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Le favole degli animali
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Le favole degli animali

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Introduzioni di Mario Giammarco, Sebastiano Saglimbeni e Davide Monda
Tavole di Gustave Doré e incisioni di Grandville
Edizioni integrali

La tradizione favolistica avviata da Esopo, ma affinata e arricchita da Fedro e La Fontaine, ha sempre avuto come protagonisti privilegiati gli animali, simboli evidenti e cristallini di vizi e virtù squisitamente umani. Essi, infatti, data la loro psicologia univoca, si trasformano in maschere: la potenza per il leone, l’operosità per la formica, l’astuzia per la volpe. Nelle favole di Esopo, gli animali sono maestri di saggezza attraverso insegnamenti arguti che si fondono in una narrazione spontanea e originale e richiamano alla mente una vita condotta secondo ritmi ed esigenze autentiche. I suoi celebri apologhi, di cui presentiamo la raccolta completa, sono espressione dell’autenticità dei sentimenti e della semplicità di un vivere senza tempo. A Fedro gli animali consentono di dire la verità senza pericolo, coprendola con una maschera allegorica. La sua visione del mondo è cinica e rassegnata all’immobilismo sociale, priva della possibilità di oltrepassare i propri limiti, ma è arricchita da una comicità vivace, corposa e pittoresca. La Fontaine, curioso, caustico e acuto osservatore dei comportamenti dei suoi simili, si diverte a rivelare i tratti più oscuri e nascosti dell’animo umano, realizzando, dietro la finzione delle maschere degli animali, una serie di felicissimi ritratti. Amante della tradizione favolistica classica greca e latina, nella sua fortunatissima raccolta di favole se ne dimostra particolarmente debitore.


Esopo
personaggio leggendario, secondo la tradizione fu uno schiavo frigio del VI secolo a.C.; dopo molte peripezie in Egitto, a Babilonia e in altri Paesi dell’Oriente, racconta Erodoto che, per colpa di una falsa accusa, sarebbe stato processato e giustiziato a Delfi.

Fedro
nacque in Grecia intorno al 20 a.C. Liberto di Augusto, visse a Roma. Fu perseguitato sotto Tiberio e fatto processare da Seiano, che si era visto satireggiare in alcune favole. Morì a Roma intorno al 50 d.C.

Jean de La Fontaine
(1621-1695) nacque a Château-Thierry nella Champagne. Si trasferì a Parigi nel 1658 e visse a lungo agiatamente grazie ai favori del ministro delle finanze Fouquet. Quando il suo protettore cadde in disgrazia, trovò sostegno in alcuni importanti amici della nobiltà francese. Frequentò poeti e letterati, scrisse poemi e racconti in versi, ma raggiunse la celebrità grazie alle due raccolte delle sue Favole, pubblicate nel 1668 e nel 1678-79.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2013
ISBN9788854159525
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    Le favole degli animali - Esopo

    483

    Prima edizione ebook: ottobre 2013

    © 1994, 1995 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5952-5

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Esopo, Fedro, Jean de La Fontaine

    Le favole degli animali

    Versioni di Mario Giammarco,

    Sebastiano Saglimbeni, Emilio De Marchi

    Introduzioni di Mario Giammarco,

    Alberto Cavarzere, Davide Monda

    Con 32 tavole di Gustave Doré

    e 62 incisioni di Grandville

    Newton Compton editori

    Esopo

    Favole

    Cura e traduzione di Mario Giammarco

    Introduzione

    Esopo tra leggenda e realtà

    Ai primordi della letteratura greca in prosa, troviamo, oltre al filosofo Ferecide di Siro e allo storico Cadmo di Mileto, la figura di Esopo, il deforme schiavo frigio, dotato di acume d’intelligenza e di grande saggezza, che è tramandato come Fautore delle notissime favole che tanta fortuna hanno avuta nei secoli.

    Di tali favole non possediamo gli originali, ma soltanto raccolte compilate e scritte a distanza di secoli dal tempo in cui visse Esopo, fiorito verso il 550 a.C. Tale ragione costituisce una barriera insormontabile che non consente di dare risposte sicure sia circa l’identificazione delle favole originali e di quelle apocrife, sia sullo stile e sul valore letterario di Esopo, ma non ci svia dal formarci un giudizio su ciò che dovettero essere tali favole nella loro tipologia, nel loro significato, nel loro modo originale di manifestazione del pensiero. Del resto anche in altri campi, quando si vuole risalire ai primordi, ci si trova sempre di fronte a un’enorme nebulosa, nella quale ci sono pochi nuclei nitidi immersi in una massa opaca e indistinta; a questa si rivolge poi l’indagine alfine di discernere e di capire.

    Così dopo ricerche, studi e valutazioni critiche ben poco resta acquisito come certo della vita di Esopo, mentre la narrazione del cosiddetto «Romanzo di Esopo» è ritenuta la favola più fantasiosa e incredibile tra le stesse favole esopiche. La maggior parte degli studiosi crede dunque che Esopo non sia un nome inventato, ma un personaggio realmente vissuto, come ci testimonia Erodoto, «il padre della storia», nel cap. 134 del Libro II della sua monumentale opera storica.

    Afferma dunque lo storico greco di Alicarnasso, operante nel V secolo a. C., che visse nel VI secolo, al tempo del faraone Amasi, un narratore di favole, di nome Esopo, che era schiavo di Iadmone di Samo, e che ebbe per compagna di schiavitù la famosa cortigiana Rodope, divenuta più tardi amante di Carasso, fratello della poetessa Saffo. Nel passo citato Erodoto parla succintamente anche della morte di Esopo a Delfi. Da altra fonte, precisamente dai frammenti dell’aristotelica «Costituzione di Samo», sappiamo che Esopo era divenuto famoso in tale città per le sue favole e che fu affrancato da Iadmone. Il resto delle vicende della vita di Esopo fa parte di un insieme di notizie leggendarie e fantastiche, le quali costituiscono il «Romanzo di Esopo», anonima compilazione a molte mani, coagulatasi verso il II secolo dell’era volgare ¹: vi si trova scritto che Esopo fu il più brutto dei suoi contemporanei, vi si parla di un suo matrimonio sfortunato per i tradimenti della moglie, dei molti viaggi da lui fatti in Babilonia, in Egitto e in altri paesi dell’Oriente, dovunque acclamato per la sua saggezza, della sua permanenza a Sardi presso il re di Lidia Creso, in qualità di consigliere e della sua tragica fine, il tutto con particolari grotteschi o curiosi che fanno pensare alla novellistica popolare.

