tenebre fitte; la sua spinta espansiva, alienazione. In una parola, la vera morte
dell'uomo è il peccato. Ed è per causa del peccato che l'uomo non sa più riconoscere
la sua grandezza e l'immensa preziosità della sua persona.
Il valore-uomo ha perduto ogni peso nel listino dei prezzi; viene barattato per
pochi soldi, spesso per un piatto di lenticchie, quando non viene valutato un nulla di
nulla. E così lo si uccide come se fosse un insetto, lo si umilia, lo si giudica e lo si
condanna, gli si usa violenza e brutali aggressioni, disprezzo e indifferenza e ogni
sorta di schiavitù e di oppressione; non si fa più nessun calcolo né della sua vita né
della sua morte. Agli occhi degli uomini l'uomo vale ben poco; è soltanto agli occhi
di Dio che l'uomo vale più dell'universo. Solo Dio conosce il valore dell'uomo; solo
Dio lo ama, lo rispetta, lo custodisce, lo difende da sé stesso; non lo rifiuta, non lo
abbandona, non lo giudica per condannarlo, non lo fa schiavo, né gli toglie la libertà
anche quando l’uomo la usa contro di Lui, non si arrende davanti alla sua ribellione o
al suo rifiuto; ha saputo invece inventare per la sua creatura le più grandi pazzie che
solo un Amore infinito può inventare. Ed ecco, un giorno, nell'abisso che il peccato
ha scavato dentro l'uomo, scendere il Figlio di Dio: "E il Verbo si fece
carne...spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli
uomini; apparso in forma umana, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla
morte e alla morte di croce". 200
Questo è il prezzo di ogni uomo, questo il suo valore. Ogni persona vale
tutto il sangue di Cristo, tutta la sua vita, tutto il suo sacrificio. Chi calpesta
l'uomo, calpesta Gesù Cristo. E' Lui, l'Uomo! E' Lui ormai la misura della nostra
grandezza, della nostra dignità, del nostro valore. "Renditi conto, o cristiano, della
tua dignità!" esclamava il grande Papa Leone Magno davanti al Figlio di Dio fatto
uomo! E' una dignità la cui grandezza rimane per ora nascosta in un involucro di
povertà e di debolezza, ma è destinata ad esplodere un giorno, quando la potenza di
Dio ci libererà dal nostro involucro di morte, e la gloria di Cristo si rivelerà in noi.
Nel frattempo, Dio ha affidato alla sua Chiesa il compito di proclamare
davanti al mondo la grande dignità dell'uomo, il valore assoluto, non commerciabile,
della persona umana. Oggi, la Chiesa è l'unica voce nel mondo a difendere la dignità
dell'uomo e la grandezza del suo destino. Un nuovo "umanesimo cristiano" non può
che ripartire dalla Persona mettendola al disopra e prima di ogni altro valore: prima
della scienza, prima della politica, prima dell'economia e di qualsiasi progresso
materiale della società.
Dalle ceneri dell'umanesimo iconoclasta degli ultimi secoli che ha distrutto
l'uomo e i suoi valori, occorre far rinascere una nuova civiltà dell'uomo che metta
al centro del suo umanesimo la Persona umana come "Icona di Dio", è l'Icona
che riflette l'immagine del suo creatore, l'icona dell'uomo redento da Cristo e
chiamato alla comunione eterna con Dio. Solo così l'uomo riacquista la sua giusta
posizione di fronte a sé stesso e di fronte a tutte le cose create, e si realizza in lui
quello che fu, fin da principio, il sogno di Dio.

200
Fil, 2,7-8
102
Ognuno di noi è chiamato a diventare ciò che Dio vuole. O realizziamo in noi
il suo disegno di amore o abbiamo miseramente fallito tutta la nostra esistenza.

103
IL TEMPO
E L'INTELLIGENZA DELL'UOMO

INTELLETTO E CONOSCENZA

112 - La Luce e la Verità

"In principio Dio creò il cielo e la terra". Ma tutte le cose dell'universo erano
buie, senza luce. E senza luce era come se non esistessero. Perciò "Dio disse: Sia la
luce!" e la luce fu... e fu sera e mattina, primo giorno". 201 La luce divenne, così, la
prima qualità dell'essere. In un certo senso, l'essere è luminoso, emana una luce che
lo rivela e lo rende intelligibile: è una luce che coincide con la verità: la verità delle
cose. "Dio infatti è luce e in Lui non ci sono tenebre". 202 Dio è soltanto luce perché
è la pienezza dell'Essere. Perciò egli è la Verità, la pienezza della Verità. Quando
l'apostolo Giovanni scrive che dobbiamo "camminare nella luce" vuol dirci che
dobbiamo camminare nella verità di Dio. Camminare nella Verità è la più esaltante
avventura dell'intelletto umano, l'altissima vicenda che l'uomo è chiamato a vivere
nella sua esistenza terrena; è il suo stupendo viaggio nel tempo.
Dio creò il cielo e la terra, l'universo visibile e quello invisibile, gli esseri
spirituali e gli esseri corporei, e pose l'uomo che Egli aveva creato a sua immagine e
somiglianza davanti a tutte le creature perché esercitasse su di loro il suo dominio."Il
Signore Dio condusse (gli esseri creati) all'uomo per vedere come li avrebbe
chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi,
quello doveva essere il suo nome". 203 "Chiamare per nome" è, nell'uomo, un atto
trascendente dello spirito, è l'atto conoscitivo, cioè l'atto dell'intelletto che "intus-
legit", penetra dentro le cose, legge la loro identità profonda, si appropria quasi del
loro essere. Diversamente, in Dio, il "chiamare per nome" indica l'atto creativo
dell'intelletto divino. Dio, nell'atto di conoscere, comunica l'essere alle cose, le
"chiama" fuori dal loro nulla; è perciò causa della loro esistenza: "Egli conta il
numero delle stelle, e chiama ciascuna per nome". 204

201
Gen. 1,1
202
1 Gv. 1,5
203
Gen. 2,19
204
Salmo 147, 4
104
113 - La Luce e l’Intelletto

Dicevamo che l'essere delle cose create emette una luce, una luce che è la loro
identità, la loro verità, la loro intelligibilità. Ma questa luce promana dalle cose
quando esse sono colpite da un'altra luce, che le fa riverberare interiormente
facendole vibrare in risonanze di varia intensità, come un gigantesco arcobaleno: è la
luce dell'intelletto umano. Senza questa luce, con la quale l'uomo illumina tutto
l'universo, il creato resterebbe opaco e spento. "La terra era informe e deserta, e le
tenebre coprivano l'abisso". 205 E' l'intelletto umano che legge il tempo e ne possiede
la misura; nelle cose il tempo è solo moto. Possiamo dire che il tempo, come misura,
è cominciato con l'uomo, con la coscienza umana.
L'intelletto è la prerogativa più alta dell'essere umano, ed è costitutivo
della persona. Si è soliti chiamarlo, con una immagine geometrica, la punta
dell'anima; è come un vertice che penetra nella luce di Dio e permette all'uomo di
dominare da quella altezza tutte le cose: gli permette di misurare la loro estensione,
la loro vastità, la loro profondità, in una parola le loro dimensioni metafisiche, cioè
la loro partecipazione all'Essere Divino.
Questa grande dignità dell'intelletto umano, quale partecipazione all'intelletto
divino, merita qualche riflessione che ci aiuti a conservare integro e pulito questo
dono di Dio, perché il degrado dell'uomo è in gran parte causato dal degrado della
sua intelligenza. E poiché a determinare la dignità dell'intelletto è la verità come suo
oggetto proprio, la prima riflessione che ci si propone è intorno alla verità
dell'intelletto stesso: qual è il valore e la natura dell'intelletto umano? Quale il
meccanismo della sua attività, del suo conoscere?
Non c'è dubbio che le teorie sulla conoscenza hanno avuto e hanno tuttora un
peso determinante nella storia del pensiero ed esercitano il loro influsso su tutta
l'esistenza umana; è perciò indispensabile un richiamo sia pure elementare e
descrittivo del nostro intelletto e della sua verità.

114 - L’itinerario dell’intelletto.


Il tempo - l'abbiamo ricordato più volte - è una dimensione esistenziale della
natura umana; noi viviamo nel tempo. Ciò significa due cose: noi siamo nel tempo e
ci muoviamo nel tempo: l'essere e il divenire hanno in noi la misura del tempo.
Anche l'intelletto umano soggiace a questa legge; esso agisce nel tempo, e anche
sussiste nel tempo. Ne deriva perciò che il nostro intelletto non è intuitivo ma
discorsivo; ha bisogno di percorrere un cammino per arrivare alla verità. Anche
come facoltà conoscitiva, esso si attua progressivamente.
Inoltre l'atto conoscitivo umano si attua in una natura che è insieme spirituale
e corporea; ne deriva che l’intelligenza umana per attingere il suo oggetto ha bisogno
di passare attraverso i sensi; in noi la conoscenza è necessariamente sensitivo-
intellettiva, e perciò mediata e discorsiva. Usando una terminologia descrittiva, si
potrebbe dire che l'itinerario della conoscenza va dalle cose all'intelletto e viceversa:
infatti dai sensi esterni vengono colte le apparenze esteriori delle cose, cioè i dati
particolari e concreti della loro realtà fisica; gli stimoli raccolti dai sensi esterni
vengono interiormente unificati e trasformati in percezioni interne dalle quali si
formano i "fantasmi", le immagini; queste, sintetizzate ed elaborate dalla nostra
esperienza interiore in una sintesi pre-intellettuale, approdano infine all'intelletto
che, in questo caso, viene chiamato "intelletto passivo" perché ricevendo questi
messaggi rimane, in un certo senso, modificato dai loro contenuti; viceversa, anche
205
Gen. 1,2
105
l'intelletto si muove verso le cose, e in tal caso viene chiamato "intelletto attivo"
perché compie un lavoro di penetrazione nelle cose, presenti e quasi possedute nei
loro "fantasmi", fino a formulare un giudizio sul loro essere, sulla loro identità, cioè
sulla loro verità.
Questo percorso dell'intelligenza umana è chiamato dalla filosofia "astrazione"
ed è il percorso che permette al nostro intelletto, anzi al nostro spirito nella pienezza
di tutte le sue facoltà, di passare di creatura in creatura, da un essere creato ad altri
esseri creati, fino all'Essere per eccellenza, increato ed eterno, all'Essere che "è",
assolutamente ed esaustivamente: Dio. Finisce appunto in Lui questa esaltante
avventura dell'intelletto umano, il suo stupendo viaggio nel tempo.
Questa esposizione sommaria, semplice, in un linguaggio non strettamente
filosofico, meriterebbe una ben diversa trattazione, più profonda e più rigorosa, per
arrivare ad un efficace recupero dell'intelligenza umana. Varie infatti sono, oggi, le
malattie che affliggono l'intelligenza ma due tormentano da sempre l'uomo,
manifestandosi in varie forme e sotto aspetti diversi ma identiche nella sostanza: la
presunzione razionalistica e l'astenia intellettuale.
La prima ritiene che la ragione umana sia tutto, e tutto sia misurato dalla
ragione. Perciò ogni conoscenza che non sia puramente razionale-scientifica, quindi
anche la conoscenza della Fede, va esclusa e rifiutata: è il Razionalismo. La seconda
ritiene invece che la ragione umana sia impotente, cioè incapace di conoscere la
verità: la verità su Dio, la verità sull'uomo e la verità delle cose: è lo scetticismo.
Razionalismo e scetticismo sono sempre un fallimento dello spirito, una
sconfitta dell'intelligenza: sono la perdita della verità, in definitiva sono la
perdita di Dio. E' questa la disgrazia più grande in cui è precipitata la nostra civiltà
occidentale; è la sua vera povertà, la sua vera debolezza.

115 - La conoscenza sensibile.

Abbiamo detto che la conoscenza umana è necessariamente sensitivo-


intellettiva; ciò significa che deve esserci armonia e collaborazione tra sensi e
intelletto, tra sensibilità e razionalità. Dobbiamo stare in guardia da ogni
materialismo che nega la trascendenza dell'intelletto, e da ogni spiritualismo
disincarnato che guarda con sospetto i sensi e la sensibilità. L'armonia interiore si
realizza in noi quando ogni facoltà del nostro essere sta al proprio posto, rispetta
cioè il proprio ruolo e dialoga positivamente con le altre facoltà. Sappiamo che il
peccato ha rovinato questa armonia, e ha portato il disordine dentro di noi, un
disordine che non è solo morale, ma anche psicologico e spirituale. Quando i sensi la
fanno da padrone, oppure sono disprezzati e viene fatta loro violenza, le conseguenze
sono imprevedibili, perché la natura non sopporta a lungo, oltre i limiti delle sue
leggi, il peso del disordine. Quante sterili atonie negli affetti e dure aridità nei
sentimenti, che poi hanno portato a spietate e lucide violenze, sono nate da questo
disordine. Giova pertanto analizzare più dettagliatamente il ruolo della conoscenza
sensibile.
Essa si avvale di sensi esterni e di sensi interni. I primi sono dislocati alla
periferia del nostro corpo e sono come finestre aperte sul mondo. Hanno la struttura e
la funzione di centri ricettivi che forniscono notizie sulla realtà materiale che è fuori
di noi, percepita nei suoi aspetti esteriori e particolari. I secondi, i sensi interni,
costituiscono come centri nevralgici del nostro mondo interiore e sono in continuo
dialogo con le forze istintuali ed emotive, con tutta la nostra struttura psicologica.
I sensi dunque stanno alla base di quel mondo estremamente complesso e
polivalente che è il mondo della sensibilità. Essa, raccogliendo gli stimoli esterni e
le percezioni interne, va convogliando dentro di noi una quantità enorme di
materiale: dati, sensazioni, stati emotivi; su di esso si proiettano, come su un magma
106
incandescente, la fantasia e la memoria. Sono le due ali dell'intelligenza che
elaborano una più alta forma di conoscenza sensibile, quella immaginativa, ormai
intimamente connessa con l'attività intellettuale.
Senza addentrarci in un'analisi scientifica e filosofica della vita sensitiva, ci
rendiamo conto del ruolo essenziale che essa svolge nella vita e nell'attività
dell'uomo. Sensi e intelletto: il loro rapporto è analogo a quello che intercorre tra
corpo e anima, e rientra nel mistero della natura umana.
Il discorso sarà ripreso più avanti: qui vogliamo ricordare queste cose per
metterci in guardia dall'uso improprio che viene fatto dell'intelligenza nella cultura
attuale. Un uso improprio e, come spesso accade, contraddittorio. Infatti, se da una
parte viene esaltata l'esperienza sensibile nella ricerca scientifica sperimentale fino a
considerarla criterio unico di verità (la conoscenza viene limitata al verificabile),
dall'altra parte, nelle ideologie, l'esperienza sensibile viene disattesa e derisa nella
sua testimonianza sulla realtà oggettiva, fino ad escluderla come fonte di conoscenza,
oppure viene separata dalla conoscenza intellettiva. Come vedremo, c'è invece
continuità tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettiva. L'occhio vede e
l'intelletto conosce, ma ciò che l'intelletto conosce è la stessa cosa che l'occhio vede.
Separare l'intelletto dai sensi e quindi la conoscenza intellettuale dalla conoscenza
sensibile si commette lo stesso errore del dualismo che separa l'anima dal corpo e
condanna l'intelletto all'incapacità di conoscere veramente le cose. Il pensiero
prende così il posto della realtà e si pone come fonte e creatore della verità. E' il
trionfo del soggettivismo ideologico.

LA CONOSCENZA E I SENSI

116 - I sensi e il tatto

Ma oltre a questo significato importante per la filosofia della conoscenza, i


sensi hanno una valenza umana e ascetica che giova ricordare per l'influsso che essa
esercita nella vita spirituale. In noi infatti la conoscenza sensitiva non è mai una
conoscenza puramente sensibile, è sempre conoscenza umana; ha perciò un valore
trascendente che è dato dalla presenza dell'anima in ogni attività del corpo.
Partiamo dall'organo di senso più "corporeo": il tatto. Distribuito, ancorché in
modo e intensità disuguali, su tutta la superficie del nostro corpo, il tatto ci fornisce i
dati della nostra corporeità e ci fa percepire i confini del nostro essere nello spazio.
Nell'atto stesso di cogliere gli oggetti del mondo esterno, il tatto ci dà la percezione
dei limiti del nostro io corporeo e insieme ci rimanda al nostro ambiente interno fino
a quel mondo, possiamo ben dire "abissale", che è la nostra persona. E' dunque il
senso che ci aiuta a percepire la nostra individualità e la nostra intimità.
Per questo il tatto è collegato con l'istinto di difesa dell'io e insieme è
coinvolto intensamente nella manifestazione e nella partecipazione della propria
intimità personale. . Quando una madre stringe a sé guancia a guancia la sua creatura,
l'esperienza tattile di quell'incontro esprime l'intimità profonda che lega i due esseri
tra loro; la madre sente il figlio come la pelle della sua pelle, lo vede come una
dilatazione della sua persona, una estensione della sua individualità; quando poi
quella creatura si attacca ai suoi seni, l'intensità della percezione tattile esprime il
grado di intimità che si stabilisce fra lei e il figlio, anche se lei, la madre, sente che
in quel momento è molto più quello che riceve dalla sua creatura in termini di
gratificazione, di quello che lei dà in termini di alimentazione nutritiva e anche

107
affettiva.
Ma l'espressione più intima di comunione interpersonale che coinvolge il
senso del tatto è certamente l'intimità coniugale. Lì la conoscenza sensibile è
massima; l'uomo e la donna si "conoscono" nel dono della propria intimità che
coinvolge tutto il corpo, e si realizza, possiamo dire alla lettera, l'espressione biblica:
"e saranno, i due, una sola carne". 206
Tralasciando altri segni che sono espressione tattile della nostra interiorità,
come la carezza, il bacio, l'abbraccio, che esprimono l'affetto fraterno, l'amicizia, la
partecipazione al dolore e alla gioia degli altri, ci limitiamo a richiamare
l'importanza che può avere questo senso riguardo alla vita interiore.
Proprio per essere il senso più corporeo, che coinvolge la nostra intimità
personale, il tatto è un senso estremamente delicato, e va perciò custodito con finezza
e con delicata prudenza. D'altra parte, per la sensazione intensa di benessere e di
piacere fisico che esso fornisce, il tatto diventa un senso pieno di insidie per la vita
dello spirito. Può infatti trasformare il dono della propria intimità come espressione
d'amore, in ricerca egoistica del proprio piacere e arrivare all'ignobile
strumentalizzazione della persona altrui per interessi edonistici.
Naturalmente la custodia del tatto ha bisogno del dominio dei moti interiori
dell'animo e poggia sulla rettitudine delle intenzioni e del cuore soprattutto là dove il
servizio alla vita e alla persona esige l'integrità degli affetti e dei sentimenti. E' un
lavoro di ascetica delicato e paziente ma indispensabile per la vita dello spirito.
Infine, è propria del tatto la percezione del caldo e del freddo, percezione che
portata sul piano spirituale ci richiama la fisionomia che può avere l'ambiente umano
che ci circonda. La stima, la comprensione, l'affetto di chi vive intorno a noi ci
danno quasi la sensazione tattile del calore di cui abbiamo bisogno. Non si può
vivere senza calore; c'è una temperatura limite, come per la nostra pelle così per la
nostra persona, e dobbiamo ricordarci che la freddezza e l'indifferenza è una delle
sensazioni più crudeli a cui possiamo sottoporre un essere umano.
Il bacio fraterno che esprime il perdono, la carezza dolce su un corpo malato e
mille altri gesti di tenerezza su membra umiliate o trafitte dal dolore sono segni
preziosi che rompono la durezza di un mondo gelido e disumano. L'abbraccio
materno con cui Caterina da Siena accompagna il condannato a morte fino al patibolo
commovendolo fino alle lagrime, le braccia verginali e materne di madre Teresa che
raccoglie i moribondi sui marciapiedi di Calcutta perché possano morire avvolti da
un calore che non hanno mai conosciuto, e tante altre espressioni dell'eroismo
cristiano, riscaldano l'umanità e innalzano la temperatura del cuore umano molto di
più di tutte le scoperte del sapere scientifico. Il tatto può servire l'amore o può
servire l'egoismo; dipende dal cuore, se l'abbiamo puro, nobile, innamorato.

117 - L’olfatto

L'olfatto è il senso che percepisce presenze invisibili. Si tratta di presenze


gradevoli che ispirano fiducia, segnalate dal profumo, o di presenze sgradevoli che
ingenerano sospetto, segnalate da cattivo odore.
Il profumo dà un tono piacevole e fresco all'ambiente rendendolo godibile; si
ricollega alla sensazione della bellezza - i fiori profumano - e segnala una presenza
amabile o amata che stimola alla gioia. Queste sensazioni legate all'olfatto hanno
suggerito a San Paolo l'immagine del cristiano come il buon profumo di Cristo. Dove
vive un cristiano, lì deve sentirsi la presenza invisibile di Cristo: invisibile per la
naturalezza con cui il cristiano vive la sua vita, al pari di tutti gli uomini onesti, ma
presenza vera per le virtù che profumano la condotta di un discepolo del Signore. Un

206
Gen. 2,24
108
cristiano disonesto infetta l'aria, corrompe l'ambiente, rende ingodibile la convivenza
umana. Il profumo delle virtù fa invece pensare alla bellezza dell'anima e dà fascino
alla vita cristiana.
Il profumo stimola anche l'attrattiva sessuale. Può diventare perciò un'arma,
soprattutto femminile, per sedurre e adescare. Occorre perciò andare premuniti per
non lasciarsi ingannare. Ma anche può servire per facilitare l'approccio affettivo e
l'amore nuziale. Comunque esprime sempre una presenza amata. La libbra di nardo
purissimo, di gran pregio, che Maria ha versato sui piedi di Gesù è servita ad
esprimere il profumo dell'amore che può attirare le anime a Cristo. Infatti la
seduzione esercitata dal profumo suggerisce l'idea del fascino che la vita del
cristiano e la figura stessa di Cristo possono esercitare su tante anime, soprattutto di
giovani, per attirarle alla sequela e ad una dedizione incondizionata al Signore. Nel
Cantico dei Cantici si descrive l'attrattiva che esercita il profumo della persona
amata: "Post te curremus in odorem unguentorum tuorum," - ti seguiamo correndo
dietro la scia del tuo profumo. 207

118 - Il gusto

Il gusto, invece, ha una funzione critica ed è ordinato alla conservazione


dell'individuo attraverso il cibo; è infatti localizzato all'inizio dell'apparato digerente.
La funzione critica sta nel distinguere l'alimento utile da quello dannoso e, gustando
il sapore dei cibi, stimola il desiderio di nutrirsi.
E' un senso legato esclusivamente al corpo e quindi porta con sé il suo
pericolo: può sponsorizzare una visione materialistica della vita ridotta ai suoi
bisogni primari. Il culto del cibo, infatti, è una specie di idolatria, e San Paolo
attribuisce a questi idolatri il titolo di pagani "il cui dio è il ventre". Questo non vuol
essere un giudizio di condanna della tavola, che invece rimane un'occasione di
condivisione fraterna e simbolo di abbondanza; anche nel Vangelo essere commensali
a una tavola imbandita è simbolo di partecipazione ai beni eterni del Regno
messianico.
Del resto, il possedere un raffinato senso del gusto ha creato una categoria di
persone molto apprezzata e riconosciuta: i buongustai. Così questo senso, un senso
legato alla materialità della vita, ha assunto un significato traslato più nobile,
addirittura spirituale; tanto che, non solo è auspicabile essere persone di "buon
gusto", che hanno il senso delle cose belle, del comportamento appropriato, della
finezza nel discernimento, ma diventa anche un dono dello Spirito Santo: "il gusto
delle cose di Dio", la sapienza, appunto. Dobbiamo considerare perciò una grande
disgrazia "perdere il palato" nelle cose della fede, sentire quasi disgusto delle cose
che riguardano Dio. Ancora San Paolo scriveva che questa insensibilità è una
caratteristica "dell'uomo animale". "Quanto sono dolci al mio palato le tue parole -
esclama invece l'autore dei salmi - più del miele per la mia bocca". 208
Da sempre nella Chiesa, il digiuno, la mortificazione del gusto e della tavola
hanno avuto il significato di una affermazione dello spirito sulla materia, una sorta di
difesa della "leggerezza", della vitalità dello spirito, una libertà dell'intelligenza sul
torpore del corpo. In definitiva, avere buon olfatto e buon gusto è sinonimo di
"conoscenza critica"; conoscenza sensibile, certamente, ma che rimanda a una
capacità di discernimento intellettuale e spirituale che è fondamentale e a volte
determinante nella nostra vita. Poco importa essere buoni conoscitori degli aromi e
dei sapori delle vivande se poi non sappiamo discernere il cattivo odore del
peccato dal profumo delle virtù, il sapore vano delle cose del mondo dalla dolcezza
delle cose di Dio, la felicità illusoria dei beni terreni dalla beatitudine senza fine dei
207
Ct. 1,3
208
Salmo 118,103
109
beni eterni.

119 - L’udito.

Tra i sensi, i più nobili, i più spirituali appaiono senza dubbio l'udito e la
vista. Essi hanno un'importanza enorme nel rapporto interpersonale, perché è
soprattutto attraverso loro che possiamo comunicare gli uni con gli altri. Hanno
infatti la capacità di ricevere dagli altri e di elaborare per gli altri i segni che sono
specificamente destinati alla comunicazione: basta pensare al suono che diventa
parola e alla parola che diventa suono. Senza questi segni ognuno di noi resterebbe
un atomo isolato, chiuso, incapace di una vera crescita come persona. Sappiamo
infatti come la mancanza dell'udito e della vista possa influire sulla personalità stessa
e condizionare o accentuare certi lati del nostro carattere che incidono sul rapporto
interpersonale. Proprio quando essi vengono meno ci rendiamo conto di quanto sono
doni preziosi di cui ringraziare grandemente Dio con l'impegno di usarli per il bene.
L'udito, lo sappiamo, è il senso che avverte i suoni. Enorme è la varietà di
suoni che arriva a noi dal mondo che ci circonda, ma tra tutti c'è un suono
unico, prezioso, immenso nelle sue espressioni: la voce umana. Non c'è in tutto il
creato un suono più melodioso, più amato, più desiderato, più espressivo. La voce è
la persona, e proprio dalla voce la riconosciamo perché ogni persona ha una "sua"
voce. In quella voce ci sono i suoi sentimenti, il suo atteggiamento interiore, i suoi
stati d'animo, le sue passioni: gioia, dolore, tristezza, amore, felicità, rabbia,
tenerezza, c'è il calore o la freddezza del suo cuore. Parliamo della voce, non ancora
della parola; la parola esprime il pensiero, la voce esprime l'animo.
Udire la voce della persona amata è motivo di gioia profonda e di
commozione. "Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi - esclamò
Elisabetta davanti alla Madonna - il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo". 209
E' la stessa gioia che fece trasalire Maddalena quando udì la voce inconfondibile del
Maestro che la chiamava per nome: "Maria!".
Quando poi il nostro animo è assalito da sentimenti più intensi, la nostra voce
si fa canto, melodia. La musica infatti dilata le possibilità della voce, la espande in
dimensioni di profondità e di intensità che accendono bagliori nuovi, irrepetibili,
nella nostra anima. Il canto è due volte preghiera.
L'udito e la parola - la voce - sono intimamente collegati: quando manca
l'udito manca anche la parola; ambedue sono un dono prezioso. Tra i prodigi
compiuti da Gesù, uno dei più applauditi dall'entusiasmo della folla fu la guarigione
del sordomuto: "Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e parlare i muti". 210 e la
Chiesa, dopo il rito del Battesimo, ripetendo il gesto di Gesù, ci fa l'augurio "di
ascoltare presto la Parola (di Dio) e di professare la nostra fede".
Ascoltare la Parola: è l'uso più nobile e più importante che possiamo fare
dell'udito. Però: ascoltare per capire. "Chi ha orecchi, intenda!" ripeteva
frequentemente il Signore. C'è un ascolto interiore senza il quale l'udire non
serve. Ascoltare la parola e accoglierla nel cuore è indispensabile per saper
discernere le voci. Ci sono voci amiche per le quali dobbiamo avere orecchi aperti: la
voce del Sacerdote nella confessione, la voce della Chiesa nel suo insegnamento, la
voce di un amico che ci invita ad avvicinarci a Dio; come pure dobbiamo avere
orecchi aperti alla voce del dolore, alla voce dell'innocenza, alla voce della povertà o
dell'indigenza..; ci sono poi voci nemiche alle quali dobbiamo chiudere gli orecchi:
sono le voci del mondo con le sue lusinghe e le sue menzogne, le voci che parlano
contro Dio e contro la fede, le voci dell'odio, della ribellione, della violenza; le voci
che urlano canzoni indegne, che inquinano l'amore o che parlano contro il prossimo;
209
Lc. 1,44
210
Mc. 7,37
110
le voci che invitano all'infedeltà, al dubbio, alla viltà. "Volta le spalle all'infame che
ti sussurra all'orecchio: "Perché complicarti la vita?". 211 . Per tutte queste voci non
abbiamo orecchi e non vogliamo ascoltare.
Ma la voce più amica, la voce che parla al cuore con forza e dolcezza, è la
voce di Dio. E' una voce senza suono, senza rumore di parole, ma irresistibile; è una
forza divina. E' la presenza viva di Qualcuno che ti chiama, dal quale non puoi
fuggire perché ti insegue sempre e ti raggiunge dovunque, perché non ti abbandona
mai, perché è dentro di te. E non avrai pace finché non gli avrai detto "Si". "Se
ascolti, oggi, la sua voce, non indurire il tuo cuore". 212
Ascoltare la Parola per professare la Fede. Vivere la Fede perché risuoni nel
mondo la Parola. E' il compito affidato agli Apostoli, ed è anche il compito di ogni
cristiano: "Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro
parola". 213 Un cristiano che non parla è una voce spenta nella Chiesa, un muto che ha
bisogno di sentirsi dire dal Signore "Effetà" - Apriti! E se siamo balbuzienti perché
timidi, insicuri, impreparati, dobbiamo almeno far parlare la nostra vita; perché la
fede non può tacere, non può rimanere soffocata. Il comando di Gesù è chiaro:
"Quello che avete ascoltato all'orecchio, predicatelo sui tetti". 214

120 - La vista

Ma il senso che più si avvicina all'intelletto è la vista. Oggetto della vista è la


luce, oggetto dell'intelletto è la verità. Luce e verità sono quasi sinonimi; la loro
analogia corre sul filo di una stretta corrispondenza di significati. Significati le cui
proporzioni non vanno dimenticate: la verità infatti è una luce ben più importante
della vista, così come l'errore è una tenebra ben più temibile e tragica che non la
cecità. Vivere nella verità è vivere nella luce, e per essere figli della luce occorre
farci discepoli di Cristo. Perché Cristo "è la Verità". Noi non saremo mai abbastanza
grati a Dio per averci donato Gesù Cristo, "luce del mondo". Senza di Lui, senza la
sua verità - la verità che viene da Dio - non ci rimangono che i lumi fumiganti del
nostro intelletto, povere lanterne che non valgono a illuminarci il cammino. Deve
starci a cuore la strada della luce: non solo la luce della vista, ma anche la luce
dell'intelletto e ancor più la luce della fede.
Nella luce della vista riverberano le forme, le figure, i colori delle cose; nella
luce dell'intelletto riverberano le sostanze, le essenze, l'essere delle cose, la loro
verità; nella luce della fede riverberano il volto di Dio e le sue meraviglie. "Vedere"
è perciò un termine che si applica sia alla vista che all'intelletto, alla Fede come alla
Gloria (quella Gloria che è "visione" beatifica: "in lumine tuo videbimus lumen, -
nella tua luce vedremo la luce)". 215
Dunque, la "strada della luce": dalla luce degli occhi, alla luce dell'intelletto,
alla luce della fede, alla luce della gloria; è l'ineffabile, inebriante itinerario
dell'uomo. Inutile dire che se non raggiungiamo la meta: la Luce trinitaria, sorgente
di ogni luce, il nostro itinerario resterebbe incompiuto, e sarebbe il fallimento.
Abbiamo accennato alla gloria del cielo, abbiamo anche parlato della fede
come itinerario della nostra vita terrena, e ci fermeremo tra poco sulla conoscenza
intellettuale. Rimane la conoscenza visiva, che è la forma più elementare di
approccio al mondo sensibile; essa coglie del mondo la figura e il colore, e perciò il
suo è un mondo notevolmente ridotto e limitato; sfuggono le profondità di mistero e
la valenza trascendente in esso nascoste, che si rivelano soltanto alla luce della fede.
211
Cammino n. 6
212
Salmo n. 94,8
213
Salmo 18,4
214
Mt. 10,27
215
Salmo n. 35,10
111
Quando manca questa luce si rimane prigionieri di un mondo povero di
significati, il mondo di tanti ecologisti che hanno solo la luce della vista e per i quali
il mondo è semplicemente l'ambiente di vita e di benessere per l'uomo e tutt'al più è
stimolo per emozioni scientifiche o turistiche. Rimane invece vero che la bellezza del
creato apre davanti agli uomini il ventaglio dei suoi splendori che riempiono gli
occhi e deliziano la vista e si presenta come un meraviglioso codice dove Dio ha
scritto a caratteri d'oro e con miniature splendide il suo Nome, la sua potenza, la sua
sapienza, il suo splendore. Gli occhi sono come finestre, possiamo dilatarle con lo
stupore e far entrare dentro di noi la luce del creato perché inondi la nostra mente e
la nostra anima.
Ma può accadere anche che a queste finestre si affacci la nostra vana curiosità,
le nostre voglie malsane, la nostra triste avidità e il nostro io con le sue vampate di
gelosia, di rabbia, di arida indifferenza. Gli occhi sono allora brecce per le nostre
fughe, passaggi segreti per le nostre complicità. David è passato attraverso di loro
per i suoi appuntamenti con il tradimento e con l'omicidio. Del resto Gesù ci ha
ammoniti: "Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio
con lei nel suo cuore". 216 Dobbiamo trasformare i nostri occhi in sentinelle che
proteggano il nostro cuore e ne custodiscano la fedeltà.
Gli occhi non servono solo per vedere, essi anche rivelano. Mai un luogo
comune è stato così vero: "gli occhi sono lo specchio dell'anima". Il nostro
comportamento può mentire ma gli occhi non mentono. Lo sguardo è un testimone
diretto dell'anima; ha il suo stesso linguaggio. Degli occhi si è soliti dire che
piangono, ridono, sono tristi, brillano, sono tenebrosi o limpidi, pieni di stupore, di
attesa, di terrore, di dolcezza, di tenerezza, di rabbia, ecc., esattamente come si parla
dell'animo.
Quando una persona è semplice, pulita, sincera, i suoi occhi sono trasparenti,
luminosi, accoglienti; lo sguardo di un animo contorto difficilmente regge a lungo
alla finzione. Gli "occhi di sfinge", impenetrabili, enigmatici, appartengono alla
leggenda, difficilmente alla realtà, mentre gli occhi di ghiaccio, che non lasciano
trapelare alcuna emozione sono occhi disumani, nascondono la morte. Così, occhi
ambigui sono gli occhi sfuggenti, che temono l'incontro degli sguardi, occhi da
temere quando nascondono ipocrisia o doppiezza, ma occhi che chiedono rispetto
quando esprimono pudore e nascondono l'intimo disarmo della propria fragilità.
Ancora: una meraviglia dal fascino incontenibile sono gli occhi dei bambini, un
meriggio ardente, pieno di sole gli occhi degli innamorati, un grido di pietà gli occhi
velati di un morente, occhi spenti dai quali la vita sta fuggendo e viene la notte. Ma
un dono prezioso, una grazia, sono gli occhi che sanno piangere; gli occhi capaci di
lagrime sono gli occhi più umani, perché capaci di gioia, di dolore, di pentimento, di
contrizione; capaci d'amore.
E finalmente una vera beatitudine sono gli occhi che sanno "vedere" Dio e
cercare le sue orme: "Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete" (...) E' un
vedere ancora velato perché le orme di Dio nella natura e nella storia non sono
ancora il volto di Dio, sono "specchio e mistero" - speculum et aenigma - , e lo stesso
volto di Gesù, il volto più amabile tra tutti i figli dell'uomo, il volto "che molti re e
profeti desiderarono di vedere", il volto che, trasfigurato sul Tabor, ha inebriato di
luce gli occhi di Pietro e di Giovanni, il volto che, sfigurato dal dolore e dall'offesa,
mani dolenti e innamorate hanno accarezzato di pietà e di tenerezza, quel volto è
ancora il volto umano dell'Unigenito, "che è nel seno del Padre" e che nessuno ha
mai visto, ma anche il volto che accende in noi il desiderio e tiene viva l'attesa per il
giorno della sua rivelazione, "quando i nostri occhi vedranno il suo volto, e noi
saremo simili a lui, e canteremo per sempre la sua gloria". 217

216
Mt. 5,29
217
Preghiera Eucaristica III
112
121 - La sensibilità interiore.

Accanto ai sensi esterni e alla loro attività che fornisce notizie e innumerevoli
dati conoscitivi sul mondo esterno, abbiamo accennato all'esistenza di una sensibilità
interiore dove si accumula un'enorme quantità di dati e di esperienze che vanno dalla
percezione particolare e globale della nostra corporeità, alla percezione degli stimoli
istintuali ed emotivi, fino alla percezione degli stati o modi di essere dell'io sotto
forma di sentimenti, di stati d'animo e di affezioni psichiche superiori. E' un mondo
estremamente complesso, difficile da definire e nel quale sensi, fantasia e memoria
hanno ciascuno un ruolo di fondamentale importanza; è il mondo che intelletto e
volontà hanno a disposizione per elaborare la loro attività conoscitiva. La strada
della conoscenza, che parte dal mondo esterno attraverso i sensi, passa
necessariamente attraverso questo mondo interiore che filosofi e psicologi hanno
analizzato e studiato sempre più profondamente.
Del resto, è facile comprendere quale importanza assumono la ricchezza, la
vastità e l'intensità dei dati sensibili e delle corrispondenti sensazioni, quale
substrato necessario all'attività dell'intelletto. Una natura corporea ricca di
sensibilità, cioè capace di cogliere gli infiniti particolari presenti nell'aspetto
esteriore del mondo, dotata di una fantasia fertile, duttile e vivace, che sappia
elaborare la più ampia varietà di fantasmi, fortemente emotiva in grado di far vibrare
intensamente tutta la gamma di sentimenti, sostenuta da una memoria ferrea che
coglie prontamente e trattiene tenacemente il ricordo delle sensazioni e delle
immagini, una natura siffatta è un con-principio ideale per una attività intellettuale
ampia e feconda. Essa va curata, dominata e affinata come si conviene ai doni di Dio,
dei quali dobbiamo rendere conto sapendo che non dobbiamo sprecarli inutilmente o
malamente.
Quanto alla fantasia, essa merita un discorso a parte. Qui basti ricordare la sua
caratteristica specifica: la creatività. Collocata tra i sensi e l'intelletto e a loro
collegata, la fantasia si muove con straordinaria libertà dialogando a tutto campo con
ciascuna delle nostre facoltà. Cosa sarebbe il mondo dell'arte - si pensi alla musica,
alla poesia, alle arti figurative - senza la fantasia e l'immaginazione? Tutta l'attività
estetica, il mondo dell'immaginario, del fantastico, del meraviglioso, il mondo dei
sogni sparirebbe nel buio dell'immobilità e dell'afonia. Quando poi l'attività della
fantasia si coniuga con l'emotività, le risorse del nostro mondo sensibile possono
diventare enormi, esplosive, e possono offrire all'intelletto un mondo senza confini,
sempre in espansione, mai esaurito nella sua profondità. I Santi, come i poeti, hanno
avuto grandi intuizioni e viva immaginazione.

122 - Sensibilità e responsabilità.

Tuttavia a noi importa, qui, l'aspetto di connessione tra la sensibilità e la vita


interiore, e come abbiamo fatto con i sensi esterni vediamo ora l'impatto che possono
avere, soprattutto le espressioni superiori della sensibilità, nella vita dello spirito.
Non c'è dubbio che la conquista del nostro mondo interiore e il dominio su di esso
configura la nostra maturità umana; quanto più l'intelletto guadagna in chiarezza e
quanto più la volontà estende la sua presenza nel mondo della sensibilità, tanto più lo
spirito afferma la propria trascendenza, la propria perfezione intellettuale, morale e
spirituale.
Tutto il materiale psichico del nostro mondo interiore, che costituisce gran
parte di quello che normalmente chiamiamo "il nostro animo", - si parla di stati
d'animo, di moti dell'animo, di sensibilità d'animo, di sentimenti dell'animo ecc. - è il

113
luogo immediato nel quale si muovono le nostre facoltà spirituali, le quali però
hanno su di esso un dominio limitato e relativo. Si dice infatti che noi possiamo
esercitare un controllo soltanto "politico" sul nostro mondo interiore. Ciò significa
innanzitutto che noi non possiamo impedire il sorgere dei moti della sensibilità.
Posso "sentire" antipatia o simpatia senza volerlo, posso "sentire" invidia, avversione
o attrattiva per una persona senza volerlo, così come, senza volerlo, posso "sentirmi"
arido, svogliato, irritato, gioioso o depresso, felice o scontento, e ancora senza
volerlo, posso provare entusiasmo, malanimo, piacere, affetto (innamorarmi) ecc.
Tutti questi moti della sensibilità, in sé stessi, non hanno ancora un significato
morale, non sono passibili di responsabilità - si dice infatti "sentire non è
acconsentire" - e perciò non sono ancora né virtù né peccato. Abbiamo detto "in sé
stessi", perché la responsabilità può esserci nella loro causa, quando cioè abbiamo
provocato o lasciato che vengano provocati questi moti. Oggi, ad esempio, il mondo
della nostra sensibilità è, come non mai, sotto un pesante influsso dei mezzi di
comunicazione sociale, sui quali siamo chiamati ad esercitare un controllo sia di
filtraggio che di critica.
Conosciamo bene il potere e la forza che, attraverso tecniche sempre più
sofisticate, questi mezzi esercitano sui sensi, sulla fantasia e sulle emozioni di
innumerevoli folle di spettatori, così da diventare la fonte più importante e insieme
più efficace di messaggi e di stimoli. Da ciò la tremenda responsabilità connessa
all'uso dei mezzi di comunicazione sociale: dal linguaggio, agli scritti, agli
audiovisivi. Quando si dimentica che sono mezzi, e che dovrebbero servire la verità,
la crescita civile e morale della società, e invece si usano come fine a sé stessi, o
peggio, come strumenti a servizio della menzogna, degli interessi ideologici o di
parte, del guadagno ad ogni costo, e tutto in nome di un presunto "diritto di
informazione", allora i mezzi di comunicazione diventano uno dei peggiori nemici
dell'intelligenza, una delle maggiori cause del degrado intellettuale e culturale della
società. Quanti delitti contro la giustizia, l'onore, la verità, commessi da giornali,
riviste, servizi televisi, e dagli altri mezzi di comunicazione, delitti rimasti impuniti,
vergognosamente protetti da coperture politiche o da omertà professionale, e
ipocritamente giustificati come servizio alla società! Di fronte ad essi dobbiamo
esercitare la libertà di non usarli o di filtrare i loro messaggi non solo per proteggere
la nostra serenità interiore ma anche per non cadere nel pericolo di colpevoli
complicità.
Altrettanto importante, per guadagnare spazio alla coscienza, è sviluppare di
fronte al mondo della sensibilità l'intervento critico della nostra ragione; occorre
razionalizzare i nostri stati psichici per non restarne condizionati o peggio per non
rimanere vittime della loro oscura irrazionalità con le conseguenze di confusione, di
inquietudine, di ansia o di paura che ne derivano e che sono spesso strada alla
nevrosi. Dobbiamo mantenere il più possibile luminoso il nostro mondo interiore
con una sana intelligenza coadiuvata dalla luce soprannaturale della fede.
Non si tratta dunque di sopprimere la sensibilità, di spegnere i moti interiori e
le passioni, come vorrebbero certe dottrine mistiche delle religioni orientali; le nostre
energie psichiche, soprattutto le passioni, sono forze importanti per la nostra vita,
sono una vera ricchezza per la nostra personalità. I grandi uomini, anche i santi,
ebbero grandi passioni. Anzi possiamo dire che gran parte del nostro impegno
morale sta nel dominare le passioni e trasformarle in virtù. E' il cammino
dell'ascetica cristiana.

