You are on page 1of 58

Mali

Avventure in un paese negato


Raccolta di racconti di viaggio di Raffaele Barbolini, Luigi Belli, Valeria Colombera, Patrizia Galardi, Silvia Mantino, Stefano Pansotti, Wanda Romagnoli, Franco
Sarcinelli, Marco Vasta, Brunella Venturi
A cura di Giusi Carai e Alessio Neri
Prefazione di Karima Moual
in collaborazione con Avventure nel mondo srl

Pubblicato nel maggio 2013


ISBN - 9788898183050
Collana - Punto
Asterisk edizioni media
via Mario Musco, 75
00147 Roma
www.asteriskedizioni.it
info@asteriskedizioni.it

Quest'opera è rilasciata in Creative Commons - no commercial - no derived.


DRM FREE
Copertina ad opera di Gaetano Partinico - Small studio
Nota dell'editore

Chi vive vede molto, chi viaggia vede di più.


(Proverbio arabo)
La terra è il luogo dove gli esseri viventi si muovono. Ognuno sulla base dei propri bisogni e necessità, ma anche in base
alle proprie possibilità e ai propri desideri.
Un mondo senza confini è un'utopia secolare che immaginano gli individui che amano a tal punto la loro terra da
pensarla come crocevia senza barriere di persone che si muovono e culture che si mescolano, ed inevitabilmente si
scoprono attraverso uomini e donne che attraversano territori.
Questa utopia è, però, negata dall'uomo stesso. Se da una parte il mondo sembra sempre più piccolo grazie alle infinite
interconnessioni tra le genti che lo abitano e i suoi spazi, dall'altro gli uomini stessi si privano di parti estremamente
rilevanti di essi.
La guerra è una di queste negazioni. Probabilmente la più odiosa e difficile da superare tra le difficoltà cui l'uomo si
condanna. I conflitti e le guerre sono fonte di distruzione del tempo e anche dello spazio.
Attraverso la guerra gli uomini negano a loro stessi degli spazi vitali, degli angoli da scoprire, delle vite da far vivere
fino in fondo.

Il Mali è un paese meraviglioso negato all'umanità da una guerra ben poco comprensibile di cui arrivano pochissime
notizie alle nostre latitudini. Il Mali non è un paese così lontano dal Mar Mediterraneo eppure è ai più sconosciuto. Non
solo dal punto di vista geografico ma anche, e soprattutto, dal punto di vista culturale.
Quali etnie lo abitano e quali religioni vi sono praticate? Quali sono gli aspetti più interessanti delle culture presenti e
che aspetto ha la natura nella quale queste si sono insediate?
Difficile scoprirlo. In Mali c'è la guerra. E' diventato un paese che è meglio non visitare di questi tempi. E' diventato
uno spazio della nostra terra che l'uomo ha negato a se stesso per interessi e motivazioni nascoste ai più.
La serie di ebook "Avventure in un paese negato ", che si apre con questi splendidi racconti di viaggio dal Mali - scritti
dai viaggiatori di Viaggi Avventure nel Mondo che ringraziamo per averci messo a disposizione i suoi archivi di racconti di
viaggio -, contribuisce più che alla riscoperta dei luoghi maliani alla difesa della memoria di paesaggi, uomini, donne e
culture altrimenti cadute nell'oblio più terribile che c'è: la guerra.
I racconti di viaggio proposti in questo ebook non sono recentissimi. L'ultimo è stato scritto nel 2011 quando ancora
sul paese africano non c'erano ombre di terrorismo e di guerra anche se qualche problema di sicurezza sembra emergere
anche dalle storie qui raccolte. Non si tratta quindi di viaggi e avventure vissute in Mali durante l'attuale guerra ma di storie
vissute prima che scoppiassero le violenze, di cui qualche confusa notizia è apparsa anche sulla stampa generalista italiana.
Avventure in un paese negato è la serie di ebook che vuole raccontare i paesi negati da guerre e conflitti per com'erano
prima dello scoppio delle bombe e dell'odio.
Senza troppa retorica, Asterisk edizioni con questa serie di titoli vuole offrire non solo un ricordo ma un'immagine
nitida di ciò che l'uomo con i suoi spargimenti di sangue nega a se stesso. Il modo migliore per farlo, a nostro avviso, è
proprio quello di mettere insieme ricordi ed esperienze vissute e descritte in prima persona. Non c'è modo migliore di
raccontare i territori che compongono questo mondo se non con gli occhi e le parole di chi li vive e li attraversa.
Esiste un legame indissolubile tra uomini, luoghi, culture e ricordi.
L'obiettivo di Asterisk è quello di rinforzare questo legame.
Prefazione - Quando la sabbia copre

di Karima Moual*
Nove racconti brevi per rivelare tutta la complessità di un paese forse non bastano, ma di certo bastano a descrivere
molto bene – con dettagli straordinariamente efficaci – una terra in cui li deserto domina, e non solo metaforicamente. E
magari bastano anche a farcene innamorare.
A proposito di complessità, prendo in prestito le parole di Lucio Caracciolo (Limes, 5/2012), per fare un resoconto
drammatico ma attuale degli scontri che hanno stravolto questo territorio con gli ultimi eventi di terrorismo sul fronte
Sahara.
«Siamo nel Mali, già Sudan francese, cerniera tra Sahara, Sahel e paesi affacciati sul Golfo di Guinea, al crocevia fra
Africa bianca arabo-berbera e Africa nera. Vasto spazio solcato dalle storiche carovaniere trans-sahariane oggi brulicanti di
narcotrafficanti e migranti mesmerizzati dal miraggio Europa. Nel suo cuore sorge la leggendaria T imbouctou, simbolo del
sufismo africano, le cui torri sorgenti dalla sabbia annunciavano ieri ai turisti europei, ormai scomparsi, la fine del deserto.
Il suo orizzonte luccica di moschee, minareti, mausolei, palazzi di mattone crudo. Oggi T imbouctou è ridotta a città
fantasma, accampamento di bande qaidiste impegnate a distruggere i monumenti della “ corruzione”, ossia di una civiltà
islamica mercantile ramificata fra Nord Africa, Mediterraneo e India.»
E ancora: «In questa terra dilaniata tra Nord desertico, percorso da pastori nomadi, specie tuareg, e sud agricolo
fertilizzato dall'ansa e dal delta interno del Niger, dominato da sedentari neri, soprattutto bambara, si coltiva la memoria
del glorioso impero maliano (XIII - XVII secolo) e di quello songhai (1464 - 1591). Di istituzioni statuali appena l'ombra.
Il vuoto geopolitico scavato in quattro vorticosi tempi – rivolta tuareg favorita dall'afflusso via Libia e Niger di miliziani
già al servizio di Gheddafi (gennaio 2012), colpo di Stato militare a Bamako (marzo), secessione dell'Azawad (aprile) e sua
conquista da parte delle milizie narcojihadiste (giugno)- ha generato una miscela esplosiva che concentra sul Mali le mire di
attori locali, regionali e mondiali.»
D’accordo, questa è geopolitica e anch’essa racconta sempre e solo una parte, ma di certo è un valore aggiunto a quello
che, invece, ci accingiamo a leggere in questo libro che, tutto sommato, è un diario di viaggio in un territorio perlopiù
sconosciuto e ancora oggi difficile da visitare.
Il Mali, infatti, non è una delle mete più ambite dal turista standard. D’altro canto, non è un caso che il titolo del libro
sia: “ Mali. Avventure in un paese negato”. T uttavia, gli amanti dell’avventura troveranno le testimonianze nitide di chi è
riuscito a varcare la frontiera del Sahel, a scoprire e a vivere questo paese.
T roveranno nove autori che si alternano con la loro esperienza e il loro sguardo, per un viaggio solo eppure l’uno
straordinariamente diverso dall’altro. Molteplici chiavi di lettura, con diciotto occhi su un unico paese: un arcobaleno di
colori, emozioni e sensazioni che forse solo un paese con queste caratteristiche può offrire.
Nove racconti, dunque, che tracciano uno spaccato straordinario, di immagini, percezioni e sensazioni. Ma non solo. Ci
sono anche itinerari da esplorare anche solo metaforicamente, perché il «deserto è distanza da colmare di senso, è
sperimentare la pura “ assenza”. Nello stesso tempo è rinascita. Una prova iniziatica» scrive in uno dei racconti Stefano
Pansotti.
«In Mali non c’è niente – racconta invece Valeria Colombera –, ma forse proprio per questo c’è tutto. Per lo meno
tutto ciò che a me piace, che mi serve e che mi manca qui, nella mia civilizzata città ho capito che in Africa è tutto più
genuino: mancando a volte anche l’essenziale, ciò che resta non è altro che la relazione umana. E per costruirla non c’è
bisogno di altro che dell’individuo, spoglio, senza tutte le cianfrusaglie, le maschere che normalmente si porta dietro dalle
nostre parti.»
Il Mali: una terra in cui, è vero, il deserto domina, e che rischia di essere inghiottita dalla sua stessa sabbia. Ma la sabbia,
si sa, è cosa pesante eppure leggera: si smuove con un soffio.
*giornalista
collabora con Rai1 e Sole 24 Ore.
Ha fondato e dirige il sito d'informazione www.maroccoggi.it
Cenni storici