    Creso dunque avrebbe incaricato Esopo di recarsi a Delfi per consultare l’oracolo di Apollo e, messagli a disposizione un’ingente somma a tal fine, di offrire un solenne sacrificio al dio e di donare quattro mine ai singoli cittadini. Ma Esopo si disgustò per la condotta degli abitanti e dei sacerdoti di Delfi e, compiuto il sacrificio, non volle poi fare la distribuzione di denaro al popolo, riservandosi di riconsegnare a Creso il resto della somma affidatagli. Di questa sua decisione gli abitanti di Delfi si vendicarono: gli misero nascostamente nel bagaglio una coppa d’oro che apparteneva al tesoro del tempio e, quando egli ripartì, lo colsero per strada e accusandolo di sacrilegio per aver egli rubato l’aurea coppa lo misero a morte ingiustamente, precipitandolo dalla rupe Iampea (o Fedriade, secondo Suida ²). Ma Apollo perseguitò con carestie e morbi tremendi i Delfi che, per liberarsene, accettarono di fare pubbliche suppliche e di indennizzare il sangue dell’innocente. I mali non cessarono per decenni, finché si presentò per accettare l’ammenda di riparazione del delitto un certo Iadmone, non già parente di Esopo, ma nipote dell’omonimo signore di Samo, del quale il favolista era stato schiavo, cui in mancanza di parenti fu rimesso l’indennizzo del «sangue di Esopo».

    La leggenda fa anche risuscitare Esopo un paio di volte, la prima per una nuova lunga esistenza, durante la quale potè anche combattere a fianco a Leonida nella famosa battaglia delle Termopoli, la seconda a seguito di reincarnazione in altra persona per metempsicosi. Sempre nell’anonimo Romanzo (o Vita) di Esopo, falsamente attribuito a Massimo Pianude, monaco bizantino del XIV secolo, autore di una raccolta di Favole di Esopo, a noi pervenuta, si trova la leggendaria descrizione di un Esopo deforme, dalla testa grande e aguzza, scuro di pelle, col naso camuso, senza collo, col ventre gonfio e le gambe storte, affetto inoltre da balbuzie, descrizione che contrasta con la tradizione, secondo la quale a Esopo, per i suoi meriti, vennero erette due statue, la prima di Lisippo, alla quale fu dedicato da Agatia un epigramma, che tace assolutamente di qualsivoglia deformità fisica, la seconda scolpita da Aristodemo, allievo di Lisippo.

    La morte di Esopo è narrata negli stessi termini di Erodoto da Eraclide Pontico (IV secolo a.C.) e da Plutarco (I-II secoli); invece sulla patria di Esopo c’è stata sempre discordanza nella tradizione, anche se gran parte degli studiosi oggi propende per crederlo frigio, anziché greco (ateniese), samio, trace, orientale in genere, perché a ciò li indurrebbe il nome del favolista.

    Le favole di Esopo nel tempo

    Recentemente in Francia sono state scoperte bellissime pitture preistoriche all’interno di una caverna, i cui soggetti sono gli animali, come in altri rinvenimenti rupestri, per lo più scene di caccia o legate a fini magici di tipo propiziatorio. Invero un legame antichissimo vincola in età preistorica la storia dell’uomo e quella degli animali, fossero questi da lui cercati come mezzo importante per la sopravvivenza o aborriti come pericolosi e spaventosi nemici. Ancor più il legame si strinse quando più tardi l’uomo da cacciatore divenne allevatore. Gli animali dunque, entrati ben presto nella vita dell’uomo, fecero parte spesso dei suoi racconti e delle sue fantasie. Anche le favole promanano da tale vicinanza e conoscenza, derivata dalla convivenza con le bestie. Le favole di Esopo sono brevi narrazioni, nelle quali i personaggi non sono più o soltanto gli uomini, ma in massima parte ne sono protagonisti gli animali. «La favola – scrive Emile Chambry, che ha curato in questo secolo (1923) una delle più belle edizioni di Esopo (da noi utilizzata nella traduzione) – si è separata dal racconto il giorno in cui il narratore, preoccupatosi di essere utile, tirò fuori dal suo racconto una lezione morale. L’idea arguta di fare dei nostri fratelli inferiori dei maestri di saggezza ha fatto fortuna presso tutti i popoli.»

    In Grecia la favola fu antichissima, anteriore a Esopo, in quanto ne troviamo esempi in poeti vissuti nell’VIII secolo a.C., come quella dell’usignolo e lo sparviero che traduciamo qui di seguito, costituendo essa un archetipo del genere, nella quale Esiodo esprime la sua angoscia per una grave ingiustizia patita (nel contesto di un’opera dov’egli manifesta anche la sua fede che un giorno la giustizia prevarrà sulla violenza) e in poeti del VII secolo come Archiloco e Stesicoro:

    Ai giudici, benché saggi, una favola or io voglio dire.

    Disse così uno sparviero a un iridescente usignuolo

    che, tra gli artigli ghermito, assai alto tra nubi recava –

    quello, trafitto ai fianchi dall’unghie ricurve, gemeva

    penosamente – or dunque così duramente gli disse:

    «Perché gemi, o meschino? Or ti stringe uno molto più forte;

    dove vorrò io verrai, nonostante tu sia un cantore:

    potrei liberarti o fare di te, se volessi, un mio pasto.

    Stolto è uno se vuol misurarsi con chi è più forte:

    non vive e, oltre allo scorno, deve soffrire dolori».

    Disse così lo sparviero alivaste dal rapido volo.

    Esiodo, Erga, vv. 202-212

    Se Esopo dunque non fu l’inventore assoluto della favola, è certo però che egli la fece assurgere al rango di genere letterario, soprattutto con i suoi notevolissimi apporti originali, ma anche con la sistemazione di un preesistente materiale narrativo, così come aveva fatto, se è consentito «parvis componere magna» (mettere a confronto le piccole con le cose grandi), Omero rielaborando e vivificando con la sua arte mirabile una ricca produzione epico-lirica antecedente nei suoi grandiosi poemi dell’Iliade e dell’Odissea.

    A Esopo dunque, considerato il padre di tale genere letterario, è attribuita una raccolta di oltre quattrocento favole, che comprende però anche del materiale eterogeneo e che, essendo scritta nella cosiddetta koiné, la lingua comune a fondo attico parlata dalle popolazioni ellenizzate dopo le conquiste di Alessandro Magno, non è di certo quella originaria. Si ritiene peraltro che Esopo non abbia neppure scritto, ma affidato alla trasmissione orale le sue favole; da ciò l’impossibilità di conoscere direttamente gli archetipi delle favole esopiche e il loro valore letterario. Dalla tradizione successiva si ricava, comunque, che le favole di Esopo, nelle quali agivano prevalentemente gli animali, ma talora anche gli uomini e, in misura minore, le divinità e le piante, avevano come caratteristiche la brevità, l’arguzia e l’utilità morale; la lingua era semplice, lo stile umile.