123 - Finezza d’animo

Questo lavoro ascetico ci porta ad affinare la sensibilità, soprattutto a curare il

114
mondo dei sentimenti e degli affetti nel rapporto con gli altri. A volte la finezza
d'animo è frutto di doti naturali, legate al carattere oppure ad un senso spontaneo di
altruismo, ma non c'è dubbio che la finezza dell'animo è tanto più autentica quanto
più nasce dalla purificazione dei sentimenti da ogni forma di egoismo. La
preoccupazione di sé stessi impedisce l'attenzione verso gli altri e indurisce la
sensibilità.
C'è poi una virtù che più di ogni altra affina i moti dell'anima, la virtù
della mansuetudine. La mansuetudine infatti, da una parte purifica i nostri
sentimenti da ogni aggressività e da ogni asprezza, e dall'altra ci rende capaci di
avvertire i messaggi che ci giungono dal mondo interiore degli altri e di cogliere il
loro linguaggio personale. Spesso si tratta di segni di piccola entità: il tono della
voce, i gesti, l'espressione del volto e tutte le forme del linguaggio sonoro-visivo di
una persona il cui significato e la cui profondità sono percepibili solo là dove c'è
finezza di attenzione.
Sta di fatto che una delle accuse che nessuno vorrebbe sentirsi dire è quella di
essere una persona insensibile, chiusa alle vicende altrui, incapace di avvertire le
situazioni delle persone e di partecipare alle loro sofferenze, alle loro difficoltà e alle
loro gioie. Mancare di sensibilità, avere un animo arido o duro è sinonimo di
disumano. Se pensiamo all'ampiezza della nostra vita di relazione, la famiglia, gli
ambienti di lavoro, le attività pubbliche e sociali, le amicizie ecc., ci rendiamo conto
di quale importanza abbia la sensibilità d'animo per la nostra capacità di dialogo e di
convivenza. Prendiamo l'ambiente della famiglia: la sensibilità d'animo ci renderà
capaci di tanti gesti di servizio, di attenzione a tante piccole cose che hanno il segno
della gratuità e che rendono gradevole la vita agli altri: il sorriso amabile, il
comportamento allegro e ottimista, dettagli di pazienza, di ordine, di delicatezza.
Anche nella convivenza coniugale i coniugi cristiani, mentre non devono
temere di dirsi con gesti di tenerezza e con espressioni di affettuosa intimità che si
vogliono bene, devono anche affinare la loro sensibilità, devono curare quella nobiltà
d'animo e finezza di sentimenti che impediscono al loro amore di degenerare in
volgarità, dove non hanno più senso né il valore della persona, né la gratuità del
dono.

IL SENSIBILE NELLA LITURGIA

124 - Il rito sacramentale.

Ma c'è, nell'esperienza sensibile un aspetto che riveste una fondamentale


importanza: la sua dimensione simbolica. Il simbolismo fa parte del linguaggio delle
cose, e fa parte anche del linguaggio umano. La parola, infatti, è segno del pensiero.
Del resto non dobbiamo dimenticare che tutto il mondo materiale ha il carattere di
"segno". Le cose hanno una loro verità "letterale", una consistenza ontologica che va
rispettata e alla quale l'intelletto accede attraverso il dato sensibile, ma anche hanno
una loro verità "simbolica", verità-mistero, hanno cioè una valenza trascendente che
rimanda ad altre verità, in ultima analisi rimanda al mistero di Dio; di quelle verità
Dio stesso si serve per rivelarsi all'uomo. Il capitolo sul simbolismo che caratterizza
tutta la realtà visibile e trova nel linguaggio umano la sua espressione più alta e
originale, costituisce uno dei capitoli fondamentali dell'antropologia attuale. Ma un
campo dove il linguaggio simbolico assume particolare importanza è il campo della
religiosità umana che, per noi cristiani, ha nei Sacramenti e nella Liturgia della

115
Chiesa la sua espressione più importante.
La Liturgia, infatti, si serve di riti fortemente simbolici; essi attraverso lo
splendore del loro linguaggio sensibile parlano all'intelligenza e con l'efficacia
della loro azione soprannaturale operano nell'anima. Non c'è dubbio che nella
Liturgia della Chiesa, soprattutto nella liturgia sacramentale, il linguaggio simbolico
raggiunge l'apice dello splendore e della completezza. Basterebbe scorrere la
terminologia usata nei testi liturgici per rendersi conto della ricchezza e varietà di
significati simbolici che essa contiene.
Ma soprattutto è nella struttura del rito sacramentale che il linguaggio dei
segni assume un ruolo fondamentale. Infatti, già come segno "sensibile" il rito
sacramentale si presenta costituito da materia, forma e ministro. La "materia" del
Sacramento sono le cose materiali che si usano nel rito; esse sono significative degli
effetti spirituali operati dal Sacramento. Così, il pane e il vino sono "materia"
dell'Eucaristia e sono significativi del Corpo e del Sangue di Cristo; in quei segni
sacramentali egli si renderà presente realmente e sostanzialmente. Così l'acqua
battesimale, che è segno della purificazione dal peccato e della nascita alla vita
divina, costituisce la materia del Sacramento del Battesimo, e proprio mediante
l'acqua il Battesimo produce realmente i suoi effetti spirituali. E la stessa cosa si
potrebbe dire degli altri Sacramenti.
Ma è necessario che la materia diventi sacramento per produrre realmente
quello che significa; per questo occorre l'intervento di Cristo. Per opera dello Spirito
Santo e a mezzo del ministro, Cristo dà forza soprannaturale alle parole che il
ministro pronuncia. Sono le parole che chiamiamo "forma" del Sacramento perché
trasformano la materia, che prima era solo segno significante, in segno efficace della
Grazia. I Sacramenti sono dunque interventi di Dio nella nostra anima, sono
azioni di Cristo che, attraverso il rito sensibile, ci comunica la salvezza. Essi
sono stati affidati da Cristo alla sua Chiesa, e perciò soltanto lei può intervenire sul
rito, sia per conservare la significanza originaria dei gesti e dei segni, sia per
impedire che esso fossilizzi nella sua struttura e diventi illeggibile nel mutevole
linguaggio simbolico dei vari popoli e delle varie culture.
Dunque: cose materiali, gesti, parole pronunciate dal ministro, costituiscono
l'aspetto fortemente sensibile della liturgia, la quale, attraverso il rito, ha lo scopo di
muovere l'intelligenza alla fede e di disporre l'anima a ricevere la grazia. In nessun
altro campo della vita umana, la conoscenza sensibile è chiamata ad un ruolo
così alto e importante come questo che riguarda il culto di Dio e la salvezza
dell'uomo. Tutto questo giustifica l'atteggiamento della Chiesa che è sempre stato di
grande rispetto e di gelosa attenzione verso i segni e i riti della Liturgia. Essa, con
grande sensibilità, finezza umana e soprannaturale, ha sempre coniugato la solennità
e la preziosità di quanto concerne la liturgia con la semplicità e il rigore, senza mai
cedere alla sciatteria, al cattivo gusto o alla volgarità. Esiste un linguaggio liturgico
che va rispettato e non può essere aggiornato col “politichese” o con il gergo
giornalistico; così come esiste un canto liturgico ben definito come genere musicale e
che non può essere mutuato dai cantautori o scambiato con i repertori da discoteca.
Esiste infine una suppellettile liturgica e un abbigliamento liturgico la cui semplicità
e linearità non deve impedire la solennità e la preziosità decorativa.

125 - Liturgia e fede.

La liturgia deve parlare ai sensi, ma con un linguaggio che raggiunge il cuore e


116
l'intelligenza per aprirli alla fede e all'incontro con Dio. La Liturgia ha sempre svolto
in questo senso un importante ed efficacissimo lavoro di catechesi. Anche qui: fides
ex auditu, la fede dipende dalla predicazione e perciò passa attraverso i sensi. Gesù
stesso è stato, sotto questo aspetto, un finissimo pedagogo. Le parabole del suo
Vangelo, le immagini, i simboli, i riferimenti a cose concrete che sono abitualmente
sotto gli occhi di tutti e che appartengono alla vita reale di tutti i giorni, sono
l'ingrediente didattico costante nella sua predicazione. Questo criterio seguito da
Gesù nel suo insegnamento, è stato da lui adottato in modo ancor più evidente nella
istituzione dei Sacramenti: in essi, come abbiamo visto, la struttura rituale rispetta e
si armonizza con la nostra natura di esseri umani, spirituali e corporei insieme, e
inoltre i segni, le cose, i gesti usati nel rito sacramentale sono così semplici e naturali
da essere universali; hanno cioè un linguaggio accessibile agli uomini di tutti i tempi
e di tutte le culture.
La Liturgia non è dunque un insieme di cerimonie esclusivamente
commemorative alla maniera delle ricorrenze umane. Essa celebra e attualizza i gesti
compiuti da Dio stesso nella storia della salvezza, dall'Antico Testamento fino
all'evento salvifico culminante: Gesù Cristo. Si continua così nel tempo in un modo
assolutamente nuovo e unico, in un modo appunto sacramentale, la Storia Sacra
coniugata con la storia profana, la storia di Dio e la storia degli uomini; esse
s’intrecciano fino a costituire il grande poema dei "magnalia Dei", le meraviglie di
Dio. Per questo la Liturgia non può mai essere alla mercé di celebranti
improvvisatori o di assemblee che si ritengono ispirate, non dovrà mai scadere nella
banalità di certe iniziative individuali; al contrario, si ispirerà alla solennità, alla
intensità poetica e alla drammaticità degli eventi compiuti da Dio per la salvezza
degli uomini.
Non è facile capire fino in fondo il significato della Liturgia e il valore dei
Sacramenti, ma se non arriviamo a questa comprensione difficilmente potremo capire
il mistero di Cristo e della Chiesa, e comunque, non sarà possibile la vita cristiana.
Come la fede passa attraverso i sensi con la predicazione - fides ex auditu
- così la Grazia passa attraverso segni materiali e sensibili con i Sacramenti. E'
facile trovare in persone "intellettuali" una certa ritrosia, una difficoltà psicologica a
partecipare ai Sacramenti. Considerano il rapporto con Dio un fatto di pura ragione,
un’attività riservata soltanto allo spirito, e relegano i Sacramenti, e in genere tutte le
forme rituali, tra le espressioni di una religiosità immatura ed elementare, adatta al
popolo. Sono coloro che, nell'antichità, si scandalizzavano dell'Incarnazione e
ritenevano indecoroso per il Figlio di Dio prendere un corpo materiale nel grembo di
una donna, così come i "segni" compiuti da Dio nell'Antico Testamento per indicare
la salvezza da Lui operata, sono giudicati come forme popolari di intendere ed
esprimere la potenza di Dio.
Invece, "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete" - dirà il Signore. 218
Senza dubbio Gesù allude qui alla beatitudine dell'anima, e gli "occhi" sono le
facoltà spirituali mediante le quali "vediamo" il mistero divino che è presente e che
opera in Cristo, quel mistero che Re e Profeti hanno atteso per secoli e per il quale
Abramo "esultò di gioia nel vederlo" realizzato.

126 - La conoscenza sensibile nella Vita Eterna.

Tuttavia, l'espressione di Gesù che è stata citata è troppo concreta e troppo

218
Lc. 10,23
117
materiale per non vederci anche un significato corporeo e sensibile. Circola un detto
popolare che "Anche l'occhio vuole la sua parte". E' perciò lecito e anche coerente
pensare ad una felicità propria dei sensi quando essi percepiscono l'aspetto sensibile
delle persone e delle cose amate, le loro qualità fisiche ed estetiche. Pensiamo alla
gioia fisica di chi, vittima di un sequestro, dopo mesi di prigionia nel buio di una
cella esce alla luce; non solo i suoi occhi, ma anche la sua pelle, i suoi muscoli, tutto
il suo corpo vibra come se esultasse immergendosi nella luce, nella brezza, nel sole.
E' una gioia fisica che sarebbe più giusto chiamare "piacere", perché è uno stato di
benessere sensibile, diffuso, che, in certo modo, possiamo definire, gioia. Quante
volte è stato detto che il volto della persona amata è delizia dei nostri occhi, così
come la carezza, l'abbraccio, il profumo della persona che si ama, dà un senso di
appagamento sensibile, come se un fremito di gioia percorresse il nostro corpo. Del
resto, tutti conosciamo le struggenti invocazioni dei salmi: vultum tuum, Domine! Il
tuo volto, o Signore, io cerco , il tuo volto!
Non c'è dubbio che nella vita eterna anche i sensi parteciperanno alla
felicità dell'anima. Una luce e una bellezza nuove inonderanno l'universo, il volto
divenuto splendido delle persone amate e le loro sembianze trasfigurate dalla gloria
contribuiranno alla nostra felicità sostanziale, quella cioè data dalla contemplazione
del volto di Dio e dall'essere immersi nella luce della sua vita divina. Conosceremo
la vera "estasi dei sensi" i quali saranno capaci di percepire la nuove qualità dei corpi
glorificati. I colori, le melodie, le forme dell'universo glorificato si dispiegheranno ai
nostri sensi in un’esaltante sinfonia di felicità. Cesseranno, si, i piaceri sensibili
legati alla nostra condizione terrena: quelli della sessualità, essendo essa finalizzata
alla riproduzione per la conservazione della specie, e quelli della tavola, essendo il
cibo legato alla nutrizione secondo il ciclo biologico del nostro organismo. "Alla
risurrezione, .- disse Gesù - non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli
nel cielo". 219 Ci saranno invece sensazioni nuove, sublimi, indescrivibili, proprie di
una sensibilità trasfigurata, che non conosce più la precarietà, i condizionamenti, le
innumerevoli limitatezze della attuale condizione terrena. San Paolo ci ricorda:
"quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d'uomo,
queste Dio ha preparato per coloro che lo amano". 220

SENSI E INTELLETTO

127 - Conoscenza sensibile e conoscenza intellettiva.

Ma torniamo alla nostra condizione attuale. Dopo aver visto il ruolo e


l'importanza della conoscenza sensibile, giova ora vederne i limiti che possono
diventare un pericolo alla vita dello spirito. La conoscenza sensitiva è comune agli
uomini e agli animali, ma negli uni e negli altri essa possiede una struttura e un
significato diversi. Nell'animale la conoscenza sensibile ha una struttura chiusa, è
cioè fine a sé stessa, legata agli istinti della conservazione dell'individuo e della
specie. Essa raggiunge le cose nella loro materialità, nella loro forma esteriore e nel
loro aspetto particolare. Nell'uomo la conoscenza sensibile ha una struttura aperta, è
finalizzata alla forma più alta di conoscenza, quella intellettiva. La conoscenza
sensibile è dunque una via di passaggio; attraverso di essa le cose del mondo

219
Mt. 22,30
220
1 Cor. 2,9
118
materiale entrano in noi e trasformate nelle rispettive immagini, vengono offerte
all'intelletto. Esso le "legge" in profondità, (intus-legit) e raggiunge ciò che di
universale ed essenziale esse contengono.
Dire che la nostra conoscenza è sensitivo-intellettiva significa dunque
affermare che c'è continuità fra la conoscenza sensibile e la conoscenza intellettuale
ma non identità. La conoscenza sensibile è una conoscenza materiale, quella
intellettuale è una conoscenza immateriale. E', questa, una conseguenza e perciò
anche una prova che l'anima dell'uomo è una sostanza non materiale di natura
intellettuale. Perciò dicevamo che l'intelletto umano è una "scintilla" divina, una luce
interiore che rende l'essere umano autotrasparente. Al contrario, la conoscenza dei
sensi è, per sua natura, limitata e superficiale, e la nostra stessa sensibilità interiore,
cioè il mondo dei sentimenti e degli stati d'animo, rappresenta la zona periferica
della nostra persona.
Queste caratteristiche possono nascondere qualche insidia per la nostra vita
interiore. Se, ad esempio, la conoscenza sensibile non si apre alla intenzionalità
oppure se la nostra sensibilità si chiude e si ripiega su sé stessa, allora il livello della
nostra vita spirituale va progressivamente abbassandosi, fino ad immiserirsi in una
vita "animale". Chi poi possiede una sensibilità esuberante, una istintività prepotente,
ha bisogno più degli altri di esercitare l'intelligenza, di curarla e di fortificarla. Il
prevalere degli istinti e dell'emotività si verifica più facilmente là dove l'intelligenza
è povera, o si è fatta debole. Spetta certamente alla volontà dominare la sensibilità e
le forze istintuali, ma la volontà è la facoltà operativa propria dell'intelligenza (i
filosofi la chiamano "appetito razionale"); per cui non esistono volontà "deboli" o
"forti", ma volontà debolmente o fortemente illuminate e orientate dalla "forza"
spirituale dell'intelletto.

128 - Il sub-cosciente e la vita dello spirito.

Nel mondo animale gli istinti e gli appetiti naturali sono fondamentalmente
ordinati in sé stessi e autoregolati. La natura animale, infatti, ha le sue leggi con sé e
l'animale ne è condizionato, le segue deterministicamente e ciecamente. Nell'uomo,
invece, il complesso mondo dove agiscono i sensi e gli istinti, è un mondo acefalo,
non ha in sé stesso le leggi per autoregolarsi e comporsi nell'ordine suo proprio. La
sensibilità infatti e le forze che da essa dipendono, vengono ordinate dall'intelletto,
hanno nella ragione il loro principio ordinatore. Perciò in noi il mondo della
sensibilità con le sue spinte è quello che maggiormente risente del disordine
introdotto nel mondo dal peccato.
Inoltre se pensiamo che non tutte le sensazioni, non tutti i moti della istintività
e nemmeno tutte le esperienze emotive arrivano al livello della coscienza e perciò
sfuggono al controllo diretto delle nostre facoltà spirituali - intelletto e volontà -, ci
rendiamo conto a quale spessore può arrivare il nostro subcosciente dove vanno
accumulandosi le cose più disparate, spesso conflittuali, dai contorni sempre
inafferrabili ed oscuri. Si va formando così, una specie di "cantina" dell'anima,
abitata, come tutte le cantine, dagli esseri più strani: spettri, fantasmi, ragni, topi,
pipistrelli... E quando questi abitatori della nostra cantina interiore si muovono,
litigano o si scatenano, il loro rumore può arrivare a disturbare tremendamente i
piani superiori della nostra personalità dove già può essere problematico e faticoso il
dialogo tra le facoltà spirituali e i vari contenuti della coscienza.
Nei casi patologici, che qui non ci riguardano, è indispensabile il lavoro del
medico-psicologo. Ma anche nella condizione normale è necessario un paziente e
deciso lavoro spirituale affinché tutto il nostro mondo sensitivo-emotivo sia
illuminato da una retta intelligenza e dominato da una sana volontà. Non è quindi
lecito abbandonare a sé stessi i sensi e gli istinti perché sarebbe condannarli al
119
disordine e al caos. Razionalizzare il nostro mondo sensitivo-emotivo - lo abbiamo
già ricordato - non signfica spegnerlo, neutralizzarlo o peggio sopprimerlo come
avviene in certe filosofie pagane, come lo stoicismo, o in certe correnti ascetico-
mistiche delle religioni orientali. Le "passioni", dicevamo, sono una forza della
nostra natura e costituiscono una ricchezza della nostra personalità. S.Giovanni,
S.Paolo, S.Agostino, Francesco D'Assisi, Teresa D'Avila, Ignazio di Loyola, Caterina
da Siena e tanti altri sono state anime grandi anche perché sostenute e pervase da
grandi passioni. Le forze vanno dominate, incanalate e orientate, non soppresse.
Pensiamo alla regina di tutte le passioni: l'amore. Intendiamo qui l'aspetto
sensibile ed emotivo dell'amore; l'amore infatti è una virtù dello spirito: si ama con
l'anima, ma essa coinvolge profondamente e a volte tempestosamente il mondo della
sensibilità, fa cioè risuonare più o meno intensamente il cuore. "Ora, il nostro cuore
è nato per amare, e quando non gli viene dato un affetto puro, limpido e nobile, si
vendica e si riempie di miseria. (...) E' una pena non avere cuore. Sono infelici
quelli che non hanno mai appreso ad amare con tenerezza. Noi cristiani siamo
innamorati dell'Amore: il Signore non ci vuole freddi, rigidi, come materia
insensibile. Ci vuole impregnati del suo affetto". 221

129 - Sensibilità e libertà.

Quando l'intelletto è debole perché povero o perché non coltivato, gli viene a
mancare la forza di seguire la sua natura trascendente e finisce inevitabilmente
prigioniero dei sensi e degli stati d'animo o addirittura viene imbrigliato dagli istinti
bruti; e la sua condizione diventa miserevole.
Narra il Beato Josemaria Escrivà di aver visto un giorno "un'aquila chiusa in
una gabbia di ferro. Era sporca e spennacchiata; aveva tra gli artigli un pezzo di
carne putrida... Sentii pena per quell'animale solitario e prigioniero che pure era nato
per volare in alto e guardare faccia a faccia il sole". 222 Egli applica questa immagine
alla nostra anima quando resta prigioniera della mediocrità, quando restringe i suoi
orizzonti a prospettive puramente terrene, banali, mondane. Ma potremmo anche
pensare alla condizione della nostra intelligenza quando rimane prigioniera dei sensi,
ingabbiata dagli istinti, insabbiata nella sensibilità.
L'intelligenza in queste condizioni è "un'aquila spennacchiata" incapace di
formulare il minimo slancio verso le vette del pensiero e verso le altezze dello
spirito; si ciba di carni putride: errori, menzogne, ideologie mondane che proliferano
i germi della violenza e della rivoluzione; si riduce torpida, con le pupille inferme e
velate, incapaci di fissare il sole della verità, di penetrare la luce della
contemplazione. E' questa, purtroppo, la condizione intellettuale di tanta gente del
nostro tempo, di tanti "intellettuali" che hanno perduto la vera libertà di pensiero,
irretiti dentro una visione puramente materialistica della vita, o condizionati dalla
mentalità edonistica e consumistica.
I sensi sono buoni testimoni della realtà delle cose, ma non della loro
verità. E quando l'intelligenza si lascia condizionare dalla sensibilità e domanda ad
essa il giudizio di verità, abdica alla sua funzione e apre la strada al soggettivismo
più banale. Tanti slogans che corrono nel linguaggio della cultura attuale,
(esaltante!.. sensazionale! ...eccitante!...ecc.) sono espressioni di questo
atteggiamento. E' importante - si dice - non che una cosa sia vera, ma che sia
"sentita". Spesso si usano i due termini: "vera" e "sentita" come sinonimi; una cosa
è vera quando è sentita. Ha qui la sua radice il fanatismo collettivo, (vedi i concerti
rock), ed è questo il criterio di tanti falsi giudizi di valore che dominano la mentalità
corrente.
221
Beato J. Escrivà, Amici di Dio, n. 183
222
Beato J. Escrivà, E' Gesù che passa, n. 11
120
130 - Sensibilità e giudizio morale.

A questa situazione di condizionamento intellettuale che mortifica la nostra


intelligenza corrisponde una situazione di schiavitù morale che condiziona la nostra
coscienza. Compito della coscienza è giudicare in concreto sul bene e sul male, cioè
applicare al nostro comportamento il criterio della legge morale. Ora il giudizio è un
atto proprio dell'intelletto e quando l'intelletto perde la sua libertà originaria, il suo
giudizio resterà condizionato da criteri estranei alla legge morale.
La legge morale è emanazione della verità delle cose (legge naturale), e
non può essere sostituita dal criterio soggettivo della sensibilità. In tal caso, la
coscienza scade dal suo ruolo di luce interiore, di guida sicura e affidabile nella vita
morale, subisce la violenza delle forze inferiori, cieche e disordinate, o viene
sostituita dagli stati emotivi e dalla sensibilità. Ci ricordiamo delle parole di Gesù:
"Se la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!" 223 Perciò,
presupposto necessario perché la nostra intelligenza attinga la verità e la nostra
coscienza colga il bene morale, è la convizione che la verità e il bene sono categorie
che trascendono l'esperienza sensibile e non sono riducibili a stati d'animo più o
meno intensi, legati alla nostra sensibilità.
Le conseguenze di questo disordine le vediamo, ad esempio, nel campo del
comportamento sessuale. E' convinzione diffusa, soprattutto nel mondo giovanile,
che un rapporto sessuale non va giudicato in base a una legge morale ma in base alla
sincerità dei sentimenti. Perciò si pensa che un rapporto sessuale, quando sia un
"atto d'amore" e fatto "per amore", va giudicato sempre lecito, anzi giusto, non
importa se compiuto prima del matrimonio o fuori del matrimonio, e nemmeno ha
importanza che quell'atto sia o no aperto alla vita, purché in quel momento ci sia la
"sincerità" dell'amore. Questo è un grave errore morale; e insieme è un falso
ideologico perché confonde la "sincerità dell'amore", che appartiene ai sentimenti
soggettivi, con la "verità dell'amore" che appartiene alla natura delle cose. Da qui
all'anarchia sessuale dei nostri giorni la strada è aperta.
Analogamente viene giudicato un atto mostruoso ed orribile torturare o
strozzare un bambino in tenera età, (colpisce infatti intensamente la nostra emotività)
ma dilaniare un bambino nel seno materno con l'aborto, poiché tutto avviene nel
silenzio e nel buio del grembo materno per cui non viene «offesa» la nostra
sensibilità (i medici si guardano bene dal mostrare alla madre i "resti" della sua
creatura), viene giudicato un atto di libertà e a volte un atto umanitario. Allo stesso
modo, la preghiera, la partecipazione alla Messa, la Comunione eucaristica, quando
non siano "sentite", cioè accompagnate dal fervore sensibile e dal trasporto emotivo,
vengono giudicate come una ipocrisia. E così molte altre cose; esse appaiono più o
meno importanti secondo l'incidenza che hanno sulla nostra sensibilità.

131 - Sensibilità e religiosità.

Un pericolo analogo si può verificare nella vita liturgica. Abbiamo ricordato


quanta importanza abbia il rito sacramentale come segno sensibile; esso deve parlare
ai sensi ma deve al tempo stesso raggiungere l'anima. Ogni sacramento è costituito da
un suo particolare rito liturgico, ma in quel rito si fa presente l'azione salvifica di
Cristo che agisce nella nostra anima. Quando la nostra intelligenza è poco formata
nella dottrina o non è sostenuta dalla luce della fede, facilmente perderà di vista il
mistero che si compie nel Sacramento e darà importanza esclusivamente al rito.
223
Mt. 6,23
121
Allora, una Messa che non sia "animata", "partecipata", "coinvolgente", può lasciare
indifferenti o perderà molto del suo interesse. Il rito, più che dirigersi all'anima per
facilitare l'incontro con Dio, servirà soprattutto per suscitare emozioni, provocare
entusiasmi, appagare vanità. Allora si corre il rischio di non saper vedere ciò che
fa Cristo nella Messa, - è Lui la Vittima, è Lui il Sacerdote, è Lui che fa di noi
una "Chiesa che celebra" - ma di fermarsi esclusivamente a ciò che fa
l'assemblea, con i suoi strumenti, i suoi gesti, le sue azioni.
Abbiamo già detto che la Chiesa ha sempre dato molta importanza al rito
liturgico ed ha avuto molta cura per il suo svolgimento, ora splendido e ora austero,
ma sempre solenne; tuttavia, ci ricorda continuamente che nessun rito, per quanto
intenso e commovente nella sua solennità, può sostituire la nostra fede, e che
l'efficacia e i frutti di un rito liturgico-sacramentale dipendono dalle disposizioni
interiori di umiltà, di fede, di purezza di coscienza e di amore di Dio che muovono
colui che vi partecipa. Non dimentichiamo che nell'azione liturgica il rito è un
mezzo, e il mistero che vi si compie è il fine. E quando il mezzo prende il posto del
fine, non viene più rispettata la verità delle cose e si apre la strada all'inganno e alla
magia. La magia, infatti, attribuisce al rito ciò che è proprio di Dio, il suo intervento
soprannaturale di salvezza. Allo stesso modo nascono la superstizione e il bigottismo,
espressioni in cui il sensibile condiziona e soffoca la dimensione spirituale e
soprannaturale della religiosità.
E' necessario ridare forza all'anima, restituire ruolo all'intelligenza, sostenerla
e illuminarla con la fede. E' necessario che la coscienza, integra e forte, riprenda il
suo posto di garante della legge morale, di "voce di Dio" che si pone come guida nel
nostro cammino, di luce che veglia sul nostro comportamento di esseri liberi,
chiamati a realizzare la verità nel bene.
Senza una intelligenza forte e una fede luminosa, senza una coscienza "libera",
la visione materialistica della vita, che caratterizza la nostra cultura contemporanea,
continuerà ad imporre la tirannia dei sensi, il disordine delle passioni, la cieca
violenza dell'edonismo. La liberazione dell'uomo comincia dalla liberazione della sua
intelligenza, liberazione dall'ignoranza e dall'errore ma anche liberazione dalle
ideologie e dal caos informe della sensitività. Senza questa libertà è impossibile
ricomporre l'ordine e l'armonia interiore dell'uomo.

132 - Verità delle cose e Verità dell’intelletto.

Abbiamo visto che l'intelletto è come il sigillo di Dio nell'uomo. E' una luce
interiore con cui l'uomo illumina le cose e le può cogliere nel loro essere e nella loro
natura profonda, nella loro identità. Abbiamo anche visto che l'essere delle cose si
identifica con la loro verità e perciò la verità è l'oggetto proprio dell'intelletto
umano. Di conseguenza l'incontro reale della nostra intelligenza con la verità delle
cose rende partecipe della verità stessa il nostro intelletto. C'è dunque una verità
nelle cose e una verità nell'intelletto. Quest'ultima è per noi fondamentale perché
riguarda la validità dell'itinerario conoscitivo della nostra intelligenza. La verità
delle cose non dipende da noi, dipende invece da noi la verità dell'intelletto.
L'adesione dell'intelletto alla verità delle cose è un atto di assoluta importanza; da
esso dipende non solo la validità del nostro pensiero ma anche il senso che assumerà
la nostra vita e tutto il nostro comportamento su questa terra. Non è la stessa cosa
che la nostra esistenza scorra nella verità oppure nell'errore, nella luce o nella
menzogna.
Aderire intellettualmente alla verità delle cose non solo rende vera la
nostra conoscenza ma permette l'itinerario della nostra mente verso Dio. E'
percorrendo la strada degli esseri finiti che essa giunge all'Essere-senza limiti, a
Colui che è, senza principio e senza fine, Eterno, Onnipotente, Assoluto. Non solo,
122
ma diventa anche possibile incontrare Dio in Colui che l'ha rivelato nel tempo e nella
storia, il Signore Gesù. Egli ha potuto affermare: "Io sono la luce del mondo, chi
segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita". 224
Queste parole di Cristo sono la conferma che la verità dell'intelletto dipende
da noi. Aderire alla Verità non è un atto puramente conoscitivo, solamente
intellettuale; esso coinvolge tutta la nostra persona, è perciò un atto morale. Si parla
infatti di "culto della Verità". Il culto implica l'offerta della nostra libertà a ciò che le
è superiore, in definitiva è l'omaggio della nostra persona a Colui che è la Verità, la
Verità somma e assoluta. Dicevamo, infatti, che Dio è la pienezza della verità
perché è la pienezza dell'essere. Perciò conoscere Dio e servirlo è per l'uomo il
massimo dell'onore e della grandezza, ed è anche decisivo per il suo destino e per la
sua felicità.

IL "TRIPLICE" INTELLETTO

A) INTELLETTO SPECULATIVO

133 - Che cos’è l’Intelletto speculativo

Non c'è dubbio che oggi, nella nostra cultura occidentale, la grande malata è
l'intelligenza. In tutte le epoche storiche, anche per le civiltà come per l'individuo
umano, l'oscurarsi dell'intelligenza è sintomo di vecchiaia. Ormai da più parti si
sta invocando e pensando a una nuova civiltà per il terzo millennio: dovrà essere la
"Civiltà della Verità". E' ormai il momento di chiudere la nostra epoca, l'epoca triste
della vecchia Europa: l'Europa delle ideologie, delle verità impazzite, del pensiero
debole; l'Europa delle menzogne. Nel pensiero dell'apostolo S.Giovanni, l'apostolo
della verità e dell'amore, ciò che si contrappone alla verità non è l'errore ma la
menzogna. Perciò, una rinascita della cultura occidentale non può cominciare che
dalla rinascita dell'intelligenza: occorre ricuperarla a sé stessa e alla verità, occorre
liberarla dalla sua condizione penosa e triste di "aquila spennacchiata", prigioniera
tra le sbarre della falsità e della menzogna, e restituirla al suo ruolo primario nella
vita della persona e della società.
La diagnosi clinica di questa illustre malata richiede una anamnesi di secoli
che peraltro vari specialisti hanno già fatto con ampiezza di ricerche e con rigore di
competenza. Noi fermiamo l'attenzione su noi stessi, allo scopo di individuare
eventuali contagi del male e adottare opportune terapie, perché conservare sana la
nostra mente vale più di ogni altro bene materiale o corporale.
Per facilitare la nostra riflessione possiamo distinguere tre aspetti
dell'intelletto umano secondo la triplice attività che esso svolge, attività che
possiamo collegare, sul piano soprannaturale, alle tre virtù teologali. Parleremo,
dunque, di un intelletto ascendente per la sua attività speculativa (intelletto
speculativo): la sua forza è la virtù della fede; di un intelletto discendente per la sua
attività pratica (intelletto pratico): la sua forza è la virtù della speranza; di un
intelletto "immobile" per la sua attività contemplativa (intelletto contemplativo): la
sua forza è l'Amore.
a) Intelletto speculativo. E' l'intelletto che svolge la sua attività in ordine
soprattutto alla conoscenza teorica. Nascono da questa attività: le scienze, la filosofia
224
Gv. 8,12
123
speculativa e la teologia. E' l'attività primaria dell'intelletto, che in questo caso
abbiamo chiamato intelletto ascendente. Dicevamo che l'oggetto di questa
conoscenza speculativa è la verità, e la verità non ha limiti perché anche l'essere più
semplice, il più limitato nella sostanza partecipa all'infinità dell'Essere, a Dio. Perciò
l'intelletto speculativo può penetrare sempre più profondamente nella natura delle
cose e salendo la scala degli esseri arriva a perdersi nel mistero di Dio, nell'infinita
grandezza della Verità.
Ecco perché la caratteristica fondamentale dell'intelletto speculativo è
l'insaziabilità. Un desiderio insaziabile di conoscere, una sete mai spenta di indagare
spinge l'intelletto umano a sempre più luminose conquiste. L'insaziabilità
speculativa, insieme al desiderio di felicità, è una delle inquietudini più nobili
dell'animo umano, una insonnia invincibile dello spirito; è perciò una prova di tipo
esistenziale ma validissima dell'esistenza di Dio e della spiritualità dell'anima.
Questa nostalgia di sapere, questo bisogno di verità, l'uomo se lo porta dentro
da sempre e se lo trascina dietro per tutta la vita. Ecco perché la carenza colpevole di
intelligenza, intesa come rifiuto di usare l'intelletto, è uno dei mali più tristi e
purtroppo più diffusi del nostro tempo. Troppa gente non usa affatto l'intelligenza
perché condizionata quasi totalmente dal consumismo conformista e dall'edonismo
imperante che trovano i loro adepti più sprovveduti e incolpevoli nelle masse
giovanili, mentre contano i loro adepti più tristi in larghi strati di adulti. Il vuoto
interiore e la carenza di senso esistenziale sono prima di tutto un fallimento
dell'intelligenza che, rinunciando alla nobile avventura della verità, ha portato, come
conseguenza, ad una pusillanimità morale di fronte alla vita.

134 - Un nemico della fede: l’ignoranza

Il non uso dell'intelligenza ha la sua forma più grave e pericolosa nella


trascuratezza o peggio nel rifiuto di coltivare la propria formazione dottrinale
attraverso lo studio e gli altri mezzi appropriati e idonei. E' grave perché porta
all'ignoranza colpevole della verità. L'ignoranza è il peggior nemico della Fede;
sul vuoto creato dall'ignoranza proliferano gli errori, i pregiudizi, le
superstizioni, le presunzioni.
Abbiamo detto ignoranza colpevole. Nell'uomo la conoscenza non è né infusa,
né intuitiva; è acquisita. Abbiamo perciò bisogno dello studio, dell'istruzione.
Trascurare i mezzi che abbiamo a disposizione, o quelli che potremmo avere anche
con sacrificio per la nostra formazione dottrinale, sia nella professione e ancor più
nella fede, diventa una colpa già duramente condannata da Gesù nella parabola dei
talenti. Alcuni mezzi non costano niente: la catechesi, lezioni e conferenze, l'ascolto
della Parola di Dio e del Magistero della Chiesa; altri richiedono qualche sacrificio:
libri, testi, corsi programmati... E tuttavia, molti cristiani che spendono somme
notevoli in cose futili, consumistiche o di capriccio, considerano sprecato il denaro
impiegato per la propria formazione religiosa.
La fede è una virtù, e come tale comporta un atteggiamento interiore
dell'uomo di fronte a Dio, un atteggiamento - abbiamo visto - obbedienziale
(l'obbedienza della fede), ma la fede ha anche un «contenuto». Dio nel rivelare sé
stesso ci ha detto anche delle cose che lo riguardano e che ci riguardano, ci ha
parlato di sé stesso e del suo disegno di amore su di noi. A questo contenuto della
fede - contenuto fatto di verità fondamentali per l'esistenza umana - Dio ha dato una
veste concettuale appropriata per la nostra intelligenza. Ciò significa, in altre
parole, che esiste una "Dottrina della Fede" che ogni cristiano ha l'obbligo grave
di conoscere e di assimilare nella propria vita. E' una dottrina che ha per maestro
Gesù stesso. Egli "percorreva i villaggi insegnando" e si commuoveva davanti alle

124
folle che non avevano né maestri, né pastori, e "si mise a insegnare loro molte
cose". 225
Questo insegnamento Gesù lo ha consegnato come un prezioso deposito alla
sua Chiesa per mezzo degli Apostoli; ad essi diede il preciso comando: "Andate e
ammaestrate tutte le nazioni... insegnando loro...". 226 La Chiesa ha dunque in
custodia il "deposito della Fede" con la missione di annunciarlo e di insegnarlo.
Annunciarlo significa proclamarlo con la forza dello Spirito, insegnarlo significa
proporlo come dottrina. Insegnare, infatti, vuol dire esporre una dottrina in modo
ordinato, sistematico e completo. La Chiesa fa questo incessantemente con il suo
Magistero, il quale può anche avvalersi della scienza teologica e della riflessione di
autori ecclesiastici e dei Santi. Lo fa normalmente attraverso la catechesi,
elaborando anche importanti strumenti dottrinali come i catechismi.
L'ignoranza delle verità della fede è dunque inescusabile; lo è soprattutto nelle
persone di cultura, tra le quali è spesso maggiormente diffusa l'ignoranza religiosa,
frequentemente accompagnata dalla presunzione, dalla deformazione dottrinale e
dall'orgoglio intellettuale.

135 - “Studiositas” e “curiositas”

Nella massa della gente, invece, il non uso dell'intelligenza si esprime più
frequentemente nella superficialità intellettuale. Molti cristiani sono rimasti con la
conoscenza elementare, incompleta, quasi favolistica, ricevuta da bambini e mai
approfondita e assimilata. L'unico aggiornamento l'hanno fatto sui giornali, o
peggio, sui rotocalchi, o attraverso dibattiti televisivi. Una formazione superficiale
intorno alla dottrina della fede porta a vivere una vita cristiana mediocre, facile al
compromesso, condizionata da rispetti umani, e soprattutto povera di amore. Infatti
si ama poco ciò che si conosce poco. E quando si ama poco, si stima poco ciò che si
possiede, e perciò viene a mancare il desiderio efficace di trasmettere ad altri ciò che
crediamo. Il cristiano mediocre, dalla fede superficiale, non sarà mai un apostolo,
anzi, non saprà «rendere ragione della speranza che è in lui" e difendere la dottrina
di Cristo dagli attacchi che vengono oggi da tanti ambienti e con tutti i mezzi.
Un ostacolo all'esercizio dell'intelligenza nell'approfondimento della dottrina
viene dalla pigrizia mentale e dall'inerzia intellettuale. La conoscenza esige studio, e
lo studio è un lavoro, un lavoro intellettuale che impegna tutta la persona quando
essa ama, cerca e affronta la gioiosa e gustosa fatica della verità.
Dovrebbe perciò diventare quell'atteggiamento interiore abituale che San
Tommaso chiama: studiositas . Un’intelligenza pigra che rifugge dallo sforzo e
ripiega nella superficialità del conoscere è portata invece a sostituire la studiositas
con la curiositas. E' una curiosità negativa che farfalleggia sulle cose, scivola sui
problemi, "pizzica" appena i contenuti anche fondamentali della dottrina, vaga
disordinatamente tra i libri e le varie discipline senza prenderne sul serio nessuna.
Un’intelligenza siffatta sarà un'intelligenza debole, timida, incerta, che rifugge dallo
"scontro frontale", dalla santa intransigenza della verità per timore di essere
giudicata intollerante, massimalista, oppure retrogada.
L’intelligenza si fortifica se viene esercitata al pensiero, alla riflessione,
all'applicazione tenace, perseverante, condotta con ordine e con metodo.

136 - La “sana dottrina”.

225
Mc. 6,34
226
Mt. 28,19
125
E' dunque di fondamentale importanza che l'intelligenza impegnata nello
studio venga nutrita con la "sana dottrina". Tra le più forti raccomandazioni che San
Paolo rivolge ripetutamente al discepolo Timoteo (e le ripete, poi, al discepolo Tito)
c'è quella di rimanere saldo in ciò che ha imparato, e aggiunge: "Ti scongiuro davanti
a Dio e a Gesù Cristo... : annuncia la parola... esorta con ogni magnanimità e
dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma per
prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie
voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per rivolgersi alle favole". 227
Una dottrina è sana innanzitutto quando è secondo la retta ragione e la retta
coscienza, quella rettitudine del cuore che, in definitiva, è consonanza con i
Comandamenti di Dio, da Lui inscritti nella stessa natura dell'uomo. E tuttavia questa
rettitudine è spesso assente nelle dottrine degli uomini, come ad esempio, nel
laicismo agnostico così imperante nella cultura attuale. Esso esclude ogni riferimento
a Dio e ai valori trascendenti dell'uomo nelle leggi che vengono emanate, nella
giustizia che viene amministrata, nelle concezioni della vita che vengono proposte
attraverso i mass-media dalla letteratura, dalla politica, dalle scienze umane.
In secondo luogo è sana dottrina l'insegnamento di Cristo come ci viene
trasmesso e proposto dal Magistero della Chiesa. E' un insegnamento che risana,
rettifica ed eleva anche il sapere umano che non ha nulla da temere dalla luce della
fede e dalla scienza di Dio. Il magistero della Chiesa non frena gli slanci né inibisce
la libertà dell'intelligenza; la sorregge invece e l'aiuta perché non finisca nelle secche
stagnanti di un tradizionalismo mortificante e non urti contro gli scogli delle eresie e
dei progressismi negativi. E' un servizio all'intelligenza non solo dei fedeli, ma
anche dei teologi e di tutti gli uomini che cercano sinceramente la verità.
Un’intelligenza così formata acquista una dote estremamente importante: il
discernimento. Si tratta di una capacità critica di fronte a ciò che si ascolta e a ciò
che si legge, così da saper discernere la sana dottrina dalle "favole" del mondo. Si
tratta anche di una capacità di scelta che, con l'aiuto di persone prudenti ed esperte,
sappia scegliere testi, libri e vari strumenti di cultura che contengano la sana dottrina
e non tradiscano la verità. Oggi si stampa una quantità enorme di libri, ma una gran
parte di essi sono inutili e spesso sono stupidità riciclata; altri, tra i quali molti che
vengono reclamizzati dalla critica ufficiale, sono autentica porcheria che infanga
l'intelligenza, la umilia e la corrompe; altri sono fatiche che non valgono quello che
costano; altri sono veri amici che dilettano l'intelligenza, fanno bene al cuore e sono
di consolazione all'anima; infine, ma sono pochi, ci sono i grandi maestri che aprono
le grandi strade del pensiero e sono fari luminosi per l'intelligenza e per la coscienza
degli uomini.
La necessità di acquisire la sana dottrina va unita, in noi cristiani, al
dovere grave che abbiamo di diffondere la sana dottrina. "Voi siete la luce del
mondo - ammonisce Gesù - voi siete il sale della terra". Ed è una grave
responsabilità non dare luce ai nostri amici, colleghi, alle persone che incontriamo
nella vita, perché ci manca l'olio della sana dottrina. Sarebbe, perciò, triste e
dolorosa infedeltà la nostra se lasciassimo che il sale della buona dottrina si
corrompesse per le nostre complicità con le dottrine del mondo.
Un terzo pericolo per l'intelligenza è quello di "intasarla" con l'eccesso di
erudizione. Non si può confondere la dottrina con l'erudizione. Nell'epoca dei
dizionari, delle enciclopedie, delle innumerevoli pubblicazioni a fascicoli settiminali,
e soprattutto nell'epoca del "usa e getta" giornalistico e televisivo, la quantità di
nozioni, di notizie, di immagini che viene versata ogni giorno nella nostra mente è
tale che non ci resta più spazio per "pensare", né spazio né tempo perché l'ansia di
smaltire quello che abbiamo visto e udito ci ruba in evasioni da relax il poco tempo
che sopravanza al vivere quotidiano. Anche l'intelligenza ha bisogno di una dieta
appropriata che le assicuri il vero nutrimento e la vera sostanza. Spesso ci
227
2 Timoteo, 4,3-4
126
comportiamo con la nostra intelligenza come ragazzini che si impinguano di
pasticcini e perdono il fragrante sapore del pane.
L'intelletto ha bisogno di "pensare", di poter andare in profondità nelle
cose, di penetrare la ricchezza della verità che non è mai esaurita fino in fondo;
ha bisogno soprattutto di contemplazione, di "perdere tempo" a guardare ciò che non
passa, ciò che non invecchia, ciò che vale oggi, domani e sempre; ciò che è eterno.
"Non multa, sed multum", dicevano gli antichi: "Non la quantità, ma la qualità",
diremo noi oggi. L'erudizione non è dottrina. L'intelletto intasato si paralizza, e
quando l'intelletto non pensa, impazzisce.
Infine, un altro modo di non usare l'intelligenza è quello di applicarla alle cose
frivole, a ciò che è effimero, futile e vano. Se questo è un atteggiamento fisiologico
nell'età dell'adolescenza, diventa una vera malattia nei giovani e negli adulti; una
malattia che porta il nome di stupidità, che ha in certi salotti-bene il suo reparto
dozzinanti, e ha nelle discoteche i suoi templi più affollati.