300 - 1000
lmpero del Ghana. Federazione di Stati dominati dall’imperatore del Ghana. Comprendeva gli attuali territori della
Mauritania, Senegal, Mali.
1000 - 1400
lmpero del Mali. Nasce sulle ceneri dell'lmpero del Ghana, caduto sotto i colpi degli Al-moravidi. Nel 1300 l’lmpero del
Mali si estendeva dall’Oceano Atlantico fino a Gao sul Niger.
1400 - 1600
L’impero Songhai. Retto dalle dinastie Dia, Sonni ed Askia, si estendeva dal Senegal, al Mali, al Niger e parte della
Nigeria attuale. L'impero crollò nel 1591 ad opera dell’armata marocchina del pacha Djoider. La sede della capitale viene
trasferita a T imbouctou.
1600 - 1800
Vari regni nascono e decadono entro i confini del Mali regno di Masina, di Segou, di Kaarta, di Kenedugu.
1882
l francesi occupano Bamako.
1919
L’intero territorio del Mali colonizzato dalla Francia con il nome di Sudan francese.
1960
L’indipendenza. Nasce Ia Repubblica del Mali.
La traversata del fiume Bani, appuntamento annuale per le
mandrie dei nomadi Peul
Brunella Venturi
Già sull’aereo dell’Air Algerie che da Roma, via Algeri, ci portava a Bamako, fra i partecipanti dei vari gruppi
circolavano alcuni ritagli di riviste che illustravano la traversata del Niger a Diafarabè: per le mandrie dell’etnia peul in
cerca di pascolo è un passaggio obbligato dal sahel, secco in questa stagione, verso il delta del Niger. Le foto riportavano
mucche di vari colori, pastori con i loro ampi cappelli di paglia lavorati artigianalmente (liptako): tutti in festa per questo
avvenimento. Sembra che quest’anno il ministero dell’agricoltura del Mali abbia stabilito questo passaggio per il 28
novembre.
La data varia ogni anno in quanto è legata soprattutto alla portata d’acqua del fiume: occorre che sia al minimo per
facilitare il guado da parte degli animali. Peccato, è il 27 novembre, abbiamo appena messo piede in Mali e sicuramente
non potremo essere a Diafarabe il giorno dopo.
Ma si sa anche che una analoga traversata avviene dopo alcuni giorni - variabili da sette a dieci - sul fiume Bani,
affluente del Niger, nei pressi di Sofara, un villaggio a metà strada fra Djennè e Mopti. Chiediamo a più riprese alla nostra
guida di informarci sulla data di questo secondo evento. A Djenné, il validissimo Boubacar Cisse ci informa che il passaggio
a Sofara è fissato per il 4 dicembre.
Decidiamo allora, per forza maggiore, di accorciare di una giornata il trekking fra i Dogon: rinunciamo ad una notte in
tenda al chiarore della luna e a un’alba annunciata dai galli che si fanno eco da un paese all’altro lungo tutta la fale sia (o
falaise )
costa rocciosa con pareti a picco
e rientriamo a Mopti il 3 sera.
La mattina del giorno seguente partiamo di buon’ora e arriviamo a Sofara. Il villaggio è tranquillo, la piazza è deserta,
le bancarelle del mercato vuote, non c’è segno di alcun avvenimento particolare. Sapremo poi che la sera precedente i
pastori nomadi peul, lì concentrati per l’avvenimento del giorno dopo, hanno dato vita ad una serata di festa con danze e
canti.
Proseguiamo oltre, accompagnati anche da un ragazzo del posto, per una strada virtuale in mezzo alla savana. Di
animali nessuna traccia. Vedo la perplessità negli occhi dei miei compagni. Poi in lontananza, poco a poco, si delineano in
mezzo agli arbusti delle figure che si muovono. Man mano che ci avviciniamo si materializzano a perdita d’occhio mucche
di tutte le razze: bianche, nere, pezzate. Davanti a noi c’è il fiume Bani che scorre tranquillo. Sull’altra sponda si stagliano
la moschea e le case rigorosamente costruite in banco (misto di fango e paglia) del paesino di Kambio.
Macchie di vario colore punteggiano la distesa di animali: sono i pastori peul che controllano le loro mandrie, vestiti
per il viaggio che dovranno intraprendere. Hanno tuniche e mantelli di tutti i colori: giallo ocra, verde brillante, blu tuareg,
anche bianco candido. Qualcuno è curioso e si avvicina a noi (che qui siamo gli unici turisti), ma soprattutto si incontrano,
si salutano e discutono fra di loro. La maggioranza di loro è accovacciata all’ombra di un grande albero di karité dove il
veterinario sta forse facendo l’inventario delle mandrie presenti. C’è un’atmosfera di tranquilla attesa. Intanto affluiscono
altre mandrie ed altri pastori: c’è chi arriva in bicicletta, chi anche a dorso di cammello. Qualcuno ha al collo una grossa
radio a transistor, modello anni ‘60: un contatto col mondo quando saranno soli nei pascoli. Pian piano arrivano anche le
loro famiglie.
Somarelli trainano carretti carichi di masserizie, donne con in testa pile di calebasse (grosse ciotole ricavate da zucche
locali). Qualcuna seguirà il suo uomo, altre alla riva del Bani li saluteranno. I bambini sono festosi, si divertono a farsi
fotografare ed a rivedersi nei display delle nostre macchine digitali, e senza chiedere cadeaux.
T utti aspettiamo, per l’inizio della cerimonia, la delegazione governativa. Finalmente un corteo di fuoristrada ne
annuncia l’arrivo. Il gruppo dei notabili sale su una piroga e per primo attraversa il fiume. Noi pure traghettiamo su
un’altra piroga e ci confondiamo con loro. Come in ogni cerimoniale che si rispetti iniziano le presentazioni al pubblico: il
governatore, i ministri della contea, il capo villaggio, il capo della polizia. Non manca proprio nessuno. Seguono i discorsi,
i ringraziamenti e gli applausi di rito. Finalmente il momento clou, atteso da tutti, animali compresi.
Il capo della gendarmeria di accinge a dare lo start con un colpo di pistola. Dopo il primo andato a vuoto, parte uno
sparo. Quasi contemporaneamente sull’altra riva, si alzano grida di incitamento e, con un nuvolone di polvere, una prima
mandria si getta nel fiume. L’avanguardia è composta da una decina di tori, i migliori, che verranno donati al governatore.
Questa situazione mi ricorda “ L’interprete briccone”, un romanzo del maliano Amadou Hampate Ba, in cui i capi della
contea ricevevano spesso in dono tori e vitelli in cambio di favori.
A seguire, in un ordine prestabilito, altre mandrie si gettano nel fiume per attraversarlo. Ovunque echeggiano grida:
sono le urla dei pastori che incitano gli animali, i muggiti impauriti delle mucche in mezzo al fiume. Una volta guadato il
corso d’acqua, le mandrie sfilano davanti alle autorità, poi prendono il sentiero della savana per dirigersi verso i pascoli
migliori. Adesso è tutta una festa nel villaggio: alcuni ragazzetti improvvisano giochi tentando di prendere invano i tori
per le corna, i pastori sono fieri di mostrare le loro mandrie ai notabili, e gruppetti di ragazze sfoggiano i loro vestiti e i
gioielli migliori, si guardano attorno magari adocchiando qualche pastorello dal bel viso nascosto in un turbante tuareg.
Nello spiazzo avanti alle autorità viene sacrificato un toro. Anche il rantolo funesto dell’animale fa parte della festa. Il
toro sarà squartato e macellato sul posto.
Dove ci sono personaggi importanti, non poteva mancare il griot (figura di grande importanza in Africa Occidentale:
artisti che cantano le storie e i miti del passato e le gesta degli eroi).
Con aria spavalda e ritmo incalzante, il griot inscena di fronte al governatore una personale performance
decantandone le virtù, tessendone le lodi e riportandogli i ringraziamenti dei presenti, noi compresi (come ci ha tradotto la
nostra guida).
Ormai la cerimonia si va esaurendo. Riprendiamo la piroga per riattraversare il fiume, mentre ancora altre mandrie
stanno guadando. Sull’altra sponda ci sono carretti, capre e somarelli, ma arriva anche il loro turno: sulle piroghe c’è posto
per tutti.
Vengono disposti sulle imbarcazioni e fatti attraversare. La scena sembra un’enorme arca di Noè: tutto deve essere
salvato per la traversata del prossimo anno.
Il paese dai mille volti
Luigi Belli
A Segou il fiume Niger incomincia a frantumarsi in mille canali e laghi formando un delta interno che nella stagione
delle piogge abbraccia un territorio grande quanto la Sicilia e la Sardegna insieme. Questo immenso fiume, il terzo
delI’Africa, nasce in Guinea a meno di 300 km in linea d’aria dalla costa atlantica, ma invece di indirizzarsi sull’oceano
punta dritto al centro del Sahara; respinto dai contrafforti dell’Adrar des Lforhas sembra quasi voglia fermarsi indeciso, e
qui forma il delta, poi piega ad arco verso sud, buttandosi infine nel Golfo di Guinea dopo ben 4200 km di folle corsa.
l Bambara, coltivatori nati, hanno saputo sfruttare la regione alluvionale del delta interno trasformandola nel «granaio
del Mali»: riso, mais, arachidi, miglio e soprattutto sorgo. Qualche ora di savana punteggiata dai bao-bab e da enormi
termitai simili a guglie ed ecco Djenné, famosa per la sua splendida moschea. Costruita in banco (fango e paglia) impastato
su tralicci di legno che spuntano fuori dai muri, l'enorme moschea è un gioiello tra i più preziosi dell'architettura africana.
Il viaggio in auto finisce a Mopti, «la Venezia del Mali».
Posta alla confluenza del Bani con il Niger, costruita su isole collegate da ponti e come Venezia unita alla terraferma da
una striscia di asfalto lunga poco più di 10 km, Mopti è però una città splendidamente africana.
Il quartiere Peul, allevatori dediti al nomadismo stagionale, con le case dai tetti a terrazza contornati da merlature e
pinnacoli di varie forme o da balaustre traforate, costituisce uno dei più begli esempi di unità stilistica dell’area. Per le
strade e nei cortili interni gli uomini a gruppi numerosi tessono la lana con telai rudimentali ma efficaci, trasformando le
grosse matasse colorate in bande larghe pochi centimetri, che poi verranno cucite insieme per formare coperte e tappeti.
Le donne invece pestano il miglio in grossi mortai di legno, diffondendo per tutta la città sordi richiami dal ritmo
incessante. Le donne Peul sono lavoratrici instancabili e sono anche le più civettuole dell’Africa nera.
Nell’abbigliamento quotidiano non trascurano alcun elemento che possa arricchire la loro femminilità arrivando a
coprire interamente l’orlo degli orecchi con una serie di piccoli anelli d’oro o d'argento che sfociano poi, nei lobi, in grossi
orecchini a tortiglione, d’oro, grandi spesso fino a 10 cm ed oltre, ma molto leggeri. l capelli sono pettinati in decine di
piccole trecce sistemate con ordine sul capo a formare disegni geometrici davvero stupefacenti. T ra i capelli e sul collo
ornamenti e collane di tutte le forme e colori, spesso di ambra o corniola. Sul viso il maquillage è formato da gruppi di
piccole incisioni che solcano la pelle delle guance o della fronte. Ma lo spettacolo più affascinante della città è sul fiume,
al porto delle piroghe, costituito da una lunga massicciata che degrada lentamente verso l’acqua. E' qui che attraccano le
piroghe stracolme di pesce affumicato ed è qui che i pescatori Bozo commerciano il loro prezioso prodotto, molto
ricercato persino dai paesi dell’Africa equatoriale.
Dalla terrazza del ristorante «Chez Bozo», sulla punta del molo, tra una birra gelata ed un piatto di ottimo pesce ci
godiamo la lunga prospettiva del mercato, straordinaria fusione di visi, colori e voci che si interrompe solamente al
tramonto.