    Gli antichi conoscevano favole libiche, egizie, indiane; anzi qualche studioso ha anche avanzato l’ipotesi che la favola esopica derivasse da quelle indiane. Ma, a parte le influenze possibili di antichissimi racconti provenienti da siffatte aree geografiche, è accertato che la favola, quale è stata sopra delineata, ha la sua origine in Grecia ed è anteriore a raccolte di novelle indiane pur famose, come ad esempio il Panciatantra, che raccoglie materiale datato dal II secolo a.C. al IV secolo dell’era volgare. È stata quindi la favola greca, più antica, a servire di modello alla ulteriore produzione favolistica di altre aree; gli scambi e i contributi reciproci tra la favola greca e quelle di altri popoli già citati possono essere avvenuti solo dal III secolo a.C. in poi. Del resto se si considera che Esopo visse nel VI secolo a.C., all’epoca dei sette saggi, in un’età in cui la cultura era volta alla speculazione fisico-filosofica, ma anche all’interesse storico e pragmatico, alla riflessione morale, si può affermare che la favola, pur nel suo ambito di produzione incolta e popolaresca, sia una filiazione di tale cultura.

    Le citazioni di alcune favole esopiche che Aristofane fa nelle sue commedie e quella di Platone nel Fedone a proposito di Socrate che nel carcere passava del tempo a mettere in versi qualche favola di Esopo testimoniano la grande popolarità raggiunta dal favolista nel periodo a cavallo tra V e IV secolo a. C., tanto che sul finire del secolo Demetrio di Falerò (scrittore e allievo di Teofrasto) pubblicò una raccolta delle favole di Esopo con l’aggiunta di apologhi di altra origine. Ne rimane una compilazione tardiva di età medioevale; infatti la raccolta andò perduta, anche perché nel periodo alessandrino, col cambiamento del tipo di cultura determinatosi in senso scientifico-umanistico e col sorgere di nuovi generi letterari (l’epillio, il mimiambo, la novella e il romanzo d’avventura e di evasione), ci fu quasi un abbandono totale della favola esopica fino al I secolo a. C. Dopo tale periodo di oscuramento Esopo fu ripreso come modello imprescindibile dai favolisti successivi, anonimi o ben noti che fossero, da Fedro a Babrìo, ad Aviano, da Nicostrato agli epigoni bizantini Temistio, Aftonio, per tacer d’altri, ai «favolatori» medievali e ai retori che oltre a utilizzare le favole esopiche a fini scolastici ne componevano essi stessi aggiungendole alle prime, su su fino al celebre La Fontaine e agli altri continuatori dal XVIII al XX secolo (L. Pignotti, T. Crudeli, L. Fiacchi e così via, fino a Trilussa, anagramma del cognome Salustri) all’Esopo moderno di P. Pancrazi e all’Esopo toscano di V. Branca, che è del 1989, nostri contemporanei.

    Le favole di Esopo oggi

    La mancanza di un originale scritto, la molteplicità delle raccolte tramandate, tutte integrate con aggiunte di varia provenienza e variamente manipolate spiegano le immancabili alterazioni e corruzioni certamente subite dalle favole esopiche. Da ciò si comprende il lungo lavorìo degli studiosi per giungere al testo attuale, neppure esso univoco, nel quale peraltro scientemente sono state lasciate favole che sono certamente spurie, come pure l’epimytion (aggiunta conclusiva) contenente la raccomandazione morale. A proposito di questa tutti gli studiosi ritengono che essa risalga all’età medievale, mentre negli originali l’insegnamento doveva scaturire dalla stessa narrazione. Il fatto poi che la conclusione morale alcune volte non sia congruente col racconto, altre volte risulti scambiata e in qualche caso manchi del tutto, è stato attribuito a negligenza degli amanuensi.

    Una minoranza delle favole contenute nelle raccolte che possediamo si può definire etiologica (àition, causa), perché vuole spiegare l’origine delle cose (ad esempio le favole «I Beni e i Mali», «Zeus e gli uomini», «La guerra e la violenza»), alcune altre sono aneddoti che hanno per protagonisti Demade e Diogene, cioè personaggi storici, o contengono ricordi mitologici (ad esempio le favole in cui la rondine ricorda la sua drammatica vicenda) o sono brevi narrazioni a edificazione morale. Ma sia in queste, sia nella maggioranza di quelle «animalesche», è difficile che leggendole si possa dire il bene che ci è tramandato dalla tradizione: certamente Esopo fu superiore alla stima che si ricava dalla lettura del libro. In un certo numero di favole non manca nella «inventio» l’arguzia, ma ad essa molto spesso non fanno buona compagnia il brio e la festevolezza nello sviluppo della «trovata», che dovrebbero costituire il naturale seguito dello spunto iniziale, anzi mancano affatto. Così nel lettore il sorriso si spegne subito a causa di uno stile semplice ma monotono e sordo, certo diverso da quello attribuito a Esopo, che è tramandato, sì, come semplice e umile ma non privo però di arguzia e di malizia. Le favole esopiche dunque non sono favole per i bambini: questi amano entrare nel mondo del fiabesco e dell’avventura fantastica che mettano ali al loro «immaginario» caleidoscopico. Esse invece sono la trasposizione allegorica di una realtà squallida e desolante, quella della vita di tutti i giorni, piena di piaggerie, di miserie, di infingimenti e parlano degli uomini con le loro debolezze e i loro vizi, del loro muoversi dominati dall’ambizione, dalla voglia di potere, dalla presunzione e dalla vanità; gli animali, data la loro psicologia univoca, sono assunti come maschere e simboli: il leone è la potenza e la maestà, la volpe è l’astuzia e la prudenza, il lupo è malvagio e balordo, il cervo è vile e pauroso, l’asino è operoso, ma anche un po’ grullo e vanesio, l’aquila è, tra gli uccelli, il corrispettivo del leone, e così via tutta una galleria di personaggi.

    Da quanto dicevamo sopra consegue che le favole risultano di interesse vario, per la ragione che non sempre l’invenzione riesce a mantenere l’iniziale efficacia. Quanto alla morale rispecchiata nelle favole, essa esorta alle virtù sociali come la laboriosità, la lealtà e la fedeltà dell’amicizia, la riconoscenza, la rassegnazione, la moderazione e la prudenza per guardarsi dal male ma anche per cogliere le occasioni favorevoli, insomma suggerisce quei comportamenti pragmatici e quotidiani confacenti all’ambiente e al milieu popolare, al quale del resto le favole erano a preferenza rivolte. I grandi ideali delle classi alte, propri della poesia epica, come l’acquisto della fama, la generosità, la nobiltà, la brama di conseguire per mezzo della gloria la vita oltre la morte sono estranei alla morale esopica; essa, anzi, per il suo tenore pratico e quotidiano, per niente metafisico, può dirsi l’altra faccia dell’etica greca antichissima.