137 - Il tarlo delle ideologie.

Ma il morbo più grave che ha afflitto l'intelligenza speculativa della nostra


cultura occidentale negli ultimi due secoli sono state le ideologie. L'ideologia è uno
schema mentale aprioristico e rigido che pretende di interpretare validamente la
realtà, ma di fatto la uccide, la nega. Perciò l'ideologia paralizza l'intelletto, lo
limita paurosamente, e lo rende impotente al dialogo speculativo. Il pensiero
moderno dall'Illuminismo francese in poi è stato un terreno di cultura fecondissimo
per le ideologie, che sono state una vera pestilenza non solo per l'Europa ma per il
mondo intero. Sponsorizzate da forze sociali, le ideologie hanno portato a sistemi
politici disastrosi e all'impoverimento spirituale e morale di intere nazioni. Pensiamo
alle ideologie nazista, comunista, radical-socialista, liberal-massonica. I sistemi
politici, è vero, sono crollati o si sono addomesticati in strutture socio-politiche più
accettabili; ma l'intelligenza di ingenti masse umane è ben lontana dalla guarigione e
da un vero risanamento. Le ideologie sono ancora presenti come atteggiamento
interiore; sono rimaste, sia nella cultura di massa sia nella cultura di élite, come
categorie mentali che condizionano pesantemente l'intelligenza nell'approccio alla
verità.
Nella loro forma più benigna, le ideologie sono una nevrosi dell'intelligenza,
nevrosi che ha gettato l'uomo contemporaneo in un profondo e acuto malessere; lo
dimostrano i vari esistenzialismi, le filosofie dell'angoscia, e una mentalità di paura e
di disperazione che ha fatto scoppiare la violenza in tutte le sue forme.
Il limite più grave, che è anche offensivo dell'intelligenza ed è comune a
tutte le ideologie, è la chiusura alla trascendenza, il rifiuto di aprirsi alla
dimensione trascendente della realtà, cioè alla sua dimensione metafisica che fa
riferimento a Dio. Questo immanentismo delle cose è conseguenza
dell'immanentismo dell'intelletto, che è uno dei principi basilari di tutto il pensiero
moderno. Secondo tale principio il nostro intelletto è in grado di conoscere null'altro
che sé stesso, la nostra intelligenza è chiusa ad ogni altro oggetto fuorché a sé stessa.
Sembra un atteggiamento astratto che interessa solo persone strane chiamate filosofi;
è invece un atteggiamento profondamente deleterio che è entrato nella mentalità
corrente, nel modo di pensare comune. Affermare che la nostra intelligenza è tutto, è
negare che ci possa essere qualcosa fuori di essa o sopra di essa; tutto si riduce al
Pensiero, con la pretesa della sua autonomia assoluta. L'uomo non dipende da
alcunché nella sua attività conoscitiva, né deve rendere conto a nessuno di ciò che
pensa; il Pensiero umano prende così il posto di Dio e si sostituisce alla realtà stessa
delle cose.
Un’affermazione di Kant - che pure era religiosissimo - è estremamente
127
significativa al riguardo: "Dio non può essere conosciuto, ma può essere pensato." E'
come dire: Non possiamo affermare che Dio esiste, perché l'idea che abbiamo di Lui
è una creazione del nostro pensiero. Ora, è vero esattamente il contrario: Dio
possiamo conoscerlo perché "è", anzi, "Io Sono", - "pienezza dell'essere" - è perciò
l'oggetto più sublime della conoscenza umana. Non possiamo invece "pensarlo"
perché trascende infinitamente il nostro pensiero. L'affermazione di Kant è la più
esplicita dichiarazione che il Pensiero deve sostituirsi alle cose, le quali non
avrebbero una loro consistenza propria, un loro valore, una loro verità: è l'intelletto
umano che fa tutto.

138 - Un tragico inganno: l’immanentismo.

Vedremo fra poco le conseguenze di questo immanentismo della Ragione che


ha partorito i suoi idoli, ma intanto possiamo subito rilevarne gli effetti in tre
atteggiamenti dell'attuale mentalità dominante, che hanno inciso in modo
drammaticamente negativo sulla vita individuale e sulla vita sociale in tutto il nostro
Occidente "cristiano".
Il primo atteggiamento, nato dal distacco dell'intelligenza dalla verità, si
esprime come agnosticismo intellettuale; nella mentalità corrente esso significa:
"Ognuno la pensa come vuole, e per lui è vero ciò che pensa". Non esiste perciò una
verità oggettiva, valida per tutti, ma ognuno ha la "sua" verità, la cui forza è data
dalla capacità di coagulare intorno a sé il consenso della maggioranza.
Un secondo atteggiamento, nato dal distacco della coscienza dalla legge
naturale, si presenta come relativismo morale; nella mentalità corrente esso
significa: "Ognuno si comporta come meglio crede, e per lui è bene ciò che le sue
convinzioni gli suggeriscono". Non esiste perciò una legge morale oggettiva, valida
per tutti, ma ognuno ha la "sua" morale personale la cui validità, semmai, può essere
misurata sul consenso delle opinioni della gente o sulle convinzioni della
maggioranza. E' il trionfo del soggettivismo morale a livello individuale, per cui
l'unico criterio di moralità è la coscienza del singolo. Essa ignora o addirittura
esclude ogni norma oggettiva di riferimento, anche la legge scritta nella natura stessa
dell'uomo (legge naturale), e perfino la legge positiva esplicitata da Dio nei Dieci
Comandamenti.
Il terzo atteggiamento è la logica applicazione del precedente su scala
istituzionale e sociale:; esprime il distacco della legge positiva dal Diritto naturale,
distacco che ha portato all'agnosticismo giuridico. Nella mentalità corrente esso
significa che i poteri dello Stato sono fonte del diritto e hanno autonomia assoluta di
esercizio, facendo tutt'al più riferimento a una Costituzione che essi stessi si sono
data. Le stesse leggi istituzionali e ancor più le leggi camerali (Parlamento e Senato)
sono frutto di convergenze ideologiche e di alleanze partitiche, sono cioè "leggi
convenzionali" dove spesso manca ogni riferimento ai principi fondamentali del
Diritto naturale, cioè del diritto che si fonda sulla natura stessa dell'uomo come
persona. Sono perciò leggi estremamente povere di contenuto etico, spesso
addirittura immorali, o comunque irresponsabilmente permissive dove la libertà viene
usata per giustificare la più sfacciata trasgressività. Dalla crisi del Diritto nasce
inevitabilmente la crisi della legalità, con una progressiva sfiducia dei cittadini
verso le leggi dello Stato.
Lo Stato laico, nella sua versione agnostico-laicista di qualsiasi tendenza
politica, a dispetto dei suoi sforzi per salvaguardare la sua figura di Stato etico,
rivela alla fine tutta la sua debolezza; nei casi migliori, ridurrà la sua efficacia al
campo dei problemi sociali strettamente economici e amministrativi, ma si mostrerà
incapace di tutelare e difendere i veri diritti dell'uomo, favorendo così un degrado
culturale e morale che inevitabilmente aprirà la strada a una società selvaggia e
128
violenta.

139 - Gli idoli della Ragione.

L'immanentismo intellettuale, i cui frutti amari abbiamo appena descritto, con


la sua pretesa di ridurre tutto al Pensiero e di sostituirlo alla realtà delle cose, ha
portato l'uomo non solo a negare Dio o a rifiutarlo come realtà oggettiva e
trascendente, ma ha aperto la via ad ogni sorta di violenza sulla natura e sull'uomo. Il
"libero pensiero" ha così partorito gli idoli e i miti dell'uomo moderno, davanti
ai quali la nostra cultura occidentale ha bruciato innumerevoli bracieri d'incenso.
Il primo idolo fu appunto la Ragione stessa. Quando i Giacobini della
rivoluzione francese intronizzarono sull'altare di Notre Dame a Parigi una ballerina
intendendo affermare che la Dea Ragione soppiantava finalmente la Fede, compirono
un gesto che fu, sì, stupido nella sua volgarità, ma anche emblematico: la "libera
Ragione" quando abbandona il suo Autore, che è anche il sublime Oggetto della sua
attività conoscitiva, cade in balìa di sé stessa e non diventa che questo: una stupida
ballerina, un ridicolo burattino o, più seriamente, diventa quella triste "aquila
spennacchiata" che non conosce più le altezze della speculazione vera, la luce
abbagliante della Verità, ed è costretta a nutrirsi della carne putrida dei propri sofismi
e della propria persuasione. Pensiamo al prezzo che abbiamo sborsato, prezzo che
ancora stiamo pagando - i lager, i gulag, le camere a gas, le pulizie etniche, le guerre
di sterminio... - a causa dell'autonomia della Ragione e della supremazia del Pensiero
sulla Verità.
Gli altri idoli sono un po' figli della Ragione. Innanzitutto la Scienza. Non c'è
dubbio che il prodotto più significativo e insieme ammirevole dell'intelletto umano
nell'epoca moderna è la Scienza e le sue stupende realizzazioni attraverso la tecnica.
E' un edificio colossale e affascinante che dà quasi le vertigini perché sembra non
avere limiti nel suo sviluppo e nelle sue possibilità. E' vero che la scienza ha aperto
problemi di enorme portata e che lo sviluppo tecnico ha provocato situazioni di
estrema gravità per l'intero pianeta e per i suoi abitatori, ma c'è la ferma convinzione
che tutti i problemi posti dalla scienza, anche i più ardui e apparentemente
insuperabili, la scienza stessa ha i mezzi e le possibilità di risolverli. Perciò i lati
negativi che possono accompagnare lo sviluppo della scienza e della tecnica - la crisi
energetica, il problema ecologico, gli insuccessi sperimentali, ecc. - non sono che
momenti transitori, fasi fisiologiche del Progresso umano, destinati a scomparire col
progressivo affermarsi della piena maturità del pensiero scientifico. Ma i trionfi
della Scienza hanno prodotto una sorta di ubriacatura dell'intelligenza, una fiducia
illimitata nelle possibilità della Ragione scientifica, la convinzione che la Scienza è
la strada del vero progresso e della vera liberazione dell'uomo. Con la scienza l'uomo
si è impossessato della "pietra filosofale", la chiave per dare soluzione a tutti i
problemi dell'esistenza e per realizzare pienamente il proprio dominio sul mondo.
L'uomo diventa così arbitro del proprio destino, padrone della natura; la Scienza è
tutto e può tutto.
E' vero che gli ingenui entusiasmi per le conquiste della scienza e della tecnica
si sono oggi notevolmente sgonfiati e che i fumi della ubricatura stanno smaltendo il
loro effetto sulla mentalità contemporanea; oggi non ci stupiamo più di nulla e siamo
molto più disincantati anche di fronte alle realizzazioni più sensazionali della
tecnica. Ma non dobbiamo illuderci, perché sono rimasti fortemente presenti nella
cultura contemporanea proprio gli aspetti più deleteri della Scienza come
ideologia. Ne ricordiamo particolarmente due, che sono tra i postulati fondamentali
della cultura secolarizzata; primo: il sapere scientifico è l'unica forma valida e
accettabile di conoscenza; la conoscenza scientifica è presa come unico criterio di
verità. Il secondo è l'affermazione della Scienza come criterio etico: la Scienza non
129
può essere soggetta a norme esterne a sé stessa; la Scienza è essa stessa criterio di
moralità.
Il primo postulato afferma che è vero solo ciò che è "scientifico", è reale
(esiste) solo ciò che è sperimentabile, constatabile scientificamente. Esso porta alla
negazione delle realtà spirituali: l'anima, lo spirito, Dio stesso, oppure alla riduzione
delle sostanze spirituali a fenomeni "naturali", pure manifestazioni della realtà
materiale. Così, il pensiero sarebbe un'attività del cervello, anzi una sua facoltà, e
l'anima una forza, un fluido vitale di natura biologica, corruttibile, che si spegne col
corpo. Questa tesi è favorita dalla visione materialistica della realtà, visione che nega
ogni trascendenza anche naturale nell'uomo, e riduce tutto a materia. Il sapere
scientifico sarebbe, perciò, incompatibile con qualsiasi atteggiamento di fede, e
preclude ogni apertura al soprannaturale.
Tuttavia la tesi scientista non ha valore scientifico; è un’affermazione
aprioristica di carattere ideologico; perciò lo scienziato che la sostiene cade in
contraddizione, e rischia di rendersi poco credibile come scienziato. In realtà, la
conoscenza della verità è un problema che ha anche una dimensione morale;
esige il superamento dell'orgoglio intellettuale che ritiene la verità immanente alla
nostra intelligenza, e pretende di ridurla a misura della ragione umana: è l'uomo che
crea la verità.

140 - Scienza e morale.

Da questo nominalismo intellettuale - distacco dell'intelligenza dalla Realtà


oggettiva, dalla verità delle cose - è facile il passaggio all'altro postulato del
secolarismo scientista: la Scienza unico criterio etico; vale a dire, il distacco della
Scienza, cioè dell'intelligenza come sapere scientifico, dalla legge morale. La
scienza non sarebbe soggetta ad altra norma morale che a sé stessa, non avrebbe altro
criterio morale che la fattibilità dei suoi progetti. La Scienza cioè non può tollerare
limiti al suo sviluppo e a tutto ciò che concorre al suo sviluppo. La sperimentazione,
l'indagine scientifica, le realizzazioni della tecnica, la ricerca, ecc. sarebbero campi
esclusi ad ogni ingerenza estranea ai criteri esclusivamente scientifici, e i mezzi e i
metodi che rispondono a questa finalità di progresso sarebbero leciti e giusti.
Ciò significa che il fine della Scienza non è il bene dell'uomo, o lo è solo
secondariamente, in realtà il fine ultimo della Scienza è il suo Progresso. Così
Macchiavelli è pienamente soddisfatto e l'uomo può celebrare i trionfi della sua
signoria sulla natura e autoproclamarsi provvidenza a sé stesso. I nemici dell'uomo -
la fame, l'ignoranza, la malattia, le calamità, la fatica stessa - saranno uno dopo
l'altro sconfitti, e con l'ingegneria genetica l'uomo si autoprogetterà. Ci sarà una
umanità nuova, perfetta, vincente.
Tutto questo non è proclamato ufficialmente, ma fa parte ormai di una
convinzione fin troppo cara alle ambizioni della Ragione che si ribella all'idea che
tutto questo sia un'utopia. La realtà è che, in tutto questo, non hanno più senso le
verità della fede, la redenzione, la salvezza, la grazia, il peccato, la vita eterna..., e
non ha più posto l'idea stessa di Dio. Dio, nemmeno viene dichiarato inesistente, è
semplicemente inutile. In definitiva, il criterio del bene e del male non ha valore
scientifico e perciò viene sostituito dal criterio dell'efficacia o inefficacia di ciò che
si sperimenta ai fini del successo.

141 - L’umiltà intellettuale.

130
A questo punto, la terapia per guarire l'intelligenza dell'uomo moderno e
recuperarla a sé stessa consiste nell'umiltà; l'umiltà intellettuale non solo guarisce
l'intelligenza restituendole il suo ruolo naturale di facoltà conoscitiva e non creativa
della realtà, ma anche rende possibile la vera scienza. Una intelligenza umile
rispetta la realtà; il che significa innanzitutto accettare che la realtà esista, abbia
una sua consistenza e una sua identità, che non dipendono dal mio pensiero, non sono
il frutto della mia attività intellettuale; e in secondo luogo significa accettare che la
realtà contenga un mistero, un messaggio che disvela le profondità dell'essere; perciò
non va manipolata, strumentalizzata, deviata.
Del resto, quando uno scienziato si mette davanti al mistero della natura con
umiltà, cioè con intelligenza sana e con animo retto, è immediatamente convinto di
trovarsi di fronte a una realtà che lo trascende, a fenomeni e a leggi che non
dipendono da lui e nello stesso tempo non sono in grado di dare ragione di sé stessi.
Diventa perciò quasi connaturale in lui un atteggiamento di rispetto che gli consente
una conoscenza della realtà più profonda e veritiera, e alla fine non può non
interrogarsi sull'origine e sul destino delle cose, e perciò su Dio. Se la scienza è vera
scienza non impedisce la fede ma la facilita perché l'una e l'altra vengono da Dio e
conducono a Dio. Alla luce di queste constatazioni, l'ideologia scientista appare un
falso in atto pubblico: "hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con
l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile", e diventa un atto di violenza:
"soffocano la verità nell'ingiustizia" - perciò la superbia acceca l'intelligenza:
"hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa". 228
Questo discorso sull'umiltà intellettuale è indispensabile come terapia per
guarire l'intelligenza anche dall'altro postulato scientista: la scienza come principio
etico. Infatti per liberare la Scienza dal soggettivismo anarchico della Ragione, e
recuperare l'intelligenza al rispetto del bene morale e delle sue esigenze è ancora
necessaria l'umiltà come verità, la verità del nostro essere creature. Su questo tema
della verità come fondamento del criterio morale e quindi come riferimento per la
nostra coscienza, Giovanni Paolo II ci ha fatto dono di una fondamentale Enciclica,
la "Veritatis splendor". Fuori della Verità non c'è né libertà, né vera conoscenza
del bene e del male. Ora la Verità è incommensurabilmente più ampia del sapere
scientifico, e il bene morale è incomparabilmente più importante del progresso
scientifico. L'umiltà intellettuale porta lo scienziato, divenuto consapevole di essere
creatura, a servire la Verità e a promuovere il bene morale dell'uomo.
Del resto, pensiamo alle caratteristiche fondamentali con cui tutta la realtà si
presenta alla conoscenza scientifica: la misurabilità (la sua finitezza) e la relatività.
Nulla in natura è illimitato e assoluto; una legge fondamentale della natura è proprio
la Relatività generale. Anche l'intelligenza dell'uomo soggiace alle stesse
caratteristiche di limitatezza e di relatività; sono queste le coordinate che troviamo in
ogni essere creato in quanto tale. La verità è vincolante per la nostra intelligenza e
il bene è vincolante per la nostra libertà, per la nostra coscienza. Scoprire e
accettare la propria creaturalità è perciò un atto di saggezza, è collocarci nella realtà,
al nostro posto.
Del resto accettare la nostra realtà di creature non è umiliante, anzi è liberante,
soprattutto libera dall'angoscia esistenziale; infatti, se non siamo creature, chi siamo?
Riscoprirci creature è riscoprire le nostre radici, le nostre origini e il nostro destino;
origini non semplicemente temporali e destino che non è un destino qualunque.
Inoltre è riscoprire il senso profondo di quel viaggio infinitamente esaltante che
abbiamo già ricordato più volte e che costituisce il tema fondamentale di tutto il
nostro discorso sul tempo: l'itinerarium mentis in Deum, il viaggio che, iniziato in
Dio, a Dio ritorna attraverso le strade del tempo: le strade della fede, della speranza,
dell'amore, le strade della santità. Se il sapere scientifico accettasse il riferimento ai
valori morali non solo risanerebbe l'intelligenza ma si risparmierebbe le amare
228
Rom. 1,18-23
131
conseguenze di una Ragione tirannica che non vuole rendere conto a nessun altro che
a sé stessa.
Mai la nostra intelligenza ha avuto tanto bisogno di libertà, perché mai è
stata tanto povera di Verità. Le conquiste delle scienze umane - la politica,
l'economia, la sociologia, la medicina... ecc. - quando sono vere, sono sempre verità
parziali, che rispondono ai bisogni contingenti, quelli legati al tempo, ai problemi del
nostro vivere terreno, del nostro essere-nel-tempo.
Ma la nostra intelligenza ha bisogno della verità trascendente, della Verità
Totale, della risposta risolutiva e definitiva al bisogno insaziabile di significato che
la tormenta. Ha bisogno, insomma, di non vagare continuamente tra "verità" che
sono a loro volta interrogativi, rimandi, isole inospitali di un arcipelago fatto di
attracchi provvisori, per qualche soggiorno temporaneo; ha bisogno di ciò che è
definitivo, esaustivo, totale. Ha bisogno di Eternità.

142 - Un idolo tirannico: la Democrazia.

Infine, l'orgoglio intellettuale rende l'intelligenza incapace di verità e la lascia


in balìa di una Ragione dispotica che tutto sancisce con un unico riferimento: sé
stessa. Il vuoto di verità viene allora occupato dalle opinioni. E' vero che il terreno
dell'opinabile è vastissimo; nelle cose umane - nella politica, nell'economia, nell'arte,
nel costume - tutto è opinabile, tutto è soggetto a continua evoluzione, ma i valori, i
principi fondamentali della natura umana e dell'essere delle cose non sono opinabili,
non dipendono dal nostro parere soggettivo, o dalle nostre convinzioni personali. Il
culto dell'opinione ha così partorito un altro idolo dell'epoca moderna: la
democrazia.
Il criterio democratico può fornire il sistema più giusto e più efficace
applicato al campo dell'opinabile - il campo politico, economico, artistico ecc. - ma
diventa illegittimo e anche immorale quando viene applicato ai valori; essi non
vengono decisi per alzata di mano o in nome di una maggioranza. Mille opinioni non
fanno una verità. Ora, la nostra epoca, è caratterizzata dal trionfo dell'opinabile: i
giornali sono di opinione, i cinema sono anch'essi di opinione, i rotocalchi, i servizi
televisivi, i libri stessi portano le opinioni dei loro autori, ma tutto è affermato con la
convinzione che quelle opinioni sono la verità. Questo ci fa capire l'impressionante
povertà spirituale della nostra epoca, quanto essa abbia smarrito il riferimento con
l'eternità e sia naufragata nei flutti del tempo. Le opinioni infatti appartengono al
tempo, i valori all'Eternità.
Vale la pena di ascoltare le parole con le quali uno dei maggiori "esperti" di
totalitarismo, perché l'ha vissuto e sofferto nella sua esperienza personale, il papa
Giovanni Paolo II, ha messo in guardia dal "totalitarismo" delle democrazie. Nella
sede dell'Università di Vilnius, in Lituania, ebbe a dire: "... le stesse democrazie,
organizzate secondo la formula dello Stato di diritto, hanno registrato e ancora oggi
presentano vistose contraddizioni tra il formale riconoscimento della libertà e dei
diritti umani e le tante ingiustizie e discriminazioni sociali che tollerano nel proprio
seno (...). Il rischio dei regimi democratici è di risolversi in un sistema di regole non
sufficientemente radicate in quei valori irrinunciabili, perché fondati sull'essenza
dell'uomo, che debbono essere alla base di ogni convivenza, e che nessuna
maggioranza può rinnegare, senza provocare funeste conseguenze per l'uomo e per la
società (...) Totalitarismi di opposto segno e democrazie malate hanno sconvolto la
storia del nostro secolo". E concludeva: " I sistemi che in Europa si sono avvicendati
e contrapposti hanno ciascuno la propria inconfondibile fisionomia, ma non credo
che ci si sbagli considerandoli tutti figli di quella cultura dell'immanenza che si è
largamente affermata in Europa negli ultimi secoli, inducendo a progetti di esistenza
personale e collettiva ignari di Dio e irrispettosi del suo disegno sull'uomo".
132
La democrazia - affermava ancora il Papa - "non implica che tutto si possa
votare, che il sistema giuridico dipenda soltanto dalla volontà della maggioranza e
che non si possa pretendere la verità nella politica. Al contrario, bisogna rifiutare con
fermezza la tesi secondo la quale il relativismo e l'agnosticismo sarebbero la migliore
base filosofica per una democrazia (...) Una tale democrazia rischierebbe di
trasformarsi nella peggiore delle tirannie". 229

143 - La Ragione tra Verità e Libertà.

Infine il virus dell'immanentismo ideologico e scientista è responsabile di un


altro atteggiamento intellettuale che pesa negativamente sulla cultura e su tutto il
modo di pensare attuale: la mentalità storicista ed evoluzionista. E' la mentalità
tipica di un’intelligenza che ha perduto il senso dell'eternità, ha perduto quindi la sua
capacità di giudizio, la sua libertà critica. Un’intelligenza incapace di eternità vede
tutto attraverso presunte leggi ineluttabili: tutto viene trascinato dalla Storia, dal
Progresso, tutto è governato dall'evoluzione, cioè da forze che tendono verso l'utopia
della Società perfetta. L'intelligenza crede di affermare così la propria autonomia.
Ma l'orgoglio intellettuale è sempre stato, fin da principio, il peggiore inganno
dell'uomo.
Invece, l'umiltà è verità e la verità è libertà. Libertà è volo della nostra
intelligenza, della nostra anima, verso il sole della verità, non quella o quelle verità
sancite o fabbricate dall'uomo, dalla sua dea Ragione, ma la verità che viene da Dio,
dalla sua creazione e dalla sua Rivelazione.
C'è dunque, oggi, l'urgente bisogno di una intensa crociata per riscattare
l'intelligenza, per rieducarla a pensare rettamente, per addestrarla di nuovo al
volo verso la luce della intuizione e della contemplazione. Dobbiamo liberarla
dalla prigione dello spirito mondano, secolarizzato e laicista, dalle sue maglie false e
illusorie: la visione materialistica del mondo, la fiducia cieca e assoluta nella
Ragione autonoma che rifiuta ogni riferimento alla Verità trascendente, il rifiuto
storicistico della tradizione e proclamazione del "popolo" quale presunta fonte di
autorità, il sapere scientifico e tecnico come unico strumento efficace di salvezza per
l'uomo, la politica come luogo originario di ogni etica e di ogni valore morale, la
sostituzione della filantropia all'amore, e infine la chiusura immanentistica del nostro
avvenire che non ha alcun futuro oltre la morte. Sono queste le sbarre che tengono
prigioniera la nostra intelligenza riducendola a quella povera "aquila spennacchiata"
triste e debole che ha dimenticato le altezze inebrianti del sapere metafisico e della
fede. Tutto questo lo vediamo nei pensatori e negli autori più significativi nel campo
dell'arte, delle scienze, della letteratura del nostro tempo: la loro incapacità di alzarsi
al di sopra di una visione orizzontale e terrena della vita, la loro fatica ad aprirsi
anche per poco alla luce della fede, il loro pensiero debole, fuligginoso, zoppicante,
scettico che ricicla poveramente le vecchie utopie di sempre.
E' arrivato il momento di una nuova epoca culturale, di una nuova
stagione del pensiero umano, un ringiovanimento, quasi una rinascita
dell'intelligenza, che aprendosi alla verità e alla fede, lascia entrare tutta la luce
trascendente di Dio e della sua Rivelazione nell'universo grandioso e stupendo
edificato dalla scienza, dalla tecnica e da tutto il sapere dell'umanità di questi secoli,
un universo che è ancora nel buio, nella tristezza, e manca della sua anima. Ancora
una volta le parole profetiche di Giovanni Paolo II appena eletto Pontefice: "Aprite le
porte a Cristo..." sono le parole di cui ha bisogno prima di tutto l'intelligenza
dell'uomo di oggi.
La grande strada maestra, o, se vogliamo, le ali possenti dell'intelletto

229
Giovanni Paolo II, Discorso nell'Università di Vilnius, 29.11.92
133
speculativo, di quest'aquila chiamata alle altezze della verità, sono le ali della Fede.
Di essa abbiamo già parlato, qui vogliamo ricordare ancora una volta, il profondo
legame tra scienza e fede, tra l'intelletto speculativo e la teologia; credo ut
intelligam... rationabile obsequium vestrum: cioè, la fede aiuta e potenzia l'intelletto,
e l'intelletto si fa umile servitore della fede attraverso la riflessione teologica. Non a
caso l'evangelista Giovanni, che più potentemente e solennemente ha proclamato la
Verità e l'Amore, ha come simbolo l'aquila. La Verità e l'Amore sono le ali della
libertà che possono spingere l'aquila del nostro intelletto verso il Sole di Dio, alle
altezze inebrianti della contemplazione.

B) INTELLETTO PRATICO

144 - Che cos’è l’Intelletto pratico

L'attività speculativa è l'attività basilare dell'intelletto umano, perché la


conoscenza teorica appronta le idee-forza, le idee-madri che muovono il mondo e
orientano la vita e il comportamento degli uomini. Non per niente l'oggetto proprio e
supremo dell'intelletto speculativo è la Verità. Ma a questa attività "ascendente",
speculativa, dell'intelletto, corrisponde un’attività "discendente" propria
dell'intelletto pratico, che è rivolto all'azione, al fare, all'applicazione pratica del
vero conosciuto e studiato.
L'intelletto pratico fa l'uomo partecipe dell'opera creatrice di Dio; lo fa
partecipe sotto l'aspetto della sapienza, perché è orientato ad attuare nel mondo il
disegno sapiente e meraviglioso di Dio a favore degli uomini.
Parliamo qui di intelletto, la cui azione rimane dunque nel campo intenzionale;
per diventare esecutiva deve avvalersi delle facoltà operative: la volontà e gli organi
corporei che attuano nella realtà quello che è stato concepito intenzionalmente.
Questa intenzionalità dell'intelletto pratico non significa che la nostra intelligenza è
orientata alla realizzazione di un progetto proprio, creato dalla ragione umana, ma di
un progetto divino, concepito dalla sapienza di Dio. L'intelletto umano, infatti,
avendo appunto il suo oggetto proprio nella verità è chiamato a inserirsi nel disegno
sapiente di Dio perché si faccia nel mondo quel regno di Dio che è regno di giustizia,
di amore e di pace.
Questa partecipazione all'intelletto creatore di Dio - Dio "conosce" le cose
come causa del loro essere - ci fa scoprire un altro aspetto della nostra dignità di
persone e della grande nobiltà della nostra intelligenza. Ma ci ricorda anche la
delicata responsabilità che abbiamo di essere facitori della verità e quindi la
necessità e l'importanza di avere un'intelligenza sana, integra, intenzionalmente retta.
La tecnica, che oggi è ormai presente in tutti i campi dell'agire umano e che è rivolta
verso l'attuazione di progetti sempre più ambiziosi ed è arrivata a splendide
realizzazioni tanto da dare il nome alla nostra civiltà, che è chiamata la "Civiltà della
Tecnica", ha perciò più grandi responsabilità ed espone l'uomo a maggiori tentazioni.
Uno dei pericoli maggiori della tecnica come sapere pratico è quello della sua
strumentalizzazione mondana. Sappiamo l'esaltazione della prassi nel pensiero
marxista; secondo Marx l'uomo deve essere tutto teso a cambiare la Storia, a
realizzare la società perfetta. La caratteristica principale dell'uomo è perciò
"l'impegno", che dovrà essere rivoluzionario quando lo richiede la necessità, politico
nel governo dello stato laico, possibilista dove lo richiede la convenienza.
Dio vuole che l'uomo collabori al proprio destino, alla propria storia terrena,
al suo realizzarsi nel tempo; lo vuole collaboratore non passivo, puramente servile,
ma consapevole e responsabile, attivo; però il progetto è di Dio, viene dalla sua
134
infinita sapienza e ha come fine la sua gloria, la quale, come sappiamo, coincide con
la felicità dell'uomo. Ma, anche qui, il peccato originale continua il suo inganno e
l'uomo vuole collocarsi al posto di Dio, vuole essere lui il progettista; si
autopropone, si autoprogetta, si autorealizza.

145 - La Torre di Babele.

Un'espressione dell'intelletto pratico in chiave mondana è stata la Torre di


Babele, la realizzazione di un progetto che doveva esprimere la potenza dell'uomo
considerata fine a sé stessa, la creazione di un'opera che proclamasse la forza
dell'ingegno umano nella sua autosufficienza; ma era un'opera che non aveva nulla a
che fare con i disegni di Dio e con la sua sapienza, anzi era stata concepita senza Dio
e in certo senso contro di lui. Perciò, le conseguenze non potevano essere che la
confusione e il disordine.
Ma la torre di Babele, come espressione di autosufficienza nei confronti di
Dio, non la troviamo solamente nella storia dei popoli o nella storia delle civiltà
umane. Ognuno di noi ha nel cassetto una sua Torre di Babele che prima o poi
vorrebbe realizzare: un progetto sulla propria vita che risponda alle varie
ambizioni, anche oneste, del proprio cuore ma che non corrisponde al disegno di Dio.
Quanti di noi nel programmare la propria vita si sono preoccupati di conoscere la
volontà di Dio o di confrontarsi con essa? Quante decisioni abbiamo preso nella vita
prescindendo da Lui, decisioni che poi si sono rivelate colossali errori e hanno
gravato pesantemente con le loro conseguenze sulla nostra vita! Senza dire che
sbagliare progetto può mettere in pericolo il nostro stesso destino eterno.
I santi chiedevano luce al Signore quando sentivano il richiamo della sua
grazia. Il Beato Escrivà usava l'invocazione che Bartimeo, il cieco di Gerico, rivolse
a Gesù: "Domine, ut videam!" 230 - Signore, che io veda! E' la preghiera che può
servire anche a tutti noi: Signore, che io veda quello che tu vuoi, quello che tu ti
aspetti da me e che io non conosco! Ma in fondo ogni cristiano dovrebbe
incessantemente rivolgersi al Signore per conoscere la sua volontà quando non la
conosce, e per attuarla pienamente quando l'ha conosciuta.
San Paolo scrive che ognuno di noi è come un "edificio di Dio" - Dei
aedificatio estis, 231 Dio è il progettista e Dio è anche il costruttore; il nostro impegno
è collaborare con l'azione dello Spirito Santo. E' questo il significato
dell'espressione: corrispondere alla Grazia. Dio ci dona tante grazie che sono come
pietre da utilizzare per la costruzione del nostro edificio spirituale. Dio ci costruisce
grazia su grazia finché non abbia portato a termine l'opera in noi cominciata. Nella
vita spirituale del cristiano l'intelletto pratico si esprime, perciò come lotta
ascetica, come impegno nel corrispondere efficacemente al lavoro della grazia.
Ora, se la virtù che sostiene e potenzia l'intelletto speculativo è la fede,
l'intelletto pratico trova il suo sostegno e la sua forza nella virtù della speranza. La
speranza infatti è virtù operativa; ci spinge a mettere mano a progetti che sono
sproporzionati alle nostre forze ma che sono proporzionati alla grazia di Dio. Tale è
il progetto divino della nostra santificazione. La santità è ciò che Dio vuole per
ognuno di noi, secondo un disegno che è personale, quasi "su misura" per ciascuno.
La speranza di essere santi secondo la grazia di Dio è la forza che deve sostenere il
nostro impegno ascetico al di sopra di ogni ostacolo e difficoltà, compresi gli
insuccessi e i fallimenti.

230
Lc. 18,41
231
1 Cor. 3,9
135
146 - Intelletto pratico e “attivismo”.

L'intelletto pratico non deve essere proteso a realizzare solo le grandi linee del
progetto divino. Una costruzione non è fatta soltanto delle strutture portanti, dei
muri; ha tutto un arredo, una serie di cose, anche piccole e semplici, che rendono la
costruzione abitabile e fruibile, anzi ospitale e gradevole. Il nostro impegno
ascetico, dunque, sarà spesso su cose piccole e umili, ma servirà a corredare
l'edificio della nostra anima di tante piccole virtù che rendono gradevole a Dio la sua
dimora in noi. I grandi santi lo sono stati soprattutto nell'eroismo delle piccole virtù
della vita quotidiana. La concretezza dei propositi è una caratteristica proprio
dell'intelletto pratico.
C'è infine una forma di intelletto pratico che possiamo chiamare patologica e
nasce da una ossessiva ambizione personale di cercare la propria realizzazione in un
lavoro senza soste, in un'attività senza respiro, in imprese sempre più impegnative e
assorbenti. E' la malattia dell'attivismo; una specie di morbo di Parkinson che prende
l'intelligenza e la pervade di una febbre attivistica senza spazio e senza alternative,
ingoiata dal vortice dell'azione, sempre più incapace di uscirne e di fermarsi.
Ecco allora l'homo faber, l'uomo-produzione, l'uomo-manager, l'uomo-
macchina, l'uomo tutta tensione, tutto crampi e volontà di realizzazione, che spesso
diventa volontà di potenza, volontà di autoaffermazione, aggressività e sfoggio di sé.
Il lavoro ossessivo e insonne è per l'intelletto pratico ciò che l'orgoglio scientifico è
per l'intelletto speculativo: una droga, un’alienazione dell'intelligenza stessa che
finisce col non "pensare" più. Si ha così un attivismo senz'anima, un lavoro senza
pensiero; è un lavorare che non è più "collaborazione con Dio", senza più spazio
per la preghiera, per la famiglia, per l'amicizia, per la propria crescita interiore.
Così l'azione e la realizzazione delle proprie imprese diventano il monumento
funebre alla vita interiore, alla vita dello spirito e alla vera gioia dell'anima.
A questo parossismo attivistico professionale corrisponde, su un piano più
domestico l'agitazione femminile. L'intelletto pratico così preponderante nella donna
può degenerare in una nevrosi per arrivare a tutto. La donna sempre inseguita dalle
cose, assillata dai propri "doveri", costantemente perseguitata da complessi di colpa
per le proprie presunte inadempienze, inquieta per le molte cose da fare in mezzo alle
quali si dibatte come un naufrago in cerca di salvezza..., è una delle forme spesso
inconsapevoli di attivismo narcisistico che può diventare alibi alla vera attività,
quella che ha le dimensioni della vita interiore, della libertà e dell'amore. Il
rimprovero del Signore rivolto a Marta che si agitava perché tutta presa nei "molti
servizi" è un richiamo per quanti hanno fatto della prassi il loro unico sistema di vita,
il luogo di espressione della loro intelligenza, dimenticando quell'unicum
necessarium "che non ci sarà mai tolto", perché fa parte non del tempo ma
dell'eternità; l'unum necessarium l'aveva scelto Maria, la quale pendeva dalle labbra
del Signore.
Ma l'espressione più importante dell'intelletto pratico è la coscienza
morale. Essa si esprime nel giudizio pratico della ragione sul bene e sul male, o
meglio il giudizio sul nostro comportamento e sul nostro agire in riferimento al bene
e al male. Se il ruolo dell'intelletto speculativo è conoscere la verità, compito
dell'intelletto pratico è "fare" la verità. Fare non nel senso che sia l'intelletto a
creare la verità, ma nel senso che è lui, l’intelletto, a indicarci come tradurla nella
vita pratica, come conformare cioè il proprio agire alla verità che emana dall'ordine
creato e soprattutto alla verità che ci è stata data in dono nella Rivelazione di Dio.
La coscienza è il ruolo fondamentale dell'intelletto pratico, la sua funzione più
importante; da essa dipende tutto il valore morale della persona, come vedremo
parlando della maturità dell'uomo adulto.

136
C) INTELLETTO CONTEMPLATIVO

147 - Che cos’è l’Intelletto contemplativo.

La scena evangelica di Marta e Maria può introdurci alla considerazione della


terza attività della mente umana, quella dell'intelletto contemplativo. Se l'intelletto
speculativo, come abbiamo detto, svolge un’attività "ascendente", un moto verso la
verità, e la sua forza è la fede, e se l'intelletto pratico si esprime in una attività
"discendente", un moto verso le cose da realizzare, e la sua forza è la speranza,
l'intelletto contemplativo è immobile, la sua attività è senza moto, è un atto semplice
che si esprime nella "visione". E' la forma più alta di conoscenza, la più ricca e
più intensa, la sua forza è l'amore. Perciò dire che l'intelletto contemplativo è
immobile non significa dire che è inerte, vuoto, senza contenuto. Al contrario, esso
dà una più profonda intuizione della verità, una più ampia e completa visione della
realtà, una fruizione gustosa ed estatica dell'Essere infinito, della sua bellezza, della
sua trascendenza, della sua bontà e, in Lui, una fruizione profondamente appagante
di tutta la creazione.
E' un’attività interiore che troviamo nei poeti, in molti filosofi, ma soprattutto
nei santi. Propriamente parlando, l'unica vera conoscenza dell'essere è la conoscenza
contemplativa, perché l'essere, quello creato e ancor più quello increato ed eterno,
non può essere né dimostrato con l'intelletto speculativo, né tanto meno causato
dall'intelletto pratico. L'essere "è", e davanti ad esso l'intelletto è costretto a
fermarsi e a guardare, lo coglie per astrazione intuitiva, con un atto semplicissimo di
penetrazione, potremmo dire che è spinto a mettersi in ginocchio, consapevole
dell'assoluta trascendenza dell'essere che lo anticipa, lo precede, gli viene "dato". La
conoscenza dell'essere è una specie di stupore intellettuale che sfugge ad ogni
definizione, che è sperimentato quando davanti ad un oggetto riusciamo a gridare:
C'è! Esiste! E' qualcosa di simile, sul piano psicologico, all'innamoramento.
Tutti nella nostra vita abbiamo sognato una persona che realizzasse il nostro
ideale d'amore: un principe azzurro per una ragazza, una donna affascinante per un
giovane, un bambino ideale per una madre... abbiamo dato corpo ai nostri fantasmi, e
abbiamo forgiato queste persone dentro di noi, modellandole secondo le esigenze dei
nostri desideri. Le abbiamo anche amate appassionatamente ma era un amore
platonico. Quelle persone erano solo nella nostra mente, dipendevano dalla nostra
immaginazione, erano fantasmi soggettivi. Potremmo dire che erano frutto
dell'intelletto speculativo, appartenevano al mondo delle idee astratte, o meglio dei
sogni. Ma il sogno non è contemplazione. Il sogno rimane all'interno del nostro io e
ne esprime il moto spesso insonne e vorticoso. La contemplazione invece ci porta
fuori di noi e lascia il nostro io immobile davanti alla persona amata. Accade quando
questa persona cessa di appartenere al mondo dei sogni e appare lì davanti a me,
viva. Magari non corrisponde al mio sogno, al mio ideale, ma possiede una
caratteristica incommensurabile che ha qualcosa dell'infinito: esiste.
Una madre appena "vede" il bambino che ha partorito dimentica
immediatamente tutti i suoi sogni e rimane come stregata. "Contempla" quella
creatura quasi incredula, senza parole, solo qualche esclamazione che esprime
stupore, meraviglia, gioia inesprimibile, molto simile alla felicità. Così il ragazzo,
quando ha visto inaspettatamente la ragazza che lo ha innamorato, è rimasto a
guardarla, a "contemplarla". Quella persona non era un fantasma, un'idea che gli
appartenesse e che avrebbe potuto modellare o manipolare a piacimento, era un
essere vivo, reale, una persona in carne ed ossa con una sua identità, una sua storia
personale, magari tutta da scoprire, una persona con le sue doti e i suoi limiti, con le
sue caratteristiche individuali, con la sua esistenza indistruttibile. E quella persona
137
viva, entrata in lui, ha preso il posto di tutti gli altri fantasmi, e ha cancellato ogni
senso di solitudine. Prima egli viveva in compagnia di sé stesso, dei suoi ideali, delle
sue aspirazioni, dei suoi fantasmi, ma solo. Da quando è entrata in lui la persona che
lo ha innamorato, è cambiato tutto. Sente che quella presenza ha influito sulla sua
vita, ha cambiato il suo mondo interiore; una presenza non cercata, non voluta, non
fabbricata, perché quella persona, che apparteneva solo a sé stessa, gli è stata data,
era un dono.