Il nuovo giorno ci vede imbarcati su una piroga affittata alla Cooperative T ransporteurs Fluviaux e che in sette giorni
ci porterà fino a T imbouctou e poi Gao, percorrendo tutta l’ansa del Niger. La piroga non è poi tanto scomoda: 5
scompartimenti di 2 metri per 2, quello centrale coperto da un tetto di canne e stuoie è adibito ad uso cucina; a prua il
comando del timone, a poppa i due motori.
Incontriamo molte piroghe dirette a Mopti, alcune cariche di gente, le prime imbarcazioni a vela ed anche piccole
barchette ricavate da tronchi d’albero. Le sponde basse sono ricche di vegetazione dove albergano uccelli d’ogni tipo:
pellicani, anatre, gabbiani, cormorani, ibis. Scorgiamo sulla riva i primi villaggi Bozo e Somono.
La sfera del sole si fa rossa, poi si tuffa nell'acqua ed è subito notte. Ci accampiamo nei pressi di un piccolo villaggio.
L’ospitalità qui è sacra ed approfittiamo del loro fuoco, prezioso per la scarsezza di legna.
La casa di questi pescatori è un piccolo centro di produzione di pesce affumicato. Le reti, gli ami, le nasse, nel cortile
un forno a giorno con un fuoco perennemente acceso e sul tetto il pesce fresco protetto da stuoie di paglia. Quello
affumicato viene conservato all’interno, ammucchiato con ordine e pronto ad essere trasportato al mercato di Mopti.
L’uscio delle case spesso è a forma di membro maschile. La rappresentazione dell'organo di riproduzione testimonia
che la vita è durissima; ma il Niger è generoso e la gente appare ben nutrita.
L’indomani si riparte che è ancora buio, gli occhi puntati ad oriente dove un susseguirsi di colori diversi preannuncia
un’alba africana senza limiti. Ed il sole appare improvviso, grandissimo e guadagna il suo posto in un cielo infuocato.
La piroga fila via: aironi disegnano nel cielo fantasiosi voli.
Il fiume si allarga tanto da non poter scorgere più la riva, siamo sul lago Debo, al centro del delta interno; poi di nuovo
si restringe ed al tramonto avvistiamo tra le canne due ippopotami e più avanti le gazzelle scese ad abbeverarsi.
Ancora una giornata di navigazione. Incrociamo il battello che, se il fiume non è in secca, fa servizio regolare da Mopti
a Gao in tre giorni. E' stracolmo di gente e sembra un miracolo che qualcuno non cada in acqua. Il Niger segue ora un
andamento molto regolare e il paesaggio è piatto, rotto solamente da enormi termitai e radi alberi di tamarindo. Villaggi di
pescatori nomadi ed altri in muratura si susseguono abbastanza frequenti lungo le rive.
Siamo a Tonka, è giorno di mercato. Personaggi affascinanti sbucano sulla piazza in sella ai cammelli dalla
caratteristica andatura dinoccolata: sono T uareg, i leggendari berberi che vivono quasi al centro del Sahara e che si
spingono sin qui per i loro commerci.
In serata raggiungiamo Kabora, il porto di T imbouctou. La vecchia «regina delle sabbie» è ormai definitivamente
decaduta, ma in alcuni scorci, in certe vie ancora intatte non è difficile scorgerne gli antichi fasti, quando ancora era un
centro commerciale importantissimo, ma anche culturale, e la moschea di Sankoré accoglieva una delle più prestigiose
università di tutto il mondo islamico.
Le carovane tuareg e mauri vi portavano le grandi lastre di sale minerale e poi ancora datteri, tè, tabacco e stoffe e ne
ripartivano cariche di riso, miglio, schiavi e oro, soprattutto oro. l grandi regni neri dell’Africa occidentale ne
producevano in quantità tali da attirarsi addosso le mire espansionistiche degli arabi prima e dei portoghesi poi. Nel 1325 il
grande sovrano Kanko Moussa al ritorno dal pellegrinaggio alla Mecca sostò al Cairo e vi spese tanto di quell’oro che
provocò un’inflazione i cui effetti negativi si ripercossero per 20 anni in tutto il Medio Oriente. Il sovrano riporto con sé
in Mali i più celebri costruttori arabi dell’epoca i quali, sulla scia di certa architettura araba ed egiziana, progettarono
palazzi e moschee molto singolari dando il via al cosiddetto stile sudane se .
In vaste zone dell'Africa occidentale attorno all'anno mille sono nati diversi imperi che si sono alternati nel corso degli anni, grazie agli intensi traffici commerciali che
avevano punti di riferimento in città poste lungo quell'arteria fluviale importantissima del bacino del fiume Niger. Timbuctù, Gao, Djenné erano degli autentici porti in
cui transitavano oltre alle merci di vario tipo, anche genti di diverse etnie. Questa mescolanza di razze portò un arricchimento culturale, sociale ed economico che si
estese anche all'architettura locale già di per sé singolare conosciuta con il termine di "sudanese", con nuovi stili come ad esempio quello marocchino ed arabo. Case,
palazzi pubblici, ma soprattutto le moschee rappresentano la sintesi dello sviluppo architettonico, armonico, e della grandezza che edifici dedicati al culto possono
dare.
Lasciamo T imbouctou, certo un po' delusi, e riprendiamo la grande via d’acqua. Il Niger scorre per tre giorni
costantemente assediato dalle dune del Sahara, ora gialle ora rossicce, finché la grande duna rosa di Koina, la più alta della
regione, ci annuncia che siamo giunti a Gao. Sul porto, le lastre di sale che le carovane hanno trasportato sin qui dalle
miniere di T audenni, distanti 800 km di sabbia, attendono di essere imbarcate per risalire l’ansa del Niger, mentre le donne:
con il seno scoperto, fanno il bucato e lavano con grazia il loro corpo.
«Gao è una delle più belle città dei neri» scriveva Ibn Battuta, il Marco Polo arabo, ed ancora oggi è un luogo di una
vivacità inconsueta, punto nodale di un traffico incessante di gente che proviene dalle regioni desertiche più remote. Il
mercato si tiene tutti i giorni ed offre i prodotti dell’artigianato songhai, ma anche tuareg, mauri e peul. Si vendono pelli,
lunghe sciabole incise, tamburi, vecchi archibugi, statue di legno, serrature in ferro battuto, magnifiche coperte a scacchi
colorati, amuleti e filtri d’ogni genere, mentre intanto a latere del commercio si decidono fidanzamenti o matrimoni,
divorzi, scambi di donne, si regolano debiti e litigi, si consegnano comunicazioni provenienti da villaggi lontanissimi tra
loro.
Gao è il punto d’arrivo della famosa Bidon V
Stazione di rifornimento sulla pista transahariana dell'Algeria meridionale, nella wilaya di Adrar, situata nel Tanezrouft-n-Ahenet, sull'Uadi Tamanrasset, presso il
confine con il Mali.
e della pista trasversale che porta a Tamanrasset, ma noi andremo nella direzione opposta a ripercorrere tutta l'ansa
del Niger, questa volta via terra, fino a Shanga, nel paese Dogon.
Affittiamo un camion carico di datteri e ci inoltriamo attraverso l’arida boscaglia di arbusti spinosi, acacie, baobab. Due
giorni di corsa veramente dura, ma alla fine eccoci a Shanga, al centro delle Falesie di Bandiagara. Sulla piazza del paese,
alla fine di un lungo viale di baobab la pista finisce, definitivamente.