    «Però anche tra le fiabe animalesche – scrìve Concetto Marchesi nell’introduzione a Favole esopiche (Formiggini, Roma, 1930) – ci sono di quelle che dicono la verità, altre che dicono il falso, altre che dicono nulla. Per esempio la favola del lupo e dell’agnello, chi non lo sa?, quella è la eterna storia del forte che opprime il debole: e ci siamo tutti là dentro giacché, purtroppo, nessun uomo è tanto forte da non abusare qualche volta del più debole. Notissima è pure la favola della formica e della cicala: ma è uno stupido racconto bugiardo a uso degli avari e degli strozzini. Una favola che non dice niente è quella del corvo e delfico...»

    A parte il tono scherzoso e divertito qui usato dal Marchesi, il giudizio da lui espresso caratterizza molto bene il libro delle favole esopiche. Ai moderni piacciono in particolare quelle in cui gioca il cosiddetto aprosdòcheton, la battuta inattesa, che costituisce un’impennata e una conclusione imprevista della vicenda narrativa e, in genere, le altre che castigano la vanità e la millanterìa, la presunzione e l’incompetenza, qualità negative di cui il mondo è pieno, mentre le società civili tendono sempre di più a una cultura di autenticità e di conoscenze sicure.

    MARIO GIAMMARCO

    ¹ Successivamente ampliata e trasmessa a noi in due redazioni diverse.

    ² Erudito bizantino, vissuto verso il 1000, autore di un dizionario enciclopedico, contenente anche notizie sugli autori greci, da Omero a quelli del suo tempo.

    Premessa del traduttore

    Chi si predispone a tradurre dal greco il libro delle Favole di Esopo può proporsi plausibilmente di fare una traduzione che valga a compensare le sfasature che il testo, in buona misura adespoto, presenta: così per ritoccare l’estensione dei singoli racconti, ora di tre quattro righe ora di un’intera pagina, come per arricchire la vis comica che più volte ristagna o manca affatto, come pure per rialzare il tono di una scrittura generalmente monotona e senza brio e rendere più agile e vivace lo stile.

    Ecco allora aperta la possibilità di trasformare, secondo l’opportunità, lo sviluppo del racconto e la forma narrativa dalla subordinazione alla coordinazione, di dare maggiore festevolezza alle scene, soprattutto di rifare o aggiustare la cosiddetta «morale» che è, in molti casi, poco coerente col racconto, se non in tutto sconveniente.

    E certo il testo di Esopo, che – da un punto di vista generale che investe lingua, stile e contenuto – è il risultato di un lavoro a molte mani, tenuto conto delle integrazioni e delle alterazioni apportatevi in epoche diverse, è stato nei secoli più spesso lo spunto di partenza per amplificazioni inattese, rielaborazioni e sceneggiature ad effetto, che per una traduzione filologicamente attenta al testo, quale ci è pervenuto dalla tradizione, che ha, pur sempre, un suo valore storico.

    Quest’ultimo dunque è stato il compito che mi sono assunto nel presente lavoro: riproporre in lingua italiana il libro delle Favole di Esopo, sulla base del testo di cui oggi disponiamo, in ciò coerente sia con la mia attività trentennale di traduttore di testi classici sia con l’attuale linea di tendenza di autenticità e di restauro conservativo del patrimonio di civilità tramandatoci dagli antichi¹.

    MARIO GIAMMARCO

    ¹Il testo greco utilizzato è quello pubblicato da E. Chambry, con traduzione francese a fronte (Paris, 1927, Les belles lettres).

    Bibliografia

    Il testo delle Favole di Esopo (Fabulae Aesopicae) è conservato in diverse raccolte in prosa, contenute in vari codici, tra le quali la più ampia, scritta con semplicità di moduli linguistici e narrativi è la Collectio Augustana (dalla città di Augusta in Germania, dove si trovava il codice del XIII-XIV secolo che la conteneva, ma nella quale è confluito anche il più antico manoscritto (Cryptoferratensis 397 del X secolo). Tale collectio, che è la più antica, risalirebbe ai primi secoli dell’era volgare.

    Ricordiamo anche la Collectio Vindoboriensis (Vienna, Vindobona), più recente, dal VI secolo in poi, che comprende un minor numero di favole, scritte peraltro in forma più prolissa e la Collectio Accursiana che risale ai secoli successivi (VIII-IX) e presenta maggiore concisione stilistica e movenze narrative meno farraginose della precedente.

    Dopo l’edizione di C. Halm, sono state realizzate in questo secolo due buone edizioni critiche di Esopo, la prima ad opera di E. Chambiy (Paris, Les Belles Lettres, 1927), l’altra a cura di A. Hausrath (Biblioteca Teubneriana, I, 1957, Lipsia; II, 1959, Lipsia, con revisione di H. Hunger)¹.

    Fra le traduzioni moderne di Esopo:

    C. MARCHESI, Favole esopiche, Roma, Formiggini, 1930 (raccolta antologica);

    E. MANDRUZZATO e G. BERNARDI PERINI, Le favole di Esopo, Venezia, Neri Pozza editore, 1962;

    E. CEVA VALLA, Esopo, Favole, Milano, Rizzoli (BUR), 1976;

    F. MASPERO, Esopo, Favole, Milano, Tascabili Bompiani, 1989.

    Mancano in Italia opere monografiche che affrontino criticamente tutti gli aspetti della favola esopica. Utili spunti si trovano in opere generali come il Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi, l’Enciclopedia Treccani, il Dizionario degli scrittori greci e latini di G. Marenghi (Milano, Marzorati, 1988), nel volume di Studi di C. Marchesi Voci di antichi (Roma, Edizioni Leonardo, 1946) e in articoli di riviste pubblicati da A. La Penna («La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità», in Società, n. 17 del 1961, e «Il romanzo di Esopo», in Atheneum, n. 40 del 1962).

    ¹Si consultano utilmente anche quella di B.E. Perry, Haveford, 1936 e quella di G. Thiele, Heidelberg, 1910.

    1

    I Beni e i Mali

    Siccome i Beni erano deboli, furono messi in fuga dai Mali: essi allora salirono al cielo. Lì i Beni chiesero a Zeus come dovevano comportarsi nei riguardi degli uomini. Egli consigliò loro di presentarsi agli uomini non tutti insieme, ma uno alla volta. È per questo che i Mali sorprendono di continuo gli uomini, perché stanno ad essi vicino, mentre i Beni arrivano più lentamente, dovendo essi discendere dal cielo.

    La favola dimostra che nessuno consegue i beni rapidamente, mentre ognuno è colpito dai mali giorno dopo giorno.

    2

    Il venditore di statue

    Un tale, avendo scolpito un Ermes di legno, lo portò in piazza per venderlo. Poiché non s’era avvicinato nessun compratore ed egli voleva richiamare l’attenzione di qualcuno, si mise a gridare che vendeva un dio benefico e apportatore di guadagni. Ma una delle persone che si erano avvicinate gli disse: «Amico mio, perché mai lo vendi se è tale, mentre dovresti giovarti tu dei suoi favori?». Gli rispose: «È che io ho bisogno di un aiuto immediato, mentre lui è abituato a procacciarli lentamente i guadagni».