148 - La contemplazione mistica

Analogamente, il giorno in cui la nostra mente riuscirà a passare dalla propria


idea di Dio e dalle proprie opinioni o sensazioni su di lui alla realtà di Dio, quando
cioè il nostro intelletto arriverà non a "pensare Dio" ma a cogliere la sua presenza,
quasi a gridare: Eccolo! "Signore, sei tu!... sei qui: mi vedi, mi guardi, mi ascolti!",
quello sarà il giorno della illuminazione contemplativa, il giorno della verità, della
libertà, dello stupore; il giorno in cui Dio non sarà più una pura conoscenza
razionale, una pura possibilità astratta del mio intelletto speculativo e nemmeno una
semplice seppur forte motivazione per il mio intelletto pratico, ma una realtà viva, un
Essere personale che mi sta dinanzi, mi tiene nelle sue mani, mi "vuole" con un atto
d'amore ineffabile, un amore che genera amore, provoca amore, libera dentro di me la
forza dell'amore. Solo l'amore, l'amore vero, rende contemplativi.
Infatti attraverso l'intelletto contemplativo si realizza, fra l'anima e il suo
oggetto contemplato, una profonda intimità, una identificazione spirituale che è
opera dell'amore. Vale la pena di citare l'espressione originale di S. Tommaso
D'Aquino che definisce la contemplazione: simplex intuitus veritatis ex caritate
consecutus (Summa II-II,q.180,a3,6), un atto semplice di intuizione della verità
provocato dall'amore. "Atto semplice" significa che la contemplazione non avviene
attraverso quel moto dell'intelletto che è la ricerca, la dimostrazione, il
ragionamento; l'intelletto rimane come abbagliato dalla luce, appagato dal possesso o
meglio dalla presenza intima e immediata dell'oggetto amato, abbandonato in una
quiete dolcissima che è riposo nell'intimità dell'amore.
E' questa la contemplazione mistica; essa porta l'anima a uno stato che è il più
vicino alla condizione ultraterrena, alla vita eterna; ha infatti qualcosa che la fa
simile alla beatitudine. In cielo non ci saranno più l'attività speculativa e l'attività
pratica dell'intelletto; cesseranno infatti la fede e la speranza. Resterà la
contemplazione, la pura e semplice "visione" di Dio, la comunione d'amore
totale e definitiva con lui.
Quaggiù la contemplazione è laboriosa, esige una "fatica", la purificazione
interiore. L'immaginazione, la memoria, l'intelletto stesso devono liberarsi dai
condizionamenti della sensibilità, delle passioni, delle abitudini; deve farsi "notte"
dentro di noi, il silenzio di tutto ciò che può impedire all'anima di raccogliere tutte le
energie della persona sull'oggetto amato e contemplarlo. Nella contemplazione
mistica questo "oggetto" è l'Essere divino in sé stesso e nel suo agire, quando compie
la sua opera in noi e per noi. Perciò è improprio chiamare Dio oggetto della
contemplazione; in realtà è l'anima oggetto dell'azione divina; l'anima avverte una
dolcissima impotenza, accompagnata da una percezione chiarissima del suo nulla
come creatura; in cambio la pervade un senso vivissimo della presenza di Dio che la
tiene fra le sue mani, l'avvolge con la sua misericordia, la unisce intimamente alla
sua amabilissima volontà. Non è dunque solo l'intelletto bensì l'anima tutta con le
sue facoltà ad essere coinvolta nel rapporto contemplativo con Dio. Quando la
contemplazione è opera di Dio, infusa dall'azione dello Spirito Santo, è puro dono, è
assoluto privilegio dovuto alla sovrana e imperscrutabile predilezione divina.

138
149 - Le vie alla contemplazione.

Normalmente però, la contemplazione esige lo studio amoroso e l'assidua


meditazione (intelletto speculativo) della Verità e delle realtà della fede, e insieme un
generoso impegno ascetico (intelletto pratico) con un paziente esercizio delle virtù
cristiane, soprattutto della carità e della corrispondenza alla Grazia di Dio. In altre
parole, la vita contemplativa è il normale sbocco al quale approda la vita
d'orazione e l'impegno ascetico di purificazione della nostra anima. Del resto, la
fede e la speranza sono le ali dell'amore, e sono esse che trascinano il nostro essere
verso Dio che si impossessa della nostra anima e la riempie totalmente di sé. Così lo
stupore contemplativo si alterna a un dolcissimo riposo nelle braccia di Dio e riempie
l'anima del gaudium cum pace; una gioia e una pace che non hanno nulla in comune
con i risultati delle tecniche spirituali praticate dalle varie religioni, né con
nessun'altra esperienza di questo mondo.
L'intelletto contemplativo è l'espressione più alta della conoscenza umana e
rivela la preziosa dignità della nostra intelligenza. La contemplazione, infatti,
potenzia e perfeziona una delle doti più preziose dell'intelligenza: la magnanimità.
E' una dote che l'uomo contemporaneo ha perduto; la concezione immanentista della
realtà, la visione materialistica della vita che sfocia nell'edonismo, nel consumismo,
nell'anarchia morale, hanno rattrappito l'intelligenza delle generazioni attuali. Il
vuoto spirituale di tanti intellettuali e della stessa cultura ufficiale è impressionante;
lo documentano la povertà di pensiero, la banalità e la volgarità dei sentimenti, il
noioso riciclaggio dei contenuti, l'angustia delle prospettive. E tanta tristezza. E
tanto squallore.
La magnanimità intellettuale è la capacità di pensare cose grandi, di
spaziare sugli orizzonti senza confini della verità, di penetrare le dimensioni
soprannaturali dell'esistenza umana; è la capacità di scoprire anche nei piccoli spazi
della vita quotidiana le dimensioni dell'eternità, di dare senso divino alle vicende
umane più nascoste ed oscure, la capacità di cantare il magnificat nei giorni del
dolore e della tribolazione. In altri termini, è magnanimità intellettuale la capacità di
pensare la santità.
Vita contemplativa, dunque. Portare in noi un intelletto aperto allo stupore del
mistero di Dio e della sua vita intima, contemplazione del Padre, del Figlio, dello
Spirito Santo; contemplazione del Verbo fatto carne, Gesù Cristo: Bambino nel
Presepe, fanciullo e uomo nella bottega di Nazareth, Maestro tra le folle di Galilea,
uomo di dolori nella Passione, Sacerdote eterno immolato sulla croce, Re vittorioso
nella Risurrezione, Prigioniero d'amore nei Tabernacoli; contemplare il volto di Dio
nel volto di ogni fratello, contemplare la mano di Dio in ogni avvenimento della
nostra vita, contemplare la magnificenza, la bellezza, la sapienza e la potenza di Dio
disseminate nelle creature..., e contemplare i "cammini divini della terra" dove ogni
fatica, ogni sorriso, ogni lagrima, ogni dolore possono diventare grazia, luce e amore
di Dio.

139
IL TEMPO NEL TEMPO:
PASSATO, PRESENTE, FUTURO.

IL PASSATO: TEMPO DELLA MEMORIA

150 - Il tempo delle cose e il tempo dell’uomo.

Dicevamo che è lo spirito umano la vera misura del tempo; in certo qual modo
il tempo è cominciato con l'uomo. Ciò significa che esiste un tempo nel tempo: il
tempo dell'uomo nel tempo delle cose, o meglio il tempo delle cose nel tempo
dell'uomo. Se chiudo gli occhi e guardo nel mio intimo vedo scorrere il tempo dentro
di me; io stesso posso rapidamente andare e venire dal passato al futuro; anzi, senza
lasciare il passato e senza aspettare il futuro, avverto che tutto è "presente" dentro di
me. Mi vedo "contemporaneo" a tutto ciò che è stato e a tutto ciò che sarà. I cicli
cosmici, le ère geologiche, i millenni della storia umana e tutto il divenire
dell'umanità sono dentro il mio pensiero che tutto abbraccia. Tutto ha una durata,
ma è lo spirito che la misura. Il moto è nelle cose, il tempo è nell'uomo.
Ma anche nell'uomo il tempo non è senza moto. Il nostro io è una realtà
distesa nel tempo, e la durata del tempo viene percepita nel nostro vissuto. Tuttavia
la durata del tempo e la durata del vissuto non hanno la stessa misura, non sempre
coincidono. Il tempo del nostro vissuto non è dato dal numero degli anni ma dal
numero delle nostre "decisioni".
Esistono decisioni di fondo, quelle determinanti, che decidono il senso del
nostro cammino, l'orientamento del nostro essere interiore. Ed esistono decisioni
"operative", quelle che danno consistenza al nostro vissuto quotidiano, e si attuano
nel concreto della nostra vita. Santa Teresa le chiamava "determinacioncillas",
piccole decisioni che tendono ad attuare con pienezza e senza ritardi la nostra vita
secondo il disegno di Dio.
Perciò, possono esserci vite lunghe, che durano molti anni, ma che realizzano
un vissuto corto; vite mai arrivate a compimento, rimaste nel tempo come un
progetto incompiuto. Possono esserci invece vite brevi, di pochi anni, ma dal vissuto
intenso, ricco, profondo che ha dato ampiezza di durata e di contenuto al breve corso
degli anni. Hanno realizzato il detto dell'antica Sapienza: "Consummatus in brevi,
explevit tempora multa": è vissuto per pochi anni, ma ha riempito molto tempo. 232
Inoltre il tempo del nostro vissuto interiore e il tempo delle cose non hanno lo
stesso ritmo. Il moto nelle cose è sempre uguale; possiamo calcolarlo e misurarlo con
232
Sap. 4,13
140
unità di misura precise e sempre uguali. Il nostro tempo interiore segue il ritmo della
libertà e della grazia. Il suo moto è imprevedibile e non sai le sue scadenze: "il vento
soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di
chiunque è nato dallo Spirito". 233 Perciò S.Agostino diceva di temere il Signore che
passa, perché non sai quando passa, e lasciarlo passare senza seguirlo è rischiare, a
volte il proprio destino, a volte la santità, sempre è rischiare di "perdere il tempo",
perdere un'occasione per amare. Libertà e grazia: misurano la vera densità del nostro
vissuto.
Il nostro tempo interiore corre su due semirette: il passato e il futuro, che si
uniscono in un punto comune: l'istante presente. Sono, - il passato, il presente, il
futuro, - le tre dimensioni del nostro io e del nostro tempo interiore.

151 - La memoria: archivio del tempo.

Potremmo pensare la memoria come lo specchio retrovisore della nostra


anima. Lo specchio retrovisore ci aiuta a muoverci sulla strada con più sicurezza
evitando manovre pericolose. La memoria, utilizzando esperienze passate, può
servirci per camminare nella vita con più intelligenza e con maggiore saggezza. Da
giovani, avendo percorso poca strada, abbiamo una memoria corta, ed essendo poco
disposti a utilizzare le esperienze altrui, siamo esposti ai rischi dell'imprudenza o
della presunzione.
Potremmo anche pensare la memoria come un video che registra il nostro
vissuto e lo custodisce. E' infatti la facoltà che conserva in noi il tempo, ne misura le
dimensioni, e lo proietta come in un abisso. Il tempo scorre ma le esperienze restano,
si accumulano, si addensano, acquistano spessore e costituiscono il vissuto del nostro
io; diventano il regno privilegiato della memoria e anche il suo trampolino, perché
dal vissuto personale la memoria può fare un balzo nel tempo.
La memoria è una facoltà ampia; ampia per il suo oggetto, perché può
penetrare a ritroso nel tempo fino a incontrare il muro delle origini: l'inizio delle
cose; anzi, con la forza del pensiero può attraversare quel muro per espandersi nel
mistero insondabile del nulla dell'Universo: "prima che il mondo fosse"; ma è ampia
anche nel soggetto, essa spazia dalla plasticità biochimica del nostro organismo
(memoria biologica) alla densità intellettuale della nostra mente (memoria
intellettiva) passando attraverso il subconscio psicologico (memoria psichica) e
l'archivio della nostra sensibilità interiore (memoria sensitiva). In altre parole, come
abbiamo visto, tutto il nostro essere è dotato di memoria, anche se, nel suo
significato più rigoroso, essa viene definita come "capacità di fissare, conservare e
richiamare fatti di esperienza vissuti precedentemente e di riconoscerli con la loro
localizzazione nel passato".
Enorme è l'importanza di questa facoltà nella vita personale e sociale; è
necessario perciò esercitarla, curarla e affinarla. La memoria è come lo spessore
dell'intelligenza. Un uomo superficiale, atono, con una memoria corta e povera
condurrà una vita senza profondità e non conoscerà il valore del tempo. E' il caso
delle ideologie rivoluzionarie che respingono ogni legame col passato e rifiutano la
memoria. Ma un'intelligenza senza memoria rimane senza radici e finisce nella
pazzia.
E' necessario però, quale presupposto per l'armonia della nostra vita interiore,
che usiamo rettamente di questa facoltà. Il buon uso della memoria porta ad una
selezione e ad una purificazione dei ricordi e insieme esige la loro correlazione
ordinata in riferimento ai valori, e infine suppone, in noi, un certo distacco interiore.
L'esercizio positivo della memoria, infatti, non è possibile senza una sufficiente

233
Gv. 3,8
141
libertà di fronte ai propri ricordi.
La memoria è una facoltà "passiva", incapace di presiedere alla propria
attività; è infatti mossa e governata dalla volontà. La volontà agisce nel presente ed
è per lei che il passato della nostra memoria diventa attuale. Ora può accadere che
questa presenza del passato pesi negativamente sul nostro presente. E' necessario
perciò che la memoria non diventi un peso morto e mortificante, ma rimanga
saldamente ancorata all'intelligenza e governata dalla volontà perché sia stimolo alla
nostra vitalità interiore. Le radici devono alimentare l'albero, non mortificarlo.

152 - La memoria del cuore.

La memoria ci permette di utilizzare il tempo anche quando non l'abbiamo più


a disposizione. Il tempo passato può essere stato positivo o negativo, speso bene o
speso male; può essere stato anche un passato senza peso, vuoto, un "tempo perduto",
perché dissipato in cose effimere, apparenti, inutili, oppure può essere stato un tempo
segnato dal dolore e dalla tribolazione, come anche gratificato dal successo e ricolmo
di gioie. Ma il passato certamente più importante e più prezioso resta quello
contrassegnato dalla grazia e dai doni di Dio.
Di tutto il nostro passato, non tutti i ricordi vanno richiamati o accettati; ci
sono ricordi che vanno seppelliti e, se fosse possibile, cancellati dalla memoria. E' il
caso dei torti ricevuti, delle offese e delle ingiustizie patite; tener vive queste cose
nella memoria è come dire che non abbiamo ancora perdonato. Se poi ci turbano e ci
tolgono la pace, il loro ricordo include una forma di vendetta.
La memoria, dunque, serve per ricordare e serve per dimenticare: è
necessario, perciò, filtrare i ricordi. I vocaboli "ri-cordo, ri-cordare " fanno
riferimento al cuore, e nel cuore gli antichi collocavano la sede della memoria. Come
dire che noi siamo inclini a ricordare o a dimenticare una cosa secondo che essa ci
sta a cuore o non ci sta a cuore. Perciò, per filtrare i ricordi in modo retto e saggio,
occorre un "cuore buono". Infatti, un cuore buono saprà dimenticare le offese, le
ingiustizie e le umiliazioni patite, mentre conserverà il ricordo del bene che ha
ricevuto e dei doni che ha goduto; un cuore buono rifugge dal ricordo degli atti
cattivi del passato perché ha rotto con loro e non vuole che diventino un pericolo per
l'anima; semmai ricorda i peccati passati per rinnovare la contrizione interiore e
cancellare con l'amore il disamore della vita passata.
Un cuore buono accoglie i ricordi che gli danno pace e gioia perché gli
ricordano la misericordia di Dio, dimentica invece i dubbi, le tristezze, i sentimenti
negativi perché gli danno inquietudine e gli tolgono la pace. Insomma, un cuore
buono ha memoria del bene e di ciò che porta al bene e dimentica il male e ciò che
produce il male. Un cuore buono lo si riconosce così anche dai suoi ricordi.

153 - Memoria e contemplazione.

Ma la selezione dei ricordi non risponde soltanto a un bisogno di igiene


interiore, sia essa di carattere psicologico o di carattere religioso-morale; essa è
necessaria anche per leggere e ricostruire il vero volto della nostra storia personale e
leggerla, dentro il grande fiume della storia umana, alla luce della storia della
Salvezza. La memoria non è un ripostiglio dove finiscono accumulate l'una sull'altra
le esperienze personali e i vari avvenimenti della vita, e nemmeno una specie di
cassonetto dove si raccolgono alla rinfusa il bene e il male, e nel quale possiamo
rovistare ogni tanto per tirar fuori cose passate che non hanno altro significato che
quello di essere passate. Non si può giocare con i ricordi o servirsene per le nostre

142
nostalgie. La memoria è vita, conserva cose che appartengono alla nostra vita, e
richiamarle secondo un ordine, secondo un criterio di storia è "leggere la nostra
vita", è scoprirne il senso, la traiettoria; è rivisitare i luoghi della nostra libertà dove
è passato il Signore con la sua grazia e con la sua misericordia. In questo senso la
memoria è un luogo privilegiato per l'intelletto contemplativo. S. Luca ci narra
ripetutamente che la Madonna "conservava tutte queste cose meditandole nel suo
cuore". 234
Quando la nostra memoria conserva il ricordo di quello che il Signore ha fatto
per noi, essa diventa uno scrigno prezioso dal quale è possibile far uscire lentamente
il lungo filo dei ricordi; su quel filo dorato, come su una strada che attraversa le
stagioni e i paesaggi della nostra vita, possiamo contemplare con intelletto
d'amore le orme lasciate da Dio nella nostra anima, le ore di grazia lasciate cadere
sulla nostra vicenda di creature, l'ombra silenziosa di un Padre che stava accanto ai
nostri passi quando ci sembravano pesanti, smarriti e senza speranza.
Tutto questo non può che riempirci di commozione e di intima gioia, e
soprattutto di gratitudine. A volte ci viene da pensare che la nostra vita passata
assomigli, come si dice, ad un romanzo, e agli occhi della psicologia e della
valutazione umana delle cose può essere così; ma, per noi cristiani, la nostra vita
passata è una "storia sacra", un intreccio originale e unico, tessuto dalle dita di Dio
che tante volte ha giocato con la nostra libertà. Quanto più la fede illumina la nostra
memoria, tanto più i ricordi raccontano la storia profonda della nostra esistenza, la
storia scritta da Dio, che ci verrà pienamente rivelata nel cielo.

154 - Memoria e sincerità.

Ma per poter percorrere con atteggiamento contemplativo di gratitudine


gioiosa e di consapevolezza soprannaturale il nostro passato sul filo della "memoria
storica" personale, occorre conservare una certa "distanza" dai ricordi e dai loro
fantasmi. Quando lasciamo che il passato ci pesi addosso come se fosse presente e lo
rivestiamo con le emozioni e gli stati d'animo del presente, esso diventa un pericolo
per la nostra libertà interiore, può caricarci di complessi di colpa e di frustrazioni
spesso accompagnate da un senso angoscioso d'impotenza. Essere persone libere
significa anche saper assumersi la responsabilità della propria vita, tutta intera,
con gli errori e le miserie che l'hanno accompagnata. Questo significa che
dobbiamo accettare noi stessi come siamo e come siamo stati; cioè accettare il
nostro presente e il nostro passato, anche quello che vorremmo non ci fosse stato e
che inconsciamente vorremmo rimuovere dalla nostra memoria per farlo sparire dalla
nostra coscienza.
E' questione di sincerità con se stessi, di lealtà verso la vita e di umiltà davanti
a Dio. Virtù che dovremmo trovare in ogni persona libera, capace di responsabilità,
ma che sono doverose in un cristiano. Anche qui, come sempre, è la superbia che
viene a complicare le cose, e alla fine ci porta a vivere in modo sbagliato con noi
stessi e in modo ancora sbagliato ci fa stare nella nostra vita. La conseguenza,
quando non è la nevrosi, è un profondo malessere interiore, una specie di insonnia
come se il passato continuasse a rumoreggiare dentro di noi, a inseguirci come un
nemico. L'umiltà invece mette pace nella nostra anima, ci porta ad accettare il
nostro passato perché è nostro, perché fa parte della nostra vita; e ci porta anche
a valutarlo con responsabilità e obiettività alla luce del bene e del male, ma lasciando
a Dio il giudizio, e abbandonando alla sua dolcissima misericordia gli errori e le
colpe, dalle quali tuttavia sapremo ricavare esperienza, desiderio di espiazione,
spinta per un amore più grande. Senza umiltà non è possibile la pace nella nostra

234
Lc. 2,19
143
anima; non è possibile vivere in pace con sé stessi e con la propria vita.

155 - Memoria e dimenticanza di Dio.

Ma se ci sono cose che non dobbiamo ricordare, ci sono anche cose che non
dobbiamo dimenticare. Dobbiamo selezionare e filtrare i nostri ricordi, ma anche
abbiamo il dovere di fissare nella memoria ciò che non dovrebbe mai mancare nei
nostri pensieri. C'è un rimprovero che i Profeti nell'Antico Testamento rivolgevano
frequentemente al Popolo eletto: la dimenticanza di Dio. Geremia la stigmatizza con
un paragone carico di ironia e insieme pieno di dolore: una donna non riesce a
dimenticarsi dei suoi ninnoli, degli ornamenti futili della sua vanità, Israele invece
arriva a dimenticarsi per anni del suo Dio. "Si dimentica forse una vergine dei suoi
ornamenti, una sposa della sua cintura? Eppure il mio popolo mi ha dimenticato per
giorni innumerevoli". 235
La dimenticanza di Dio è alla base di una visione materialistica della vita
e di una condotta totalmente secolarizzata. Ha perciò il sapore di una apostasia, di
un tradimento; è abbandonare Dio per seguire altri idoli che ci siamo fabbricati noi.
L'uomo infatti non può stare senza Dio, e quando si dimentica del suo creatore
rincorre divinità fittizie che sono un sosia grottesco del suo "io". E dimenticarsi di
Dio vuol dire dimenticare i suoi comandamenti, i suoi doni, le sue misericordie, le
meraviglie compiute per noi dal suo amore.
Quando la nostra memoria è priva di questi riferimenti, il nostro modo di stare
nel presente è disorientato e insicuro. Diventiamo un albero sradicato in preda alle
acque torrenziali degli avvenimenti, una barca alla deriva in balìa di venti che
soffiano da ogni parte. Perciò il Signore con insistenza raccomanda al popolo di
Israele di non dimenticare: "Guardati dal dimenticare il Signore che ti ha fatto uscire
dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù. 236 ...guardati e guardati bene dal
dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto: non ti sfuggano dal cuore, per tutto
il tempo della tua vita. Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli". 237
La memoria personale dovrà così diventare una memoria collettiva, "la
memoria storica" di tutto un popolo. E perché non cadessero in dimenticanza i suoi
precetti, la sua Alleanza e i prodigi da Lui compiuti per liberare Israele, Dio, per
bocca di Mosè, dirà a tutto il popolo: "Questi precetti che oggi ti do, ti siano fissi nel
cuore (la memoria) ... te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un
pendaglio tra gli occhi, e li scriverai sugli stipiti delle tue case e delle tue porte". 238
Farà, poi, costruire un'arca per conservarvi il "memoriale" dell'Alleanza, cioè le
Tavole della Legge, la Manna, la Verga di Aronne; infine darà ordine di ripetere ogni
anno la Cena pasquale, e "così per tutto il tempo della tua vita tu ti ricorderai il
giorno in cui sei uscito dal paese d'Egitto". E quando Israele si allontanerà da Dio
dimenticando i suoi precetti e la sua Alleanza, Dio stesso gli manderà i suoi profeti e
permetterà dure esperienze per richiamarlo alla fedeltà, e indurlo a non dimenticare.
Anche nei Salmi troviamo continui richiami a non dimenticare. Il più noto è il
Salmo 136, il canto dell'esilio: "Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al
ricordo di Sion (...) come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se ti
dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato
se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia
gioia". 239

235
Ger. 2,32
236
Deut. 6,12
237
Deut. 4,9
238
Deut. 6,6-8
239
Salmo n. 136,1-4
144
156 - Il “Memoriale” di Cristo.

Ma con Gesù Cristo la "memoria storica" di un popolo, codificata nei segni


liturgici, diventa, nei segni sacramentali, un "Memoriale vivente" per tutta l'umanità.
"Nella notte in cui veniva tradito, prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e
disse: Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me. Allo stesso
modo, prese il calice, dicendo: questo calice è la nuova Alleanza nel mio sangue;
fate questo ogni volta che ne bevete, in memoria di me". 240 Non c'è in tutto
l'universo un luogo dove l'eternità abbia infranto tutte le leggi del tempo e dello
spazio come qui nella Santissima Eucaristia: in un istante, vengono superati
duemila anni di tempo e annullata la distanza di migliaia di chilometri. Ciò che si
compie sull'altare è lo stesso mistero che si è compiuto in quella notte a
Gerusalemme. Non solo le leggi della natura sono state superate ma anche le leggi
dello spirito umano; l'intelletto non ha categorie che possano esprimere il mistero, e
la memoria non è più la facoltà del passato.
La "memoria", in Dio, è un presente eterno e i prodigi da lui compiuti non
appartengono solo al passato. Le opere di Dio, pur compiute nel tempo, rimangono
in eterno; non finiscono come le vicende umane sepolte in un passato dal quale è
necessario richiamarle ricorrendo alla memoria. Gesù non dice: rinnovate, ricordate,
ripetete questo in memoria di me; dice: Fate questo..., vale a dire: questo che io ho
fatto, voi lo rendete presente in tutta la sua realtà ogni volta che anche voi lo fate.
Perciò, concludeva S. Paolo: "ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di
questo calice, voi annunziate (non "commemorate", "ricordate") la morte del Signore
finché egli venga". 241
Noi cristiani cattolici, per incontrare Cristo e la sua redenzione, non abbiamo
bisogno di passare attraverso la memoria, come avviene per i cristiani-protestanti che
avendo perduto la sacramentalità del gesto salvifico di Cristo ne conservano solo la
ritualità commemorativa; a noi è dato di trovare Cristo, realmente e veramente - oggi,
adesso - nei Sacramenti e soprattutto nell'Eucaristia, "Memoriale vivente" della sua
Passione sino alla fine del mondo. Abbiamo semmai bisogno della fantasia per
vestire con le immagini una Realtà che è presente nel Mistero.
Così la nostra memoria del passato diventa attenzione al presente, un presente
che stimola la fede e che non lascia inerte l'amore. Un presente che è compimento e
caparra delle promesse divine per cui la memoria lascia il posto alla contemplazione
che illumina di gioiosa speranza e d'incrollabile certezza tutto il futuro del nostro
cammino. Quanto più la nostra unione con Cristo per mezzo della fede, della
speranza e della carità diventa attuale e profonda, tanto più le categorie del
tempo - il passato, il presente, il futuro - si annullano, l'anima anela ad abitare
l'eternità e finisce col vivere di desiderio. Un desiderio inesprimibile che trova nei
ricordi del passato e nelle immagini del futuro un doloroso ostacolo alla sua felicità;
memoria e fantasia - passato e futuro - sono allora causa di sofferenza e di dolore
perché impediscono all'anima l'attenzione piena e totale a Colui che è l'eterno
Presente, a Colui che, non avendo né spazio né tempo, è rimasto l'unico Amore che ci
attende nell'eternità.

240
1 Cor. 11,24-25
241
1 Cor. 11,26
145
IL PRESENTE: TEMPO DELLA VOLONTA’

157 - Volontà e Intelletto.

La volontà è la facoltà del presente. Essa svolge un ruolo fondamentale; è


infatti la facoltà operativa che si colloca al centro della nostra persona, e presiede a
tutti gli atti che promanano dalle altre facoltà nel momento in cui questi atti si
pongono. Il tempo presente è perciò il luogo del suo agire, e gli atti delle altre facoltà
sono il luogo del suo manifestarsi: gli occhi guardano se voglio guardare, la fantasia
immagina se voglio fantasticare, l'intelletto conosce se voglio che si muova verso la
verità ecc.; la volontà è dunque il centro etico della persona. L'uomo infatti si
qualifica come buono o cattivo secondo che possiede una volontà buona o una
volontà cattiva.
La volontà umana presenta due caratteristiche: è intenzionale, cioè legata
all'intelletto come appetito intellettuale, ed è libera, può cioè autodeterminarsi. Essa
perciò sta alla base della nostra responsabilità. Proprio perché abbiamo una volontà
che ha il dominio dei propri atti, noi abbiamo la capacità e il dovere di rispondere di
essi.
Tutto questo ci da la misura della nostra grandezza, della nostra dignità di
esseri umani formati a immagine di Dio. Questa immagine è già presente in noi ma è
anche tutta da realizzare; siamo come attirati da Dio, chiamati a diventare sempre più
"simili a Lui", realizzando in noi una immagine sempre più perfetta di Lui: "Siate
figli del Padre vostro celeste". 242 Ciò significa che la nostra volontà deve essere
orientata, anzi "fortemente" orientata verso Dio, così da trascinare verso di Lui
tutto il nostro essere. Si potrebbe dire che una volontà forte sa spingere verso l'alto
la nostra natura con le sue facoltà: quelle inferiori (i sensi e gli istinti) che vanno
sottomesse alle facoltà superiori (l'intelletto e la ragione) e queste che a loro volta
vanno sottomesse a Dio. Del resto sappiamo che anche il mondo infraumano, il
mondo della Natura, doveva rimanere soggetto all'uomo. Era infatti questo l'ordine
nel quale Dio aveva creato tutte le cose; Egli aveva distribuito le creature secondo un
orientamento che rispettava la scala dei valori. Ogni cosa aveva il suo posto. Era la
pace, la tranquillitas ordinis.

158 - “Debolezza della volontà”.

Finché la volontà dell'uomo rimase pienamente soggetta alla volontà di Dio


rispettando l'ordine da lui voluto, regnò la pace e l'uomo poteva vivere nell'Eden, il
Paradiso piantato dal Signore. Ma quando l'uomo, dissociandosi dalla volontà di Dio,
si allontanò da lui pretendendo la conoscenza del bene e del male e volle porre se
stesso come criterio di verità e come norma morale, tutto l'ordine predisposto da Dio
venne sconvolto; si scatenò la guerra dentro l'uomo e in tutto il creato. La volontà
perse così la sua forza e il suo potere; si trovò a subire il ricatto dei sensi, la
ribellione degli istinti, la debolezza di un intelletto che non era più in grado di
illuminarla; perciò il disordine, la paura, l'anarchia.
A questa disobbedienza dell'uomo, Dio rispose con l'obbedienza del Figlio,
obbedienza che non solo ha riparato il peccato della nostra ribellione, ottenendoci il
perdono della colpa, ma ci ha anche meritato la grazia che salva. Nell'agonia del
242
Mt. 5,45
146
Getsemani, nella notte che precedette la sua passione, Gesù si consegnò nelle mani
del Padre con un atto di obbedienza totale:"Padre, si faccia non la mia ma la tua
volontà", 243 obbedienza che poi lo portò sulla croce. Ora, per trovare misericordia
davanti a Dio e ricevere la grazia della salvezza, è necessario che entriamo anche noi
nell'obbedienza del Figlio; occorre che anche la nostra volontà si unisca alla volontà
di Cristo per compiere con Lui la volontà del Padre.
Cristo avrebbe potuto portare a compimento la nostra salvezza distruggendo in
noi tutte le conseguenze del peccato: il disordine delle passioni e le inclinazioni al
male, ristabilendo così, in noi e nel mondo intero, l'armonia originale. Egli invece ha
voluto che anche l'uomo collaborasse, con libera decisione, alla propria salvezza in
modo da completare nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo". 244
Non basta perciò che la nostra volontà si riordini a Dio, torni ad orientarsi
verso di lui con l'obbedienza, ma occorre che riprenda il suo posto all'interno
dell'uomo, occorre che restauri il suo dominio sulle altre facoltà per ripristinare
l'unità interiore, l'ordine e la pace all'interno della nostra natura. E' un lavoro
che chiamiamo "ascetico", di ascesi, in quanto la volontà è chiamata a spingere tutto
il nostro essere verso l'alto, appunto verso Dio.
Perciò è chiamata, la volontà, a riprendere il dominio sui sensi, a ordinare
verso il bene la forza delle passioni, a spingere l'intelletto ad accogliere la
Rivelazione di Dio e anche ad esigere da se stessa di disporsi sulla strada dei
Comandamenti.

159 - La “forza” della volontà.

Tuttavia la nostra volontà non ha più la forza per assolvere il suo compito.
Ogni giorno facciamo l'esperienza della sua debolezza: incertezza nelle decisioni,
fragilità nei propositi, incostanza nello sforzo, indecisione nell'agire per cui
vogliamo e non vogliamo nello stesso tempo. Abbiamo detto che la grande malata dei
nostri giorni è l'intelligenza, ma le conseguenze sulla volontà sono mortali. In molti
la volontà è come morta, paralizzata; alcuni si lasciano portare dagli avvenimenti
incapaci di decisioni e di scelte; altri hanno una volontà sclerotica, indurita da
vecchie abitudini, pesantemente condizionata dall'ambiente, dalla moda o dalla
mentalità dominante; altri ancora hanno lasciato che le passioni sostituiscano la
volontà, per cui agiscono sotto la spinta dell'avidità, del rancore, della vanità, della
sensualità, dell'odio.
Alla luce di questa situazione umana, molti hanno concluso che l'uomo non è
affatto libero e che la nostra volontà è irrimediabilmente corrotta, incapace di operare
il bene, perché anche nel bene l'uomo cerca il proprio interesse o la propria
gratificazione. In realtà questa condizione, che a volte appare tragica, significa due
cose: che il peccato è stato una vera catastrofe per il genere umano, e che riprendere
il controllo sul nostro io e il dominio sulle passioni da parte della volontà risulta di
fatto impossibile senza la Grazia. Questa convinzione, fondata del resto
sull'esperienza, dovrebbe liberarci da ogni tentazione di volontarismo, di contare cioè
esclusivamente sui nostri sforzi, di credere ad un titanico "volli, sempre volli,
fortissimamente volli".
Gesù ci ha meritato la grazia santificante che divinizza la nostra anima, ma ci
ha ottenuto anche la "grazia sanante", la grazia che risana le nostre facoltà
soprattutto la volontà, fortificandola perché riprenda il dominio sulle passioni, e
accompagnandola (grazia cooperante) nel suo impegno di esercitare le virtù teologali
e di acquisire le virtù cardinali. Del resto, Gesù ce l'ha detto apertamente: "Senza di
me, non potete far nulla". Non qualche cosa, non un po' di bene: nulla. E questo non
243
Lc. 22,42
244
Col. 1,24
147
deve risultare umiliante per noi, quasi una dichiarazione di resa totale, di sconfitta; è
l'umiltà della creatura che sa di essere stata salvata da Dio con una salvezza che
viene tutta e solamente da lui.
Abbiamo già detto che Dio ci comunica la sua grazia attraverso i sacramenti,
che tuttavia suppongono sempre e comunque la nostra preghiera, una preghiera
umile, perseverante, fiduciosa. Questo è tanto vero che un santo ha potuto dire:chi
non prega non si salva.

160 - Educare la volontà.

La seconda cosa che emerge dalla nostra condizione umana debilitata è che la
volontà ha bisogno di essere "educata". E' indispensabile una terapia della volontà,
rimasta indebolita dal peccato, così come è necessaria una terapia dell'intelligenza.
Come ogni altra facoltà anche la volontà va allenata, va esercitata negli atti buoni,
così da essere efficacemente fortificata nel bene. Questa verità deve premunirci
contro ogni naturalismo ottimistico, che considera l'uomo naturalmente e
integralmente buono; ignora cioè il disordine delle passioni, l'oscuramento della
coscienza, l'inclinazione all'egoismo. Un naturalismo siffatto ha conseguenze
deleterie nel campo della pedagogia. Impedire al bambino, al ragazzo, agli alunni di
fare quello che vogliono è, secondo la pedagogia naturalistica, non solo un abuso di
potere ma anche una mortificazione della loro personalità, una violenza alla loro
natura. E' così che l'uomo diventa cattivo: lo fa tale la società.
Ora tra il pessimismo negativo o rassegnato che ignora il dono della Grazia, e
l'ottimismo trionfante, naturalistico, che ignora il disordine del peccato e delle
passioni, ecco l'uomo storico, reale, vero, l'uomo secondo la Rivelazione:
creatura di Dio, forgiato a sua immagine e somiglianza, ferito e corrotto dal
peccato ma anche redento da Cristo e chiamato, nella Chiesa, alla comunione
con Dio e alla Vita Eterna.
L'uomo, dunque, pur avendo perduto la sua integrità originale e i doni che
avevano perfezionato la sua natura, non ha perduto la sua capacità di intendere e di
volere responsabilmente. Questa capacità, pur indebolita e condizionata, a volte
pesantemente, dalle pulsioni interne (le passioni) o da pressioni esterne (l'ambiente
mondano), non viene soppressa o annullata, salvo nei casi patologici; essa, invece,
con l'esercizio paziente e perseverante delle virtù può ricomporre l'ordine interiore
dell'uomo nella sua identità e dignità di figlio di Dio fino all'eroismo della santità.
Sant'Agostino ricorda tutto questo con un'espressione estremamente vigorosa: "Colui
che ha creato te senza di te, non salverà te senza di te". C'è, qui, tutto il mistero della
Grazia e tutto il mistero della nostra responsabilità personale.

161 - Volontà e amore.

La dote più importante della volontà - si dice - è la fortezza. A volte si


qualifica una persona come forte perché è cocciuta, caparbia, puntigliosa. Per sé
questi atteggiamenti non sono espressione di fortezza, possono anzi diventare difetti,
frutto della superbia o legati più al carattere che alla volontà e perciò vanno semmai
corretti. La fortezza è una virtù più profonda, più spirituale. Possiamo dire che è la
forza con cui la nostra volontà aderisce intimamente alla volontà di Dio, una forza
che non può essere superata da nessun'altra, perché è la forza dell'amore. Perciò San
Paolo esclamava: "Chi dunque ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la
tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?...
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati.

148
Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né
avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai
separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore". 245
Una volontà forte è una volontà lungamente esercitata e intensamente
innamorata. Ogni "si" detto a Dio per amore fortifica la volontà, la rende sempre più
ferma nell'adesione alla volontà divina e sempre più efficace nel dominio sulle altre
facoltà; esse verranno orientate sempre più fortemente verso il nostro fine ultimo e
sottomesse alla legge dell'amore.
Perciò una volontà forte e innamorata si vede nel comportamento quotidiano,
in ogni istante e in ogni circostanza; essa vince il timore e la paura, non si preoccupa
del giudizio altrui né teme il ridicolo, non subisce i condizionamenti dell'ambiente o
della mentalità dominante, non fugge davanti al sacrificio o alla fatica per lo sforzo,
è perseverante nel lavoro incominciato e lo porta a termine fino al dettaglio, è
paziente nelle avversità e sopporta con garbo le contrarietà della vita, domina il
desiderio di vendetta e sa spingere il nostro animo al perdono, non si lascia trascinare
dallo zelo amaro che aggredisce le persone ma anche sa soffrire per difendere la
verità, aborrisce la vigliaccheria e il rispetto umano e respinge l'anonimato che è un
rifiuto alla propria responsabilità, è infine perseverante nella testimonianza fino al
sacrificio di sé; il martirio è la sua espressione suprema.
L'elenco potrebbe allungarsi ma non arriverebbe ad esaurire tutte le possibili
applicazioni di questa virtù perché la fortezza abbraccia tutto il campo dell'agire
umano. Importante, invece, è convincersi che il campo privilegiato in cui
possiamo fortificare la volontà è quello delle piccole cose, nelle circostanze
ordinarie della vita quotidiana. Scrive il Beato Josemaria Escrivà: "Volontà. E' una
caratteristica molto importante. Non disprezzare le piccole cose, perché nel continuo
esercizio di negare e di negarti in esse - che non sono mai futili, né di poco conto -
fortificherai, darai virilità, con la grazia di Dio, alla tua volontà, per essere molto
padrone di te stesso, innanzitutto. E poi, guida, capo, leader!..., per impegnare,
spingere, trascinare, col tuo esempio e con la tua parola e con la tua scienza e con la
tua autorità". 246

162 - Volontà e Grazia.


"Educare" la volontà significa dunque "trarre fuori" dalla volontà tutta la
potenzialità di decisione e di fermezza che essa contiene. Ed essendo essa un
"appetito intellettivo" avranno un ruolo determinante i valori e le motivazioni che
l'intelligenza saprà proporre alla volontà. Di qui l'importanza di una intelligenza
sana, nutrita di valori autentici, veri, e di qui anche la responsabilità degli educatori,
genitori in particolare, di proporre ai figli con l'esempio prima - non possiamo
barare! - e poi con la parola e con l'insegnamento, gli ideali in cui si realizzano la
verità e il bene. Soltanto valori nobili, forti, duraturi, possono muovere la volontà
verso ideali di vita degni dell'uomo; ma soprattutto sarà la conoscenza sempre più
profonda di Dio, Bene sommo, Valore di tutti i valori, che potrà attirare
irresistibilmente la volontà - innamorarla! - verso gli orizzonti senza confini della
santità e della perfezione cristiana. C'è un ritornello, - possiamo anche chiamarlo
slogan - che dovrebbe echeggiare continuamente dentro il nostro animo come una
preghiera: "Vale la pena! Vale la pena! Vale la pena!".
Tuttavia, la necessità della Grazia nell'educazione della volontà - grazia che,
come abbiamo visto, viene da Cristo e opera in noi come dono dello Spirito - fa si
che la nostra fortezza sia tutta "prestata"; una fortezza non nostra, che non viene da
noi perché è un dono: "..la nostra capacità viene da Dio", scrive San Paolo ai
245
Rom. 8,35-39
246
Cammino n. 19
149
Corinti, facendo eco alle parole di Gesù:"Senza di me non potete far nulla". 247
Perciò la Grazia fa della nostra fortezza una virtù "cristiana",
radicalmente diversa da ogni tecnica umana, venga essa dalla psicologia o dall'ascesi
praticata nelle filosofie orientali. Esse infatti hanno come fine il miglioramento della
vita psichico-spirituale dell'uomo e nascono dall’esercizio e dalle risorse
esclusivamente umane; la fortezza cristiana, invece, va oltre, perché nasce dall’amore
di Dio e sostiene la nostra fedeltà a Cristo fino all’eroismo. L'amore di sé stessi può
prendere forme e motivazioni anche nobili e spirituali, ma rimane sempre una risorsa
puramente umana.
Ora, proprio l'amore disordinato di sé stessi, amore che genera in noi
l'egoismo, è la malattia più pericolosa della volontà, il suo nemico più temibile.
L'egoismo ha mosso e muove continuamente l'uomo, ogni uomo, e quindi ognuno di
noi, sulle strade della vanità e dell'orgoglio, della ricerca del proprio interesse, del
solo benessere personale, del successo ad ogni costo, dell'attaccamento ai beni della
terra e ai piaceri della vita. L'egoismo uccide la volontà nella sua naturale tendenza
verso il Sommo Bene, verso Dio. Sant'Agostino così esprime le conseguenze di una
volontà divisa fra l'amore di sé e l'amore di Dio: "Due amori hanno eretto due città:
l'amore di sé fino al disprezzo di Dio, la città della terra; l'amore di Dio fino al
disprezzo di sé, la città di Dio. L'una si gloria in sé stessa, l'altra nel Signore". 248
Non ci sono dunque volontà deboli o volontà forti, ma volontà innamorate,
trascinate dall'amore, o volontà chiuse nell'egoismo, refrattarie all'amore.
Dicevamo dell'intelletto "debole", quando manca della Verità; possiamo parlare di
volontà "debole" quando manca l'Amore. La Verità è Cristo, l'Amore è Cristo. E' lui
la luce che illumina l'uomo, è lui la forza che vince il mondo. "Il fiume delle cose
temporali ti trascina, ma sulla sponda di questo fiume è nato un albero... Ti senti
rapire verso il precipizio? Tienti forte all'albero. Ti travolge l'amore del mondo?
Tienti forte a Cristo. Per te egli è entrato nel tempo, perché tu diventassi eterno!". 249

163 - Oggi, adesso!