Non c’è alcuna possibilità di proseguire verso gli altri villaggi Dogon se non a piedi. Ma non si può andare soli; l’ufficio
del T urismo ci impone una guida. Analou è un simpatico ragazzo con il cappello e la maglietta di un campus americano,
sembra un nero di Harlem piuttosto che un Dogon.
Da quando Marcel Griaule nel 1948 pubblicò «Dio d’acqua», ogni anno migliaia di bianchi sono arrivati a Shanga,
incuriositi dall’alone di mistero che aleggia attorno a questa popolazione ed appena parzialmente diradato dall’etnologo
francese. Nel 1980 sono arrivati qui 6000 visitatori, che se non è una presenza di massa è pero sufficiente a stravolgere
certi equilibri secolari che hanno mantenuto i Dogon incontaminati sino ad oggi. Fortunatamente gli altri villaggi
rimangono inaccessibili ai turisti non più in forma.
Quattro ore di marcia dura sotto un sole implacabile, tra lastroni di pietra che testimoniano antiche rivoluzioni
geologiche, poi una gola che sembra sprofondare nelle viscere della terra. La discesa è faticosa ed in certi punti, dove c’è
pericolo, troviamo delle scale formate da tronchi biforcuti ed intagliati.
Improvvisamente, la gola si apre ed appare Irely, incastonato in una cornice di roccia. La visione è potente, di quelle
che restano scolpite dentro. Ci vuole un bel po’ per metterlo a fuoco bene, perché il villaggio è perfettamente
mimetizzato nella roccia, aggrappato alla scarpata che il fianco dritto della falesia forma prima di finire nella savana. Le
case sono piccoli cubi di pietra, spesso con un cortiletto in banco dove le donne cucinano e i bambini giocano. Mischiati
alle case i granai, quadrati anche loro ma con la base più grande della terrazza e coperti da un tetto appuntito fatto da
canne.
Attraversiamo il villaggio come fantasmi, incapaci di stabilire qualunque contatto. Una fila di bambini ci segue per un
po’, i ventri troppo gonfi, gli occhi appiccicosi. Gli uomini, magri, di media statura, il viso tondo, il naso piatto e largo,
rispondono con cenni distratti ai nostri saluti; le donne, il seno scoperto, una gonna di lana blu lunga sino ai piedi, sono
troppo intente a mantenere in equilibrio sulla testa i recipienti di zucca pieni d’acqua o di miglio. Analou ci incita a non
perdere tempo. Ancora diverse ore di marcia ci separano da T irely, la tappa del trekking.
Attraversiamo l'arida savana striata da piccoli campi di mais o sorgo, completamente bruciati dal sole impietoso.
Qualche tratto è più verde, in prossimità di grandi pozze d’acqua stagnante ed allora si trovano cotone e cipolle. Nelle
pozze si agitano i piccoli coccodrilli, sacri a questa gente. Finalmente ecco T irely. Sembra identico al primo villaggio; le
case ed i granai ammucchiati l’uno sull’altro spuntano dalla roccia come funghi e sono tutti in vista come una folla su una
grandinata. In alto, sulla liscia parete della falesia, grosse caverne con costruzioni cilindriche: sono le antiche abitazioni
Tellem, oggi usate dai Dogon come depositi di miglio e come cimiteri. l Dogon giunsero qui nel X-Xlll secolo d. C.,
provenendo dall'imprecisato Mandé.
L’attuale savana era una foresta, percorsa dai Tellem e dai mitici pigmei rossi Andoumboulou, entrambi popoli
cacciatori e raccoglitori che vivevano nelle alte caverne, al riparo dalle bestie feroci. l Dogon, agricoltori e guerrieri,
abbatterono gli alberi costringendo così i predecessori a migrare verso le foreste dell’Alto Volta.
Scomparsa la fitta vegetazione scomparvero anche le belve, ma la pantera sembra ci sia ancora, e così i Dogon
poterono scendere dalle caverne troppo impervie e costruire i villaggi sulla più agevole scarpata rocciosa, evitando di
occupare spazio coltivabile. Antiche leggende però affermano che i Dogon provengono dalla stella Sirio.
Sebbene l'uso del calendario non sia per niente diffuso ed abbiano un ciclo settimanale di 5 giorni legato all’alternarsi
dei mercati, certe cognizioni astronomiche che questo popolo possiede da secoli ci lasciano per lo meno interdetti. Per
esempio, raccontano che Saturno ha un anello (che pero è invisibile a occhio nudo), che la luna è arida e morta e che Sirio
ha una compagna piccola e buia ma molto pesante, e Sirio B la nostra scienza l’ha scoperta soltanto nel 1862 con il
telescopio dell’americano Alvan Clark.
Un anziano si avvicina ad Anna, le libera il polso dalla fascia, due gesti velocissimi sull’arto mentre biascica poche
parole a bassa voce: il polso è guarito, «médecine Dogon» sentenzia secco e se ne va.
Non abbiamo il tempo di stupirci che dei giovani ci portano una zucca piena di dolo, la birra di miglio fermentato. Un
gruppo di adulti ne sta bevendo fino ad ubriacarsi, poi corrono tutti nella caverna sotto il T ogu Na.
Ogni villaggio Dogon è diviso in quartieri ed ogni quartiere ha il suo Togu Na, luogo sacro, struttura di socializzazione
della comunità. Qui gli uomini si riposano, gli anziani prendono decisioni ed offrono sacrifici agli spiriti; le donne non
possono accedervi.
Dalla caverna escono quindici-venti uomini che indossano maschere di legno e, sopra i pantaloni neri, dei gonnellini di
fibra rossa. Si dispongono in cerchio sulla piazza pubblica retrostante il T ogu Na,
Il Togu Na rappresenta una struttura comunitaria del popolo dogon del Mali. Al momento della fondazione d’un villaggio, il primo edificio che viene costruito per ogni
quartiere è il Togu Na. Molteplici funzioni si svolgono al riparo del togu na: la giustizia civile e di costume, la definizione del calendario agricolo, gli interventi di
emergenza (carestie, epidemie, calamità naturali), decisioni amministrative. Inoltre il togu na è luogo di riunione e incontri, di lavoro e di insegnamento, di riposo e di
conversazione. Togu significa riparo, na significa grande o madre, per cui il Togu Na è il “grande riparo”, il “riparo madre”; i Dogon lo indicano anche come “casa
della parola” (la parola pronunciata nel Togu Na assume valori ed importanza che la differenziano da ogni altra). Il Togu Na rientra sempre in dimensioni tali da
permettere che la parola espressa in tono calmo e normale possa raggiungere chiunque sieda sotto al grande riparo. Ulteriore dato unificante tra tutti i Togu Na è la
ridottissima altezza dello spazio interno abitabile che impedisce all’uomo di rimanere in piedi.
attorno all’enorme baobab che per il Dogon simbolizza la ·«grande famiglia». Vi è una maschera, la kanaga,
sormontata da una specie di «croce di Lorena», unione del cielo con la terra; il sirige, alta fino a 5 metri, che rappresenta
la casa familiare con 24 nicchie, tante quanto i primi antenati; la maschera peul la donna del nemico, alta sui trampoli
rudimentali, i seni di legno e adorna di strisce di cauri, le conchiglie un tempo usate come moneta.
T utto il paese è raccolto attorno alla sacra piazza, gli uomini da un lato, le donne alla loro sinistra, la parte impura.