    La favola è opportuna per l’uomo bassamente avido di guadagno, che non ha riguardo neppure di coinvolgere gli dèi.

    3

    L’aquila e la volpe

    Un’aquila e una volpe, avendo stretto amiciza tra loro, decisero di abitare l’una vicino all’altra, ritenendo la convivenza un rafforzamento del legame amichevole. Allora l’aquila, salita su un albero molto alto, vi fece il suo nido; avvicinatasi a sua volta a un cespuglio sotto l’albero, la volpe vi partorì i suoi cuccioli.

    Ma un giorno che essa era uscita in cerca di cibo, l’aquila, non avendo a disposizione di che nutrirsi, volata giù nel cespuglio e traendone via i piccoli, li divorò dividendoli coi suoi aquilotti.

    Ritornata la volpe e intuito l’accaduto, non tanto si addolorò per la morte dei cuccioli, quanto per non poter ripagare l’aquila con la stessa moneta: essendo infatti animale di terra, essa non poteva inseguire un volatile. Perciò, stando lontano, scagliava maledizioni contro la sua nemica, unica consolazione questa per chi è debole e senza potere. Ma accadde entro breve tempo che l’aquila subì la punizione del suo crimine contro l’amicizia: infatti, mentre in campagna della gente stava sacrificando una capra, l’aquila, piombata giù a volo, portò via dall’altare delle viscere ardenti; recatele nel nido, un forte vento le investì e da qualche sottile fuscello secco suscitò una vivida fiammata. Perciò, bruciacchiati, gli aquilotti caddero giù a terra (non erano infatti ancora in grado di volare). E la volpe, subito accorsa, li divorò tutti, sotto gli occhi dell’aquila.

    La favola insegna che quelli che tradiscono l’amicizia, anche se riescono a sfuggire alla vendetta delle vittime, per l’impotenza di queste, non possono in ogni caso sfuggire alla punizione del cielo.

    4

    L’aquila e lo scarabeo

    Un’aquila correva dietro una lepre; questa, trovandosi nell’assoluta mancanza di chi la soccorresse, visto uno scarabeo, unica possibilità che il caso le offriva, lo supplicava. E quello, facendole coraggio, come vide avvicinarsi l’aquila, la pregava di non portargli via la lepre sua protetta. Ma l’aquila, disprezzando la piccolezza dello scarabeo, dilaniò la lepre sotto i suoi occhi.

    Da allora l’insetto, serbandole rancore, non cessava di spiare i nidi dell’aquila e, quando quella vi deponeva le uova, esso levandosi a volo le faceva ruzzolare giù e le rompeva, fino a che l’aquila, costretta a sloggiare da ogni parte, fece ricorso a Zeus (essa infatti è l’uccello sacro di Zeus) e lo pregò di assegnarle un posto sicuro per allevarvi i suoi piccoli. Avendole concesso Zeus di deporre le uova nel suo grembo, lo scarabeo, visto ciò, fece una palla di sterco, si alzò a volo e, quando fu alto sul grembo di Zeus, ve la lasciò cadere. E Zeus, volendo scuotersi via lo sterco, come si alzò fece cadere inavvertitamente le uova.

    Dicono che da allora, nella stagione in cui compaiono gli scarabei, le aquile non covano.

    La favola insegna a non disprezzare nessuno, nella considerazione che non v’è alcuno così impotente che, oltraggiato, una volta o l’altra non possa vendicarsi.

    5

    L ’aquila, il gracchio e il pastore

    Un’aquila, volata giù da un’alta rupe, rapì un agnello; un gracchio, vista la scena e spinto dall’invidia, volle imitare l’aquila e, calatosi con grande strepito, piombò su un montone. Senonché gli si impigliarono gli artigli nei bioccoli di lana e, non potendo risollevarsi a volo, non faceva che sbattere le ali, finché il pastore, avendo capito l’accaduto, accorse ad acchiapparlo e, spuntategli le ali, quando venne la sera, lo portò ai suoi figli. Siccome questi gli chiedevano che razza d’uccello fosse, rispose: «Per quanto ne so io, è proprio un gracchio, ma, per come pretende lui, un’aquila».

    Così a competere con chi è potente, oltre a non conseguire alcun utile, si ottiene anche la derisione delle proprie disgrazie.

    6

    L’aquila dalle ali tarpate e la volpe

    Una volta un’aquila fu catturata da un uomo. Questi, avendole tarpato le ali, la lasciò andare, perché vivesse nel cortile di casa in mezzo alle galline. Ma quella era avvilita e non mangiava nulla per il dolore, simile a un re in catene. Ma in seguito, avendola comprata un altro, le svelse le penne mozze e, massaggiando con la mirra le estremità delle ali, gliele fece ricrescere. Allora l’aquila, ripreso il volo, artigliò con le unghie una lepre e gliela portò in dono. Ma una volpe, che aveva visto ciò, le disse: «Non a costui devi portare un dono, perché è buono per sua natura; propiziati piuttosto il primo padrone affinché, se mai di nuovo dovesse catturarti, non ti tarpi le ali».

    La favola dimostra che bisogna, sì, ricompensare generosamente i benefattori, ma anche tenere prudentemente a bada i malvagi.

    7

    L’aquila colpita da una freccia

    Un’aquila stava appollaiata sull’alto di una rupe, scrutando per cacciare lepri. Ma un uomo, avventatale contro una freccia, la colpì e la punta le entrò nella carne: la cocca con le penne le stava davanti agli occhi. Ed essa a tale vista esclamò: «Davvero per me è un secondo dolore dover morire per le mie stesse penne!».

    La favola dimostra che il pungolo del dolore è più lancinante quando si debba soccombere per le proprie stesse armi.

    8

    L’usignuolo e lo sparviero

    Un usignuolo, appollaiato sul ramo di un’alta quercia, cantava secondo il suo solito. Lo scorse uno sparviero che, non disponendo di cibo, piombatogli sopra, lo ghermì. E l’usignuolo, in punto d’essere ucciso, lo pregava di lasciarlo andare, dicendo che esso costituiva un cibo insufficiente per riempire lo stornaco d’uno sparviero; se questo aveva bisogno di mangiare, doveva volgersi a predare uccelli più grossi. Ma quello, per tutta risposta, gli disse: «Certo io sarei davvero sciocco, se lasciando un cibo già pronto tra gli artigli, corressi dietro a un altro che neppure si vede».

    Così stoltissimi sono quegli uomini che, per la speranza di beni più grandi, si lasciano sfuggire quelli che hanno già tra le mani.

    9

    L’usignuolo e la rondine

    Una rondine consigliava un usignuolo a convivere con l’uomo e a nidificare sotto il medesimo tetto, come faceva lei. Ma quello le rispose: «Non voglio ricordarmi lo strazio delle mie antiche sventure¹, e per questo abito i luoghi solitari».