La fortezza della volontà si vede nel momento in cui essa agisce, cioè nel
presente, in quello che stiamo facendo adesso e non in quello che faremo domani.
Questo ci aiuta a capire l'importanza del tempo presente e la necessità di agire con
volontarietà attuale. "Vuoi essere santo? Compi il piccolo dovere di ogni momento:
fa quello che devi e sta in quello che fai". 250
Il tempo presente è l'unico tempo che abbiamo a disposizione: il passato è
passato e appartiene alla misericordia di Dio; il futuro, se verrà, è ancora nelle mani
di Dio. Nelle nostre mani abbiamo solo il presente, e compiere il dovere di ogni
momento, - fare quello che devo - è l'unico modo di vivere veramente il tempo. San
Paolo esortava i cristiani di Efeso a comportarsi da "uomini saggi, profittando del
tempo presente". 251 Stare al presente è stare nella realtà, ed è segno di saggezza saper
riconoscere e utilizzare pienamente tutte le possibilità umane e divine che la realtà
nasconde. C'è infatti "qualcosa di divino nascosto in ogni circostanza che tocca a noi
scoprire". 252
Il segreto sta nell'aver presenza di Dio e nel cercare il senso soprannaturale di
ogni cosa. La presenza di Dio ci aiuta a portare davanti al Signore le cose che
abbiamo tra le mani, cioè ad offrire a Lui il lavoro che stiamo facendo, mettendo
247
Gv. 15,5
248
S. Agostino, De civitate Dei
249
S. Agostino. Commento alla Lettera di S.Giovanni. Tratt.2,10
250
Cammino n. 815
251
Ef. 5,16
252
Beato J. Escrivà, Amare il mondo appassionatamente.
150
quella rettitudine e diligenza che rendono gradita a Dio la nostra offerta. Così la
saggezza diventa un realismo sereno e operoso che sa vivere l'"hodie, nunc" - oggi,
adesso - con pienezza di impegno e di fedeltà. "Dopo... domani..." sono gli avverbi
dei pigri, alibi meschini di chi inganna sé stesso per non compiere il dovere del
momento.
Eppure c'è sempre in tutti noi la tentazione di scappare dal tempo presente. Il
più delle volte si tratta di fughe in avanti: facciamo le cose ma con l'assillo di ciò che
ci attende dopo e già pensiamo a quello che faremo, come lo faremo, con chi lo
faremo; ci carichiamo di timori per quello che accadrà (che spesso non accadrà), e ci
lasciamo prendere dall'ansia e dalla preoccupazione per l'incertezza di come
andranno le cose e per il peso, spesso immaginario, che esse comportano. E' una fuga
in avanti che crea malessere e mette a nudo la nostra poca fede, la carenza di fiducia
e di filiazione divina che impoverisce la nostra vita cristiana. Siamo tutti esposti a
questa tentazione, tanto che Gesù stesso, dopo aver ribadito con termini commoventi
la paterna provvidenza di Dio, conclude: "Non affannatevi dunque per il domani,
perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena". 253
Ci sono poi fughe in avanti provocate non dalla preoccupazione di ciò che si
teme ma dall'attesa di ciò che si desidera: mossi dall'impazienza, anticipiamo nel
desiderio ciò che ci attira e che piace. Rischiamo così di essere completamente
assenti da ciò che facciamo e facilmente delusi da ciò che aspettiamo.
Ci sono infine le fughe nei sogni e nelle fantasie impossibili, non ispirate dalla
magnanimità o da nobili ambizioni, perché sono futili romanzi per la nostra vanità,
sterili progetti del nostro io megalomane, ipotesi irreali per quella che il Beato
Escrivà chiamava la "mistica del magari". E' l'atteggiamento di chi, insofferente
della propria realtà, sogna situazioni diverse e inattuabili: un lavoro diverso, una
salute diversa, una famiglia diversa, figli diversi ...!
Così si vive di fughe; la nostra volontà rifiuta di stare al presente e di vivere
con pienezza la realtà attuale. Quante ansie, paure e inquietudini potremmo evitare se
avessimo la saggezza di vivere con fedeltà il tempo presente e di compiere con
gioiosa dedizione il dovere del momento. "Comportati bene, "adesso", senza
ricordarti di "ieri" che è già passato, e senza preoccuparti di "domani", che non sai se
per te arriverà". 254

164 - Volontarietà attuale.

Per questo dobbiamo non solo "fare quello che dobbiamo", ma anche "stare in
quello che facciamo". Vale a dire che dobbiamo metterci con volontarietà attuale nel
lavoro che stiamo facendo. In altre parole, dobbiamo fare le cose perché "vogliamo"
farle. Troppo spesso ci lasciamo trascinare dagli avvenimenti o dalle circostanze;
abbiamo l'atteggiamento di chi subisce la vita, non di chi la vive, anche se sono
situazioni che non dipendono da noi, che non abbiamo noi disposto o previsto.
Facciamo le cose perché ci tocca farle, perché rientrano in un orario, in un
programma stabilito da altri, perché ci troviamo inseriti in un contesto famigliare o
sociale che prevede determinate prestazioni e servizi ai quali non è possibile sottrarci
senza compromettere una ordinata convivenza tra le persone.
Sembra un paradosso, ma non sempre dove c'è libertà c'è anche volontarietà,
come vorrebbe un ben noto luogo comune: io faccio quello che "voglio". Troppe
volte, invece, ci lasciamo condurre non dalla volontà ma dal capriccio, dallo stato
d'animo, dalla malavoglia e dalla pigrizia, troppe volte sul nostro agire hanno peso la
moda, la mentalità dominante, i modelli della pubblicità e, ancor più, troppo spesso
sprofondiamo nel sonno dell'abitudine.
253
Mt. 6,34
254
Cammino n. 253
151
Agire con volontarietà attuale è garantire al nostro operato la forza
dell'amore. Il piacere, infatti, può renderci egoisti; il successo, superbi; la bellezza,
vanitosi; le ricchezze, prepotenti; solo il sacrificio può educare la volontà e renderla
capace di amare.
Non possiamo dire che le generazioni della nostra epoca abbiano una volontà
allenata, fortemente motivata. Se pensiamo alla titubanza nelle decisioni, alla paura
dello sforzo o dell'impegno soprattutto se deve durare nel tempo o magari per tutta la
vita, se pensiamo a tanta instabilità emotiva, alla fragilità psicologica, alla scarsa
fermezza d'animo che caratterizzano le generazioni del nostro tempo, ci rendiamo
conto del perché sia così difficile oggi trovare lealtà, fedeltà, coerenza; e anche
perché la fede sia diventata così incerta, così traballante.
Noi cristiani siamo chiamati ad essere nel mondo la forza di Dio, perché la
potenza dello Spirito ci ha liberati dalla schiavitù del peccato e ci ha resi capaci di
amare con l'amore di Cristo. Dobbiamo comunicare fortezza intorno a noi e nel
mondo; dobbiamo trasmettere certezze, diffondere sicurezza e fiducia. Ma
dobbiamo anche ricordarci che "il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne
impadroniscono". 255 Perciò dobbiamo essere forti nella fede - fortes in fide - fiduciosi
nella speranza, "saldi e irremovibili nella fatica", 256 perseveranti nella preghiera,
virili nel comportamento - viriliter agite - capaci di un amore più forte della morte -
fortis ut mors dilectio-.
Tutto questo, Dio lo ha fatto risplendere in Colei che, pur essendo la più dolce,
la più tenera, la più amabile delle creature, sta in mezzo all'umanità come "Torre di
fortezza" - Turris fortitudinis - e sta davanti al Maligno come "un esercito schierato
a battaglia". La Vergine Maria, schiacciando la testa al serpente, ha riparato la
debolezza di Eva e ha cancellato la sua sconfitta; il suo "fiat" deve insegnarci a stare
nella volontà di Dio con la dedizione, la fedeltà e l'amore di un "si" che diventa
vittoria di Dio, un canto di gioia e di pace.

IL FUTURO: TEMPO DELLA FANTASIA.

165 - La “pazza di casa”?

La fantasia è la facoltà dei poeti e dei profeti. E' l'occhio puntato sul futuro.
La sua attività preferita è progettare, "sognare", comporre la realtà del domani. Ma la
fantasia è una facoltà senza confini e può spaziare anche sul passato e sul presente;
può elaborare, ridisegnare, trascolorare tutto ciò che è stato e che è, tutto ciò che
scorre nel tempo.
Nel tragitto conoscitivo, la fantasia sta tra i sensi e l'intelletto, e partecipa
di tutti e due. Come senso interno veste di fantasmi i dati della sensibilità; come
strumento intellettuale spazia nel mondo delle idee con la libertà dello spirito. La
fantasia è come la tavolozza dell'intelligenza. In questo senso la fantasia umana è
diversa da quella degli animali, avendo una attività "poietica", cioè creativa e non
soltanto riproduttiva delle immagini. La fantasia si sposa felicemente con l'emotività
e con l'intuizione; rende perciò la nostra mente mobile, versatile, rapida,
imprevedibile: la fantasia è donna. Per questo, forse, se n'è talvolta parlato male,
come di un ostacolo alla razionalità. E tuttavia, pur dipendendo dai sensi e

255
Mt. 11,12
256
1 Cor. 15,51
152
dall'affettività, la fantasia li supera e va oltre; è con la fantasia che la nostra mente
progetta, forgia e costruisce il futuro.
Se nella perfezione delle sue leggi, la natura ci rivela l'infinita sapienza di
Dio, nella ricchezza, varietà e bellezza dei suoi elementi essa ci rivela l'inarrivabile
"fantasia" di Dio. Senza fantasia non c'è arte, non c'è poesia, non c'è genio. Non c'è
nemmeno gran parte della scienza che proprio dalla fantasia si avvale per formulare
le sue ipotesi. Molte delle scoperte scientifiche più importanti sono nate da lampi
intuitivi della fantasia.
A creare una cattiva fama intorno alla fantasia sono stati alcuni filosofi e
alcuni teorici della mistica. I Platonici e tutti coloro che hanno una concezione
negativa della materia e del mondo, vedono la fantasia come un castigo dell'anima, la
quale si troverebbe a dover lottare contro una forma di conoscenza non realistica, in
perenne contrasto col realismo della ragione. Anche molti intellettuali e politici
diffidano della fantasia, ma non sanno che i peggiori politici si trovano proprio tra
coloro che non hanno fantasia.
Alcuni teorici della mistica mettono in guardia dalla fantasia da quando santa
Teresa D'Avila la chiamò "la pazza di casa", e la colpevolizzano per tante difficoltà,
distrazioni, difetti che affliggono la vita spirituale.

166 - Fantasia e anarchia.

Non c'è dubbio che il peccato, che ha ferito mortalmente la nostra natura e
tutte le sue facoltà, non ha risparmiato nemmeno la fantasia. Anch'essa è diventata
"disordinata"; le sue malattie possiamo riassumerle nell'anarchia, nel compiacimento
onirico, nelle utopie.
Una fantasia anarchica è appunto una fantasia senza leggi, senza disciplina,
una fantasia senza riferimenti, lasciata in balìa di sé stessa. I riferimenti che
tengono la fantasia al servizio dell'intelligenza sono i valori: la verità, la giustizia,
la bellezza, l'amore, la dignità; in definitiva, Dio, l'uomo, la natura. La fantasia non è
l'intelletto ma è al servizio dell'intelletto, perciò non pensa i valori ma li rappresenta,
dà "corpo" ai valori, li colloca nello spazio e nel tempo. Li toglie dal regno astratto
della teoria e li porta nella concretezza della vita; crea modelli di giustizia, di
bellezza, di amore..., incarna i valori in esempi vissuti ai quali può conferire forza ed
efficacia. Dipende dalla fantasia che i valori abbiano un loro fascino, una loro
suggestione, un'attrattiva più o meno efficace su di noi, e perciò esercitino un peso
sulla nostra emotività e anche sulla nostra coscienza morale: è un ruolo di notevole
importanza. Importante perciò è la disciplina della fantasia, che sia cioè rettamente
orientata. Non possiamo lasciare che diventi "la pazza di casa".

167 - La fabbrica dei sogni.

Una seconda malattia che può affliggere la fantasia è il compiacimento


onirico. La fantasia, lo sappiamo, è la fabbrica dei sogni. L'attività onirica è perciò
connaturale alla fantasia, e sarebbe segno di una grave menomazione se tale attività
mancasse. Già conosciamo il ruolo importante che svolgono nella vita psichica i
sogni notturni, quelli legati al sonno; ma qui ci riferiamo ai sogni "diurni", i sogni ad
occhi aperti. Quando la fantasia è "sbrigliata", abbandonata a sé stessa, anziché
mettersi al servizio dell'intelletto, rischia di cadere nel territorio dominato dal nostro
"io". E il nostro io non trova nulla di meglio che cavalcare una fantasia al servizio
della propria vanità, e inanellare su di essa narcisistici caroselli, interminabili, e
sempre più larghi, infarciti da assurde e inverosimili imprese, dove esso, il nostro io,

153
è re e dominatore assoluto.
Una fantasia manipolata dalla vanità diventa stupida e sterile. Quando il nostro
io dimentica di essere un pupazzo ridicolo e si gonfia di vanità, diventa mastodontico
e ingombrante fino a occupare tutto il nostro mondo interiore e a chiudere così ogni
altro orizzonte al nostro spirito. Una fantasia che non abbia davanti a sé orizzonti
aperti è morta.
Dobbiamo invece liberare la nostra fantasia, svegliarla perché sogni in grande,
aprirla agli orizzonti sconfinati di tutto ciò che è vero, bello, amabile, santo. I santi
sono stati tutti dei grandi sognatori; i loro sogni erano sulla misura della
potenza di Dio e della sua grazia. Perciò furono spesso giudicati come pazzi e
temerari; la loro fantasia obbediva invece all'audacia del cuore e alla magnanimità
della mente: un cuore capace di amare e una mente capace di pensare cose grandi per
la gloria di Dio.
Tuttavia la vanità e il compiacimento ludico sono per la fantasia un pericolo
meno grave dell'aridità e della sonnolenza dello spirito. Guai a togliere alla fantasia
la libertà di sognare! Il mondo invecchierebbe improvvisamente, sparirebbero i
poeti e i bambini e la santità diventerebbe estremamente noiosa.
Il mondo ha certamente bisogno di scienziati e di filosofi, ma non basta. Lo
scienziato descrive i fenomeni della natura, ne studia le leggi e le misura: egli si
interessa della "grammatica" delle cose; il filosofo penetra le ragioni profonde, i
rapporti logici e metafisici tra gli esseri: egli si occupa della "sintassi" delle cose;
solo il poeta, il mistico, e a suo modo il bambino, sanno leggere il "mistero" delle
cose, il loro canto, il loro splendore, la loro analogia, il profumo di trascendenza che
esse emanano: nel mistico, nel poeta e nel bambino la fantasia ha sciolto le vele, ha
messo le ali, le ali dell'amore e dell'intuizione.

168 - Fantasia e Profezia.

La scienza e la tecnica misurano l'universo e lo utilizzano, solo la fantasia lo


percorre e lo contempla: lo percorre in profondità e ne contempla l'arcano splendore.
Ma c'è una fantasia che fa immensamente di più: percorre non solo in profondità ma
anche in prospettiva la storia del mondo e le vicende degli uomini: è la fantasia dei
profeti. Percossa dalla luce della Rivelazione, essa riverbera le immagini più audaci
e abbaglianti sul futuro del mondo e dell'uomo, un futuro indicibile alle parole,
nascosto nelle profondità di Dio, dove tempo ed eternità hanno lo stesso linguaggio e
sono lo stesso mistero. Chi non ricorda le pagine affascinanti e drammatiche di Isaia
e di Daniele? E che dire delle pagine immense, sconfinate, della più esaltante tra le
profezie: l'Apocalisse? E' la fantasia al servizio della fede, dove le immagini non
vestono concetti o prospettive umane, razionali, ma l'imperscrutabile disegno di Dio,
il "sogno" ineffabile della Sapienza eterna.
Questo sogno di Dio, descritto dall'Apocalisse, si rivelerà "dopo" (Apocalisse
significa, appunto, "Rivelazione") ma esso è già cominciato "ora": il sogno di Dio è
Gesù Cristo. In lui Dio ha voluto rinnovare, ricapitolare, ricondurre a perfetta unità
tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. Soprattutto in lui Dio "ci ha
scelti prima della crezione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto
nella carità". 257
Immaginare il nostro futuro o, in altre parole, progettare la nostra vita senza
Cristo, prescindendo da Lui, è pensare la nostra vita fuori dal disegno di Dio.
Ogni ragazzo, ma in fondo ognuno di noi, dovrebbe domandarsi: "Io, che cosa vedo
nel mio futuro?" Potrei immaginarmi un lavoro, una professione, quell'impresa o
quell'altra, il matrimonio, una famiglia, una sistemazione sociale, ecc. Ma se non

257
Ef. 1,4
154
vedessi in tutto questo Gesù Cristo, la mia immaginazione non avrebbe nulla di
diverso da quella di un onesto pagano. Un cristiano invece, nel progettare il proprio
futuro si chiede: "Come posso immaginare Cristo nella mia vita? Cristo nel mio
lavoro, Cristo nella mia professione, Cristo nel mio matrimonio, nella mia famiglia,
nei miei impegni sociali, Cristo in tutte le mie imprese?" E' questa la fantasia
profetica, che cerca di immaginare la "rivelazione" del disegno di Dio nel tempo
durante la mia vita terrena, perché si compia un giorno, perfettamente, nella vita
eterna. I Santi sono stati anche fervidi profeti; essi hanno saputo inventare, con la
complicità dello Spirito Santo, le forme più varie perché si riveli al mondo il disegno
di Dio, il disegno cioè di rinnovare in Cristo tutte le cose. E' infatti lo Spirito Santo
la vera "fantasia dei Profeti".

169 - La fantasia di Lucifero: le utopie.

Infine un morbo estremamente pernicioso per la fantasia sono le utopie. Non


parliamo qui delle utopie come genere letterario o come ideali che, pur essendo
possibili, in teoria non sono realizzabili nelle concrete circostanze della nostra
condizione umana. Parliamo qui di utopie deliranti. In questo senso è utopia un
futuro disegnato e costruito dalla fantasia in contrasto con la retta ragione e con la
fede. Normalmente tali utopie nascono da una fantasia malata cioè condizionata da
ideologie. Quando la fantasia anziché servire l'intelletto o la sana ragione, o la
fede, si mette al servizio delle ideologie, prima o poi finisce vittima del delirio
utopistico. Ne sono prova tutte le rivoluzioni degli ultimi secoli, dall'utopia
giacobina della rivoluzione francese, all'utopia naturalistica della rivoluzione
scientista, all'utopia marxista della rivoluzione di ottobre, alla tragica utopia
hitleriana della rivoluzione nazista, fino alle recenti ridicole utopie del Sessantotto
europeo.
Ci sono anche le utopie silenziose, che non sono circondate dal chiasso
rivoluzionario, ma non per questo meno pericolose, perché tutte alla fine generano
tirannide e violenza. Di esse la meno temuta, ma in realtà la più temibile, è
l'utopia dello "Stato laico". Intendiamo qui lo Stato laico come lo intendono i
"laicisti" delle varie ideologie: uno Stato che prescinde da Dio o nega alla Chiesa di
Cristo ogni diritto e ogni possibilità di influire, in forza della sua missione salvifica e
attraverso la sua dottrina sociale, sulla vita pubblica nei suoi vari aspetti.
La Chiesa ha proclamato solennemente l'autonomia delle realtà temporali, la
loro "laicità" insita nella loro natura, come pure ha affermato il pieno diritto e dovere
dello Stato di occuparsi del bene comune temporale dei cittadini, ma anche ha
ribadito il carattere relativo delle realtà temporali e quindi il dovere dell'autorità
pubblica di riconoscere, rispettare e proteggere il valore trascendente della persona
umana, la sua dimensione spirituale e religiosa; in altri termini, il dovere di
promuovere i valori morali come fondamento della vita pubblica, valori morali che
rimandano alla dignità dell'uomo come creatura di Dio chiamato a un destino eterno.
Lo "Stato laico" come autonomo da Dio e fonte del diritto stà alla radice delle
peggiori tirannie di questo secolo, e ha portato al degrado morale e culturale della
nostra civiltà occidentale.
In definitiva alla base di ogni utopia terrena si trova la delirante utopia di
Lucifero: essere "come" Dio. Al disegno stupendamente amoroso di Dio che ci
voleva "simili" a Lui, gli angeli ribelli e noi uomini abbiamo preteso di sostituire
l'assurda utopia di essere "uguali" a Dio. E' l'utopia che ci prende col suo inganno
ogni volta che sognamo la nostra vita in contrasto con il progetto di Dio, in un
mondo governato dall'uomo, in un futuro che realizzi il sogno tanto bramato del
paradiso terrestre. In definitiva, ogni volta che voltiamo le spalle a Dio col peccato.
A questo punto, l'unica medicina efficace per guarire la fantasia dalle utopie
155
mondane è, ancora una volta, la fede. La "fantasia" di Dio supera ogni
immaginazione, per cui "le cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai
entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano". 258
Possiamo sciogliere la nostra fantasia e sognare, sognare, sognare..., ma tutti i sogni
umani resteranno immensamente indietro rispetto alla realtà "sognata" da Dio; la fede
è la nostra più grande "utopia", ma il suo sogno è la più certa e più sicura delle
realtà: è l'immenso, ineffabile, inesauribile mistero di Dio che inonderà la nostra
anima per sempre!

258
1 Cor. 2,9
156
IL TEMPO E LA VITA

LA VITA IN NATURA E NELL'UOMO

170 - Un fenomeno impressionante: la vita.

La vita è il fenomeno più impressionante che esista nella natura. E' anche il
più denso di mistero così da sfuggire ad ogni adeguata definizione. I biologi stessi
possono solo descrivere le manifestazioni che caratterizzano la vita ed esprimerne le
leggi ma che cosa sia la vita in sé stessa nessuno ha saputo dirlo. I progressi
enormi delle tecniche sperimentali hanno portato la biologia sempre più in profondità
nella conoscenza dei fenomeni vitali e più volte si è avuto l'impressione di essere
arrivati ai confini della vita così da poterla afferrare nella sua essenza; ma proprio
quando si pensava di averla a portata di mano e poterne dare una formulazione, sia
pure elementare, essa sfuggiva immancabilmente ad ogni tentativo sgusciando da
qualsiasi maglia concettuale, così da trovarci improvvisamente al punto di partenza.
Ciò ha dato sempre molto fastidio agli ideologi scientisti i quali, accettando
solo ciò che è sperimentabile e quantificabile, non ammettono ci possa essere in
natura qualcosa di irriducibile alle categorie delle scienze positive. L'idea che un
giorno o l'altro l'uomo "creerà" la vita nei suoi laboratori è troppo affascinante per
non suscitare nel cuore di ogni scienziato un'istintiva resistenza all'ipotesi che la vita
sia qualcosa che trascende le possibilità della scienza, o possa venire da "fuori", da
qualcun altro.
In effetti, non è stato ancora possibile documentare la continuità tra la non-
vita e la vita. Molti ricercatori, soprattutto di estrazione positivista, erano convinti, e
alcuni lo sono tuttora, che spingendosi in profondità, a livello ultramicroscopico e
sub-molecolare, si potesse arrivare ai confini della vita, si potesse sorprendere la vita
nel suo sorgere, nel suo apparire, o per lo meno si potesse scoprire il meccanismo, le
possibili leggi che sollevassero almeno un poco il velo su questo affascinante
mistero.
In realtà, quello che hanno potuto osservare è soltanto una certa continuità
puramente materiale tra i due mondi, vivente e non-vivente. Il vivente, cioè, è
costituito della stessa materia che troviamo nel non-vivente: gli stessi atomi, gli
stessi materiali costitutivi, con la sola differenza di una maggiore complessità
molecolare. Ma a questa continuità materiale non corrisponde una continuità di
struttura, di "forma".
157
La struttura di un non-vivente è rigida, esterna ed estrinseca; è molto simile a
un manufatto, venga esso dalla natura (un cristallo, una roccia...) o venga dall'uomo
(un utensile, una macchina...). La struttura di un vivente è invece aperta, dinamica,
sussistente e persistente, che si auto-mantiene e si auto-rinnova nei materiali. Il
vivente è un "turbine metabolico" nel quale l'incessante e totale rinnovamento degli
elementi materiali non incide sulla struttura che, invece, si auto-conserva. Ecco
perché il "meccanicismo" proprio della filosofia cartesiana, il considerare cioè un
vivente alla stregua di una macchina, è l'errore più grossolano al quale possono
andare incontro e la scienza e la filosofia.
L'uomo dunque potrà arrivare anche a sintetizzare chimicamente e
manipolare la "materia" vivente, ma non a fabbricare "un" vivente: un essere
cioè che non solo ha una struttura propria, permanente e individua, ma anche una
struttura attiva, di un’attività di cui esso è il "soggetto". Non dobbiamo confondere
l'organizzazione della materia con la vita. Il vivente è un essere capace di attività
propria ed è il "soggetto" dei propri atti vitali: è capace di selezionare gli elementi
materiali e di assimilarli, cioè farli propri, rendendoli biologicamente compatibili con
quelli già posseduti e rifiutando tutto ciò che non è compatibile; è capace di
adattarsi, di crescere, di presiedere alle proprie sintesi e alle proprie funzioni vitali,
di riprodursi, rigenerarsi ecc. E questo a tutti i livelli, dai macrorganismi ai
microrganismi.

171 - La vita: teofania di Dio Creatore.

Ancora una volta, la vita si presenta in natura come un fenomeno strabiliante,


una novità assoluta nel mondo degli esseri materiali. Nessuna legge fisica o chimica,
e nemmeno le stesse leggi biologiche sono in grado di spiegare un vivente.
Insomma, la vita è nel tempo ma non del tempo.
Nella Bibbia leggiamo che Dio ha rivendicato soltanto per sé il titolo di
"vivente": Jaweh il Vivente. E in realtà, la vita sulla faccia della terra è una
"teofania", è una testimonianza della presenza di Dio, una sua rivelazione, una
manifestazione della sua potenza, del suo stesso Essere divino. Il mistero della vita è
un aspetto del mistero della creazione. Dio infatti è origine di ogni essere e di "tutto"
l'essere, di tutto ciò che una cosa "è": la sua forma, la sua materia, la sua energia con
l'attività, il movimento, il divenire e tutto ciò che è costitutivo di quella cosa.
Anche la vita, come forza, come principio operativo, come energia vitale che
caratterizza un vivente, ha dunque origine da Dio, fa parte della sua creazione,
rientra cioè in quell'atto creativo di Dio che si estende a tutto ciò che esiste nel
tempo, che si muove, che diviene, che si manifesta nel tempo. Dio continua la sua
presenza nelle cose create; esse continuano a dipendere dalla sua potenza, dalla sua
sapienza, dalla sua forza vitale; ed è una presenza che non conosce stanchezze,
ripensamenti, usure, che agisce incessantemente all'interno dell'essere creato. Egli
attua così progressivamente un disegno di cui conosciamo l'esistenza ma che si
compirà alla fine del tempo.
Intanto, "in Ipso vivimus, et movemur et sumus - in Lui viviamo, ci muoviamo
ed esistiamo". 259 Ciò che sfugge completamente è il "come" Dio sia presente e
"come" Egli agisca. La pretesa di "sorprendere" Dio nel suo agire, nel momento in
cui crea o interviene in qualsiasi forma, è sempre stata una tentazione per l'uomo,
una specie di curiosità malsana, legata alla pretesa mai sopita di essere come Dio. Ma
Dio, nessuno mai l'ha visto, nessuno mai ha potuto osservare il lavoro delle sue mani.
E' sorprendente il silenzio con cui Dio agisce; fa esplodere la vita senza rumore,
cammina dentro le cose senza farsi sentire, conduce la sinfonia di tutti gli esseri

259
Atti, 17,29
158
creati senza colpi di bacchetta.
Ogni "inizio" è protetto dal silenzio di Dio: l'inizio dell'universo, l'inizio della
vita, l'inizio del genere umano e della sua storia, così come l'inizio di ogni uomo.
Ogni uomo è persona, e l'inizio della persona coincide con l'inizio della sua anima.
Ci riferiamo non al quando di questo inizio ma al come. Dio infatti è autore della
vita non solo nel suo inizio, ma anche nel suo divenire; è perciò attualmente e
continuamente presente come creatore nel fenomeno della vita e delle sue leggi.
Perciò Egli crea l'anima umana ogni volta che le leggi della vita fanno
germogliare la prima cellula di un nuovo essere umano. Ciò significa che l'anima
non è una sostanza preesistente che poi viene unita - infusa - da Dio ad una cellula-
uovo fecondata; è il prodotto di un intervento peculiare ma normale di Dio che agisce
all'interno delle leggi stesse della vita; si tratta di un atto creativo che trasforma la
prima cellula dell'organismo umano in una "persona", con il suo principio
esistenziale proprio e personale di natura spirituale. Il "come" tutto questo avvenga è
vero mistero, è silenzio di Dio, la cui onnipotenza non fa rumore anche quando
irrompe nel tempo per far scoppiare quel miracolo impressionante che è la persona
umana. Del resto tutto ciò che Dio compie è insieme straordinario e normale,
miracoloso e "naturale".

172 - Una discontinuità biologica: l’uomo.

Esiste una continuità nelle leggi che in natura presiedono al fenomeno della
vita, ma questa continuità viene trascesa nell'istante in cui ha inizio l'essere umano.
Infatti il fenomeno-vita nella sua globalità si sviluppa in maniera omogenea nelle sue
leggi e nelle sue manifestazioni. Dalle forme di vita più elementari a quelle più
evolute, dallo stadio biologico sub-cellulare a quello pluri-cellulare più differenziato
e complessificato, il mondo degli esseri viventi si presenta omogeneo nei suoi
fenomeni vitali; in altre parole, la natura animata, dal livello protocellulare a quello
vegetale e a quello animale più elevato, si rifà a principi biologici univoci che
appaiono fondamentalmente uguali.
Solo nell'uomo questa omogeneità s'interrompe, e la vita umana presenta
fenomeni e principi che sono irriducibili alle leggi biologiche e rimandano a qualcosa
che trascende la natura materiale. Già abbiamo visto come l'essere umano si
contraddistingue tra tutti gli altri esseri, compresi gli animali, per la ricchezza e
straordinarietà dei fenomeni che non sono riscontrabili in nessun altro luogo
dell'universo: il pensiero, la libertà, l'arte, il linguaggio, il lavoro, la stessa attività
ludica, cioè il gioco... fino all'amore e alla religiosità. E anche se queste attività
hanno qualche riscontro, ad esempio negli animali, si tratta di un riscontro solo
analogico, perché tali attività rimangono, nella loro natura, essenzialmente
trascendenti.
In certi ambienti animalisti si interpretano queste affermazioni non come dati
oggettivi che emergono dalla natura delle cose, ma come un abuso arbitrario
dell'uomo che approfitta della sua presunta superiorità per sottomettere ad ingiusta
schiavitù o ad egoistico sfruttamento gli animali. Maltrattare gli animali, come
degradare la natura, è un gesto che va contro la nostra dignità di esseri fatti "a
immagine e somiglianza di Dio" e chiamati a collaborare con Lui alla sua creazione,
ma questo non giustifica il processo di animalizzazione dell'uomo in atto in vari
ambienti scientisti o in movimenti pseudo-culturali più o meno politicizzati. Perciò
quando parliamo di vita "umana" ne parliamo in senso proprio e peculiare
perché essa, pur avendo le sue radici nelle leggi della natura, ha il suo
"principio" fuori della natura, superiore ad essa e da essa indipendente.

159
173 - “Actus essendi” – L’atto di essere.

Il cominciamento di una persona umana avviene nel momento in cui si


accende il suo "atto di essere"; atto che può venire solo da Dio come partecipazione
al suo Essere infinito. Dio lo comunica all'essere umano come principio esistenziale
e vitale di natura spirituale. Queste affermazioni che stiamo facendo sono di capitale
importanza. Di solito noi ci limitiamo a constatare l'esistenza delle cose; il fatto che
le cose esistono. Ora, il fatto di esistere non è sufficiente per rendere ragione della
realtà delle cose, per spiegare la loro esistenza. Non basta nemmeno per provare
l'esistenza di Dio e la nostra dipendenza da lui. Infatti la semplice esistenza del
mondo e delle creature può essere accettata prescindendo da Dio; atei di questo tipo
ne ha prodotti a folle la cultura immanentista del nostro secolo.
Scientisti di tutto il mondo si interrogano continuamente sulle "origini
dell'universo", ma i cosmologi del pensiero immanentista, gli scienziati neo-
positivisti e marxisti, in una parola i non credenti, si guardano bene dall'andare oltre
la semplice esistenza dell'universo. Per loro indagare sull'origine del cosmo significa
arrivare a conoscere lo stato iniziale della materia e scoprire il come si è arrivati allo
stato e alla struttura attuali, cioè attraverso quali leggi l'universo si è evoluto a
partire dal suo stadio iniziale lungo i miliardi di anni della sua esistenza. Essi
partono dal fatto che l'universo esiste, appunto dal "fatto" della sua esistenza:
"L'universo c'è e basta, - dicono -, noi non vogliamo sapere altro", e si chiudono nel
loro agnosticismo o nella loro negazione atea.
Ma noi dobbiamo domandarci: cosa c'è sotto il fatto dell'esistenza di una cosa?
cos'è che pone un essere nella sua esistenza e fa si che quell'essere sia reale? La
domanda sembra astrusa e difficile solo perché l'oggetto di questa domanda è il dato
più semplice e immediato che si possa immaginare. Una cosa che esiste in sé stessa,
e non solo nel nostro pensiero, è reale perché "è": ecco l'aspetto primo e più
profondo che una cosa manifesta di sé stessa. Ora questo "è", che si realizza in
una cosa dentro i limiti della sua propria natura (roccia, pianta, animale, uomo,
angelo ecc.), lo indichiamo appunto come atto di essere: "actus essendi"; così lo
chiama una delle più grandi intelligenze dell'umanità, San Tommaso d'Aquino, genio
del pensiero e della santità. Questo "è" può venire solo da Uno che già possiede
l'essere e lo possiede da sé stesso, cioè Dio.
La scoperta, sul piano razionale, dell'actus essendi - atto di essere - è una
conquista fondamentale del pensiero umano. E' un dato semplicissimo, elementare, e
appartiene al senso comune di ogni uomo, appartiene cioè alle esperienze elementari
della nostra intelligenza nel suo esercizio spontaneo e immediato. E' perciò
indimostrabile e sfugge ad ogni discussione; lo si coglie con il semplice sguardo
dell'intelletto, per contemplazione. E' una realtà sommamente intelligibile e insieme
piena di mistero; costringe in certo qual modo la nostra intelligenza a mettersi in
ginocchio, come davanti alla presenza di Dio.

174 - La vita umana.

L'inizio di un uomo è, nella sua normalità, un vero prodigio, è una novità


assoluta carica di mistero, che ha dell'infinito, dell'eterno. La vita umana non è
soltanto una vita, così come c'è una vita vegetale o una vita animale. Un uomo non è
qualcosa che vive, ma "qualcuno" che vive. Non è la stessa cosa che un uomo ci
sia o non ci sia. In natura, animale più o animale meno, non cambia nulla; e così
vegetale più o vegetale meno, la natura non viene sostanzialmente alterata. Non è
così per l'uomo.

160
Si dice talvolta: "Io potrei non esserci e nulla cambierebbe nell'universo". Ma
non è vero. Se io non ci fossi ci sarebbe un "buco" nel tempo, anzi mancherebbe un
filo nell'ordito della vicenda umana. Il "filo" di un essere umano può avere
lunghezze diverse: ci sono esistenze più o meno lunghe e ci sono esistenze che
vengono spezzate appena concepite: sono esistenze "puntiformi"; eppure anche un
punto ha un suo ruolo e un suo significato. In un tessuto, poniamo in un tappeto, ogni
punto non è inutile, ha un suo colore e una sua posizione che concorrono all'insieme
del disegno e della trama.
Ogni vita umana ha valore perché è un valore; lo è in sé stessa e per sé
stessa. Non siamo noi che dobbiamo dare significato alla vita, essa già lo possiede.
A noi spetta scoprirlo, entrarci dentro con la nostra responsabilità. La vita si riceve
ma non dobbiamo subirla; il significato e il valore che essa porta con sé viene
affidato alla nostra libertà e responsabilità di creature intelligenti, "chiamate" da Dio
a gestire, in continuo dialogo con Lui, con il suo disegno e con la sua grazia,
l'esaltante avventura di esistere e di vivere.
La vita, prima ancora di essere una responsabilità, è un dono; se ci
limitiamo a vederla esclusivamente o anche prevalentemente come responsabilità,
come qualcosa che dobbiamo noi inventare, progettare, pensarne il senso e il
significato, essa ci peserà addosso, e le conseguenze potranno essere la paura,
l'angoscia, la frustrazione oppure il protagonismo titanico o l'utopia.
Ma la vita è innanzitutto e soprattutto un dono; è tutta "data", tutta ricevuta.
Quando non sappiamo vederla come un dono non ci resta che subirla come una
fatalità. Succede così quando ci si allontana da Dio, quando lo si rinnega o lo si
emargina. L'uomo nasce per caso, ha scritto Sartre; ed è un modo per dire che la vita
non ha senso, non ha significato perché non ha nessun riferimento, nessuna radice,
nessuna spiegazione; è pura fatalità.
Il senso della vita non lo danno nemmeno le creature; fossero anche le più
preziose o più gratificanti. E' quanto succede, ad esempio, nell'amore possessivo:
quando due sposi stanno insieme perché "hanno bisogno l'uno dell'altro per vivere",
l'uno diventa schiavo dell'altro e se viene a mancare l'uno, l'altro non sa più vivere;
lo stesso avviene quando una ragazza ha bisogno di un ragazzo per vivere o per
sentirsi qualcuno, diventa schiava di quel ragazzo e se le viene a mancare le sembra
che la vita non abbia più scopo; così è perfino per una madre che ha bisogno di un
figlio per vivere... Nessuna creatura può essere il fine della vita; sarebbe un idolo
che genera schiavitù.

175 - Esperienza interiore del proprio “Io”.

Ora, se sapremo raggiungere la nostra persona nella sua profondità, alle sue
radici, cioè a quell'atto di essere unico e personale che sta all'origine del nostro "io",
inevitabilmente ci sentiremo rimandati a "Colui che è", a Dio, fonte dell'essere e
della nostra esistenza; comprenderemo con lucida consapevolezza che la vita è dono
e arriveremo a una delle esperienze più esaltanti dell'intelletto contemplativo: la
percezione dell'essere, e gusteremo anche la gioia più naturale e spontanea: la gioia
di vivere, la felicità di esistere.
Infatti il salto dal nulla all'essere ha qualcosa di infinito, che dà i brividi.
Se ci penso bene, mi riempio di stupore come davanti al mistero. Lo posso intuire
guardando dentro di me: mi fermo, penetro nell'intimo del mio "io", e penso: "Potrei
non esistere..., e invece esisto!". Retrocedo nel mio tempo interiore fino all'orlo
della mia esistenza e mi sporgo a guardare l'abisso del nulla da cui improvvisamente
emergo...; in quel momento un brivido indicibile mi pervade, una forte sensazione di
vertigine che mi spaventa e insieme mi esalta. Il nulla è solo nulla, nient'altro che
nulla, e rimane nulla per sempre; ora, se improvvisamente io esisto, sento che solo
161
una mano onnipotente può averlo fatto. In quel momento percepisco nettamente che i
miei genitori non c'entrano, sono stati soltanto strumenti per una cosa enormemente
più grande di loro. E' lo stesso sentimento che anch'essi hanno provato quando mi
hanno visto per la prima volta, mi hanno contemplato: prima non c'ero, poi, come
d'incanto, ero lì nelle loro mani, vivo, in carne ed ossa, con una intelligenza,
un'anima, una promessa carica di mistero..., e mi hanno visto come un miracolo,
qualcosa di enormemente più grande di ogni loro possibilità; si sono scambiati un
sorriso pieno di stupore e d'incredulità come se si dicessero: non è possibile! Hanno
avvertito di essere stati soltanto strumenti di Qualcuno infinitamente più potente che
ha fatto tutto. Perciò un figlio è sempre una creatura che ci viene "data", è sempre un
dono che ci viene consegnato.
Ma la conseguenza più importante che può venire dalla scoperta del nostro
atto di essere è la possibilità di percepire consapevolmente la nostra identità di
creature. Spingersi fino a quel primo momento della nostra esistenza è quasi fare
l'esperienza diretta dell'esistenza di Dio; certamente è percepire in modo vivo la
nostra creaturalità. E' facile così passare dall'amore verso i genitori all'amore verso
Dio. Comprendiamo che i nostri genitori sono stati il luogo dove Dio ci è venuto
incontro dall'eternità e ci ha "voluto". Ognuno di noi viene dall'amore, sempre,
indipendentemente dall'intenzione dei propri genitori. Perciò non esistono figli
"indesiderati" perché sempre, anche quando i genitori non lo desiderano, un figlio è
comunque desiderato, amato e voluto da Dio.
Penetrare dunque nel nostro intimo e contemplare con stupore il nostro atto di
essere ci dà la possibilità di intravedere l'infinita fecondità del nome che Dio ha dato
a sé stesso: "IO SONO". "L'atto di essere" che Dio ci comunica è partecipazione
al suo nome, a quel "IO SONO" che è fondante di ogni esistenza, soprattutto di
ogni essere fatto a "sua immagine e somiglianza". Il Signore diceva a Santa Caterina
da Siena: "Tu sei colei che non "è", io sono "Colui-che-sono". E se Caterina, come
ognuno di noi, può dire: "Io sono", è perché esiste "Colui che è". Il nostro "Io sono"
è partecipazione al "IO SONO" di Dio.

176 - Atto di essere e immortalità.

Il momento iniziale del nostro essere è dunque segnato dall'actus essendi che
Dio stesso ci comunica. Questo atto esistenziale, in noi, ha una caratteristica
fondamentale: è di natura spirituale. Già abbiamo riflettuto sulla spiritualità
dell'anima; qui vogliamo ricordarne una conseguenza: il suo "atto di essere"
incomincia nel tempo ma non finisce col tempo; in altre parole, l'essere umano è
immortale. La convinzione della propria immortalità, di qualcosa di sé che non
finisce col tempo, ha accompagnato l'uomo fin dall'inizio della sua storia. L'uomo
di tutti i tempi, di tutte le culture, di tutte le civiltà ha conosciuto il culto dei morti
come espressione di questo sentimento insito nell'animo umano: non tutto di noi
muore.
Ora, l'immortalità della nostra anima ha il suo fondamento nella
incorruttibilità del suo "atto di essere". Durante la vita terrena l'anima percepisce
sé stessa indirettamente attraverso il corpo e le relazioni che in esso stabilisce con lo
spazio e nel tempo. Scissa dal corpo, l'anima percepisce sé stessa solo attraverso il
suo "atto di essere" e quindi nella sua vincolazione esistenziale con Dio, con l'Essere
infinito, al quale partecipa per una quasi connaturalità. Ciò spiega perché l'anima, in
questa condizione di "nudità" assoluta, avverte l'attrazione di Dio in maniera
prepotente e si lancia verso di lui con moto incontenibile. Sarà un'esperienza
esaltante e indescrivibile per chi passerà alla vita eterna nella fede, mentre si
trasformerà in tragedia e disperazione per un'anima che si trovi lontana da Dio e da
Lui separata.
162
Qui sulla terra, possiamo trovare analogie nell'esperienza mistica di molti
santi. In essi, ma in fondo in ognuno di noi quando ci lasciamo condurre da Dio,
l'esperienza creaturale, cioè il senso vivo della nostra dipendenza esistenziale da
Dio, unita all'esperienza morale, cioè al senso vivo della nostra libera e cosciente
vincolazione alla sua legge divina, si aprono inevitabilmente all'esperienza mistica
nella quale la nostra vincolazione creaturale diventa esperienza globale di tutta la
persona e occupa tutto lo spazio anche psichico del nostro essere: i sentimenti,
l'immaginazione, i pensieri, gli affetti, i desideri... E' come se questi spazi non ci
appartenessero più; sono fatti propri da Dio e da lui abitati.
Alcuni autori spirituali parlano di tre vie della vita spirituale: una ascetica,
una illuminativa e una unitiva. Qualcosa di simile avviene nella nostra esperienza
creaturale. Essa ha bisogno di una ascesi interiore; esige che la nostra anima si liberi
dall'esperienza dell'effimero, di ciò che è apparente, che si liberi dalla superficialità e
diventi un'anima profonda, che raggiunga le cose nella loro profondità, cioè nel loro
rapporto con Dio. Questo allenamento ascetico, che in definitiva è un'ascesa verso la
verità, rende l'anima capace di cogliere "l'essere", e la sua esperienza creaturale
diventa allora simile a una "illuminazione". L'actus essendi è come un lampo della
nostra persona e lo si coglie non per ragionamento ma per intuizione.
Infine, quando questa "illuminazione" si trasforma in contemplazione intima,
quasi un'esperienza immediata ed intensa dell'anima che avverte nel proprio essere
finito la presenza intima dell'Essere infinito, allora l'esperienza creaturale tocca il
vertice delle sue possibilità: è l'esperienza unitiva. L'anima si vede creatura,
solamente creatura e totalmente creatura, unita al suo Creatore; si sente da lui presa e
come soggiogata, talmente a lui unita da non avvertire più una volontà propria, un
pensiero proprio, una vita propria. Tutto lo compie Dio. E nel vedersi creatura, con
una consapevolezza immediata, abissale e luminosa, si riempie di una felicità
indicibile che le toglie ogni interesse verso sé stessa e verso tutto ciò che riguarda la
vita terrena.

LA VITA E IL CICLO VITALE NELL'UOMO

177 - Il “ciclo vitale”.