Due ore incessanti di danze ritmate dai tam-tam, tra figurazioni che narrano tutta la cosmogonia Dogon, la stessa che il
cacciatore cieco Ogutemmeli rivelò a Griaule in 33 giorni. Alla fine le maschere, ebbre di birra e di musica, trovano
l’unione spirituale con gli antenati, l’unico vero scopo di queste danze, come anche di tantissimi altri riti che scandiscono
la giornata Dogon.
Niente è casuale nell’animismo di questa gente: ogni oggetto, ogni forma, ogni numero ha la sua anima, la sua storia ed
il suo motivo d’essere. L’importante è porsi in sintonia con tutto il creato ed emarginare gli spiriti maligni.
Molti pregiudizi sono caduti lungo questo viaggio e molto abbiamo da imparare dai Dogon, come anche da ogni popolo
del Mali, questo stupefacente paese dai mille volti.
Itinerario in Mali
Patrizia Galardi

Il viaggio

Il Mali offre molto da vedere, almeno a chi è interessato alla cultura dei popoli e alle loro tradizioni. Oltre all’etnia
Dogon, una delle più straordinarie e vive, sono molti i gruppi che si incontrano lungo il cammino, sia nomadi che stanziali:
i Bambara, i Bozo, i Peul, i T uareg, i Songhai, i Malinké, i Sarakolé, ognuno con le proprie caratteristiche culturali e
somatiche, ognuno con le proprie peculiarità e la propria storia.
L’itinerario si svolge prevalentemente nella parte sud, snodandosi su un percorso lineare che da Bamako risale fino a
Hombori. La pianificazione è vincolata da un appuntamento irrinunciabile: il grande mercato del lunedì a Djennè.

Tappe fondamentali

Il trekking sulla Falesia di Bandiagara, dove sono insediati i numerosi villaggi Dogon. Il trekking tra i Dogon è
probabilmente il clou di questo itinerario. In totale si percorrono circa 40 Km in quattro giorni, procedendo su un
altipiano che offre scorci magnifici. La difficoltà è poca, non ci sono passaggi critici; dove c’è un dislivello,
sopperiscono le “ scale Dogon”. L’ultimo giorno è un poco più impegnativo, poiché sale verso Yendouma
permettendo di godere la vista della vallata sottostante. Si può in ogni caso aggirare la salita mantenendosi a
mezza costa (e perdendo però il panorama).
Djennè, con il suo famoso mercato, il suo centro urbano e la moschea (patrimonio Unesco), costruiti con adobe,
i mattoni di fango. Interessanti anche i villaggi etnici di Serimou e Senoussa
Mopti, con il suo porto e il mercato adiacente, vero crocevia di merci disparate.
La navigazione sul fiume Niger in pinasse, con le soste ai villaggi dei pescatori Bozo insediati sulle rive.
L’escursione alla Main du Fatma, nei pressi di Hombori, nella zona sahariana verso il confine con il Niger
La città di Segou, fortemente identitaria, e i suoi dintorni, il villaggio archeologico di Segou Koro e
Kalabougou, il villaggio dei ceramisti: quasi tutta la ceramica prodotta nel paese viene lavorata qui
Per ragioni di sicurezza, non abbiamo potuto visitare T imbouctou.