    La favola mostra che chi ha sofferto qualche sciagura, vuole fuggire anche dal luogo nel quale gli accadde.

    10

    Il debitore di Atene

    In Atene un debitore, sollecitato dal creditore a rimborsargli il denaro datogli in prestito, dapprima lo esortò a concedergli una dilazione, dicendo che si trovava in difficoltà finanziarie. Ma poiché non riuscì a convincerlo, spingendo innanzi una scrofa, l’unica che aveva, la mise in vendita, presente il creditore.

    Avvicinatosi un compratore e chiedendo se fosse prolifica, quello gli assicurò che non soltanto figliava, ma anche che lo faceva in modo straordinario: infatti durante le feste Eleusine ² figliava femmine, durante le Panatenee³ maschi. E siccome il compratore era rimasto meravigliato a tali parole, il creditore aggiunse: «Ma non ti devi meravigliare, perché durante le Dionisie ⁴ questa ti figlia anche capretti».

    La favola mostra che molte persone per il proprio tornaconto non esitano neppure a testimoniare il falso con grossolane bugie.

    11

    L’Etiope

    Un tale acquistò un Etiope, credendo che quello avesse siffatto colorito scuro per la trascuratezza del precedente padrone. Poi, condottolo a casa, usò con lui ogni tipo di sapone, tentando di schiarirgli la pelle con tutti quei lavaggi. Però non solo non riuscì a cambiargli il colore della pelle, ma con tanta insistenza di cure lo fece ammalare.

    La favola dimostra che le qualità naturali persistono tali, quali si sono rivelate all’inizio.

    12

    La donnola e il gallo

    Una donnola che aveva acchiappato un gallo, voleva mangiarselo, ma con una motivazione credibile. E dunque lo accusava di essere molesto agli uomini, perché strillando di notte il suo verso non consentiva ad essi di riposare. Ma il gallo rispose che faceva ciò per utilità loro, per dargli la squilla a riprendere il lavoro abituale.

    Di nuovo la donnola addusse un pretesto, cioè che era un disgraziato a montare la madre e le sorelle. Ma quello le spiegò che anche questo faceva per utilità dei padroni, giacché come conseguenza le galline producevano a essi molte uova. Fece la donnola: «Ma se tu hai così tanti argomenti speciosi di giustificazione, io però non resterò certo digiuna!» e lo divorò.

    La favola dimostra che una natura malvagia determinata a commettere una sopraffazione, quando non possa farlo con un pretesto plausibile, la compie allora scopertamente.

    13

    Il gatto e i sorci

    In una casa c’erano molti sorci. Un gatto, venutolo a sapere, andò a starvi e, acchiappandoli, a uno a uno se li mangiava. Ma i topi, continuamente assottigliati di numero, si infilarono giù nei loro buchi e il gatto, non potendo più arrivare a loro, capì che bisognava attirarli fuori con qualche espediente. Perciò, salito su d’un piolo e lasciandosi spenzolare da quello, si fingeva morto. Ma un topo, affacciatosi col capo, come lo vide, disse: «Amico bello, neanche quando tu diventassi un sacco io mi avvicinerei a te».

    La favola dimostra che gli uomini giudiziosi, quando sperimentano la cattiveria di alcuni, non più sono ingannati dalle loro finzioni.

    14

    La donnola e le galline

    Una donnola sentì dire che in una fattoria le galline erano ammalate; allora si travestì da medico, prese gli strumenti del mestiere e vi si recò; fermatasi davanti alla casa, chiese alle galline come stessero in salute. E quelle rispondendo dissero: «Bene, se tu ti allontani da qui».

    Così agli uomini giudiziosi non sfuggono i malvagi, anche se ostentino le migliori qualità.

    15

    La capra e il capraio

    Un capraio chiamava a sé le capre verso la stalla. Ma una di esse rimase indietro, a brucare un’erba dolce. E il pastore, lanciatole un sasso, colpì nel segno e le spezzò un corno. Allora prese a scongiurare la capra che non dicesse la cosa al padrone. Ma la capra disse: «Anche se io tacerò, come potrò nasconderglielo? Infatti visibile a tutti è il mio corno spezzato».

    La favola dimostra che, quando un difetto è evidente, non è possibile nasconderlo.

    16

    La capra e l’asino

    Un tale teneva una capra e un asino. Or dunque la capra, essendo invidiosa dell’asino per la sua grande abbondanza di cibo, gli diceva che veniva immensamente maltrattato, ora girando la macina del mulino, ora trasportando carichi pesanti, e gli consigliava di lasciarsi cadere in un fosso, simulandosi epilettico, e ottenere così un po’ di riposo. L’asino le diede retta ma, lasciatosi cadere, si fratturò.

    Il padrone allora, chiamato il veterinario, gli chiese di curarlo. Quello gli prescrisse di fargli un’infusione di polmone di capra, e l’asino si sarebbe guarito. Così, con l’uccisione della capra, curarono l’asino.

    La favola insegna che chiunque trama inganni contro altri, diventa il primo autore dei suoi stessi mali.

    17

    Il capraio e le capre selvatiche

    Un capraio che aveva condotto al pascolo le sue capre, come vide che s’erano mischiate con altre selvatiche, venuta la sera, le spinse tutte verso la sua stalla dentro una grotta. L’indomani, scatenatasi una grande tempesta, non potendo accompagnarle al pascolo abituale, le accudiva dentro la grotta, alle proprie capre mettendo innanzi scarso il foraggio, quel tanto sufficiente a non farle morire di fame, alle capre selvatiche invece mettendogliene vicino in abbondanza, a mucchio, con lo scopo di appropriarsi pure queste.

    Cessata la tempesta, quando le ebbe portate tutte insieme al pascolo, le capre selvatiche presero su per i monti e fuggirono via. E accusandole il pastore di ingratitudine giacché loro, che pure avevano ricevuto da lui maggiori attenzioni, lo abbandonavano, voltandosi indietro quelle gli dissero: «Ma proprio per questa ragione siamo più diffidenti: se infatti, giunte solo ieri da te, privilegiasti noi rispetto a quelle che sono con te da lunga data, è chiaro che dopo di ciò, se ti si avvicineranno altre capre, tu le preferirai a noi».

    La favola dimostra che non dobbiamo accogliere con piacere i segni d’amicizia di coloro che antepongono noi, amici di recente data, ai vecchi amici, considerando che, se capiterà anche a noi di essere loro amici da tanto tempo ed essi faranno amicizia con altri, preferiranno costoro.

    18

    La schiava brutta e Afrodite

    C’era un signore che aveva per amante una serva brutta e scorbutica. E costei, ricevendo denaro da lui, si abbigliava magnificamente e rivaleggiava con la propria padrona; essa peraltro offriva continuamente sacrifici ad Afrodite e la pregava che la rendesse bella.

    Ma la dea comparve in sogno alla schiava e le disse che non doveva avere riconoscenza per lei come quella che la rendesse bella. «Anzi – aggiunse – sono sdegnata e irritata nei confronti di colui al quale tu sembri bella.»