L'atto di essere, costitutivo della realtà della nostra persona, non finisce col
tempo; tuttavia, nella fase terrena della vita esso è misurato dal tempo. Esiste cioè
un "ciclo vitale" che scandisce la temporalità della nostra vita. E' una legge; forse la
legge più specifica che caratterizza il fenomeno della vita sulla terra e ne esprime la
dinamicità.
Il ciclo vitale è una necessità perché la vita è come una forza che, per
esprimere sé stessa in tutte le sue potenzialità, ha bisogno del tempo; il tempo viene
così scandito dal ritmo della vita. Il ritmo vitale non ha la stessa durata nei vari
organismi viventi ma in tutti ha le stesse fasi, le stesse stagioni. Nell'uomo le fasi
fondamentali della vita vengono comunemente così sintetizzate: nascita, crescita,
maturità, senescenza, morte.
Tuttavia la vita ha una sua continuità che possiamo chiamare in un certo senso
immortalità. C'è però una differenza essenziale tra la vita nell'uomo e la vita negli
altri esseri viventi: nel regno animale e vegetale la continuità è della vita ma non
dell'individuo; i singoli esseri viventi muoiono definitivamente mentre la vita

163
continua in altri esseri viventi. Nell'uomo invece la continuità è non solo della vita
ma anche del singolo uomo che sopravvive a sé stesso, nel suo spirito. Inoltre la
continuità della vita animale e vegetale è una continuità intra-temporale, si esaurisce
nel tempo; nell'essere umano, invece, la continuità supera il tempo, sconfina
nell'eternità; è dunque una vera immortalità.
Da quanto abbiamo detto, ne segue che il ciclo vitale non ha, nell'uomo, lo
stesso significato che esso ha negli altri esseri viventi. In questi il ciclo vitale ha un
significato strettamente biologico ed è "chiuso", si spegne cioè nel tempo; nell'uomo,
invece, la dimensione immateriale propria dello spirito fa si che il ciclo vitale, pur
soggetto alle leggi biologiche, le supera, dal suo inizio e lungo tutto il suo corso,
conferendogli un significato e un valore trascendenti che perdurano oltre la sua fine.
Dio aveva risparmiato ai nostri progenitori, nell'Eden, questo condizionamento
biologico perfezionando la natura umana col dono dell'impassibilità e
dell'immortalità. L'uomo cioè non avrebbe conosciuto la negatività biologica della
senescenza e della morte ma sarebbe entrato nella vita eterna senza passare attraverso
la decomposizione del suo essere corporeo. Sappiamo che l'uomo, non solo perse
questi doni ma è rimasto profondamente ferito nella sua natura, per cui la percezione
della propria identità spirituale è diventata assai difficile e nebulosa, e la tensione
verso Dio rimane pesantemente ostacolata dal disordine interiore.
Perciò la vita umana nella sua condizione attuale non è come Dio l'aveva
voluta, né come Egli l'aveva effettivamente creata. In tutte le fasi del suo ciclo
vitale, la vita umana presenterà i segni di questa condizione, razionalmente
inspiegabile, di miseria e di grandezza. Ma Dio ha rifiutato tale condizione; Gesù,
Figlio di Dio fatto uomo, l'ha distrutta con la sua morte e risurrezione restituendo
alla vita umana il suo destino di immortalità e di eternità.

178 - Unità della persona.

Abbiamo visto che la vita umana non è riducibile al suo ciclo biologico. Il
nostro essere "persona" conserva la sua identità e la sua unicità pur
attraversando le fasi del ciclo vitale. Questo significa che la vita umana non solo ha
una sua unità e una sua continuità lungo tutto l'arco del tempo, ma significa anche
che le singole età della vita sono fasi di un'unica esperienza vissuta da un unico
soggetto: vale a dire che l'infanzia e la fanciullezza entrano nell'adolescenza e la
influenzano, e l'adolescenza con tutte le sue interazioni passa attraverso la giovinezza
ed entra nella maturità forgiando quel tipo di personalità che si esprimerà in un
particolare modulo di età adulta e di vecchiaia. In altre parole, la vita umana, pur
segnata da sequenze e da ritmi che definiscono le sue stagioni, è un processo lineare
dove le esperienze vitali e spirituali si accumulano e si integrano; in ogni stagione c'è
la presenza di tutte le altre che l'hanno preceduta.
Ma questa unità psicologica e biografica può avere come filo conduttore
l'esperienza interiore, fondamentale e profonda, di ciò che abbiamo sopra ricordato:
la nostra identità di creature. (cfr. nn. 5, 174, 175). La consapevolezza creaturale,
data dalla percezione del nostro "atto di essere" che è unico e tutto ricevuto e segna
l'inizio della nostra esistenza temporale, fonda anche l’esperienza della nostra
continuità esistenziale nell'unicità dello stesso soggetto. Ricuperare la
consapevolezza della nostra creaturalità è una delle operazioni culturali più
urgenti della nostra epoca. Il pensiero moderno l'ha da tempo rifiutata e la
mentalità corrente, gestita dalle convinzioni oggi dominanti, l'ha completamente
dimenticata. Riscoprire questa verità e vederne tutte le conseguenze nella vita
personale e sociale rappresenta un'autentica "rivoluzione culturale".
Nel cristianesimo tutta l'esperienza religiosa si fonda essenzialmente sul senso
vivo della nostra filiazione divina che ci unisce a Cristo, e che discende da quella
164
verità stupenda e consolante che è la Paternità di Dio. Ma questa esperienza non è
immediata e diretta perché è del tutto soprannaturale ed esige la fede.
L'esperienza creaturale, invece, può essere immediata e diretta perché si tratta
di una realtà costitutiva del nostro essere e senza di essa non è possibile nemmeno
una vera religiosità puramente naturale. Su questa verità possiamo impostare la
descrizione delle stagioni della vita umana e sul filo di questa esperienza
percorreremo tutto il vissuto della nostra esistenza.

179 - La fase “notturna” del ciclo vitale.

La prima fase del ciclo vitale va dal concepimento alla nascita. Sono momenti
che non appartengono alla nostra esperienza cosciente. Rappresentano la fase
notturna che precede il mattino della nostra vita; appartengono al momento buio della
nostra memoria. Abbiamo visto tuttavia che possiamo recuperare questa fase della
nostra vita attraverso l'esperienza dell'atto di essere, l'atto che segna l'inizio della
nostra esistenza. Se io mi spingo oltre il momento iniziale della mia esistenza, mi
incontro con Dio, puro "Atto di essere", dalla cui onnipotenza io emergo come
creatura, creatura che ormai non si staccherà più da lui perché egli la tiene nelle sue
mani, mani grandi di creatore onnipotente e fedele. Dal profondo del mio io sgorgano
allora come un grido le parole del salmo: In manibus tuis, sortes meae - nelle tue
mani, Signore, è tutta la mia esistenza, tutti i momenti della mia vita con tutte le sue
stagioni! 260 - Tu sei la mia Sorgente, la mia Onnipotenza, tu sei per me l'essere e
l'esistere, il mio vivere, il mio tutto! Noi non assaporiamo abbastanza questa
esperienza creaturale, esperienza esaltante e indicibile.
Nell'ateismo questa esperienza creaturale è completamente assente, ed è questa
la causa non ultima del degrado spirituale e intellettuale della nostra cultura
occidentale. Senza questo riferimento esistenziale, la nostra vita è solo storia, è
puro scorrere di un divenire senza l'essere, è una vicenda che affonda e affoga
nel tempo.
E' ancora l'esperienza creaturale che ci fa comprendere il senso della nostra
crescita come persone. Il termine stesso "creatura" - un femminile al futuro passivo -
indica una crescita che in noi non si limita al puro farsi di un essere vivente, ma
implica l'emergere di una persona con lo sviluppo dei primi presupposti della
personalità.
Questa fase della "crescita" si è soliti racchiuderla in tre momenti successivi
che rivestono fondamentale importanza nella nostra vita: l'infanzia, l'adolescenza, la
giovinezza. Nella fanciullezza avviene la scoperta del mondo che ci circonda,
nell'adolescenza avviene la scoperta dell'"io" personale, nella giovinezza la scoperta
dell'"altro" o dell'io relazionale.
La descrizione che ne seguirà non avrà né carattere psicologico né finalità
pedagogiche, e pur contenendo inevitabili riferimenti a questi aspetti che interessano
la crescita dell'uomo, cercheremo soprattutto di riflettere sul come può essere vissuta
l'esperienza creaturale nelle diverse fasi della nostra vita terrena.

260
Sal. 30,16
165
L'infanzia

180 - L’età dei “perché”.

Ciò che più colpisce nei bambini sono gli occhi; gli occhi di un bambino
sono qualcosa di affascinante. Il bambino "guarda": è tipico dell'età dell'infanzia.
Non è lo sguardo contemplativo dell'uomo interiore, è lo sguardo interrogativo di chi
vuol leggere il mondo che lo circonda, un mondo che si presenta come tutto da
scoprire, tutto da percorrere ma anche tutto da fruire. Perciò tra le caratteristiche del
bambino troviamo la curiosità innocente e il gioco.
L'infanzia è l'età dei perché; il bambino vuol soprattutto conoscere. Ma la sua
conoscenza non è critica, è fiduciosa. Accetta facilmente e con pace le risposte o le
spiegazioni di "chi ne sa di più". Perciò il termine di confronto del bambino è
l'adulto, identificato nei genitori; il padre e la madre sono per lui garanzia di
credibilità perché "sanno" e gli vogliono bene. Di qui la fede "fiduciosa", cioè
motivata dalla fiducia, atteggiamento profondamente razionale fondato sul senso
comune già presente nel bambino.
L'esperienza creaturale del bambino si identifica così con il senso della sua
filiazione. Possiamo dire che tutte le esperienze del bambino si riconducono alla sua
consapevolezza di essere figlio. E' per questo che il bambino non ha problemi
esistenziali. Basta guardare un bambino che dorme, magari in braccio a sua madre: è
un sonno profondo, sereno, totalmente abbandonato. Anche in questo sta il fascino
dell'infanzia. Anche di fronte alla realtà che ci circonda, lo sguardo del bambino è
ben diverso dallo sguardo dell'adulto: un prato fiorito a primavera ha un significato
profondamente diverso se viene guardato da un bambino o dal padrone; lo sguardo
del bambino è "libero", quello del padrone è interessato. Il bambino vede il prato
come un dono da fruire insieme ad altri bambini, il padrone lo vede come un bene da
sfruttare per sé.
E' responsabilità dell'adulto, soprattutto dei genitori, non derubare il bambino
di questi contenuti dell'infanzia. Il corretto e autentico rapporto col padre e con la
madre deve garantire nella misura più ricca possibile quel senso della filiazione che
dovrà accompagnarlo per tutta la vita. Per noi cristiani questo senso di filiazione
quale componente della nostra esperienza creaturale di bambini, diventa un aiuto
estremamente importante per acquisire quella consapevolezza della nostra
filiazione divina che è il fondamento della vita cristiana. Gesù, per descrivere in
modo chiaro ed evidente il rapporto con Dio che devono vivere i suoi discepoli:
"..chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: "In verità vi dico: se non
vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli". 261

181 - “Vita d’infanzia”.

Questa esperienza creaturale vissuta nello spirito e nella consapevolezza


consolantissima di essere figli di Dio, è chiamata dagli autori spirituali "Vita
d'infanzia". Gesù nel compiere quel gesto si rivolse a degli adulti e usò il verbo
"convertirsi". Questo per dire che la vita d'infanzia è un atteggiamento interiore non
facile e trova le sue maggiori difficoltà nella mentalità "adulta". Questa resistenza
261
Mt. 18,3
166
naturale ha una sua ovvia e comprensibile spiegazione sul piano umano, e si capisce
perciò il termine "conversione" usato da Gesù, cioè la necessità di cambiare modo di
pensare per convertirsi alla logica di Dio. Gesù stesso, essendo Figlio di Dio si fece
"figlio dell'uomo", in tutto simile a noi, per insegnarci a vivere da figli di Dio, figli
piccoli. filiazione
Infatti nella vita spirituale del cristiano accade esattamente il contrario di
quanto avviene nella vita naturale dell'uomo. La maturità umana si manifesta nel
progressivo distacco dai genitori fino alla piena indipendenza da loro, in una
completa autonomia delle proprie scelte e delle proprie decisioni. Nella vita
cristiana, invece, la maturità spirituale è frutto di un progressivo abbandono a
Dio, di una vincolazione a Lui sempre più piena e più profonda fino a lasciarsi
portare esclusivamente dalla sua volontà divina. E' un abbandono che si esprime
nella docilità sempre più fine e delicata alla grazia che agisce continuamente in noi, e
alla Chiesa che ci guida con il suo insegnamento.
Questa vita d'infanzia costituisce il modo vero e autentico di essere adulti
nella fede e diventa così un correttivo fondamentale per la mentalità "adulta" che,
soprattutto nell'età matura, vorremmo applicare alla vita spirituale.
Sappiamo che questo insegnamento di Gesù, questa «conversione» alla vita
d’infanzia come atto fondamentale nella vita del cristiano, è stato ripresentato con
straordinaria semplicità ed efficacia dalla «piccola» Teresa di Lisieux, Santa Teresa
di Gesù Bambino, che ha chiamato «piccola via» questo modo di vivere ’abbandono
filiale con Dio. Dal canto suo, il Beato Josemaria Escrivà esprimeva questo legame
tra la vita d'infanzia e la maturità umana con una frase molto incisiva: noi cristiani -
diceva - dobbiamo essere "por dentro muy ninos, por fuera muy fuertes"; "dentro",
cioè nella vita interiore, nel rapporto con Dio, dobbiamo essere "molto bambini",
"fuori" cioè nel rapporto con gli uomini, nelle nostre responsabilità e nei nostri
doveri terreni "molto forti", molto maturi e responsabili. E spiegava: "Farsi bambini
significa rinunciare alla superbia, alla sufficienza, riconoscere che, per imparare a
camminare e perseverare nel cammino, da soli non possiamo nulla, ma abbiamo
bisogno della grazia, del potere di Dio nostro Padre. Essere piccoli significa
abbandonarsi come sanno abbandonarsi i bambini, credere come credono i bambini,
pregare come pregano i bambini". 262
Questa infanzia spirituale - lo ripetiamo - è tutt'altro che facile e spontanea,
"anzi, richiede una volontà forte, una maturità ben temprata, un carattere fermo e
aperto" 263 ; è dunque la meta di un impegnativo itinerario ascetico.
Dobbiamo ricuperare i nostri occhi di bambini, gli occhi semplici, puliti o
almeno purificati di chi sa guardare con stupore le meraviglie di Dio e col desiderio
di conoscere i suoi disegni, occhi che lasciano trasparire la docilità di chi si fida di
Dio, suo padre e da lui si lascia condurre per cammini di umiltà, di donazione, di
semplicità e di abbandono. Per cammini, appunto, d'infanzia.

262
Beato J. Escrivà, E' Cristo che passa n. 143
263
Idem
167
L'adolescenza

182 - L’età critica.

All'infanzia, considerata con la fanciullezza l'età felice della vita, segue il


momento critico dell'adolescenza. Di essa si dice che è l'età difficile, l'età in cui
non si vuol essere più bambini e non si è ancora adulti. In effetti, l'adolescenza è l'età
dell'indeterminatezza, dell'insicurezza, dell'indecisione, della fragilità emotiva, l'età
dei timori e delle ribellioni. E' chiamata anche l'età evolutiva, studiata da psicologi e
pedagogisti, e sulla quale esiste una letteratura sconfinata.
Queste riflessioni che facciamo sull'adolescenza sono rivolte e servono
soprattutto agli adulti; primo: perché l'adolescente mal sopporta che si parli di lui, in
quanto ogni approccio ai suoi problemi e ogni tentativo di descrivere la sua
situazione per capirlo e aiutarlo è sentito come un ulteriore invadenza dell'adulto e
conseguente manipolazione sulla sua personalità; secondo: perché è compito
dell'adulto, in primo luogo dei genitori, essere presenti in maniera positiva nel
travaglio maturativo proprio di questa età.
Il fatto fondamentale dell'adolescenza è la scoperta della propria
soggettività, la percezione di un "io" proprio, con proprie caratteristiche, che va
delineandosi a tutti i livelli: fisico, sessuale, emotivo, psicologico, intellettuale. E'
un "io" che va emergendo a poco a poco, dapprima in forma nebulosa e imprecisa,
poi in maniera prepotente e anche violenta, dai caratteri più marcati anche se ancora
informi e disarmonici. L'io dell'adolescente sotto la spinta evolutiva va cercando le
strade per affermarsi e le trova su due fronti: uno interno, quello della famiglia, in
particolare nel confronto con i genitori, e l'altro esterno, quello del gruppo,
nell'ambiente degli amici. Per affermare e insieme per scoprire la propria identità,
l'adolescente prende le distanze dai genitori, cerca di differenziarsi da loro, spesso li
contesta, anche ribellandosi e giudicandoli. Nel gruppo, l'adolescente cerca il
supporto dell'amicizia e mira a crearsi un suo spazio di consensi.
Di qui l'importanza determinante che riveste l'amicizia per l'adolescente.
Anche nel rapporto con i genitori, egli li contesta come genitori e li cerca come
amici. In fondo ciò che l'adolescente vuole è essere "qualcuno", e tale si sente
quando i genitori, dei quali ormai rifiuta di essere un'appendice, lo trattano con
amicizia, lo ascoltano, prendono sul serio quello che dice, gli credono in quello che
afferma e gli dimostrano fiducia; e tale si sente anche quando nel gruppo viene
accolto e realizza i primi successi con gli amici.

183 - “Amici di Dio”.

Ora proprio su questa categoria dell'amicizia, categoria così umana e così


divina, può svilupparsi l'esperienza creaturale dell'adolescente. L'amicizia
rappresenta uno dei valori più nobili ed elevati della vita umana. Dio ha voluto che
fossimo creature "dialogiche", capaci di amicizia, e ci ha offerto, pur essendo noi
creature a Lui totalmente subordinate, la possibilità di trattarlo da amico, di
conversare con lui familiarmente; in un certo senso ha voluto che ognuno di noi si
sentisse "Qualcuno" davanti a Lui, con la possibilità di intrattenersi con lui
168
amichevolmente e di aprirgli la propria intimità. E' un enorme privilegio che la
creatura ha ricevuto dal suo creatore.
Ogni volta che Dio si è manifestato all'uomo e ha parlato, ad esempio, a tu per
tu, gli ha fatto sentire la sua amicizia e lo ha chiamato amico. E' accaduto con
Abramo, che Dio stesso chiama "mio amico" 264 ; è accaduto con Mosé, che parlava
con Dio "faccia a faccia", come un amico; è accaduto con molti profeti.
Ma è soprattutto in Gesù che Dio ha rivelato il mistero della sua intimità; in
Lui, Dio si è fatto amico degli uomini. Egli - il Figlio - venne ad abitare tra noi,
passò sulla terra "et conversatus est cum hominibus" e s'intrattenne amichevolmente
con gli uomini. 265
Pensiamo all'amicizia intima di Gesù con gli apostoli, con tanti discepoli:
Lazzaro, Nicodemo, Zaccheo... e, sia pure con toni e modi diversi, con ogni persona
che si avvicinava a Lui. Una delle sue affermazioni più commoventi, che l'apostolo
Giovanni - il più intimo confidente di Gesù, l'apostolo quasi adolescente - ci ha
tramandato, riguarda proprio l' amicizia: "Voi siete miei amici... Non vi chiamo più
servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici,
perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a Voi". 266
Nel vivere l'amicizia con Cristo, la difficoltà è tutta nostra; per quanto egli sia
apparso in mezzo a noi come vero uomo, tuttavia egli ora non è più visibilmente sulla
terra e dobbiamo perciò lavorare di fantasia. Ma, in compenso, ci ha dato la
possibilità di incontrarlo personalmente attraverso due doni preziosi che esprimono
il suo amore e il suo desiderio di incontrare ciascuno di noi nell’intimità
dell’amicizia: il Vangelo e l'Eucaristia.
Sappiamo come l'adolescente, man mano che prende coscienza del suo io, va
scoprendo la propria interiorità; un mondo nuovo dove si alternano sentimenti, stati
d'animo, pulsioni e fantasmi a cui non era abituato, e pur essendone estremamente
geloso non riesce tuttavia a portarne il peso da solo e sente un impellente bisogno di
aprirsi, di confidarsi con qualcuno che gli ispiri fiducia, un amico, appunto; spesso
finisce col consegnare la propria intimità alle pagine di un diario personale, che
diventa il suo confidente.
L'adolescente che scopre Gesù, - la sua persona, la sua figura, la sua vita - così
come Egli si rivela nel Vangelo, e incomincia a vivere una personale amicizia con
Lui, ha certamente imboccato la strada sicura non solo per la sua crescita umana ma
anche per la sua formazione cristiana; infatti la vita cristiana non è altro che la
sequela di Cristo. Alla scuola di Gesù, l'unico vero amico e maestro, l'adolescente
può trovare il modo più efficace per conoscere sé stesso e far emergere la propria
identità personale. Sappiamo infatti quale importanza hanno nell'adolescente i
modelli, i leaders, come ideali di vita nei quali è portato a specchiarsi per imitarli nel
suo comportamento.
Conoscere Gesù Cristo, osservare con amorosa curiosità la sua vita e
camminare con Lui, dovrebbe diventare l'ideale per ogni cristiano fino al punto di
entrare in quella amicizia divina capace di aprire al nostro cuore gli orizzonti della
donazione e del servizio.

184 - Le impazienze dell’adolescenza.

L'adolescente avverte il bisogno dell'amicizia ma non ne è ancora capace


veramente. Si dice: chi trova un amico, trova un tesoro. Ora, quando un ragazzo
trova un amico che abbia imparato a vivere la propria esperienza creaturale come
amicizia con Dio - può essere un coetaneo, o un adulto o un sacerdote - e lo aiuti a
264
Is. 41,8
265
Bar. 3,33
266
Gv. 15,15
169
vivere la propria adolescenza come amicizia con Cristo, ha trovato un vero tesoro,
che può essere determinante nella sua vita. Infatti l'adolescenza è l'età dei facili
entusiasmi e delle improvvise depressioni, delle decisioni impulsive e delle
incertezze, della instabilità e del bisogno di sicurezza. Ora, aiutare un ragazzo a
scoprire l'amicizia con Cristo, un Amico che lo capisce, che lo ama, che gli è sempre
vicino e che gli è fedele nonostante tutto e al di sopra di tutto, e che conta su di lui
sempre, significa salvarlo dai pericoli che insidiano l'età più esaltante ma anche più
ingrata nella vita dell'uomo.
Il primo pericolo cui è esposto l'adolescente è la fretta; la fretta di essere
adulto. Sono soprattutto due le impazienze che lo assillano: l'impazienza della
libertà e l'impazienza dell'amore. La fretta della libertà è la più sofferta e
combattuta. L'adolescente rivendica un'autonomia che mal sopporta le limitazioni, ed
essendo priva di un sufficiente supporto di esperienza e responsabilità, rischia il
disordine, l'anarchia, il non rispetto delle persone e delle istituzioni. Un dato che
l'adolescente difficilmente riesce a cogliere è la differenza tra la libertà esteriore -
poter "fare" quello che si "vuole" - e la libertà interiore che esige disciplina e
dominio di sé. Prevale, naturalmente, la rivendicazione della libertà esteriore che ha i
suoi simboli: tenere le chiavi di casa, non rendere i conti a nessuno, rientrare a
qualsiasi ora, possedere cose o strumenti che lo qualificano come emancipato di
fronte agli amici.
Questa incapacità critica è del tutto naturale in lui ma a farne le spese sono in
primo luogo i genitori. Essi incarnano agli occhi dell'adolescente l'autorità intesa
come ostacolo all'affermazione di sé e come limitazione ingiustificata alla propria
libertà. Per i genitori - e per gli educatori - è questo il momento più delicato e più
laborioso. Anche per loro il pericolo è l'impazienza. Impazienza "perché il ragazzo
non matura, non capisce, non ragiona, non finisce di assestarsi, una buona volta!"; è
un' impazienza che li può portare a rotture pericolose o ad interventi inopportuni.
Occorre invece la lunga pazienza del dialogo, unita all'esercizio flessibile ma deciso
dell'autorità. L'adolescente contesta l'autorità e spesso vi si ribella ma ne ha un
assoluto bisogno. Guai se gli mancasse, perché è l'unico riferimento concreto in
mezzo alla sua insicurezza e alla sua confusione. Quello che i genitori devono tener
presente è che l'esercizio della loro autorità deve mirare a far sentire al ragazzo la
responsabilità delle proprie azioni e delle proprie decisioni. E' un comportamento
indispensabile, l'unico modo giusto per educarlo alla libertà e condurlo al dominio di
sé stesso.

185 - L’impazienza del cuore.

Altro atteggiamento pericoloso nell'adolescente è l'impazienza dell'amore.


Parliamo dell'amore tipicamente immaturo, proprio di questa età. Il prorompere
dell'affettività accompagnato dallo sviluppo sessuale è il fatto che maggiormente
contribuisce a far scoprire all'adolescente la propria soggettività e la propria intimità.
E' anche il fatto davanti al quale l'adolescente si trova maggiormente indifeso per cui
viene facilmente esposto alle aggressioni esterne della mentalità edonistica e
permissiva propria della società attuale. Sono infatti tali e tanti gli stimoli
provocatori che il mondo di oggi esibisce nel campo della sessualità, che
l'adolescente ne rimane frastornato e soggiogato non avendo il tempo non solo di
razionalizzare criticamente il problema, ma nemmeno di intravvederne il significato
per la propria personalità.
Vi si aggiunge, poi, una educazione sessuale irresponsabile e galeotta che
porta alla desensibilizzazione dell'adolescente non solo riguardo al valore morale ma
anche riguardo alla valenza semplicemente psicologica della sessualità.
L'adolescente non fa in tempo, oggi, a scoprire la propria intimità personale e
170
sessuale che ne viene immediatamente derubato da una società sfacciatamente
qualunquista e amorale.
In questa società, il gioco affettivo e le esperienze sessuali sono ormai
considerate una norma, qualcosa di naturale nei giovani e anche negli adolescenti.
Così i ragazzi e le ragazze che riescono a sopravvivere, a salvaguardare la loro
dignità personale in campo sessuale, sono sempre meno numerosi. Addirittura sono
molti ormai i genitori che ritengono praticamente inevitabili le esperienze sessuali
nei loro figli, anche adolescenti, per cui l'importante, a questo punto, è salvaguardarli
dai rischi. E i rischi sono la gravidanza e l'AIDS. E' l'inganno più sporco e ipocrita
che la società attuale, la società politica e culturale dei nostri giorni, abbia
consumato sulla pelle delle giovani generazioni.
A questo punto la vera educazione sessuale consiste nell'aiutare l'adolescente a
ribellarsi di fronte a questa mentalità dominante, così anonima e sfrontatamente
ipocrita, nella quale la permissività sessuale è pari al più ritardato infantilismo della
personalità, al vuoto di valori e alla carenza del dominio di sé. La vera educazione
sessuale mira ad una maturità umana che non si identifica per niente con la
maturità sessuale, perciò deve portare l'adolescente a saper dire di no alla propria
impazienza sessuale ed affettiva, un no che significa libertà interiore, consapevolezza
critica della preziosità e dell'importanza che ha il dono della sua persona, coscienza
sempre più chiara del proprio io che non si lascia gestire supinamente dal modo di
pensare diffuso, dal "tutti la pensano così" o "tutti fanno così".
La vera educazione sessuale deve far scoprire all'adolescente che esiste la
virtù della purezza, una virtù taciuta, disprezzata e derisa, ma che esige invece
virilità, fortezza, rispetto di sé stessi e degli altri, una virtù che diventa custode della
propria integrità sessuale e morale, così da permettere, a suo tempo, il dono integro
di sé stessi alla persona che sarà chiamata a condividere un amore pieno e gioioso,
per tutta la vita, al servizio della vita, o, se Dio vuole, al servizio del Regno dei
Cieli. Virtù dunque, e non ignoranza, non paura del sesso, non inibizione psicologica;
virtù che è promozionale della personalità, della nobiltà dei sentimenti, in definitiva
della vera capacità di amare.

186 - Educazione all’amore.


Questa educazione alla sessualità, alla purezza, all'amore, è opera affidata
prima di tutti ai genitori che non possono delegarla a terzi, compresa la scuola, senza
venir meno alla loro responsabilità. L'amore vero, l'amore puro, nobile, maturo,
l'adolescente lo scopre innanzitutto nel comportamento dei genitori: quando il
padre e la madre si vogliono veramente bene, si arricchiscono reciprocamente in una
convivenza serena e armoniosa, fatta di stima, di rispetto, di delicatezza, alimentata
da gesti semplici ma sinceri, di affetto, di attenzione, di comprensione e anche di
perdono, l'adolescente vede di fatto che cosa comporti l'amore di un uomo e di una
donna, e quale ricchezza di contenuti affettivi, morali e spirituali tale amore
presuppone. Il figlio deve scoprire che i suoi genitori, prima di essere padre e madre,
sono marito e moglie, sposo e sposa, e che prima di appartenere a lui essi
appartengono a sé stessi reciprocamente. Questo comportamento oltre a garantire
stabilità affettiva al nucleo familiare, permette ai genitori di gestire il proprio ruolo
di padre e di madre con chiarezza, con libertà ed efficacia, e di veicolare nella
coscienza dei figli le leggi morali che regolano il retto comportamento sessuale e
difendono la verità dell'amore.
Accanto a queste coordinate umane della sua maturazione sessuale,
l'adolescente ha bisogno delle coordinate spirituali, soprannaturali; così l'amicizia
sempre più intima con Gesù e una filiale, tenera devozione alla Madonna possono
aiutare l'adolescente a scoprire nella purezza non solo la virtù che lo matura
171
umanamente ma anche il clima spirituale che lo rende capace del vero dono di sé, sia
a una creatura per la famiglia, sia a Cristo per la sua Chiesa.

La giovinezza

187 - L’età dei progetti.

L'esperienza creaturale, con la corrispondente consapevolezza della propria


vincolazione a Dio, esperienza così problematica e faticosa nell'età dell'adolescenza,
diventa ancor meno facile e spontanea nell'età giovanile. La giovinezza si
caratterizza per una proiezione dell'io, già sufficientemente emerso nell'adolescenza,
verso l'esterno, verso la vita con le sue promesse e con le sue incognite. E' la
scoperta dell'io relazionale. La giovinezza si presenta soprattutto come l'età dei
programmi, dei progetti, delle aspirazioni, viste non tanto sul piano ideale e teorico
ma sul piano concreto della loro realizzazione. Il giovane matura delle scelte e
tende a realizzarle in un progetto di vita. Normalmente le scelte riguardano la
professione e la famiglia, concretamente il campo di lavoro e la compagna della
propria vita. La giovinezza impegna dunque su due fronti particolarmente
importanti: quello dell'inserimento professionale e quello del fidanzamento.
L'inserimento professionale ha per il giovane il significato di realizzare un
proprio posto nella società che corrisponda il più possibile alla sua personalità. Il
conflitto si sposta perciò dall'ambito interiore della persona all'ambito esterno, quello
delle situazioni concrete della vita.
Queste situazioni sono di due tipi: il primo è di carattere istituzionale; esso
riguarda le strutture sociali e politiche già definite e dentro le quali si muovono i
membri di una comunità. Sono strutture regolate da leggi, e sono espressione di
determinati valori che a loro volta sono costitutivi di una determinata cultura. Il
giovane che vuole aprirsi una strada nella società è combattuto tra la necessità di
«adeguarsi al sistema" conformandosi allo stato delle cose, e la volontà di
rinnovamento che mira alla realizzazione di un nuovo ordine sociale. L'impazienza,
che è ancora viva nell'età giovanile, può spingere il giovane ai due estremi di questa
alternativa.
Nel primo caso, il pericolo è il conformismo. Esso può portare
all'appiattimento, alla sfiducia che spegne gli entusiasmi, all'imborghesimento che
soffoca le aspirazioni e fa crollare gli ideali. Le energie vitali che la giovinezza porta
in sé trovano allora sfogo nel consumismo disordinato che diventa evasione, e nella
sete insaziabile di godimento che diventa compensazione.
Nel secondo caso la spinta innovatrice può diventare rivoluzionaria ed
esprimersi in clamorose contestazioni e violente rotture, fino alla radicale
opposizione verso le strutture a tutti i livelli: familiare, sociale, politico, e perfino al
rifiuto dei valori della più autentica tradizione.

188 - La vera rivoluzione: la santità.

A questo punto un'esperienza creaturale viva, personale, autentica, che


sviluppi nel giovane la coscienza della propria dipendenza da Dio, sapientissimo
creatore, e che sproni ad una profonda amicizia con Cristo, Maestro e Redentore
dell'uomo, può diventare per lui un fattore determinante nello sviluppo della sua
172
personalità umana e cristiana. Sapersi creatura di un Dio sapientissimo può
aiutare il giovane a comprendere che noi non siamo entrati in un mondo
sbagliato, tutto da rifare, ma in un universo già ordinato, con leggi buone, stabilite
dalla sapienza di Dio.
Purtroppo il Maligno e il peccato dell'uomo hanno introdotto nel mondo il
disordine e il male che, tuttavia, sono stati vinti da Cristo. Perciò, vivere la nostra
esperienza di creature deve portarci a ricevere dalle mani di Dio il mondo da lui
creato, per rinnovarlo attraverso Cristo e condurlo sempre di più verso il modello
voluto da Dio, nella verità, nella giustizia e nella pace.
Non si tratta quindi di distruggere, ma di purificare, di rettificare e semmai di
edificare. La vera rivoluzione l'ha operata Cristo perché ha cambiato il cuore
dell'uomo. Dobbiamo certamente mettere mano anche alle strutture temporali della
società perché siano più giuste e più umane, ma non possiamo illuderci che, cambiate
le strutture, venga cambiata la situazione del mondo. Le rivoluzioni che distruggono,
sostituiscono violenza a violenza, disordine a disordine, ingiustizia a ingiustizia; alla
fine "buttano il bambino e si tengono l'acqua sporca". La ghigliottina non sarà mai
uno strumento di giustizia e di pace, né mai servirà a cambiare il mondo.
Né conformismo borghese, quindi, né violenza rivoluzionaria, ma santità.
Santità con opere. I veri rivoluzionari che hanno cambiato il mondo furono i
santi. Essi hanno testimoniato nel mondo i veri valori di cui l'umanità ha bisogno.
Non sempre ciò che è nuovo è anche più giusto, più vero, più perfetto, come vorrebbe
uno dei principi fondamentali del Progressismo mondano. Spesso accade che una
società ha bisogno di rinnovarsi non perché è priva di valori, ma perché non attua e
non vive fino in fondo i valori che ha già ricevuto e già possiede.
Se un giovane saprà prepararsi pazientemente ma intensamente al lavoro
professionale, con competenza e rigore ma anche con le virtù umane e cristiane che
la vocazione professionale richiede, non solo troverà posto nella società, ma svolgerà
anche una presenza estremamente positiva e costruttiva, veramente innovatrice, così
come avviene in ogni creatura vivente, la quale non si rinnova autodistruggendosi ma
sviluppandosi dal di dentro, promuovendo le potenzialità che ha in sé stessa, dalla
natura.

189 - Fidanzamento e matrimonio.

Altre situazioni che il giovane deve affrontare e che riguardano più


direttamente la sua vita privata sono i rapporti umani: le amicizie, le scelte
sentimentali con le relative decisioni. Non c'è dubbio che quest'ultimo problema
costituisce la preoccupazione più importante nell'età giovanile. Il fidanzamento e la
preparazione alla famiglia occupano un posto importante nei programmi dei giovani.
E' un impegno che assorbe molte energie fisiche, psichiche e spirituali. Avere una
chiara consapevolezza di essere creature significa assumere di fronte al matrimonio
un atteggiamento di rispetto verso la verità, e di docilità a valori che non dipendono
da noi.
La verità sul matrimonio implica due principi fondamentali: primo, il
matrimonio viene da Dio e non dall'uomo. In altre parole, il matrimonio è un
istituto naturale voluto dal creatore il quale ne ha stabilito il fine e le leggi. Il
matrimonio quindi precede la volontà dei singoli e anche i poteri dello Stato e della
società stessa; nessuno può intervenire arbitrariamente sulla natura e sulle leggi del
matrimonio.
Il secondo principio deriva dal primo: il matrimonio non è un affare privato
tra due persone, come pensa chi riduce il matrimonio al solo amore. Ora, per
essere marito e moglie non basta volersi bene, sia pure con un amore sincero, intenso
ed esclusivo, occorre che questo amore diventi "coniugale" attraverso un vincolo
173
esplicito, unico e stabile, attraverso il "patto coniugale".
Il matrimonio è dunque un atto pubblico che ha valore giuridico vincolante a
norma di giustizia e si configura carico di socialità. Con ciò non si vuol togliere
importanza all'amore che, pur non essendo costitutivo del matrimonio ne rimane
l'anima e la garanzia, si vuole invece ribadire che l'amore tra l'uomo e la donna per
essere "amore coniugale" ha bisogno del "patto coniugale" come suo intrinseco
elemento costitutivo. Ciò aiuta a capire che ogni espressione "coniugale" durante il
fidanzamento va contro la "verità" dell'amore e non rispetta la realtà delle cose.
Diventa un "amore" abusivo, non autentico. Del resto, tutto il lavoro del
fidanzamento consiste nell'imparare ad amare e nel prepararsi ad amare veramente,
con un amore che non sarà mai scontato, ma che saprà rinnovarsi giorno dopo giorno,
con sacrificio e con lotta, per non cadere nella routine e per diventare invece più
profondo e più vero nella maturità e nel dono totale di sé stessi.
Davanti a questi impegni, il giovane di oggi rischia di impaurirsi; lo assale un
senso di incertezza e di insicurezza che durante il fidanzamento rimane mascherato
dall'innamoramento. Un ragazzo e soprattutto una ragazza innamorati non hanno
dubbi sulla sincerità del loro amore, e pensano che questo può dare una sufficiente
garanzia alla solidità e alla durata del loro legame coniugale. E invece l'entusiamo
dell'amore non basta. Dopo qualche tempo l'entusiasmo si acquieta e resta l'amore,
quello vero, quello fatto di stima, di comprensione, di sacrificio, di ottimismo, di
dono totale di sé stessi... fatto di perdono.
Il giovane di oggi deve sapere che la cultura dominante non riconosce questo
tipo di amore, piuttosto lo deride e lo rifiuta. Deve anche tener presente che la
legislazione stessa degli Stati moderni non difende e non tutela sufficientemente
il matrimonio e la famiglia. Le leggi civili danno importanza esclusivamente
all'amore e alla volontà soggettiva di vivere insieme; non danno quasi alcuna
importanza al patto coniugale, il patto che lega con vincoli di giustizia i due coniugi,
e li rende responsabili di fronte al diritto dei figli e del bene comune. Sono leggi che
spesso finiscono col premiare il colpevole e condannare l'innocente.
Tutto questo, non per aggravare ulteriormente l'incertezza e la paura nei
giovani di oggi, ma semmai perché sappiano trovare innanzitutto nella certezza delle
loro convinzioni e nella determinatezza delle loro decisioni la forza che li farà
camminare con fiducia in una società che non li garantisce. Ma soprattutto perché
sappiano trovare nel sacramento con il quale Gesù ha voluto elevare il patto d'amore
tra l'uomo e la donna a segno e strumento di grazia, la più sicura garanzia del loro
cammino coniugale. Se i giovani sapranno mettere Cristo-Sposo nel loro amore
umano sperimenteranno che cosa significa amare fino a dare la vita per la persona
amata.
Su questa strada dell'amore, dell'amore umano e cristiano, la vera risorsa viene
dal rapporto sempre più profondo e personale con Cristo. L'amicizia con Gesù,
scoperta e iniziata nell'età dell'adolescenza, può aprire nella coscienza giovanile
cammini di generosità e di dedizione al Signore, visto come Colui che ha veramente
rinnovato il mondo e ha insegnato agli uomini la verità dell'amore.
Cristo impegnato nelle strade della Galilea, e ora impegnato nelle strade del
mondo, può suggerire all'animo giovanile l'idea, - che può diventare progetto e
decisione - di farsi strumento a servizio di Dio e della Chiesa per gli uomini del
proprio tempo; strumento affinché Cristo sia "innalzato" su ogni attività umana e si
realizzi la pace di Cristo nel regno di Cristo. 267
E' questo, anche, un modo di vivere intensamente la consapevolezza di essere
creature inserite in un progetto di Dio che conta su di noi per realizzarlo nel mondo.
E' un modo diverso di scoprire il senso vocazionale della vita; senso che in noi
cristiani diventa vocazione divina nel Battesimo, per esprimersi poi come vocazione
professionale nel lavoro, vocazione sponsale nel matrimonio e nella famiglia, e anche
267
Cammino, n. 301
174
come vocazione verginale nella dedizione piena a Cristo con cuore gioioso e
indiviso, e con pienezza di servizio.

190 - Verginità per il Regno dei Cieli.

Questo, della vocazione alla verginità, è oggi un argomento non solo taciuto
ma totalmente incompreso. Parliamo della verginità come vocazione, perché come
virtù, cioè come castità prima e fuori del matrimonio, è non solo incompresa ma
anche derisa e disprezzata, e da più parti è considerata come segno di immaturità e di
anormalità psicologica.
La chiamata alla verginità "per il Regno dei Cieli" è stata inaugurata da Gesù.
E' Lui il "Vergine" per essenza, quasi per costituzione ontologica, una verginità che
lo costituisce "Sposo", sposo della Chiesa e sposo di ogni anima che lo segua da
vicino e totalmente, che segua "l'Agnello dovunque va". 268 Questo significa che nella
verginità cristiana si stabilisce con Cristo un rapporto essenzialmente diverso da
quello che si realizza nel matrimonio. Il Sacramento nuziale è una partecipazione
solo simbolica al mistero sponsale di Cristo e della sua Chiesa, ed è transitoria
perché legata alla condizione terrena; la verginità, invece, è una partecipazione in
certo qual modo diretta e perciò reale con il mistero di Cristo-Sposo e non si
interrompe con il tempo ma rivelerà la sua pienezza nella Vita eterna.
E' vero che una persona sposata può amare Cristo più di una persona vergine, e
può quindi arrivare a una santità più alta, tuttavia l'amore verginale resta sempre un
amore diverso, perché diverso è il rapporto con la persona di Cristo. E' infatti un
rapporto sovraeminente per natura, per significato, per grazia, che qui non possiamo
analizzare e approfondire ma che rimane nella tradizione della Chiesa come un fatto
di radicale importanza. Gesù stesso allude esplicitamente alla vocazione verginale
quando dice "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso". 269
Questa vocazione alla verginità per il Regno dei Cieli è un dono prezioso che
lo Spirito Santo ha fatto alla Chiesa di Cristo, e la Chiesa, nei venti secoli della sua
storia, ha conosciuto l'immensa fecondità di questo dono che mai potrà venir meno.
Oggi, nella nostra società occidentale sembra che queste vocazioni siano diminuite
fino quasi a scomparire. In realtà "non est abbreviata manus Domini" - non si è
indebolita la mano del Signore" - non sono venute meno le vocazioni, sono venute
meno invece le risposte alla chiamata del Signore. L'ambiente fortemente
secolarizzato e la visione consumistica della vita impediscono a tante ragazze e
ragazzi non solo di rispondere positivamente alla chiamata di Dio ma semplicemente
di avvertire la sua voce, che spesso riesce con fatica a farsi strada tra le mille
seduzioni della mondanità, e arriva al cuore senza la forza necessaria per attirarlo.
Ma nella mentalità edonistica e stoltamente permissiva della società attuale la
verginità risulta assolutamente incomprensibile. Scalzati i valori morali, si lascia il
posto ad assurde convinzioni che servono solo a ignobili speculatori del sesso per
alimentare un turpe mercato ormai non più sommerso ma sfacciatamente esibito.
Così la castità prima del matrimonio viene presentata come un peso e le esperienze
sessuali tra giovani sono considerate inevitabili, anzi, vengono presentate come
normali e psicologicamente utili. Semmai occorre premunirsi contro i rischi. La
verginità non sarebbe più una virtù, ma un sintomo di immaturità o addirittura di
anormalità. Sono gravi errori morali che non hanno nulla in comune con l'amore,
l'amore vero, nobile, autentico dei nostri genitori e offendono violentemente la
dignità dell'uomo e ancor più la grande dignità della donna.
Contrastare questa ondata di sensualità fondata sulla menzogna è compito di
noi cristiani. L'affermazione gioiosa della castità e della verginità come esigenza
268
Ap. 14,4
269
Mt. 9,11
175
della nostra dignità di uomo e donna è stato un aspetto importante della rivoluzione
culturale operata dal cristianesimo nel mondo pagano, e sarà certamente un elemento
essenziale anche per quella rivoluzione culturale che è la nuova evangelizzazione
dell'Europa.
Se il mondo giovanile e la cultura attuale non sapranno ricuperare il valore
della castità e della verginità, cioè il valore positivo della sessualità secondo il
disegno di Dio, difficilmente arriveranno ad una fede vera e autentica. La sensualità
è lo smog dell'anima; intristisce il nostro paesaggio interiore e impedisce
l'azzurro del cuore. Se una ragazza (come pure un ragazzo) non sa difendere e non
ama la propria verginità, non solo non capirà la vocazione a servire Dio con
dedizione totale per il Regno dei cieli, ma rischia di non comprendere nemmeno il
valore della maternità. I due valori si corrispondono intimamente e non a caso la
mentalità secolarizzata disprezza l'uno e l'altro, gettando così la donna in una
profonda crisi di identità. Rifiutare la verginità e temere la maternità è un
tradimento dei valori più nobili della femminilità. Purtroppo la responsabilità di
questa aggressione ricade in parte preponderante sulla visione maschilista e corrotta
di tanti "uomini di cultura" che i padroni dei mass-media hanno sponsorizzato.
L'incontro di Gesù con Erode è estremamente eloquente; ma soprattutto lo è la
figura amabilissima di Colei che, essendo "Vergine e Madre", ha meritato di essere
"figlia del suo Figlio".

L'età adulta

191 - Quale maturità?