Cultura e situazione sociale

Il Mali è un paese di grande ricchezza etnologica, con tradizioni molteplici e tuttavia ben integrate. Il museo nazionale
di Bamako, uno dei più belli dell’Africa, conserva opere d’arte che risalgono ai periodi degli imperi del Mali e Songhai, ed
espressioni di arte e artigianato recenti.
Il senso di identità nazionale è ben radicato, dopo essersi sviluppato negli anni del difficile cammino che
dall’indipendenza della Colonia francese ha portato alla costruzione di uno Stato laico e democratico, governato da un
presidente filantropo, Amadou T oumani T ouré, che è amatissimo dai suoi cittadini.
Purtroppo il Mali è un paese assai povero, con uno dei redditi pro capite più bassi del mondo e con una economia
basata sull’agricoltura, la pastorizia e la pesca, che non basta a produrre risorse alimentari sufficienti e a prezzo
accessibile. Il turismo, pur non così sviluppato come in altre regioni africane, sta diventando una fonte di reddito sempre
più importante, e sebbene sia ancora in mano a pochi, vi sono segnali di cambiamento. E’ incoraggiante vedere piccole
realtà familiari che prendono campo. Se deciderete di stare a Sevarè presso la deliziosa pensione I Dansse, toccherete con
mano un esempio: Selif e la sua famiglia, che hanno vissuto in Italia per quindici anni, vi racconteranno la loro storia e le
loro idee sul futuro, all’ombra del rigoglioso giardino su cui si affacciano le stanze.
L’accattonaggio e l’assalto dei bambini che chiedono cadeau, possono diventare un elemento difficile da gestire, sospesi
come siamo tra la naturale empatia, la vergogna delle nostre coscienze e la razionalità che ci impone di non cedere a
richieste ossessive, che alimentano la spirale dell’emarginazione e allontanano i ragazzi dalle scuole o dalla ricerca di
un’occupazione dignitosa.
Che dire? Ognuno la pensa come vuole e ognuno ha la sua sensibilità. Io credo che sia giusto dare con buonsenso, ma
non tanto e non solo oggetti o caramelle. Questi bambini che crescono per strada, e crescono troppo in fretta, hanno
bisogno di riconoscimento e affetto. Insegnare un gioco semplice, come “ batti il cinque”, fermarsi a parlare con loro e
ascoltare le storie che hanno da dire è la cosa più importante di tutte.
In ogni caso è meglio consegnare doni ed offerte ai Capi dei villaggi e alle scuole piuttosto che darli individualmente: i
bambini si azzuffano e va a finire che chi è più prepotente si piglia anche la parte degli altri. E’ uno spettacolo triste,
degradante e diseducativo. Indumenti, materiale scolastico, giochi, prodotti per l’igiene personale sono utili e graditi.
Il Mali è un Paese a grande prevalenza musulmana (circa il 90% della popolazione), ma non un Paese integralista. Non
ci sono particolari restrizioni per l’abbigliamento; nonostante la storica diffusione dell’islamismo, l’Africa vera non ha
timore della naturale nudità dei corpi. Nei villaggi è ancora frequente incontrare donne a seno nudo, e dovunque ragazze
con le braccia e le spalle scoperte. La parte inferiore del corpo femminile non è mai esibita, quindi meglio evitare
calzoncini troppo corti.

Fotografia

Il Mali è un Paese assai fotogenico; i suoi colori, la bellezza dei suoi abitanti, l’eleganza delle donne e le scene di vita
quotidiana, arti e mestieri, vi chiameranno a scattare a ripetizione. Attenzione, però: i maliani sono di buon carattere, ma
non amano essere fotografati. Quando accettano, in genere vogliono qualche spicciolo. Più spesso si rifiutano, e se si
accorgono di essere ripresi a loro dispetto, si inalberano anche violentemente. In un paio di occasioni la Polizia ha
minacciato di sequestrare la macchina a un compagno particolarmente intemperante. Usare sempre molto tatto e
rispettare il diniego, in Mali vale ancora più che altrove.

Dormire e mangiare

Si dorme in alberghi discreti nelle soste a Bamako, Segou, Sevarè, Djennè, Mopti, Hombori.
Durante il trek Dogon si dorme nei “ Campement” in tenda. I campement dispongono di bagni e docce, e punti di
ristoro, dove si può acquistare da bere e anche mangiare qualcosa. Le tende vengono montate sul tetto dell’edificio.
Durante la navigazione sul Niger si dorme in tenda, campeggio libero. Il cibo, come sempre non è un problema. Ci sono
ottimi ristorantini, e durante il giorno ci si può facilmente arrangiare con il cibo da strada (banane, qualche spiedino,
pannocchie, dolcetti). La cucina è povera e monotona. I piatti tipici: carne grigliata o in salsa (pollame, vitello e ovini),
pesce del Niger (ottimo il Capitaine ),
Pesce persico del Nilo diffusissimo nei principali fiumi africani compreso il fiume Niger.
riso, cous cous.

Il diario del viaggio

Bamako - Se gou (villaggio Se gou Koro)