    La favola dimostra che non devono inorgoglirsi coloro che diventano ricchi con mezzi ignobili, con maggior vergogna poi se sono senza nobiltà e senza bellezza.

    19

    Esopo nel cantiere navale

    Esopo il favolista, avendo del tempo libero, entrò in un cantiere navale. E siccome i carpentieri lo canzonavano e lo provocavano a replicare, Esopo disse: «Anticamente c’erano soltanto il caos e l’acqua, e volendo Zeus far emergere anche l’elemento terra, esortò questa a fare tre sorsi nel mare. E la terra, cominciando, col primo sorso fece apparire i monti, poi sorbendo una seconda volta rivelò le pianure; ora, se crederà opportuno fare anche un terzo sorso, la vostra arte diventerà inutile».

    La favola dimostra che quelli che provocano persone più perspicaci di loro si attirano inavvertitamente da queste delle risposte piuttosto mordaci.

    20

    I due galli e l’aquila

    Due galli si battevano per delle galline, e l’uno mise in fuga l’altro. E il vinto allora, ritiratosi in una macchia ombrosa, vi si nascose; il vincitore invece, levatosi a volo in aria e posatosi su un alto muro, si mise a cantare con acuti squilli. E subito un’aquila, piombata a volo su lui, se lo portò via tra gli artigli. Invece il gallo nascosto nell’ombra, da allora prese a coprire tranquillamente le galline.

    La favola dimostra che il Signore si pone contro gli orgogliosi e dona la grazia agli umili⁵.

    21

    I galli e la pernice

    Un tale che teneva in casa dei galli, avendo trovato in vendita una pernice domestica, la comprò e la portò a casa con l’intenzione di crescerla insieme con quelli. Ma poiché i galli la picchiavano e la facevano scappar via, la pernice era avvilita, credendo di essere rifiutata perché era di un’altra razza.

    Passato un po’ di tempo, quando vide però che i galli combattevano tra loro e non desistevano prima di essersi coperti di sangue, disse tra se stessa: «Ebbene, io non posso più crucciarmi di essere beccata da questi: vedo infatti che essi non si risparmiano neppure tra loro».

    La favola dimostra che gli uomini assennati sopportano più facilmente le ingiurie dei loro vicini, quando vedono che essi non risparmiano neppure i loro familiari.

    22

    I pescatori e il tonno

    Dei pescatori che erano usciti per la pesca avevano a lungo faticato senza prendere niente; dunque, seduti nella barca, erano avviliti. Nel frattempo un tonno che era in fuga e avanzava con grande sciabordìo balzò inavvertitamente nella barca. Ed essi, afferratolo, lo portarono in città e lo vendettero.

    Così molte volte ciò che non procaccia l’arte, lo regala il caso.

    23

    I pescatori che tirano la rete

    Dei pescatori tiravano la rete; siccome essa era pesante, saltavano dalla contentezza, immaginando che la pesca fosse abbondante. Ma quando, tiratala a riva, notarono che di pesce ce n’era poco e che la rete era piena di sassi e di detriti vari, ne rimasero grandemente crucciati, irritandosi non tanto per l’accaduto, quanto perché essi avevano presupposto il contrario. Ma uno di loro, che era anziano, disse: «Comunque, amici, smettiamola; la tristezza infatti, come sembra, è sorella della gioia, e bisognava assolutamente che noi, dopo esserci tanto rallegrati, dovessimo subire anche qualche dispiacere».

    Or dunque bisogna che anche noi, considerando la mutevolezza della vita, non c’illudiamo di godere vicende sempre favorevoli, riflettendo che dopo una lunga bonaccia è necessario che venga una tempesta.

    24

    Il pescatore che sonava il flauto

    Un pescatore che sapeva sonare il flauto, presi lo strumento e le reti, se ne andò verso la riva del mare e, postosi sopra una sporgenza della roccia, in un primo momento si mise a sonare, pensando che per la dolcezza del suono spontaneamente i pesci sarebbero balzati fuori dell’acqua verso di lui. Ma poiché, pur adoprandovisi a lungo, non ne ritraeva alcun vantaggio, messo da parte il flauto, diè di piglio alla rete e, lanciatala nell’acqua, prese molti pesci.

    Fattili poi uscire dalla rete al suolo, vedendoli guizzare disse: «Scelleratissime bestie, mentre dunque sonavo non ballavate, ora invece che ho smesso, lo volete fare!».

    La favola è adatta per coloro che fanno qualcosa non a tempo opportuno.

    25

    Il pescatore, i pesci grossi e i pesci piccoli

    Un pescatore, avendo tratto fuori dal mare la rete con la pescata, riuscì ad afferrare i pesci grossi e li distese a terra; i pesci piccoli invece attraverso le maglie della rete sgusciarono via nel mare.

    È facile salvarsi per coloro che non hanno una gran posizione, mentre difficilmente potresti veder sfuggire ai pericoli chi ha fama di potenza.

    26

    Il pescatore e il pesciolino

    Un pescatore, dopo aver calato in mare la rete, ne trasse su un pesciolino. Poiché era piccolo, il pesciolino lo pregava di non prenderlo per allora, ma di lasciarlo andare, visto che era così minuscolo. «Poi, quando sarò cresciuto – aggiunse – e sarò divenuto grande, mi potrai prendere, in quanto ti sarò anche di maggiore soddisfazione.» E il pescatore gli disse: «Sarei davvero uno sciocco se, lasciando andare un guadagno che ho già in mano, sia pure piccolo, sperassi in uno di là da venire, anche se fosse grande».

    La favola dimostra che sarebbe scriteriato chi, per la speranza di un bene maggiore, lasciasse andare quello che ha già in suo possesso perché piccolo.

    27

    Il pescatore che batte il fiume

    Un pescatore pescava in un fiume. E avendo teso verticalmente una rete, che così attraversava da una sponda all’altra la corrente, legata una pietra a una corda di lino, cominciò a battere l’acqua, affinché i pesci fuggendo incappassero inevitabilmente nelle maglie della rete.

    Ma uno degli abitanti del luogo, vedutolo mentre faceva ciò, lo rimproverò perché rendeva torbida l’acqua del fiume e impediva loro di berla limpida. Gli rispose allora il pescatore: «Ma se il fiume non viene così agitato, io dovrò morire di fame!».

    Così anche i demagoghi delle città allora soprattutto realizzano i loro affari, quando hanno gettato nella discordia il loro paese.

    28

    L’alcione

    L’alcione è un uccello che ama la solitudine e vive costantemente sul mare. Si dice che esso, per sfuggire alla caccia che gli fanno gli uomini, faccia il nido sugli scogli prospicienti il mare.