Le stagioni della nostra vita non hanno né durata né confini precisi, e


nemmeno sono misurate dagli anni. C'è una continuità profonda che attraversa e
unisce tra loro le stagioni della vita umana: è l'unità e l'identità della "persona". Il
vissuto interiore di ciascuno caratterizza poi in modo personale la fisionomia delle
singole stagioni per cui si rende problematica la loro descrizione. Ma c'è un'età di
cui è più difficile definire la fisionomia per la varietà degli aspetti soggettivi e la
diversità delle vicende personali attraversate: è l'età adulta. La presenza di
molteplici e complesse componenti che definiscono l'età adulta comporta
un'ampiezza descrittiva di questa stagione della vita quale non si ha nelle altre età e
costringe a farne più descrizioni, tutte variamente incomplete.
Normalmente per indicare l'età adulta si usa un termine che sembrerebbe
sufficientemente sintetico per definirla: il termine "maturità". Ma che cosa significa
veramente una "persona matura"? Basta pensare, ad esempio, alla differenziazione
sessuale, che raggiunge nell'adulto l'espressione massima soprattutto sul piano
psicologico; è una differenziazione estremamente profonda, tanto che si dovrebbe
parlare di una età adulta maschile e di una età adulta femminile. Ne abbiamo una
prova nell'interrogativo che l'uomo e la donna adulti si pongono di fronte al
significato della vita; l'uomo si chiede: "per che cosa vivo?", domanda che rivela la
tensione maschile verso il fare, verso un'impresa da compiere, un lavoro da
realizzare; diversamente, è istintivo nella donna domandarsi: "per chi vivo?" ,
domanda che dice molto sull'atteggiamento femminile, e rivela la tensione interiore
176
della donna verso l'essere umano, verso la persona concreta, sia essa il marito, o il
figlio, o una creatura che si trova nel bisogno. Occuparsi dell'essere umano è sentito
dalla donna come la missione che le è stata affidata dalla natura. Il solo lavoro
professionale, un'impresa da portare avanti, per quanto gratificante, non bastano
perché la donna si senta pienamente realizzata. La riflessione su questo argomento
potrebbe dilungarsi molto e la psicologia differenziale avrebbe molto da insegnarci,
ma qui basta questo semplice accenno per capire quanto il concetto di maturità sia
tutt'altro che facile da definire. Tuttavia è possibile enucleare alcuni elementi che
chiameremo "sintomi" di maturità e che possono aiutarci a vivere l'esperienza
creaturale nell'età adulta.

192 - I “sintomi” della maturità.

Il primo sintomo potremmo vederlo nella consapevolezza sempre più chiara


della propria temporalità. L'uomo adulto si rende conto che la vita è critica; è
cioè caratterizzata da un equilibrio mai raggiunto e sempre aperto alla ricerca di una
stabilità che non è mai fissa, bensì continuamente dinamica. Se l'anziano è l'uomo
rivolto al passato e il giovane è l'uomo rivolto verso il futuro, l'adulto è l'uomo del
presente. Ma il suo presente è ben diverso da quello del bambino e dell'adolescente
nei quali il presente è limitato al presente, è chiuso e si esaurisce in sé stesso. E' un
presente, quello dell'adulto, completamente fluido, indelimitato, è una tensione tra un
passato che utilizza come esperienza e un futuro inteso come speranza. In altre parole
è la tensione tra l'essere e il "dover essere"; è un modo esistenziale di percepire la
propria temporalità come situazione in fieri, la situazione di un essere imperfetto non
ancora "compiuto" e che tende alla compiutezza.
Nasce perciò una nuova percezione di sé stessi, più oggettiva, più critica.
Proprio questa percezione può aiutare l'adulto a vivere la propria esperienza di
creatura con più consapevolezza. "Creatura" al femminile e al futuro, indica appunto
qualcosa che è "in fieri", che si sta formando. La consapevolezza della propria
creaturalità unita all'impegno morale della propria perfettibilità - il "dover essere" -
aiuterà l'adulto a non sentirsi autonomo da Dio in tutto ciò che riguarda la
progettualità della propria vita e insieme a sentire più fortemente la propria
responsabilità.
E' sintomo di maturità capire che tutto viene da Dio e insieme tutto viene
da noi stessi. Creaturalità e perfettibilità; da questa consapevolezza l'adulto può
anche derivare un atteggiamento maggiormente obiettivo e insieme maggiormente
paziente, cioè un atteggiamento di più viva responsabilità di fronte alla vita e agli
impegni che essa comporta; può liberarsi dalle impazienze giovanili e insieme
rendersi più tenace, più costruttivo, più efficace, nel lavoro, nella famiglia e nelle
responsabilità sociali.

193 - Maturità e coscienza.

Il campo più importante in cui l'adulto manifesta la sua maturità in quanto è


chiamato a giudicare con obiettività, è il campo dei valori. Si tratta del criterio
morale, cioè della capacità di valutare la moralità dei comportamenti prescindendo
dall'emotività, dagli stati d'animo, dalle apparenze sensibili. Un adulto è tanto più
maturo quanto più è obiettivo il suo criterio morale; in definitiva si tratta della
maturità della coscienza.
Ora, proprio a livello della coscienza ha enorme importanza la consapevolezza
della propria creaturalità. Comprendere e accettare di essere creature porta a capire
che la fonte dei valori è Dio e non la nostra coscienza. Un'etica dei valori che

177
prescinda da Dio diventa inevitabilmente un'etica soggettiva e perciò relativa;
relativa alle situazioni, alle circostanze, agli interessi e alle ambizioni personali.
Questo della coscienza è un aspetto fondamentale nella maturità dell'adulto,
tanto da poter dire che il valore di una persona sta nel valore della sua coscienza. Se
pensiamo che la coscienza è il luogo più intimo della nostra persona, là dove, soli
con noi stessi e avendo come unico interlocutore Dio, maturiamo le nostre decisioni,
ci rendiamo conto del perché essa sia la parte più delicata del nostro io personale.
Possiamo dire che tutta la nostra maturità si forgia nell'ambito della coscienza: non
solo la maturità umana (coscienza psicologica) ma anche e soprattutto la maturità
morale e spirituale (coscienza religioso-morale).
Se volessimo indicare le caratteristiche di una coscienza matura potremmo
definirla: sensibile, viva, integra. Una coscienza è sensibile quando sa percepire i
valori e li percepisce come vincolanti. E' come l'occhio dell'anima. Richiede quindi,
pulizia, luminosità, educazione. E' la "luce" di cui parla Gesù: "La luce che è in te".
E bisogna cercare con ogni cura che questa luce non si oscuri o non si spenga, perché
se "la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!". 270 La luce che
illumina la coscienza e la rende sensibile ed affinata è la verità. Ora, mentre la
menzogna accieca e distorce la coscienza, l'ignoranza e l'errore la rendono incerta,
grossolana, confusa. Perciò, mentre dobbiamo difendere la nostra coscienza dalla
menzogna, dobbiamo d'altro canto farle guadagnare uno spazio sempre più ampio e
profondo alla conoscenza e alla verità.
Si capisce allora quale importanza abbia per una maturità della coscienza la
formazione dottrinale; beninteso deve essere formazione e non deformazione.
Occorre cioè la sana dottrina, la dottrina che ci viene dal Magistero della Chiesa,
perché è la Chiesa che, nel suo insegnamento, ci interpreta autenticamente
l'insegnamento di Cristo.
Un cristiano veramente adulto, maturo, non è dunque colui che arbitrariamente
forgia la propria coscienza su criteri personali o su criteri desunti da una mentalità
dominante a modo di maggioranza democratica, (la crisi della coscienza collettiva) e
nemmeno su criteri sanciti da "esperti" in scienze teologiche e morali. Ancora una
volta è alla Chiesa, edificata sul fondamento degli Apostoli, che Gesù ha detto: "Mi è
stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le
nazioni (...) insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato". 271
L'obiettività porta un cristiano adulto a conformare la propria coscienza ai
valori proclamati da Cristo e testimoniati dalla Chiesa.

194 - Coscienza “viva”.

Questo ossequio consapevole alla dottrina autoritativa non mortifica la


coscienza adulta e matura, non le impedisce di essere una coscienza responsabile,
cioè viva. Essere e mantenersi "viva" fa si che la coscienza sia una facoltà
attiva, promozionale del bene nella nostra condotta, operativa anche sul piano
decisionale. E' una caratteristica legata ad un'altra funzione importante della
coscienza, quella di giudicare. Una coscienza adulta non solo percepisce
obiettivamente i valori ma anche giudica le nostre decisioni e il nostro
comportamento rispetto a quei valori. La coscienza perciò promuove decisioni,
suggerisce iniziative, in una parola è simile alla vita che è fonte inesauribile di
attività.
Nell'adulto, dunque, la coscienza non è una facoltà esclusivamente teorica ma,
attraverso un giudizio che precede e accompagna il nostro agire, diventa forza
promozionale di una condotta attiva nel bene. La sua dote è la fermezza. Una
270
Mt. 6,23
271
Mt. 28,18
178
coscienza matura è una coscienza ferma nel bene, nel servizio alla verità, nella
coerenza con i valori. Vive in continuo dialogo col dono e con la virtù della
prudenza.
Ci si riferisce a una coscienza viva quando si usa l'espressione: "prendere
coscienza"; è come la "presa di possesso" di un valore che, appena conquistato, pone
i suoi ultimatum. Questa presa di possesso non è mai pacifica, è un combattimento;
esige una lotta costante contro il sonno dello spirito. E' un brutto sonno questo dello
spirito: una coscienza smorta, sonnolenta, è temibile perché rischia di tramutarsi in
una atonia interiore di fronte non solo ai valori ma alla realtà tutta. Le cose e le
persone scorrono allora intorno a noi senza sentirne né il calore, né la poesia, né il
mistero; non esercitano alcun richiamo, alcuna provocazione. Qui non ha più senso
parlare di maturità di una persona: è la morte.
Una coscienza che non reagisce più si manifesta nel giovane come
rassegnazione, conseguenza di tante battaglie morali perdute, e nell'adulto si
manifesta come indifferenza totale, conseguenza di aver maltrattato lungamente la
coscienza con l'inganno, il rifiuto, la falsità intellettuale, la violenza delle passioni.
L'unica compensazione a questa povertà sarà il denaro, la carriera, o l'appagamento
dei sensi, più spesso sono tutte queste cose insieme: il più cupo egoismo.
L'immagine evangelica di una coscienza ridotta in queste condizioni è Lazzaro
nel sepolcro: inerte, legato dalla testa ai piedi, già maleodorante. Una coscienza
ridotta in questo stato è una grande disgrazia. Per uscire da questo sepolcro occorre
l'intervento onnipotente della grazia, occorre che la voce di Cristo risuoni nelle
profondità dell'anima. Si tratta di una conversione radicale; è un miracolo più grande
che resuscitare un morto. Ripetiamo, un adulto è tanto più maturo quanto più è viva
la sua coscienza, quanto più essa tiene efficacemente la sua posizione di centro
decisionale della persona.

195 - Coscienza “integra”.

Alla coscienza viva, che precede e accompagna l'agire maturo, segue la


coscienza integra che ha il compito di giudicare le azioni compiute, un giudizio che
approva o disapprova, con sincerità e senza cedimenti, le intenzioni e le opere. E' il
più comune e più antico significato di coscienza; viene talvolta confuso col rimorso,
che invece è legato al senso di colpa.
Una coscienza integra la si vede nell'ora dell'esame di coscienza. Al
momento dell'esame, infatti, una coscienza integra non si lascia intimidire, ricattare o
zittire né dall'orgoglio, né dall'interesse, né dalla vergogna. Una coscienza integra
non scende a compromessi, a sconti, a ipocrisie; ma anche non si lascia turbare da
inutili rimorsi che non risanano la coscienza ferita, da scrupoli irragionevoli che
vedono il male dove non c'è, o da complessi di colpa che hanno come causa disturbi
della sensibilità.
Una coscienza integra è inesorabile nel giudizio e nello stesso tempo indica
la strada della guarigione e conduce alla conversione. La minaccia più grave
all'integrità della coscienza è la disobbedienza abituale e consapevole alle esigenze
del bene, i peccati non detestati, il pentimento non sincero e non seriamente vissuto.
Una coscienza integra, se lacerata dal peccato, duole, fa male, ed è questo il segno
sicuro che essa è ancora sana.
Anche dal suo esame di coscienza si può misurare la maturità di un
adulto. E' lì, infatti, che emerge una coscienza sana, forte, delicata, sincera. E'
lì, anche, dove si intravvede la profondità di vita di una persona adulta: è la
profondità delle sue motivazioni. Si arriva così alla vera maturità di una coscienza
cristiana: la coscienza che prende per criterio di giudizio e di comportamento non più
semplicemente una legge o una gerarchia di valori ma l'Amore, le attese di Dio e le
179
esigenze della santità. Una coscienza innamorata è il distintivo dei santi.

196 - Maturità e libertà.

Il riferimento all'amore ci suggerisce un terzo sintomo della maturità


dell'adulto, sintomo che possiamo ricondurre alla libertà, meglio alla capacità di
essere libero. Questa capacità costituisce l'aspirazione più profonda dell'essere
umano perché la libertà sembra contenere tutti i valori fondamentali dell'uomo.
La sua estensione è ampia come la vita, come l'amore, come la felicità. Sappiamo
tuttavia quali significati diversi, anche contrastanti, questa parola assume nel
linguaggio corrente: perfino nelle varie età della vita essa è percepita con significati
diversi. Come allora percepisce la libertà una persona adulta che abbia raggiunto la
sua maturità? Possiamo dire che la capacità di essere libero, in un adulto, coincide
con la capacità di occupare pienamente tutta la propria vita, cioè accettare
interamente la propria vicenda umana e di muoversi in essa con autonomia.
L'autonomia di un adulto suppone innanzitutto il possesso sereno di sé
stesso. La battaglia più difficile e faticosa è quella che ciascuno di noi combatte
dentro di sé per la conquista del proprio io. Conquistare sé stessi è impossessarsi
delle proprie facoltà collocando ognuna di esse al proprio posto, educandole ad
accettare e a gestire ciascuna il proprio ruolo; è uscire dalla confusione interiore, dal
caos delle passioni, è stabilire dentro di noi la tranquillitas ordinis: la chiarezza
del conoscere e la consapevolezza dell'agire.
Così, per usare un esempio, una persona matura non è una persona che non si
arrabbia mai, che non alza mai la voce, bensì una persona che non si arrabbia fuori
tempo, per cose di poco conto, per motivi banali o semplicemente per impulsività o
intemperanza di carattere. Un adulto che possiede sé stesso e sa stare con padronanza
nelle situazioni, sa arrabbiarsi a ragion veduta, consapevolmente e volutamente, là,
dove e quando è necessario od opportuno arrabbiarsi. Non si lascia governare né dal
cattivo carattere né dalla paura. Questo significa autonomia interiore, questo è il
dominio di sé.
L'autonomia interiore, dunque, non significa rifiuto di ogni legame,
indipendenza da ogni principio, incapacità di rapporti positivi e costruttivi con gli
altri; è invece consapevolezza della propria libertà, consapevolezza che porta a due
conseguenze: a rispettare la libertà degli altri e a saper rispondere delle proprie
azioni.
Il rispetto della libertà altrui è una spia molto importante per misurare la
maturità di un adulto; la consapevolezza della propria libertà unita al rispetto della
libertà altrui è un presupposto indispensabile per stabilire rapporti interpersonali
maturi, positivi e validi con le persone dell'ambiente di lavoro, dell'ambiente sociale,
non escluso, anzi a cominciare proprio dall'ambiente familiare.
Rispettare la libertà degli altri non significa soltanto rispettare i loro diritti, i
loro valori e la loro dignità, ma significa anche capacità di dialogo e di
collaborazione, accettazione dei limiti e degli errori senza emarginare o squalificare
nessuno, attenzione e ascolto delle ragioni degli altri e magari dei loro bisogni e
delle loro necessità, significa saper mantenere la fiducia pur smascherando gli
inganni e le inadempienze, significa infine, capacità di comprendere e di valutare con
serenità di giudizio l'operato altrui astenendosi da ogni animosità o intolleranza.
Si diceva dell'ambiente familiare: è infatti nel suo modo di stare nell'ambiente
familiare, nella capacità di gestire in modo responsabile e positivo i rapporti con le
persone della propria famiglia, dove soprattutto si manifesta la maturità di un adulto.
All'interno della famiglia ognuno è chiamato a ricoprire un ruolo legato ad un
compito, ad una responsabilità - padre, madre, coniuge, figlio - compito e
responsabilità in cui ha peso soprattutto la maturità dell'adulto. Così non basta che
180
un uomo adulto rispetti la libertà della moglie, la libertà dei figli, occorre anche che
sappia promuovere la libertà della moglie ed educare alla libertà i figli. Altrettanto
può dirsi per l'educazione alla fede, l'educazione all'amore e alla sessualità, per la
promozione del dialogo coniugale, per una presenza rispettosa e insieme
promozionale nella vocazione dei figli. Dalla maturità con cui l'adulto sa gestire
queste responsabilità dipende l'immagine che egli sa dare al proprio ruolo di fronte a
tutta la famiglia. Lo stesso dicasi per l'ambiente di lavoro e per tutti gli ambienti
della vita sociale.
Rispettare la libertà degli altri non è dunque un fatto meramente negativo
ma, nascendo da una conquista - che è laboriosa e difficile - di sé stessi, spinge a
intrattenere con gli altri un atteggiamento di servizio promozionale e, per un
cristiano, di servizio apostolico.
L'altra conseguenza che deriva dalla capacità di essere liberi, come conquista
della propria libertà interiore, è la responsabilità delle proprie azioni. La
responsabilità riguarda innanzitutto la volontarietà e la consapevolezza. Saper agire
con responsabilità significa agire al netto della nostra libertà, e quindi fare una cosa
perché vogliamo farla.
Troppo spesso facciamo le cose senza volerlo: obbediamo a stati d'animo, a
condizionamenti esteriori dovuti a circostanze ambientali, a correnti di opinione, alla
propaganda e alla pubblicità con i loro modelli di vita...; inoltre siamo spesso
condotti dalla routine, dall'inerzia dell'abitudine. Il vero agire umano, l'agire maturo,
è espressione di forza interiore, di vitalità dello spirito, di chiarezza di coscienza;
mobilita le energie dell'anima con la forza della convinzione e della decisione. Non si
tratta di volontarismo presuntuoso, espressione di autosufficienza mondana, ma
semmai di forza obbedienziale, cioè capacità di rispondere ad una chiamata
(responsabilità), obbedienza libera - perché lo voglio - alla volontà di Dio, che si
manifesta nel piccolo o grande dovere di ogni momento, nei valori che da lui
promanano, nella sua legge provvidenziale come nelle circostanze ordinarie della
vita.
Non c'è espressione di libertà più vera e più nobile dell'obbedienza a Dio; anzi
la vera obbedienza non è quella del bambino o dell'adolescente ma quella dell'uomo
maturo, perché occorre una volontà forte e libera per saper obbedire con
responsabilità. "Volontà - Energia - Esempio.- Ciò che si deve fare si fa... senza
tentennare... senza riguardi". 272 Guadagnare spazio alla libertà interiore è guadagnare
spazio alla maturità. Più l'uomo adulto è libero - di libertà interiore - e meno sente il
bisogno di libertà (libertà esteriore). I veri condizionamenti sono quelli interiori,
quelli di una coscienza immatura e di uno spirito infermo.

197 - L’adulto ha nome e cognome.

Altro aspetto nel quale l'adulto esprime la propria responsabilità nell'agire è il


rifiuto dell'anonimato. L'anonimato ha due facce: quella di non firmare le proprie
azioni attribuendone la responsabilità all'ambiente, alla società, alle circostanze, e
quella di firmarle con un nome falso, un nome però che ha due cognomi: inganno e
ipocrisia. L'uomo maturo nel suo agire e nel suo parlare non usa mai né l'impersonale
né lo pseudonimo; e nemmeno usa il doppio nome secondo le circostanze. Non
alludiamo qui all'espediente dello pseudonimo letterario o al nome d'arte; ci
riferiamo a quel tipo di vigliaccheria che consiste nel voler uscire sempre e
comunque indenni dalle responsabilità del proprio comportamento, qualunque esso
sia.
Non c'è dubbio che la categoria più esposta a questo tipo di irresponsabilità è

272
Cammino n. 11
181
quella degli operatori nelle pubbliche relazioni e nei mezzi della comunicazione
sociale: giornali, televisione, ambienti dello spettacolo e della cultura. Enorme è il
bene che questi operatori possono fare e molti lo fanno, ma anche sono molti coloro
che cedono alla tentazione della vigliaccheria: tirano il sasso e nascondono la mano,
danno veri e propri giudizi di condanna e si coprono con l'anonimato del "si dice...
corre voce... sembra che...", fanno rientrare nel "diritto all'informazione" indegne
aggressioni all'intimità altrui, distruggono la buona fama e l'onore delle persone con
l'espediente del sospetto, del dubbio, dell'indagine arbitraria o camuffata per offrire
ipocritamente elementi di giudizio a lettori e telespettatori.
Ma tutti possiamo avere complicità con la vigliaccheria dell'anonimato;
ognuno di noi ha qualche momento di immaturità o si trascina dietro qualche residuo
di timidezza infantile che lo porta a nascondersi, a sparire nel gruppo, a far credere
che le cose sono avvenute fatalmente, per colpa di tutti. L'uomo maturo ha il
coraggio delle proprie azioni, non agisce nell'oscurità, o dietro le quinte, non fa il
mandante di nessuno, non approfitta dell'omertà delle strutture sociali o politiche; è
tanto più maturo quanto più ampio spazio del suo agire egli sa coprire con la sua
responsabilità.
Questo rifiuto dell'anonimato si collega con un terzo aspetto della
responsabilità: l'accettazione leale delle conseguenze delle proprie azioni, anzi di
più: l'accettazione virile e paziente di tutto ciò che, volutamente o no, può essere
accaduto nella vita. Il bene e il male commessi non sono mai senza conseguenze.
Ogni avvenimento incide sulla vita e sulla storia degli altri e nostra. Le nostre azioni
possono essere frutto di scelte e di decisioni ponderate, sagge e prudenti ma anche
possono derivare in certi momenti da impulsività, leggerezza, imprudenza, se non
anche da volontà non buona. Le conseguenze possono essere più o meno gravi, a
volte sono drammatiche; in ogni caso lealtà vuole che ci facciamo carico di tali
conseguenze, che ce ne assumiamo la responsabilità e anche l'onere con l'impegno
della riparazione. L'adulto non può considerarsi un minorenne che fa ricadere sui
genitori o su altri, o sulla società, le conseguenze delle proprie azioni.
La vera maturità non si limita ad una rassegnata sopportazione delle
conseguenze, quasi fossero un'ingiustizia, ma riconoscendole come proprie, cerca
una sincera riparazione secondo giustizia. Il cristiano, poi, sa che la vera riparazione
suppone un reale pentimento del male commesso e del male arrecato, un pentimento
di coscienza, davanti a Dio, e non soltanto davanti alla legge umana come il
pentimento di chi si arrende alle strette della giustizia e collabora con essa in vista di
vantaggi personali. Il pentitismo mondano non ha i caratteri della vera responsabilità.
L'accettazione responsabile delle conseguenze del nostro agire diventa nobile
comportamento quando si tratta di conseguenze dovute non a colpe ma ad errori
involontari, nostri o degli altri. Nella vita tutti siamo soggetti ad errori che possono
portare anche a conseguenze irreparabili fino a condizionare negativamente tutta la
nostra vita. L'accettazione diventa allora espressione di quei "valori di
comportamento" - fortezza, ottimismo, coraggio, serenità...- che conferiscono nobiltà
umana e, nel cristiano, valore soprannaturale a una esistenza penosamente
condizionata e apparentemente inutile. Non dimentichiamo che proprio le
conseguenze negative del peccato - la sofferenza, il dolore, la morte - sono servite al
Signore Gesù per riparare il peccato e redimere l'umanità.

198 - Maturità e prudenza.

Si potrebbero concludere le riflessioni sull'età adulta ricordando la virtù che


più di tutte caratterizza l'uomo maturo: la prudenza. "Auriga virtutum", - la chiama
San Tommaso, - guida di tutte le virtù; infatti le coordina e le armonizza. E' quindi
collegata con la sapienza, che è virtù dell'intelletto speculativo. Non a caso per
182
indicare la maturità dell'uomo adulto si dice di lui che è "saggio e prudente".
Purtroppo, la prudenza non è una virtù demagogica e perciò non se ne parla mai;
mentre si parla molto di giustizia, si parla di fortezza, magari come forza
rivendicativa o contrattuale e si parla anche di temperanza come moderazione nei
comportamenti civici o sportivi; è invece taciuta quasi completamente la prudenza.
Eppure è la prudenza che orienta l'agire dell'uomo maturo secondo giustizia,
nella fortezza e nella temperanza. La prudenza infatti porta la persona matura ad
agire con rettitudine, con coerenza e con responsabilità nel compimento dei propri
doveri, senza tentennamenti, senza ipocrisie o compromessi, con forte impegno per
essere presente in modo positivo nella vita degli altri e nella vita della società,
sempre disposto a pagare di persona le proprie scelte e le proprie decisioni.
La prudenza unita alla saggezza fa dell'età matura la stagione più feconda e
produttiva di tutta la vita umana. Perciò l'esperienza creaturale è vissuta, nell'età
adulta, soprattutto come paternità. La paternità è un attributo fondamentale di Dio.
E' anche un nome personale che designa la prima Persona della Santissima Trinità;
ma è frequente in tutto il nuovo Testamento il richiamo alla paternità divina come
atteggiamento di Dio verso le sue creature, delle quali Egli si prende cura con
amorevole e paterna provvidenza. San Matteo, nel Discorso della montagna, e San
Luca nel capitolo XII del suo Vangelo, riportano la descrizione che Gesù fa della
paternità di Dio; è una descrizione commovente di quanto e come Dio vegli sulle sue
creature, dai fiori del campo agli uccelli del cielo, e soprattutto sull'uomo, sua
immagine e somiglianza, da lui tanto amato e custodito che perfino i capelli del suo
capo sono contati.
Ora, la paternità di Dio è fonte e principio di ogni paternità e perciò il
cristiano nella sua esperienza di uomo adulto e maturo può non solo capire la
bellezza e la fecondità della paternità di Dio, ma in certo qual modo parteciparvi con
sempre maggiore consapevolezza attraverso quella maturità umana e spirituale che lo
fa sentire strumento e collaboratore della paternità di Dio nel servizio alla vita,
quella fisica o quella spirituale.
A questa maturità cristiana esortava S. Paolo: " Io piego le ginocchia davanti
al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi
conceda,... di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell'uomo interiore. Che
Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in
grado di comprendere con tutti i santi, quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza, e
la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché
siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio". 273

273
Ef. 3,14-19
183
La vecchiaia

199 - Il “carico” del tempo.

Tra le parole che provocano fastidio, irritazione, timore, perfino umiliazione e


sofferenza, una delle più temute è certamente la parola vecchiaia. Tant'è che essa è
finita nel vocabolario degli insulti, mentre nel vocabolario del linguaggio ufficiale,
burocratico, e ormai anche nel linguaggio popolare è stata sostituita da eufemismi
come: la terza età, l'anzianità, l'età della pensione, ecc.
Tutte le stagioni della vita hanno una loro componente di crisi e non c'è
dubbio che la vecchiaia sia un'età critica, come, e per certi aspetti, anche più delle
altre. E' frequente imbattersi in persone, non più giovani anagraficamente ma ancora
valide, che entrano in crisi, anche depressiva, quando vanno in pensione: non sanno
più cosa fare, come occupare il tempo, e vengono prese da un senso di angoscia come
se, uscite dal lavoro, fossero uscite dalla società. Sono infatti questi i due aspetti
critici della "vecchiaia": la perdita di significato che sembra avere la condizione di
anziano, e il pericolo dell'emarginazione. L'uno e l'altro concorrono a generare
nell'anziano la triste sensazione della solitudine, aggravata a poco a poco
dall'apparire degli acciacchi fisici, dal calo di vitalità, e dalle complicazioni
psicologiche che ne derivano. Tutto questo è chiamato "il peso" degli anni o il carico
del tempo.
In realtà gli anni non sono un peso ma una ricchezza e il tempo ha un suo
carico di esperienza per il bene ed il male che abbiamo compiuto. Un bene ed un
male che ci appartiene anche nelle sue conseguenze perché tutto può avere un valore.
"L'anzianità è un coronamento delle tappe della vita. Essa porta il raccolto di
ciò che si è appreso e vissuto, il raccolto di quanto si è operato e raggiunto, il
raccolto di quanto si è sofferto e sopportato". 274
E' un carico, quello del tempo, che fa parte della nostra vita e perciò della
nostra persona. Abbiamo ricordato tante volte che viviamo nel tempo e che il tempo
misura la nostra vita ma non misura la nostra persona; al contrario, è la nostra
persona, con i suoi valori e le sue virtù, che misura il tempo e dà contenuto alla vita;
tutto ciò che appartiene alla nostra persona è nostro, ed è un atto di lealtà verso noi
stessi e verso la vita assumere ciò che è nostro col suo carico di bene e di male.
Se non accettiamo responsabilmente ciò che appartiene alla nostra vita non
possiamo offrirlo a Dio, accompagnandolo con l'umiltà della contrizione per il male
commesso e con la gioia della gratitudine per il bene ricevuto. L'alternativa è vivere
in contrasto con noi stessi e con la nostra vita; contrasto che sta alla radice di tante
tristezze, di tante inquietudini, di tante insoddisfazioni.

200 - Sguardo di eternità.

La vecchiaia non è un problema di anni. Certamente essa è anche


accompagnata dal degrado fisico di tutto l'organismo che va condizionando
progressivamente la vita psichica e intellettuale: scomparsa di migliaia di neuroni
ogni giorno, disidratazione delle proteine cellulari, inquinamento progressivo dei
liquidi circolanti, indurimento dei tessuti, e altri fenomeni di recessione organica ben
274
Giovanni Paolo II, Monaco, nov. 1980
184
noti alla scienza e che costituiscono l'esperienza faticosa di quanto sia "mortale" il
nostro corpo. La vecchiaia appare allora come una lotta per fermare la morte. Una
lotta impari, disperata, perduta in partenza, nonostante le imprese titaniche compiute
dalla scienza. Lo sanno chiaramente i geriatri che rimangono impassibili, senza
entusiasmo di fronte ai risultati di una scienza medica che è riuscita a spostare
notevolmente la data della terza età e a prolungarne considerevolmente la durata.
Ora, il momento in cui ci si rende conto e si sperimenta quanto sia "mortale"
la nostra condizione umana, è il momento della crisi. Il pericolo, allora, è quello di
ripiegarsi sul proprio fisico, sul proprio disfacimento vitale, sui propri "acciacchi",
restandone prigionieri come tristi inquilini di sé stessi. C'è invece una frase di San
Paolo che può aiutarci ad essere sempre abitatori della vita, anche quando essa
sembra inesorabilmente regredire: "Perciò, non ci scoraggiamo, ma se anche il
nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in
giorno". 275 Il problema sta dunque nella nostra vita interiore; è lì che troviamo il
segreto per "vivere" la vecchiaia in positivo. Se ci fermiamo al fisico veniamo
travolti dal corpo in declino e la vecchiaia ci apparirà come una situazione senza
futuro, un'attesa senza avvenire. "Ma noi - continua San Paolo - non fissiamo lo
sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un
momento, quelle invisibili sono eterne". 276
Solo uno sguardo di eternità può rompere il muro del tempo. Abbiamo
visto che l'eternità è la profondità del tempo. L'anziano non deve guardare avanti
perché non ha un futuro e rischia la beffa crudele di una illusione alla quale lui stesso
non crede. Deve invece guardare in profondità, deve entrare nel suo presente e
penetrarvi nella sua dimensione più profonda: gli svelerà orizzonti impensabili con
prospettive che il tempo non conosce - "le cose invisibili sono eterne" - ; è l'eternità
la profondità del presente. I giovani corrono e gli adulti si impegnano, tutti vivono le
cose del tempo; l'anziano deve fermarsi, lasciare che il tempo vada; egli può guardare
così gli uomini e la vita dall'alto di una sapienza che non appartiene più al tempo,
perché non è dell'uomo "esteriore" ma appartiene all'uomo interiore. In un certo
senso l'anziano deve riscoprire la vita; non nel suo scorrere, nel suo divenire, ma nel
suo essere, nella sua profondità.

201 - Nessuno deve dire: basta!

Dire che l'anziano deve fermarsi e lasciar andare il tempo non significa
inerzia, passività, ripiegamento sulla propria condizione per rimpiangere un passato
che ha l'aspetto di un sepolcro sul quale deporre i fiori della propria nostalgia; ma
significa far vivere l'uomo interiore che deve "rinnovarsi di giorno in giorno".
L'anziano non deve mai lasciare inoperosi né il corpo né la mente; cambieranno il
ritmo e l'intensità del suo operare e cambieranno anche le prospettive che si propone,
ma non può considerare esauriti i suoi talenti. Curare l'attività fisica, anche col
lavoro manuale, coltivare interessi intellettuali - circoli per anziani, università per la
terza età, viaggi e visite culturali... - le stesse occupazioni casalinghe o familiari, le
prestazioni di volontariato, amicizie e servizi reciproci, e varie altre espressioni di
operosità sono un valido aiuto non solo per mantenere una vitalità efficiente e
longeva, ma anche per superare la tentazione di vivere in modo negativo l'ultima età
della vita.
Un anziano inoperoso, che non ha saputo crearsi interessi o che non sa
cogliere il significato della sua età può facilmente diventare preda del vittimismo
egocentrico. L'anziano si chiude allora in sé stesso e, considerando chiusa la sua vita,
è tentato di aggrapparsi a tutto diventando insaziabile di tutto: di attenzioni, di
275
2 Cor. 4,16
276
Idem
185
affetto, di compagnia. Invece la soluzione del problema, nella vecchiaia come del
resto in tutte le età della vita, sta nel farsi dono, nell'aprirsi agli altri. "Nessuno ha
diritto di dire basta - diceva Giovanni Paolo II a gruppi della terza età - Voi non
dovete fermarvi, né considerarvi esseri in declino. Davanti agli occhi di Dio questo
periodo della vostra esistenza ha un significato di grazia... per questo è necessario
innanzitutto che l'anziano prenda coscienza delle possibilità che ha a sua
disposizione, perché, anche nell'età più avanzata, il suo animo continui ad affinarsi".
E il Papa indicava due mezzi di elevazione che il Signore mette a disposizione
degli anziani: la preghiera e il sacrificio. E concludeva: "Per la particolare
condizione di età in cui vi trovate, a voi non mancano né le occasioni di soffrire
né il tempo di pregare". 277
Nella società industrializzata dei nostri tempi, così efficiente e produttiva,
questi due mezzi non vengono minimamente presi in considerazione e anzi vengono
guardati con sospetto come un pericoloso deterrente all'impegno. Ma c'è il pericolo
che anche l'anziano cada in questo inganno, e vedendosi escluso da una società
giovanilista e impaziente, finisca anche lui per considerarsi emarginato, un escluso
dal grande gioco della vita, o comunque eliminato dalla società. In questo caso la
preghiera e il sacrificio avrebbero anche per lui il significato di un surrogato, di un
compenso consolatorio alla sua inutilità.

202 - La solitudine.

Questo senso di frustrazione unito al problema della solitudine può diventare


il vero "peso" della vecchiaia, e in effetti è il più temuto dagli anziani. E tuttavia la
solitudine non è il problema esclusivo della vecchiaia. Assistiamo a uno dei paradossi
del nostro tempo: in una società dove i mezzi di comunicazione e di trasporto hanno
reso estremamente facili e immediati i rapporti tra le persone, e le stesse strutture
sociali costringono a vivere gli uni accanto agli altri, intorno alla stessa attività e alle
stesse mansioni, troviamo che gli uomini sono paradossalmente estranei e lontani fra
loro, così da incontrarsi senza conoscersi, parlarsi senza dialogare, camminare sulla
stessa strada e ignorarsi.
Le strade delle metropoli rigurgitano di folle, ma sono fiumi di atomi che solo
si urtano tra loro, piccoli mondi chiusi che nulla hanno in comune. Psicologi e
sociologi hanno studiato il problema e ne hanno dibattuto cause e spiegazioni, ma per
noi cristiani il problema non esiste o non dovrebbe esistere. Primo, perché il
cristiano conosce e accetta la "solitudine", anzi la cerca. La solitudine è una
dimensione dell'essere umano e della sua esistenza, perché l'uomo è qualcosa di
unico e irrepetibile e ha in sé stesso una parte così intima e così sua da essere
impartecipabile, un "fondo" dove nessuno può raggiungerlo e dove si trova solo con
sé stesso e con Dio.
In secondo luogo, il cristiano ha imparato a vivere col cuore libero,
distaccato da tutto, e nello stesso tempo disponibile a tutto e a tutti; capace di
accogliere tutti e a tutti donarsi; perciò tutto gli fa compagnia e a tutti offre
compagnia. Il problema sta allora proprio qui, nella capacità dell'animo umano di
raccogliersi nell'intimo di sé stesso e di sapervi incontrare Dio. Abitare questa
"solitudine" e condurvi un dialogo fiducioso e familiare con Dio è l'unico modo per
sconfiggere ogni altra solitudine e insieme l’unico modo per imparare a dialogare con
tutti e con ogni altro uomo.
Purtroppo, può capitarci di arrivare all'ultima età della vita impreparati: con
una vita interiore minima, o una fede troppo povera e stentata, con un senso
soprannaturale delle cose insufficiente...; per tanti anni siamo stati assorbiti quasi

277
Giovanni Paolo II, Udienza 23.3.84
186
totalmente dalle occupazioni materiali, dalle necessità della vita terrena, lasciando
poco spazio alla vita spirituale, con una preghiera intermittente, con uno sforzo
ascetico molto scarso, e perciò viene a mancarci quella familiarità con Dio che ce lo
fa sentire presente e assiduo dentro di noi, quel rapporto abituale con lui che facilita
il dialogo fiducioso e consolante. Sono cose che non si improvvisano; richiedono,
infatti, lungo esercizio e lunga preghiera.
Tuttavia, la caduta di tante apparenze e di tante realtà esteriori, può facilitare
all'anziano un rapido ricupero del rapporto con Dio e del dialogo interiore con Lui,
con l'aiuto della grazia che il Signore dà sempre quando la nostra anima ritrova le vie
dell'umiltà e dell'abbandono fiducioso.

203 - Il “Dio inutile”.

A questo punto l'esperienza creaturale può condurre l'anziano a due


esperienze importanti: alla percezione viva della finitezza delle cose, in
particolare della condizione umana, e in secondo luogo, alla scoperta del Dio
"inutile". La finitezza delle cose ci fa cogliere in maniera più evidente il nostro
legame con Dio creatore in quanto la precarietà dell'esistenza che sperimentiamo
nella mortalità della carne, nel declino del nostro corpo, ci fa capire che non può
risiedere in noi la consistenza del nostro essere, ma in un Altro; le nostre radici sono
altrove, non in questo mondo dove tutto si deteriora, tutto si sgretola, tutto si
presenta con il carattere della provvisorietà.
Vengono alla mente tante espressioni della Scrittura che proclamano Dio
"roccia" per la nostra stabilità, sicurezza della nostra esistenza. "In manibus tuis
tempora mea" - nelle tue mani è tutta la mia vita. "Vengono meno la mia carne e il
mio cuore; ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre". 278 E si
capisce anche, con indiscussa evidenza, quanto ingannano le cose della terra quando
hanno la pretesa di apparirci come il fine della nostra vita.
In secondo luogo l'esperienza creaturale dell'anziano può portare alla scoperta
del "Dio inutile"; cioè, del Dio che non "serve" per la crescita economica della
società e nemmeno per il nostro benessere personale. Tutte cose per le quali servono,
invece, le banche, le holding, le multinazionali, le grandi organizzazioni commerciali
o, a livello casalingo, il libretto della pensione; insomma tutto ciò che la tecnica, la
politica, la grande finanza e le strutture sociali sanno mettere a disposizione in una
società politicamente avanzata.
Nel mondo utilitaristico in cui viviamo - il nostro mondo occidentale
soprattutto - che dà importanza solo a ciò da cui può ricavare qualche vantaggio, che
cerca solo ciò che può servire a qualche guadagno o a qualche piacere, scoprire
l'importanza assoluta di un Dio che non serve per il guadagno o per il successo
mondano ma per dare senso alla fatica, al dolore, alla gioia, per dare a ciò che si è
amato nella vita una consistenza che vada oltre la precarietà e la caducità terrena,
scoprire questo è scoprire il senso e il valore della propria vecchiaia, di questa età
così "inutile" e così caduca. Solo questo può far capire quanto sono utili al mondo
e agli uomini cose così "inutili" come la preghiera e il sacrificio.
Si dice che i vecchi sono come i bambini. Possiamo anche prendere per buona
questa analogia e può essere anche saggezza da parte dell'anziano accettarla. E' vero:
anche i bambini sono improduttivi; ma cosa sarebbe il mondo senza bambini? Ce lo
chiediamo non soltanto perché i bambini sono l'avvenire del mondo e senza di loro la
società non avrebbe futuro, ma ce lo chiediamo anche nel senso elementare,
pensando ai bambini come tali, per i valori che hanno in sé stessi: l'innocenza, la
semplicità, la gioia, la fiducia, "la vita". Sono valori che non hanno rilevanza

278
Salmo n. 72,26
187
economica, eppure quanto sarebbe povero il mondo senza di essi!
Analogamente anche l'anziano può essere improduttivo - in realtà molti non lo
sono affatto, costituiscono invece una importante forza economica, - ma cosa sarebbe
il mondo - l'umanità - senza gli anziani, e proprio in quanto anziani, per i valori che
essi portano? Non esisterebbe continuità tra le generazioni, continuità "storica",
perché gli anziani sono depositari delle tradizioni e della storia di un popolo. Sono
anche saggezza, esperienza, stabilità, "lungimiranza". Quando un giovane parla, il
vecchio capisce molto di più di quanto il giovane dice; l'esperienza, la saggezza, la
conoscenza del cuore umano, sono per il vecchio come facoltà in più che amplificano
la sua capacità di comprensione e di intuizione.

204 - La gioia del “restauro”.

Ora, noi dobbiamo imparare a vivere tutte le età della nostra vita in
maniera positiva e gioiosa. Naturalmente la gioia che troviamo nell'adolescente e
nell'età giovanile sarà ben diversa dalla gioia dell'anziano; nel giovane la gioia è
"fisica", legata alla vitalità, al prorompere delle forze istintive, ed è una gioia più o
meno incosciente, che ha poco spessore e perciò anche fragile; la gioia dell'anziano,
quando è vera gioia e non semplice contentezza, è "virtuosa", nasce da un
atteggiamento interiore di saggezza, dalla consapevolezza dei valori umani e cristiani
della vita.
Questo fa si che la gioia dell'anziano sia una gioia più pacata, più profonda;
poter riscoprire la vita spogliata dei suoi inganni, delle sue promesse mancate, di
tutte le sue vane illusioni è come riappropriarsi di una ricchezza nascosta, che si
possedeva senza saperlo; in altre parole, è ricuperare sé stessi, i valori che fanno
autentica la nostra vita. E' ritrovare la propria immagine in mezzo a tanti falsi ritratti
di noi stessi che avevamo immaginato o che altri ci avevano dipinto, è la gioia di
veder emergere il senso vero della nostra esistenza. E' vero, gli anni ci tolgono
energie fisiche ma ci danno la sapienza del cuore, affievoliscono gli occhi del corpo,
ma affinano gli occhi dell'anima; ci offrono quella che possiamo chiamare la "gioia
del restauro".
Chiamiamo così la possibilità di riparare gli errori della nostra vita. Riparare
il male commesso è uno dei gesti più nobili e degni di rispetto: possiamo riparare
accettando innanzitutto con lealtà e umiltà le conseguenze spiacevoli o dannose
causate dai nostri comportamenti; possiamo poi riparare rettificando nel nostro cuore
tutto ciò che di sbagliato c'è stato nelle nostre scelte e nelle nostre convinzioni,
possiamo infine riparare, là dove giustizia esige, il danno materiale e morale arrecato
con le nostre azioni. "Se sono stati testimoni delle tue debolezze e delle tue miserie,
che importa che lo siano della tua penitenza?". 279
Proprio con la penitenza, che spesso è legata all'accettazione paziente del peso
degli anni, possiamo compiere l'opera di "restauro" della nostra anima e della nostra
vita. E' uno dei doni che la Chiesa nella sua liturgia chiede al Signore: "spatium
verae poenitentiae, emendationem vitae...", tempo per una vera penitenza, per il
restauro della nostra vita. La consapevolezza di aver rettificato i nostri errori, i nostri
sbagli - anche col sigillo di una buona confessione generale di tutta la vita - e di aver
riparato il male commesso è fonte di pace e di gioia, del "gaudium cum pace".
Non deve accadere che nella vecchiaia spendiamo tempo e denaro per
restaurare il nostro fisico e lasciamo degradare la nostra anima. Man mano che
l'uomo "esteriore" viene meno deve emergere l'uomo "interiore". Dobbiamo
perciò saper invecchiare cristianamente perché il mondo ha bisogno degli anziani. Ha
bisogno della loro saggezza, della loro preghiera, della loro gioia, del loro esempio di

279
Cammino, n. 193
188
generosità, di distacco, di penitenza; esempio di fede, di amore alla vita come dono
di Dio e di speranza e di fiducia nell'uomo.
I vecchi sono come i bambini; ma i bambini quando vedono un vecchio è come
se vedessero un grosso librone pieno di cose: di favole, di racconti, di vicende
misteriose e lontane ma tutte affascinanti, e li accomuna il senso della propria
piccolezza di fronte alla vita. Forse per questo vecchi e bambini si comprendono tra
loro istintivamente. Ma l'infanzia del vecchio ha qualcosa di più: è l'infanzia
impregnata della saggezza dello spirito, è l'infanzia di chi si sente creatura nelle mani
di Colui che è l'eterna giovinezza e che custodisce quella delle sue creature.