Partenza calma, alle 10.00. Non avendo l’obbligo di tirare fino a Djennè per il mercato - come di solito succede ai
gruppi che volano di sabato - ci riposiamo un po’. Fatta colazione, sistemato il cambio con Amadou, presa la bombola,
verificato che non necessita il riduttore, preso atto che Boubacar è trattenuto e non può accompagnarci… Si sale sul
pulmino. Primo impatto con la caligine di Bamako, una città grande, ma di dimensioni non mostruose, brutta, ma meno
brutta di altre capitali africane. Incasinata, avvelenata e sudicia, ma meno peggio dello standard africano, per non dire di
quello asiatico. Scopriremo solo alla fine che Bamako vale la pena di essere vista.
Prima sosta per acquistare acqua e un po’ di viveri che per cucinare, come l’olio. Seconda sosta al pagamento pedaggio
e posto di polizia, dove l’autista deve vidimare il permesso. Ci abitueremo a queste soste ogni volta che entreremo in una
diversa municipalità.
La strada corre maledettamente uguale; superato il primo tratto verde della foresta di La Faya, inizia il brousse
Il termine, letteralmente, sta a significare “Savana” anche se viene generalmente utilizzato per indicare tutto ciò che è al di fuori di qualsiasi agglomerato urbano.
popolato di acacie e baobab, che ci accompagnerà per un buon tratto del nostro percorso. Un gruppo di T uareg a dorso
di cammello ci incrocia e così le macchine fotografiche escono dalle custodie. Autorizzati a scattare previo cadeau; anche
questo diventerà un refrain: niente spiccioli, niente foto. Alle 16.00 siamo a Segou; Mamadou ci trova e decidiamo per
l’escursione a Segou Koro, il vecchio villaggio a 15 Km. Prima immersione nell’atmosfera locale, primo bagno di folla e di
bambini che ci accompagnano per i vicoli sterrati, ci offrono il burro di karitè, ci chiedono bon bon e penne, e soprattutto
si divertono per la novità; qui non capita tutti i giorni di vedere tanti Toubab (è così che loro chiamano gli stranieri
bianchi).
Donne intente a macinare il miglio con i bastoni, o a vendere il poco pesce pescato dalle barche dei mariti.
Si rientra al crepuscolo, in tempo per vedere le ultime vendite e lo smontaggio dei banchi del mercato di Segou, che si
tiene il lunedì. L’escursione è molto piacevole, uno spaccato di vita quotidiana. Segou Koro ha due piccole e pregevoli
moschee di fango.
Se gou (e scursione Kalabougu) - San - Se varè
Partenza alle 8.00. Si naviga in pinasse
La pinasse è l’imbarcazione a motore tradizionale, di forma allungata, con una copertura robusta che ripara dal sole e da eventuali piogge. Il bagaglio viene
ammassato in parte a prua e in parte a poppa. I passeggeri hanno a disposizione tutta la parte centrale dove generalmente è posto un tavolo. Nei momenti più caldi
della giornata si può, a turno, arrampicarsi sulla copertura per prendere il sole o ammirare il panorama da una posizione più favorevole. La poppa è occupata dalla
"cucina", e dalla zona "macchine" dove sostano e lavorano i pinassieri. La toilette, quattro pareti di legno con buco al centro che scarica direttamente nel fiume, fa
parte della poppa estrema, ed è posta in una zona isolata dal resto della barca.
sulle sponde del Niger, il cui letto non ha ancora raggiunto la vastità che vedremo più a nord. E’ una piacevolissima
crociera di circa un’ora e un quarto che invita a distendersi allontanando i pensieri. Non resta che abbandonarsi e
assaporare il momento, ascoltando i rumori, seguendo con lo sguardo gli uccelli acquatici che si alzano in volo tra una flora
rigogliosa, e lo sciabordio tranquillo dell’acqua che batte sulla chiglia.
Prima di raggiungere il villaggio, è necessario cambiare l’imbarcazione, percorrendo a piedi un breve passaggio ed
evitare un tratto non navigabile. Se siete fortunati vedrete le mandrie di vacche al guado nel punto in cui le lingue di sabbia
sbancata dalle rive avvicinano le due sponde.
Kalabouglou è un villaggio peculiare, la cui popolazione è completamente dedita alla lavorazione della ceramica. Il
ciclo completo, dall’impasto alla cottura, alla decorazione, è visibile durante la visita. Piuttosto impressionante
l’efficienza di questo metodo artigianale che si ripete immutato da centinaia d’anni. Kalabougou è però interessante per le
scene autentiche di vita quotidiana, che prosegue indifferente della presenza dei pochi turisti.
Rientro all’ora di pranzo; il bus ha due gomme fuori uso e si deve aspettare un po’. Si parte alle 13 circa. Il ritardo
comporta l’arrivo a Sevarè in tarda serata, alle 19 circa. La pensione I Dansse e il suo proprietario, Selif, ci accolgono con
calore. La cena nel bel giardino su cui si affacciano le camere scorre insieme alla conversazione, in un perfetto italiano con
leggera inflessione toscana. Un incontro interessante per capire qualcosa di più, imparare qualcosa sul luogo nel quale ci
troviamo e sulla sua gente, per ricevere consigli preziosi.
Se varè - Bandiagara - Dourou: iniz io Tre k Pays Dogon: Dourou - Nombori
Partenza alle 8.00, dopo avere selezionato il bagaglio da trek e lasciato il grosso a Selif. Sosta per l’acquisto del pane,
dell’acqua e delle provviste fresche per il trek (cipolle, pomodori, patate, noci di cola, etc.). Da Bandiagara a Dourou, dove
inizia il cammino, non ci sono più di 20 Km, ma il tragitto con il nostro pulmino richiede più di un’ora, tanto la strada è
accidentata.
Arriviamo all’ora di pranzo, e, come tutti, ci sediamo nel ristorantino all’aperto di Dourou per un passaggio di cous
cous. Aspettiamo che la canicola di mezzogiorno allenti la presa; ci incamminiamo alle 15 per percorrere i primi 6 Km del
trek Dogon, che ci porteranno al campement di Nombori. Il percorso è superbo, con una discesa spettacolare lungo i
gradoni di roccia rossa di una gola spettacolare, sotto la quale si stende la pianura che affianca la falesia. Lo sguardo spazia
verso l’infinito e abbraccia il territorio sottostante fino a un orizzonte lontanissimo.
Si scende a valle e poco dopo si incontrano gli orti coltivati alle propaggini del villaggio, la piazza centrale con il
pozzo e infine il campement. Prima esperienza di montaggio tende sul tetto e prima sera di cucina fai da te. Ci lanciamo in
una pasta alla Norma che ci fa consumare un bel po’ delle provviste di olio causa frittura a immersione delle melanzane,
ma il risultato è proprio egregio.
Tre k Dogon Nombori – Kombokani – Tire li
Sveglia alle 6.00 e pronti a muovere alle 7.00. La prima esperienza di smontaggio campo risulta un po’ complicata a
chi non è molto abituato con la tenda, ma con il tempo la situazione migliorerà.
Prima di raggiungere Kombokani si passa per Idely; alle 12.00 siamo a T ireli. La passeggiata è in piano, al bordo della
falesia; quando si raggiungono i villaggi, ci si inerpica all’interno degli stretti passaggi tra le tipiche case Dogon, per poi
riscendere e riprendere il cammino. Prima vera osservazione dell’architettura tipica, delle famose porte, dei Togu Na.
Primi incontri con la gente, in continuo e laborioso cammino, soprattutto le donne, che si fanno maggiormente carico
delle fatiche domestiche e del lavoro.
Nel pomeriggio ci aspetta lo spettacolo delle danze, che dura poco meno di un’ora: T ireli è uno dei posti migliori (forse
il migliore). Gli artisti sono bravissimi, si lanciano in uno spettacolo mozzafiato che lascia a bocca aperta anche i più
esigenti ed esperti viaggiatori. Le danze vengono tradizionalmente eseguite durante le cerimonie funebri e rappresentano la
complicata cosmogonia Dogon. Al di là dello spettacolo a pagamento, una volta l’anno la danza è eseguita come
cerimonia collettiva per i morti del villaggio.
A proposito di danze Dogon. La varietà delle maschere e dei costumi è molto ampia, e la fattura pregevole. I danzatori
Dogon sono conosciuti e periodicamente fanno tournée all’estero. In sostanza, anche se il costo può sembrare alto, non
perdete lo spettacolo. Oltre a godere di un’esperienza unica (che aumenterà parecchio il valore delle vostre foto),
contribuirete al mantenimento e all’arricchimento di questa grandiosa espressione di cultura popolare.
Nel pomeriggio si visita il bel mercato di T ireli, così pieno di colori e di movimento.
In serata, ci attende una sorpresa. Un’associazione locale ha allestito una festa con balli non stop che coinvolge e
travolge tutto il villaggio, fantastico!
Tire li - Amani - Ire li - Banani - Koundou
Partenza alle 7.30, 15 km di cammino in pianura, con fondo a tratti sabbioso. Prima sosta ad Amani, con vista dello
stagno che ospita i coccodrilli sacri. Poi Ireli e Banani, dove si sosta per il pranzo: i carretti ci precedono e ci aspettano al
“ bar” del villaggio, che dispone di una bella area di sosta con tanto di tettoia e tavoli. Solita sosta pomeridiana per evitare
le ore più calde. In marcia di nuovo alle 15.00 per Koundou, dove ci sistemiamo al campement, uno dei migliori: bagni e
docce a posto.
Koundou - Youga nah - Youga douro - Youga piri - Ye ndouma
Partenza alle 7.30. Un lungo tratto di pianura e sabbia fino a Youga Nah. Da qui inizia la salita sulla falesia (circa 350
m di dislivello) fino a Youga Douro, sul limite del crinale; è qui che si celebra ogni 60 anni la festa di Sigi. La prossima sarà
nel 2027. Si prosegue camminando per circa un’ora sull’altipiano di basalto della falesia, arido e desolato. Un paesaggio
lunare che ricorda l’Atlante o il Far West. Si giunge a Youga Piri per il pranzo, simpatica locanda che mette a disposizione
materassi per pennica pomeridiana sotto la tettoia; non ci rifiutiamo. Un’altra ora di cammino e siamo a Yendouma.
Giorno di mercato, breve visita e poi sosta al bel campement. Ultima notte tra i Dogon.
Fine Tre k Dogon Ye ndouma - Sangha - Bandiagara - Se varè - Dje nnè
E’ il giorno del trasferimento a Djennè. Da Yendouma si esce con le 4x4, il tratto di strada fino a Sangha non è
percorribile con il pulmino. Partenza alle 7.30. Dopo due ore circa siamo a Sangha, l’ultimo villaggio Dogon, al limite
nord della falesia di Bandiagara. E’ un villaggio grande e atipico, l’architettura Dogon ha già lasciato spazio a una struttura
urbana e architettonica molto diversa, per quanto antica e bella. Acquisti alle boutique locali, ben fornite.
Un’altra ora di marcia e siamo a Bandiagara, lungo una pista sconnessa, rossa e accidentata. Sosta pranzo al Via Via:
servizio lentissimo che ci fa perdere del tempo prezioso. Arriviamo all’imbarco del bac (traghetto) per Djennè dopo
un’ora e mezza. Lasciamo i bagagli in hotel e ci godiamo un primo assaggio di questa straordinaria città dall’architettura di
fango. Incontriamo Mohammed, il ragazzo che ci farà da guida e che ci fornirà i servizi per l’escursione di domani a
Serimou e Senoussa.
Dje nnè - visita città, me rcato e villaggi Se noussa e Se rimou
Alle 8.00 partiamo per la visita guidata, insieme a Mohammed.