    Una volta un alcione che era in procinto di deporre le uova giunse sopra un promontorio e, visto un ronchione sporgente sul mare, lì esso fece il nido. Ma un giorno che era uscito in cerca di cibo, accadde che il mare, sconvolto da un vento impetuoso, si sollevò fino al nido e spazzandolo via coi marosi uccise i piccoli dell’alcione. E questo, quando ritornò, capito ciò che era accaduto, disse: «Ah, che sono davvero disgraziato! io che, guardandomi dalla terra ferma perché insidiosa, mi sono rifugiato su questa rupe, che molto più malfida è stata per me!».

    Così anche alcuni uomini, mentre si guardano dai nemici, senz’accorgersene incappano in amici che sono molto più dannosi dei loro nemici.

    29

    Le volpi sul fiume Meandro

    Una volta delle volpi si trovarono raccolte sulla riva del fiume Meandro, volendo bere da esso. Ma poiché l’acqua scorreva rumoreggiando, nonostante le reciproche esortazioni, non osavano accostarvisi. Allora una di esse si fece avanti per smaccare le altre e irriderne la viltà; ed essa, ritenendosi più coraggiosa delle altre, saltò risolutamente nell’acqua. Ma, risucchiatala verso il centro la corrente, le compagne che erano rimaste sulla sponda del fiume le dicevano: «Non lasciarci ma, tornando indietro, tu mostraci l’accesso al fiume dove possiamo bere al sicuro». E quella, mentr’era trascinata via dalla corrente, rispose: «Devo andare a Mileto a portare un messaggio e voglio fare là tale commissione; però al mio ritorno ve lo indicherò».

    La favola è adatta a coloro che a causa della propria spavalderia si procurano guai da se medesimi.

    30

    La volpe con la pancia piena

    Una volpe affamata a un tratto vide nella cavità di un albero pezzi di pane e di carne lasciativi dai pastori. Introdottasi allora nell’albero, se li mangiò tutti. Ma essendolesi gonfiata la pancia, poiché non poteva più venir fuori, gemeva e si lamentava. Un’altra volpe che passava per di là, sentiti i suoi lamenti, si avvicinò e gliene domandò la ragione. Poi, appreso quanto era accaduto, le disse: «Dunque tu aspetta qui fin quando tornerai ad essere qual eri quando vi entrasti, e allora potrai uscirne facilmente».

    La favola insegna che il tempo risolve le difficoltà.

    31

    La volpe e il rovo

    Una volpe che voleva saltare oltre una siepe, preso uno scivolone, stava per cadere: ma, per aiutarsi, s’afferrò a un rovo. Or dunque, graffiatasi a sangue le zampe sulle spine di esso e piena di dolore, gli disse: «Ahimè, che mentre mi rifugiavo da te per un aiuto, tu m’hai conciata ancora peggio». «Bella mia, ma fosti tu a sbagliare – disse il rovo – decidendo di aggrapparti a me che ho l’abitudine di aggrapparmi a tutto.»

    La favola dimostra che sono altrettanto stolti quegli uomini che ricorrono per aiuti a chi istintivamente è piuttosto incline a far del male.

    32

    La volpe e il grappolo d’uva

    Una volpe affamata, come vide pendere da un pergolato dei grappoli d’uva, si provò ad afferrarli ma non le riusciva. Allontanandosi allora disse tra sé; «Mah, sono ancora acerbi».

    Così anche certi uomini, non riuscendo a venire a capo dei loro progetti per impotenza, accusano le circostanze.

    33

    La volpe e il serpente

    Vicino a una strada c’era un albero di fichi. Una volpe, avendo visto un serpente che dormiva, ne invidiò la lunghezza. Volendo dunque farsi lunga come quello, sdraiatasi vicino ad esso, si sforzava di tendersi, fino a che, eccedendo nello sforzo, crepò all’improvviso.

    Questo succede a quegli uomini che vogliono fare a gara con chi è più forte di loro: crepano essi medesimi, prima di poterli uguagliare.

    34

    La volpe e il taglialegna

    Una volpe che stava sfuggendo a dei cacciatori, come scorse un taglialegna, lo supplicò di nasconderla. E quello la esortò a entrare nella sua capanna per nascondervisi.

    Dopo un po’, sopraggiunti i cacciatori e domandando essi al taglialegna se avesse visto passare una volpe per di là, questi con la voce diceva di non averla vista, però con cenni della mano indicava dove si trovava nascosta. Quelli tuttavia non badarono ai cenni della mano e prestarono fede alle parole che egli aveva dette; e la volpe, poiché vide che si erano allontanati, uscita dalla capanna, fece per andarsene senza dire una parola. Ma il taglialegna la redarguì, lei che, salvata da lui, non gli aveva detto una parola di ringraziamento; e la volpe disse: «Ma certo che ti sarei stata riconoscente, se però i gesti della tua mano fossero stati corrispondenti alle parole».

    Questa favola potrebbe essere applicata a quegli uomini che, mentre espongono con parole chiare onesti pensieri, nella realtà poi agiscono male.

    35

    La volpe e il coccodrillo

    Una volpe e un coccodrillo erano in disputa circa la nobiltà dei loro natali. E siccome il coccodrillo metteva in campo molti argomenti sul prestigio dei suoi antenati e arrivò a dire che discendeva da padri che erano stati «ginnasiarchi» ⁶, la volpe interrompendolo disse: «Davvero, anche se tu non lo dicessi, dalla tua pelle si vede chiaramente che da tanti anni ti sei ben addestrato⁷ negli esercizi del ginnasio!».

    Così appunto, certi uomini che spacciano frottole, è la realtà che li smentisce.

    36

    La volpe e il cane

    Una volpe che si era infiltrata in un gregge di pecore, dopo aver preso un agnello lattante, faceva finta di vezzeggiarlo. Il cane le domandò perché facesse ciò. Rispose: «Lo accarezzo e gioco con lui». E il cane le disse: «Beh, ora se non lo lasci stare, ti farò le carezze che sanno fare i cani».

    La favola è adatta per l’uomo privo di scrupoli e ladro scriteriato.

    37

    La volpe e la pantera

    Una volpe e una pantera contendevano su chi di loro fosse più bella. E siccome la pantera vantava decisamente la pelle adorna del suo corpo, la volpe prendendo la parola disse: «Oh, ma quanto di te sono più bella io, dal momento che non nel corpo ma nella mente sono adorna!».

    La favola dimostra che il pregio dell’intelletto è superiore alla bellezza fisica.

    38

    La volpe e lo scimmiotto eletto re

    In un’assemblea di bestie uno scimmiotto che aveva suscitato grande ammirazione nel ballare fu eletto re da esse. Ma una volpe concepì invidia verso di lui e un giorno, visto un pezzo di carne fissato a una tagliola, lo accompagnò là e gli disse che essa, avendo trovato un tesoro, non l’aveva preso per sé, ma l’aveva serbato a lui come omaggio alla sua regalità e lo esortava a prenderlo.

    Avanzatosi quello incautamente e imprigionato

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