La morte

205 - La frontiera del tempo.

Il tempo dell'uomo ha una sua frontiera: la morte. Istintivamente gli uomini


avrebbero voluto cancellare questa parola dal loro vocabolario, ma non ci hanno mai
nemmeno pensato, tanto è ineluttabile la realtà che essa ci ricorda. Realtà inevitabile
- ci passa sotto gli occhi ogni giorno - ma realtà soprattutto drammatica e segnata dal
mistero.
Nella cultura occidentale dell'epoca moderna, la morte costituisce un vero
problema carico di incompatibilità e senza giustificazioni. Perciò lo vediamo
apparire come tema urgente e obbligato negli scritti e nelle riflessioni di quasi tutti
gli esponenti del pensiero moderno: laicisti e scettici di ogni corrente, e di riflesso
credenti di ogni scuola.
In realtà non basta la descrizione della morte come puro fenomeno biologico,
come conclusione di un ciclo vitale al quale non può sfuggire nessun essere vivente.
E' troppo forte nell'intimo dell'uomo la convinzione dell'immortalità; il "non omnis
moriar" - non morirò totalmente, cioè non tutto di me morirà - è presente nella
coscienza umana da sempre. Ne sono testimonianza le varie dottrine sulla
sopravvivenza dell'uomo che troviamo in tante religioni, soprattutto orientali. Tale è
la dottrina della reincarnazione secondo la quale l'uomo rivive in successivi cicli
biologici, o lungo la stessa linea di discendenza o anche in altre razze o specie
diverse, in epoche diverse. Così la teoria della metamorfosi, la teoria della
metempsicosi (successive purificazioni dell'anima) e altre credenze animistiche come
il totemismo, che incarna in oggetti-simbolo lo spirito degli antenati. Sono tutte
dottrine prive di fondamento e contraddicono a principi fondamentali come l'unicità e
la singolarità della persona umana e la irreversibilità della sua esistenza terrena; sono
invece la prova di quanto sia profonda nell'animo umano la convinzione che la morte
non è la fine totale e assoluta dell'uomo. Infatti è proprio il "dopo" che assilla
l'uomo, e sul quale l'uomo s'interroga. E' un "dopo" che chiama inevitabilmente in
causa il "prima" della morte, e l'uomo avverte l'insopprimibile bisogno di una
risposta perché sa perfettamente che risolvere il problema della morte è trovare il
senso della vita.
Finché ci muoviamo nel tempo, lungo le varie età della vita, il problema della
morte ci tocca "da lontano", e rischia di essere considerato in astratto, ma quando la
morte ci passa accanto - la perdita di un amico, di una persona cara...- tutto il nostro
passato: le azioni, i pensamenti, le cose che abbiamo compiuto, desiderato e amato, si
189
assiepano attorno al nostro animo con i loro implacabili "perché" e vengono messe a
nudo tutte le nostre convinzioni riguardo alla vita, al mondo, a noi stessi.

206 - Il “bello” deve ancora venire.

Così, gli uomini del nostro tempo hanno assunto di fronte alla morte gli
atteggiamenti più diversi, ma tutti orientati ad esorcizzare un fatto che incombe come
una condanna, senza appello e senza spiegazioni. Con la morte il discorso sulla vita
potrebbe sembrare finito; in realtà per quanto concerne la vita terrena è così, ma non
è così per il cristiano. Per lui il discorso sulla vita dovrebbe cominciare proprio
con la morte, perché "vita mutatur, non tollitur" - la vita non è tolta ma
trasformata. "Il bello deve ancora venire!" - diceva un anziano cardinale della Chiesa
sul letto di morte. Il "bello" infatti viene dopo la morte.
Per chi muore lontano da Dio, il "bello" avrà un nome terribile, un nome che
suona maledizione e condanna, avrà nome: inferno; una tragedia senza fine, pura
disperazione e odio assoluto, tenebre profonde come l'abisso dove abitano solo "il
pianto e lo stridore di denti". L'inferno è l'unica, vera tragedia dell'uomo; è il
fallimento totale della sua persona e della sua vita.
Ma per chi si "addormenta in Cristo", per chi muore tra le braccia di Dio, tra
le braccia della sua misericordia, il "bello" sarà qualcosa di indescrivibile, non
paragonabile ad alcuna bellezza, ad alcuna gioia, ad alcuna estasi di questo mondo; il
bello sarà il Volto di Dio, di Dio-Padre nella sua maestà e onnipotenza, di Dio-Figlio
nel fascino della sua umanità glorificata, di Dio-Spirito Santo nello splendore della
sua luce inaccessibile, sarà il volto dolcissimo di Maria, nostra madre e regina,
saranno le schiere luminose degli Angeli e degli Arcangeli, gli sciami ardenti dei
Cherubini e Serafini, tutto il firmamento della Chiesa con le costellazioni degli
Apostoli, dei martiri, delle Vergini e di tutti i Santi; e Dio sarà tutto in tutti, e con lui
la pace, la gioia, la felicità finalmente senza ombre, senza stanchezze, senza timori; e
la pienezza del bene sarà l'Amore, solo Amore, per sempre Amore, e il cielo e la terra
con tutto l'universo non avranno che una sola voce, un solo canto che proclamerà
eternamente: "Santo! Santo! Santo! il Dio degli eserciti; a Lui l'onore, la maestà e la
potenza". La sua gloria riempirà ogni creatura. Per sempre!
Che cosa succederà quando tutto questo riempirà la nostra anima? "Che cosa
sarà il Cielo che ci attende, quando tutta la bellezza, tutta la grandezza, tutta la
felicità e l'Amore infiniti di Dio si riverseranno nel povero vaso d'argilla che è la
creatura umana...?". 280 Ebbene, "un grande Amore ti aspetta in Cielo: senza
tradimenti, senza inganni. Tutto l'Amore, tutta la bellezza, tutta la grandezza, tutta la
scienza...! e senza stancare: ti sazierà senza saziarti". 281

207 - L’essere-per-la-morte.

Per molti uomini di pensiero e di cultura la morte rappresenta la più umiliante


sconfitta dell'uomo, poiché mette a nudo tutta la sua debolezza e la sua impotenza, e
si rifugiano, come per una rivincita, nello stoicismo: "Bisogna comportarsi con
impassibile rassegnazione al morire naturale di ogni vivente; bisogna morire
decorosamente e solennemente". I positivisti e tutti i seguaci delle ideologie
materialistiche, che non danno alcuna importanza all'uomo, non danno importanza
nemmeno alla morte; ciò che conta per loro è l'"Umanità", il fiume della Storia, che
sopravvive e continua oltre ogni individuo.

280
Solco, n. 891
281
Forgia, n. 995
190
Ma la maggior parte degli uomini di oggi che vivono immersi nei loro affari e
nelle cose del mondo, al pensiero della morte avvertono un insuperabile disagio e
cercano di nascondere il loro imbarazzo, spesso ridicolo, con frasi fatte, tipicamente
qualunquiste, come: "Così è la vita!..." Altri evitano l'argomento come se, passandolo
sotto silenzio, il problema non avesse bisogno di una risposta. In molte metropoli
secolarizzate del nostro mondo occidentale non si incontrano più cortei funebri e
viene fatto accuratamente sparire ogni segno che richiami la morte; i cimiteri stessi
sono trasformati in giardini o in parchi.
La nostra società violenta ci ha poi abituati alla morte; si uccide con tutta
facilità senza il minimo scrupolo, con la freddezza e insieme con la superficialità di
chi non fa nessun calcolo delle persone, siano innocenti o colpevoli, siano bambini o
vecchi, sia per vendetta o per futili motivi, sempre con cinico disprezzo della morte e
della vita, disprezzo dell'uomo. Avviene ogni giorno, sotto i nostri occhi, tutto
documentato da immagini e descrizioni come se fosse un fatto di normale routine,
che tutt'al più coinvolge per un attimo i sentimenti sui quali torna subito il silenzio.
L'imbarazzo diventa terrore e angoscia di fronte ad alcuni aspetti con cui si presenta
la morte fisica. L'aspetto che ci trova più rassegnati è l'aspetto biologico perché,
dopotutto, la morte biologica può essere considerata un fatto interno alla vita stessa:
la vita ha un suo ciclo e obbedisce alle sue leggi. Prima che gli esistenzialisti
scoprissero "l'essere-per-la-morte", San Tommaso anticipava i biologi osservando
come la vita sulla terra si fa, si prolunga e anche si genera tramite la morte.
Ma l'aspetto della morte fisica che più spaventa è l'aspetto psicologico. C'è
un ciclo anche psicologico nella vita dell'uomo. Il bambino a poco a poco si sveglia
intellettualmente alla conoscenza del mondo, l'adolescente prende progressivamente
coscienza di sé stesso, il giovane si apre ai progetti dell'amore e della professione, e
tutti siamo in fuga sin dall'infanzia verso la maturità, verso la pienezza della nostra
vita, della nostra persona con tutti i suoi progetti..., poi viene il crepuscolo. Il
bambino muore per lasciare il posto all'adolescente, anche l'adolescente muore e
lascia il posto al giovane e il giovane ha fretta di morire perché nasca l'uomo adulto,
maturo, padrone di sé e della vita. Ma l'uomo adulto non vuole morire e si rifiuta al
ciclo psicologico. Infatti i bambini, gli adolescenti, e in parte anche i giovani, non
hanno paura della morte; chi teme la morte è l'adulto.
L'uomo adulto teme il crepuscolo; viene infatti la notte psicologica: la mente
si smarrisce nei concetti e nei ragionamenti, la memoria non afferra più il tempo e
sovrappone i ricordi, gli affetti stessi si riducono alla loro forma elementare, labile e
incerta, infine l'orizzonte della coscienza va progressivamente restringendosi e perde
i suoi contenuti: progetti che un giorno incantavano ora non dicono più niente, idee
che ci abbagliarono e che ora ci lasciano indifferenti, stimoli fortissimi all'azione che
poi sono svigoriti, il ricordo stesso delle persone care si allontana e svanisce...
Vengono alla mente le parole di Gesù: "Viene la notte, quando nessuno può più
operare". 282 E ai farisei, parlando della sua morte, aggiungeva: "Ancora per poco
tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano
le tenebre". 283
La morte psicologica, che ha la sua espressione più tragica nel coma celebrale,
sta diventando sempre più diffusa; i progressi della medicina hanno prolungato la
vita biologica, ma poco o nulla hanno ancora potuto sulla longevità psicologica.
A questo crepuscolo della vita, succede poi la notte definitiva con la morte
anagrafica e biografica: il nostro nome scompare dagli elenchi o rimane sepolto nei
registri degli archivi, e tutte le nostre opere vengono dimenticate. Per pochissimi
persiste una sopravvivenza storica legata al genio: nell'arte, nella scienza, nella
politica, ma della loro persona più nulla. Diversa è la sorte dei santi; la loro
"sopravvivenza" non è solamente storica perché il loro potere di intercessione li
282
Gv. 9,4
283
Gv. 12,35
191
rende ancora vivi ed operanti nella vita della Chiesa e dell'umanità.

208 - Il “Vincitore” della morte.

Questi atteggiamenti degli uomini del mondo rivelano l'incapacità di andare


oltre la concezione della morte come fatto fisico, cioè l'incapacità di pensare il
"dopo", di andare "oltre", di affrontare l'eternità, perché essa costringe a rivedere il
nostro modo di pensare e di vivere la vita. In molti subentra anche la paura di dover
lasciare quanto hanno accumulato e tutto ciò che con tanti sacrifici si sono procurati
per il loro benessere, e insieme si affaccia il timore per una inevitabile "resa dei
conti". La morte diventa così un tunnel nel quale si spegne ogni prospettiva e si
chiude ogni altra alternativa.
Ben diversa è la prospettiva cristiana. A una visione puramente biologica
della morte la Sacra Scrittura sovrappone una "teologia" della morte facendola
entrare nei disegni di Dio; di un Dio, però, che è il Dio-Vivente, il Dio che ama la
vita, crea per la vita, e difende invincibilmente la vita. Egli aveva disposto perfino
di risparmiarci la morte biologica con il dono dell'immortalità fisica. Ma noi col
peccato abbiamo perduto tutto e la morte è diventata così lo "stipendio" del peccato.
E tuttavia Gesù ci avverte di non temere la morte fisica: "Non temete coloro che
uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui
che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna". 284 E' questa,
appunto, la morte che dobbiamo veramente temere, quella che l'Apocalisse chiama la
"morte seconda", quella definitiva ed eterna. E' la perdita della vita divina e della
felicità eterna, per sempre.
Nell'indicibile agonia del Getsemani, Cristo ha provato un'estrema ripugnanza
non tanto per la morte fisica in sé stessa, ma per quello che essa significava: la
condanna di Dio per il peccato. Ora, nulla è più incompatibile, più estraneo
all’essere di Cristo quanto il peccato. Perciò la prospettiva di doversi caricare, Lui,
l’Innocenza assoluta, del peso di tutte le nefandezze umane, costituiva
un’umiliazione indicibilmente ripugnante, mortale. Possiamo dire che solo Cristo è
veramente morto. In noi la morte è solo morte, «stipendio del peccato» e fa parte
della nostra condizione. In Gesù la morte è vittoria sul peccato, e perciò sconfitta
della nostra morte. Fu lui che «morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato
a noi la vita». 285 E' Gesù dunque la risposta al mistero della morte, è lui che ce
ne rivela il significato, è lui che ne tiene le chiavi perché è Signore della vita e della
morte, e da condanna irreparabile l'ha trasformata in "porta verso la vita".
Lui - il Risorto - e nessun altro può fermare un corteo funebre e dire a una
madre, davanti al figlio morto: "Non piangere!"; nessuno mai può far togliere la
pietra da un sepolcro e gridare a colui che già conosceva i morsi della putrefazione:
"Lazzaro, vieni fuori!"; solo colui che ha detto di essere "la risurrezione e la vita"
può fermarsi accanto alla salma di una fanciulla e dire: "La bambina non è morta ma
"dorme". 286
Il sonno nell'ascetica cristiana non gode di buona fama; fa pensare al sonno
dell'anima che è sinonimo di tiepidezza, d'imborghesimento, di accidia e di altre
situazioni negative dello spirito. Contro questo sonno dell'anima Gesù nelle sue
parabole e San Paolo nelle sue lettere hanno forti e incisivi richiami: Vegliate! "...E'
ormai tempo di svegliarci dal sonno...". 287
Del resto il sonno come immagine della morte è di origine pagana legata allo
stoicismo, - appare infatti nella mitologia greca e negli antichi miti mediorientali - e
284
Mt. 10,28
285
Liturgia dei defunti, Prefazio
286
Mc. 5,39
287
Rom. 13,11
192
nell'epoca moderna lo troviamo strumentalizzato in chiave laicista dal razionalismo,
che ha ispirato molti monumenti funebri nei cimiteri monumentali. Tuttavia questa
immagine del sonno trova riscontro anche nella Sacra Scrittura e Gesù stesso la usa
quando parla della morte di Lazzaro e di Talita.
Per il cristiano infatti la morte è un "sonno" in attesa del risveglio
"nell'ultimo giorno", il giorno della risurrezione; anzi la morte è diventata
"un'amica", una "sorella", perché mette fine a un "esilio", ad un pellegrinaggio
lontano dalla patria. Nella prospettiva cristiana la morte non è un assoluto, non viene
mai presentata da sola, è sempre accompagnata dalla certezza della vita, dalla
promessa della risurrezione; è sempre inserita dentro un disegno tracciato da Dio,
disegno del quale la morte rappresenta un momento di estrema densità e di definitiva
importanza. E' il momento in cui si decide per sempre il destino dell'uomo.

209 - La morte “mistica”.

L'unica cosa necessaria per il cristiano, l'unica che abbia veramente


importanza, è che la sua morte sia un "addormentarsi in Cristo" 288 cioè una
partecipazione al mistero pasquale del Signore. La morte da temere con tutte le forze
è quella di terminare la vita terrena separati da Cristo, fuori dal mistero della sua
Morte e Risurrezione, esclusi dalla salvezza. Il cristiano si addormenta in Cristo
perché ha già superato la morte essendo morto con lui nel battesimo: "Quanti siamo
battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Per mezzo del
battesimo siamo dunque stati sepolti insieme con lui nella morte". 289 E' la morte-
mistica che caratterizza la vita del cristiano.
Nel Battesimo abbiamo lasciato "l'uomo vecchio" - è stato sepolto l'uomo del
peccato - e siamo rinati come creature nuove. Tutta la vita del cristiano, il suo
scorrere nel tempo, diventa così una misteriosa gestazione: la "creatura nuova", fatta
a immagine di Cristo, concepita in noi per opera dello Spirito Santo, andrà crescendo
di età in età, nella misura in cui sapremo corrispondere alla grazia, fino alla sua
maturazione, quando essa si dischiuderà nella nascita al cielo. Dies natalis - giorno
natalizio - è chiamato dalla Chiesa il giorno della morte e su molti sepolcri i resti
mortali di un defunto vengono indicati col termine "exsuviae", le spoglie, una sorta
di guscio dal quale si è liberata la creatura battesimale.
Questo significato "natalizio" non toglie alla morte il carattere di pena, di
castigo per il peccato, e il suo contenuto di sofferenza e di dolore, spesso drammatico
e ripugnante, ne è la conferma. Come conseguenza del peccato, la morte è l'ultimo
nemico da abbattere, e Cristo lo abbatterà definitivamente nella risurrezione finale,
quando Egli estenderà la sua vittoria a tutti gli uomini che hanno avuto parte con lui
alla passione e alla croce.
Perciò occorre comprendere il significato della morte di Cristo. Essa è stata,
come tutta la vita di Gesù, un atto di obbedienza al Padre. Con la sua obbedienza
Gesù ha cancellato la disobbedienza del peccato, e la sua morte ha assunto un valore
redentivo. Ciò significa che la morte di Cristo non è stata la fine della sua vita,
ma è stata il "sacrificio" della sua vita; Gesù non ha subito la morte, egli ha "dato
la vita". "Oblatus est quia ipse voluit" - si è sacrificato liberamente, perché lo ha
voluto. La sua morte fu un supremo atto d'amore e un supremo atto di adorazione;
perciò rappresenta il più sublime atto di culto a Dio.
Così dovrebbe essere la morte di ogni cristiano: un atto di adorazione e di
culto al Padre. Un "si" a Dio, l'ultimo, quello definitivo che conclude una vita di
obbedienza e di fedeltà. Il nostro atteggiamento di cristiani di fronte alla morte non
può essere la rassegnazione ma l'accettazione, umile e anche gioiosa. Umile, perché
288
Liturgia dei defunti
289
Rom. 6,3-4
193
la trasformiamo in un atto di sacrificio e di espiazione in unione alla morte di Cristo:
anche noi, in quel momento andiamo a consegnarci nelle mani di Dio, - "Padre, nelle
tue mani consegno il mio spirito" 290 - e gli offriamo con un gesto di abbandono filiale
noi stessi, il nostro essere e la nostra vita. Accettazione, anche, gioiosa, perché essa
segna il nostro incontro definitivo con Dio. L'incontro con la persona amata è sempre
fonte di gioia; e se ci assale il timore per il fatto che nella nostra vita non c'è stato
molto amore di Dio e molte volte ci siamo dimenticati di lui, ci soccorre il pensiero
che andiamo incontro a Colui che ci ha amati sempre, che è stato sempre fedele
nonostante le nostre infedeltà e che vuol essere un giudice misericordioso.

210 - “Tempus breve est”.

Ha perciò decisiva importanza il poter santificare gli ultimi istanti della nostra
vita. Per questo occorre innanzitutto seguire l'avvertimento del Signore: "Vegliate
perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà". 291 Appunto perché non
sappiamo se nel momento della nostra morte avremo la consapevolezza e la lucidità
di coscienza, o anche semplicemente il tempo per affidarci a Dio e alla sua
misericordia, è vera saggezza soprannaturale fare subito l'atto di offerta di noi stessi
e dire al Signore: "Fin d'ora accetto, o Signore, la morte che tu permetterai per me,
quando, come e dove tu vorrai, e la offro a te con le sofferenze che
l'accompagneranno in adorazione alla tua maestà divina e in espiazione dei miei
peccati."
La preghiera - soprattutto frequenti atti di contrizione per i nostri peccati - e la
lotta interiore contro ciò che ci allontana da Dio, è questa la vigilanza che il Signore
ci chiede e che ci farà arrivare alla fine della nostra vita pronti per l'incontro con Lui.
Molti offrono la vita a Dio col testamento; noi dobbiamo offrirla subito, finché
l'abbiamo ancora fra le mani e ne abbiamo consapevolezza, finché possiamo darle
ancora tutto un contenuto di amore e di servizio che al momento della morte sarà
l'unico bagaglio che possiamo portare con noi. Infine, uno dei più grandi doni che il
Signore può darci è quello di santificare le ultime ore della nostra vita con la
presenza della Chiesa accanto a noi: il sacramento dell'Unzione degli infermi e
soprattutto l'Eucarestia, memoriale della morte del Signore ricevuta come viatico per
il nostro passaggio dal tempo all'eternità, è il modo più cristiano di "addormentarci in
Cristo".
Morire tra le braccia di Dio, nostro Creatore e Signore, è anche il modo più
bello e più esaltante di concludere la nostra esperienza di creature. La
consapevolezza della nostra creaturalità, consapevolezza che ci ha accompagnato
lungo tutte le stagioni della vita, trova nel momento supremo la sua espressione più
completa. Saperci creature è sperimentare il nostro legame con Dio, Alfa e Omega,
Principio e Fine della nostra vita, colui che apre e chiude , con bontà e amore, la
nostra vicenda terrena.
Così la nostra esistenza sulla terra si apre con un atto dell'onnipotenza di Dio e
si chiude con un atto della sua misericordia; l'una e l'altra sono Amore. E l'Amore è il
luogo - la culla - dove è chiamata a nascere, a vivere, e a morire ogni creatura
umana. Chi rifiuta di considerarsi creatura pensa di nascere per sbaglio, di vivere per
inerzia e di morire per caso. E' la triste condizione di chi vive lontano da Dio.
Noi invece siamo creature, e perciò veniamo da Dio e a Dio torniamo.
Tuttavia questo nostro viaggio nel tempo è come un lampo: "In pochi palmi hai
misurato i miei giorni, e la mia esistenza davanti a te è un nulla. Solo un soffio è
ogni uomo che vive, come ombra è l'uomo che passa; solo un soffio che si agita...". 292
290
Lc. 23,46
291
Mt. 24,42
292
Salmo n. 38,6-7
194
Come dire che abbiamo poco tempo: tempus breve est! Per quanto lunga possa
essere la vita, il tempo che abbiamo per compiere il bene è sempre poco.
"Ammazzarlo", sprecarlo in occupazioni vane, sciocche, inutili, o consumarlo al
servizio del nostro egoismo, delle nostre ambizioni mondane, della nostra sete di
comodità e di piaceri ignobili è un vero delitto; delitto che ci farà assaggiare, alla
fine della nostra vita, l'amaro sapore della sterilità.
La morte ci insegna a profittare del tempo, a riempirlo di frutti duraturi,
portando a compimento la volontà di Dio. Ci farà capire "quanto poco valgono le
cose della terra, che appena cominciate, sono già finite". 293
La morte ci aiuta così a giudicare gli avvenimenti della vita e la loro
importanza in maniera ben diversa: in quel momento non giudicheremo più con il
metro del tempo ma con il metro dell'eternità. Perciò la meditazione sulla morte ci
aiuta a conservare il nostro cuore libero, staccato dalle cose di questo mondo, in
piena letizia. San Francesco d'Assisi volle morire nudo sulla nuda terra, cantando il
Magnificat.
Ai Santi la morte non toglie nulla ma dona tutto. Per questo molti santi
andavano incontro alla morte con gioia; i martiri cantavano. Le parole del Salmo
"Quale gioia quando mi dissero: "Andremo alla casa del Signore" 294 esprimono lo
stato d'animo di chi ha vissuto la vita come "un'attesa"; è vissuto aspettando
l'abbraccio di Colui che sulla terra è stato appassionatamente amato e fedelmente
servito.
Quando eravamo piccoli, colei che con un bacio, un sorriso e una carezza
veniva a chiuderci gli occhi nel sonno era nostra madre. Non c'è un modo più bello e
più dolce di chiudere gli occhi alla vita terrena che vedere accanto a noi colei che è
"la Madre", madre della Vita, che con un bacio, un sorriso e una carezza ci
accompagna nel nostro "sonno" e nel nostro "risveglio", per stare con lei per sempre.

293
Forgia, n. 995
294
Salmo, n. 121,1
195
L'ETERNITA'

211 - Eternità dell’Amore.

Il tempo è nell'uomo e dell'uomo. L'eternità è di Dio. Dio solo è l'Eterno,


l'Immenso, l'Onnipotente.
Dall'eternità fluisce il tempo e nell'eternità il tempo s'immerge. La creatura è nel
tempo ma ha nell'eternità le sue radici.
Tempo ed Eternità: creatura e Creatore; un rapporto insondabile, abissale,
senza spazio ad altre realtà.
Dio è Amore. Perciò l'Eternità è Amore. Dall'amore è esploso il tempo e nel
tempo l'Amore è apparso come epifania di Dio. Senza Amore non esiste né tempo né
eternità: il nulla.
Tutto nel tempo è Amore: la vita è dono d'amore, la libertà è esperienza
d'amore, la giustizia è ancella dell'amore, così come il volto dell'amore è bellezza, il
frutto dell'amore è la pace, la presenza dell'amore è gioia, il suo appagamento è
felicità e il suo splendore è la verità.... La legge dell'Amore è l'amore.
Tempo ed Eternità, creatura e Creatore. L'Amore. E' qui tutta la realtà.
Per vivere il tempo alla luce dell'Eternità, bisogna vivere amando.

**********

In tutta la Bibbia il comando esplicito di "amare Dio" lo troviamo nel famoso


passo del Deuteronomio citato da Gesù, lo "Shemà Israel", Ascolta Israele... Ma, se
guardiamo bene, più che un comando di amare Dio, quel passo è un invito al timore
reverenziale di Dio, un monito rivolto a Israele perché si conservi fedele
all'Alleanza. L'idea fondamentale, infatti, è che Jahvè è l'unico Signore; e perciò
viene prima di ogni creatura. Il Signore è un Dio geloso e non sopporta l'infedeltà né
accetta di condividere con gli idoli il suo posto nel cuore degli uomini.
Inoltre, Jahvè aveva compiuto prodigi per il suo popolo; da una massa di
schiavi, senza patria e senza leggi, lo aveva trasformato in un popolo grande e
numeroso, gli aveva dato una terra fertile e spaziosa e una legislazione che non aveva
l'eguali presso altri popoli. Perciò Israele non avrebbe dovuto dimenticare il suo Dio
né tutto ciò che egli aveva compiuto per lui; avrebbe dovuto ascoltare la sua voce e
obbedire ai suoi comandi. In questo contesto il comandamento di amare Dio, - lo
Shemà Israel - diventava un invito a proclamare le lodi del Signore, a benedirlo e
ringraziarlo per tutte le sue opere e per tutta la sua misericordia.
Cantare le lodi della persona amata è la forma più nobile dell'Amore. La
santità di Dio, la sua bontà verso tutte le creature, la sua misericordia verso gli
uomini, destinatari di tante meraviglie e di tanta benevolenza, sono così manifeste ai
nostri occhi che proclamare la sua lode diventa un bisogno e una gioia profonda per
la nostra anima. Ne è testimonianza il Cantico delle Creature, l'inno di lode più
196
ardente e sublime uscito da una delle anime più innamorate di Dio. Del resto, tutta la
liturgia della Chiesa è un grandioso canto di lode al suo Signore.
Ma la rivelazione definitiva dell'Amore è avvenuta in Gesù, pienezza
dell'Amore. Di questa pienezza egli si è fatto maestro e modello. Gesù non chiede
esplicitamente di amare Dio, si limita a citare il Deuteronomio e a indicare
nell'osservanza dei Comandamenti il segno e la condizione dell'amore. Invece, in
modo molto esplicito chiede due cose: di "rimanere nel suo Amore" e di amarci gli
uni gli altri come lui ci ha amati.
"Rimanete nel mio Amore". Lo ripete più volte, consapevole della difficoltà
che abbiamo di credere all'amore. La mente dell'uomo, infatti, si smarrisce di fronte
all'intreccio delle vicende umane spesso troppo aspro e doloroso per potervi leggere
l'Amore di Dio! Noi stessi, i credenti, che possediamo la Rivelazione e la fede in
Gesù Cristo, - gli unici mezzi per conoscere l'Amore di Dio - quanta fatica per
lasciarci convincere da Gesù, quanta diffidenza, quanto scetticismo! E intanto la
nostra vita rimane oscura ai nostri occhi, non sappiamo vedervi i passi di Dio e del
suo Amore, e pensiamo che a governare la nostra vicenda terrena sia la fortuna o la
sfortuna, la buona o la cattiva sorte, le forze cieche e spesso brutali degli eventi che
sono manovrati dal caso o da ogni altra forza fuorché dall'amore.
"Rimanete nel mio Amore"; è questo il codice della santità cristiana. L'amore
che Dio ci porta è l'unico luogo sicuro per vivere, è la forza più efficace per vincere
ogni battaglia, è l'unico modo possibile perché si compiano tutti i desideri del nostro
cuore.
"Rimanete nel mio Amore". Succede purtroppo che molti non accolgono
questo invito del Signore e vivono "fuori", altrove, su strade che non sono state
tracciate dall'Amore di Dio. E' questo il grande peccato. E' il peccato che espone
l'uomo a tutte le menzogne, lo porta a ignorare Dio e a tenerlo fuori dalla propria
vita. Dove manca l'Amore c'è il vuoto, qualunque sia il surrogato. Questo vuoto di
Dio è diventato il male oscuro dell'uomo contemporaneo. Di qui le sue esasperate
idolatrie, le sue paure angoscianti, le sue aride tristezze. Un uomo lontano da Dio è
un albero sradicato; le sue radici inaridite urlano di dolore anche sotto un cielo
turgido di primavera. Un uomo può vivere nel tempo e sentirsi raccontare la
dolcissima storia d'Amore che ha nome Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto
per Amore, e restare "indenne".
"Rimanete nel mio Amore". Lungo i secoli la Chiesa continua ad offrire
l'Amore di Dio: l'Amore che perdona nel sacramento della Penitenza, l'Amore che
parla dalle pagine del Vangelo, l'Amore che si fa nutrimento nel corpo di Gesù
sacrificato sulla croce, l'Amore che effonde lo Spirito Santo nei nostri cuori e con lui
effonde luce e consolazione... infine, quell'amore con cui Dio accompagna
continuamente la nostra vita; è l’Amore che ci rende forti nella tribolazione, pazienti
nella malattia, gioiosi nella speranza, fiduciosi nelle avversità, sereni nelle prove,
umili nelle sconfitte e perseveranti nella preghiera.
L'Amore di Dio ci rende poi capaci di amare con lo stesso Amore tutti gli
uomini: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho
amati". 295 E' questo l'unico comandamento esplicito del Signore; il comandamento
sul quale Gesù non ha concesso attenuanti, e sul quale saremo rigorosamente
giudicati. Da questo comandamento gli uomini sapranno che siamo suoi discepoli, e
da questo comandamento possiamo valutare se "rimaniamo nell'Amore" di Dio.
Perciò non potremo contare sulla misericordia di Dio se non siamo stati
misericordiosi, non possiamo pensare di essere perdonati se non abbiamo perdonato,
non ci sarà risparmiato un giudizio rigoroso e fino al centesimo se siamo stati
impietosi con il nostro fratello, e non ci saranno scontati i nostri debiti se non li
avremo rimessi ai nostri fratelli. La misura è dunque l'amore. Molto sarà perdonato
a chi molto ha amato.
295
Gv. 15,12
197
Giovanni, l'apostolo della Verità, inflessibile e duramente rigoroso con quanti
rifiutano la verità di Cristo, è anche l'apostolo dell'Amore. Egli ha raccolto in queste
parole il testamento di Gesù: "In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare
Dio ma è lui che ci ha amato (...). Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli
altri Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi. (...) Noi abbiamo
riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta
nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui". 296

Dimorare in Dio: è l'Eternità; è condividere la sua Vita come figli.

Rimanere nel suo amore: è il tempo; è lasciarci condurre da lui per compiere sulla
terra "ciò che a lui è gradito".

Amarci gli uni gli altri con l'amore di Cristo: è l'unico vero dialogo tra l'eternità e
il tempo, il dialogo che unisce gli uomini a Dio e gli uomini tra di loro.

Perciò, dimorare in Dio, rimanere nel suo amore e amarci gli uni gli altri con
l'amore di Cristo e come Cristo ci ha amati, è tutta la vita cristiana. Qui approdano la
fede e la speranza, qui risiede l'essenza della santità. Qui c'è tutta la grandezza e la
dignità dell'uomo; qui egli realizza tutto il suo destino.
In queste pagine abbiamo cercato i cammini della fede, ci siamo nutriti con il
pane della speranza, abbiamo ascoltato i desideri profondi del cuore; abbiamo anche
percorso le vie dell'uomo, della sua identità profonda, della sua dignità offesa e
redenta; le vie della sua intelligenza, della sua vocazione e del suo destino; abbiamo
cercato con stupore e trepidazione i passi di Dio, silenziosi e commoventi, nella vita
dell'uomo e nella storia del mondo. Abbiamo concluso che tutto questo ha un solo
nome: Amore. "Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio, chi non ama non
ha conosciuto Dio, perché Dio è Amore. Perciò chi non ama rimane nella
morte". 297
Conoscere l'Amore è conoscere Dio, è conoscere l'uomo, è conoscere la vita.
Non c'è luce dove non c'è Amore, non c'è verità dove non c'è Amore, non c'è felicità
dove non c'è Amore.
Vivere sulla terra amando; rimanere nell'Amore qui nel tempo per dimorare
nell'Amore per l'Eternità.

Signore, nelle tue mani sono tutte le cose, nelle tue mani è il tempo e
l'eternità. Hai voluto che tutto fosse amore: il tuo Essere divino, tutte le tue opere,
quanto hai fatto nel tempo e quanto porterai a compimento nell'eternità.
L'Eternità! Quando, Signore? Quando avverrà che nella nostra luce non ci
sarà più ombra, nella nostra gioia non ci sarà più timore, nel nostro desiderio non ci
sarà più attesa? Quando le stelle non avranno più bisogno della notte, né i fiori della
primavera, né il mare delle sue sorgenti?
Quando accadrà che non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate? E non avremo più bisogno del sole, né della
luna, perché la tua gloria sarà la nostra luce e l'Agnello la nostra lampada? 298
Quando, Signore, lo Spirito e la Sposa diranno: "Vieni!"? 299
... allora il velo cadrà dalla tua faccia, e anch'io potrò dirti:

296
1^ Gv. 4,10...16
297
1^ Gv. 4,7-8
298
Ap 22,4...
299
Ap. 22,17
198
Piccola sposa
del tuo fuoco
la mia libertà
ieri creata
arde
al tuo Sempre! 300

300
S. Teresa d'Avila, Castello 7M,2
199
INDICE GENERALE

IL TEMPO
1 - Una leggenda
2 - Il mistero del tempo
3 - Tempo ed Eternità
4 - "O cara Eternità!"

L’essere nel tempo


5 - L'Essere e il Tempo
6 - L'Essere della creatura
7 - L'uomo e la sua identità
8- - Ritrovare le origini
9 - Il nostro posto di creature

IL TEMPO: ITINERARIO DELLA FEDE

Quale fede?
10 - Fede e vita eterna
11 - Fede umana
12 - Una "fede" falsa: le sètte
13 - Dignità e importanza delle Religioni
14 - La fede del cristiano: incontro con Dio in Gesù Cristo

I cammini della fede


15 - L'Epopea della salvezza
16 - Gesù: il Roveto ardente
17 - In Gesù il compimento delle Scritture
18 - Fede: Alleanza tra Dio e il suo popolo
19 - Fede e "morale laica"
20 - La Chiesa: Arca dell'Alleanza
21 - Camminare senza la fede è perdere il tempo
22 - Il viaggio dei Magi.
23 - Perseverare nella Fede
24 - Il cammino dei discepoli di Emmaus
25 - "Resta con noi, Signore!"

Fede e vita cristiana


26 - La fede nella vita cristiana
27 - La virtù della fede
28 - Fede e preghiera
29 - Preghiera "cristiana": preghiera di Cristo
30 - La fede e la croce
31 - Guardare "oltre" la croce
200
L’atto di fede
32 - L'atto più nobile
33 - L'intelletto nell'atto di fede
34 - Purificare l'intelligenza
35 - "Credibilità" delle verità di fede
36 - Il dovere di credere
37 - “Intelletto cristiano”
38 - L'omaggio della volontà nell’atto di fede
39 - L’importanza del cuore nell’atto di fede.
40 - La grazia nell'atto di fede
41 - La fede di Maria

IL TEMPO: CAMMINO DELLA SPERANZA

Quale speranza?
42 - Il pane della speranza
43 - La speranza mondana
44 - La speranza teologale
45 - Speranza e santità
46 - Santità per tutti

Le «ali» della speranza


47 - La croce, potenza di Dio
48 - La croce e la speranza cristiana
49 - Cristo: la fedeltà di Dio
50 - Speranza e filiazione divina

I frutti della speranza


51 - La Speranza, madre della pazienza
52 - Pazienza e fortezza
53 - Speranza e pazienza: attesa di Dio
54 - Un male oscuro: la fretta
55 - La fretta: un modo sbagliato di vivere
56 - Fedeltà e operosità
57 - Speranza e povertà
58 - Speranza e povertà operosa
59 - Speranza e libertà
60 - Inno alla Speranza

IL TEMPO: LUOGO DEL DESIDERIO

Quale amore?
61 - Dio è Amore
62 - La benevolenza
63 - L'Amore in Dio: lo Spirito Santo
64 - Ferita d'amore
65 - Culto pagano e amore cristiano
66 - Amore cristiano: "connaturali" con Dio

201
Farsi dono .
67 - L'amore è dono
68 - La vita: una corsa verso il dono
69 - La conoscenza: moto d'amore
70 - Dono di sè: conoscere, amare, servire

Amore e perfezione morale.


71 - Bontà di Dio e bontà delle creature
72 - Amore e santità cristiana
73 - Amore e morale "laica"
74 - Un nemico: l'ipocrisia
75 - Amore e lotta ascetica
76 - Amore e Beatitudini

Il Comandamento dell’amore.
77 - Amore e libertà
78 - Quale libertà?
79 - Libertà e verità
80 - La libertà dell'amore
81 - Il comandamento dell'amore
82 - Amare con tutta l'anima, con tutta le mente
83 - Amare con tutto il cuore, con tutte le forze
84 - Il "Comandamento nuovo"
85 - Amore e misericordia
86 - Amore e perdono
87 - Amore e servizio
88 - Amare per amore
89 - Il "quadrilatero" dell'amore fraterno
90 - L'amore perfetto sa sorridere

IL TEMPO E L’UOMO

L’uomo nella creazione.


91 - L'uomo: gloria di Dio
92 - L'uomo: chi è?
93 - Interpretazioni riduttive dell'uomo
94 - Visione biblica dell'uomo
95 - La trascendenza naturale dell'uomo

La corporeità.
96 - Trascendenza del corpo
97 - Il corpo: epifania dell'anima
98 - Il corpo: inno alla bellezza
99 - Il "culto" del corpo
100 - Il corpo e il suo destino di gloria
101 - Il corpo nell'amore coniugale
102 - Il corpo nell'amore "sponsale"
103 - La triplice "corporeità" in Cristo
104 - Il corpo "sacrificato"
105 - Il corpo "orante"
202
La dimensione spirituale dell’uomo.
106 - L'anima
107 - Preziosità dell'anima
108 - Fine soprannaturale dell'uomo
109 - La persona umana
110 - Miseria e grandezza della condizione umana
111 - Per una nuova "civiltà dell'uomo"

IL TEMPO
E L’INTELLIGENZA DELL’UOMO

Intelletto e conoscenza
112 - La Luce e la Verità
113 - La Luce e l'intelletto
114 - L'itinerario dell'intelletto
115 - La conoscenza sensibile

La conoscenza e i sensi
116 - I sensi: il tatto.
117 - L'olfatto
118 - Il gusto
119 - L'udito
120 - La vista
121 - La sensibilità interiore
122 - Sensibilità e responsabilità
123 - Finezza d'animo

Il sensibile nella Liturgia


124 - Il rito sacramentale
125 - Liturgia e fede
126 - La conoscenza sensibile nella Vita eterna

Sensi e intelletto
127 - Conoscenza sensibile e conoscenza intellettiva
128 - Il sub-cosciente e la vita dello spirito
129 - Sensibilità e libertà
130 - Sensibilità e giudizio morale
131 - Sensibilità e religiosità
132 - Verità delle cose e Verità dell'intelletto

IL «TRIPLICE» INTELLETTO
A) Intelletto speculativo
133 - Che cos’è l’intelletto speculativo
134 - Un nemico della fede: l'ignoranza
135 - "Studiositas" e "curiositas"
136 - La "sana dottrina"
137 - Il tarlo delle ideologie
138 - Un tragico inganno: l'immanentismo
139 - Gli idoli della Ragione
140 - Scienza e morale
203
141 - L'umiltà intellettuale
142 - Un idolo "tirannico": la democrazia
143 - La Ragione tra Verità e Libertà

B) Intelletto pratico
144 - Che cos’è l’Intelletto pratico.
145 - La Torre di Babele
146 - Intelletto pratico e attivismo

C) Intelletto contemplativo
147 Che cos’è l’Intelletto contemplativo
148 - La contemplazione mistica
149 - Le vie alla contemplazione

IL TEMPO NEL TEMPO:


PASSATO, PRESENTE, FUTURO.

Il passato: tempo della memoria


150 - Il tempo delle cose e il tempo dell'uomo
151 - La memoria: archivio del tempo
152 - La memoria del cuore
153 - Memoria e contemplazione
154 - Memoria e sincerità
155 - Memoria e dimenticanza di Dio
156 - Il "Memoriale di Cristo"

Il presente: tempo della volontà.


157 - Volontà e intelletto
158 - "Debolezza" della Volontà
159 - La "forza" della volontà
160 - Educare la volontà
161 - Volontà e amore
162 - Volontà e grazia
163 - Oggi, adesso
164 - Volontarietà attuale

Il futuro: tempo della fantasia.


165 - La "pazza di casa"?
166 - Fantasia e anarchia
167 - La fabbrica dei sogni
168 - Fantasia e profezia
169 - La fantasia di Lucifero: le utopie

IL TEMPO E LA VITA

204
La vita in natura e nell’uomo.
170 - Un fenomeno impressionante: la vita
171 - La vita: teofania di Dio Creatore
172 - Una discontinuità biologica: l'uomo
173 - Actus essendi: l'atto di essere
174 - la vita "umana"
175 - Esperienza interiore del proprio "Io"
176 - Atto di essere e immortalità

La vita e il ciclo vitale nell’uomo .


177 - Il ciclo vitale
178 - Unità della persona
179 - La fase "notturna" del ciclo vitale

L’infanzia .
180 - L’età dei perché
181 - "Vita d'infanzia"

L’adolescenza.
182 - L'età critica
183 - "Amici" di Dio
184 - Le "impazienze" dell'adolescenza
185 - L'impazienza del cuore
186 - Educazione all'amore

La giovinezza.
187 - L’età dei progetti
188 - La vera rivoluzione: la santità
189 - Fidanzamento e matrimonio
190 - Verginità per il Regno dei Cieli

L’età adulta.
191 - Quale maturità?
192 - I "sintomi" della maturità
193 - Maturità e coscienza
194 - Coscienza "viva"
195 - Coscienza "integra"
196 - Maturità e libertà
197 - L'adulto ha nome e cognome
198 - Maturità e prudenza

La vecchiaia.
199 - Il «carico» del tempo
200 - Sguardo di eternità
201 - Nessuno deve dire: basta!
202 - La solitudine
203 - Il "Dio inutile"
204 - La gioia del "restauro"

La morte .
205 - La frontiera del tempo
206 - Il "bello" deve ancora venire

205
207 - L'essere-per-la-morte
208 - Il Vincitore della morte
209 - La morte "mistica"
210 - "Tempus breve est"

L’ETERNITA’

211 - Eternità dell'Amore

206

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