Djennè è un luogo senza tempo, città santa e città di mercato. Città di traffici, di genti in movimento, di bimbi lasciati
alle scuole coraniche da famiglie che non possono crescerli. Molti i luoghi della suggestione: vicoli, finestre decorate con
intagli ricamati, cortili, e bambine e donne che tirano l’acqua dai pozzi e portano anfore sulla testa. Quel difficile
equilibrio, unito al peso, le fa procedere con un portamento flessuoso che le rende così eleganti! E poi la Grande Moschea.
La si vede da tutti gli angoli della città, da qualunque tetto o terrazza; è un miracolo di architettura e di forme, così scarna e
sobria nei suoi colori e nei suoi decori.
Il grande mercato è un tripudio di colori, di suoni, di cibi, di bizzarrie: una immersione totale nell’Africa, un bagno di
umanità. Pomeriggio: escursione con i carretti tirati da asinelli a Senoussa e Serimou, due villaggi delle etnie Senoufa e
Bozo. Senoussa dista un’ora di strada da Djennè, possiede due belle moschee.
Serimou si raggiunge traghettando il fiume ed appare come una visione sull’altra sponda. Non perdetela, molti gruppi
limitano il giro a Senoussa, ma Serimou vale la pena di essere vista. Dista solo mezz’ora da Senoussa. In entrambi i villaggi
siamo scortati dai bambini che ci fanno ala, ci prendono per mano, vogliono le caramelle e vogliono giocare. Soprattutto,
vogliono giocare.
Dje nnè - Konna - iniz io navigaz ione Nige r fino Lac De bò
Partenza alle 8.00. Ci viene comunicato da Amadou che ci sarà qualche problema con la pinasse, che non è pronta.
Avremo un po’ di ritardo nella partenza. Alle 9.00 si traghetta con il bac e ci incamminiamo in direzione di Konna,
sapendo già che dovremo fermarci a Mopti per prendere il carburante. C’è mercato a Senofa, lungo la strada e facciamo
una sosta. Primo passaggio a Mopti per il prelievo carburante, e poi finalmente a Konna. Mentre i pinassieri riempiono il
serbatoio e preparano l’imbarcazione, ce ne andiamo a comprare la cena, o meglio, quello che serve per cucinare il
capitaine, che ci procureremo dai pescatori in qualche villaggio lungofiume. E così mi avventuro con uno dei ragazzi
dell’equipaggio in questo centro disordinato e caotico, ricco di bottegucce e cortili interni dei quali mai avrei immaginato
l’esistenza. Compriamo tutto, olio, riso, ortaggi e pure le fascine di legna. Alle 14.00 possiamo finalmente salpare, non
dopo avere ammirato il guado di una numerosa mandria di mucche. La pinasse è confortevole, il fiume scorre lento e
gonfio, rive distanti e piatte, orlate di un verde brillante che interrompe la monotonia del celeste, pallido e quasi identico
tra acqua e cielo. Qualche pinasse-merci, piena di nasse, reti, casse di alimenti, ci incrocia lenta. Il ritmo è dilatato, il
tempo sospeso. E’ bello abbandonarsi in questo languore, lasciarsi riscaldare dal sole e cullare stesi sul tetto, in assenza di
pensieri. Lo sguardo vaga sui villaggi che, radi, punteggiano le sponde del Niger, questo grande, generoso fiume. Una sosta
a un minuscolo villaggio Bozo per comprare il capitaine; i pinassieri ci prepareranno una buona cena, una delle migliori.
Siamo partiti in ritardo, l’oscurità ci coglie prima di giungere al luogo scelto per l’accampamento, una suggestiva lingua
di dune sabbiose presso il villaggio di Djijo, sul Lac Debò.
Ci arriviamo alle 19.15, il freddo è pungente. Al buio si montano le tende, qualcuno decide di dormire con il sacco a
pelo a bordo della pinasse.
Il cielo stellato è superbo, con decine di stelle cadenti.
Navigaz ione Nige r Lac De bò - Mopti
Sveglia alle 4.30, intirizziti. Si smonta in fretta il campo, ci si ripara nella pinasse per scaldarci con un caffè bollente.
L’alba non arriva che dopo un’ora; con il sorgere del sole la sensazione di gelo si scioglie, finché il tepore comincia a farsi
sentire attraverso la pelle. Ancora il grande fiume, immutabile, uguale, una visione che si ripete senza diventare noiosa.
C’è qualcosa che cattura nell’osservare questa vita silenziosa, questa oasi verde, popolata da una gran varietà di uccelli
acquatici. Stiamo risalendo verso Mopti, a Djijiò abbiamo invertito la rotta.
Compiamo tre soste: un piccolo villaggio Bozo, il cui nome non è registrato sulle carte, e poi Saba e Tongorongo, due
centri più popolati e strutturati. Entrambi dispongono di belle costruzioni; davvero degna di nota è la moschea di fango di
Saba. Ovunque bambini in festa ci accolgono, ci assaltano, ci pigliano per mano e chiedono le foto.
Rientriamo a Mopti alle 16.00; si noleggia un carretto per trasportare i bagagli fino all’Hotel. Il pulmino ci raggiungerà
laggiù.
In ordine sparso ci godiamo la visita del porto e del mercato permanente che si snoda lungo la banchina sinistra,
scoscesa e punteggiata di rifiuti multicolori, e nelle straducce adiacenti. Mopti è una città in fermento, il centro nevralgico
dei commerci. Qui arrivano i blocchi di sale tagliati a mano da T imbouctou e dalla miniera di Taoudenni, qui ci sono i
cantieri che costruiscono le pinasse.
Una visita alla moschea (solo l’esterno è consentito), un aperitivo al bar Bozo, dall’altra parte del porto. Si può
attraversare il tratto di fiume che separa le due sponde facendosi traghettare da una qualunque imbarcazione, al prezzo
modico di qualche decina di CFA.
Mopti - visita città e me rcato - Doue ntz a - Hombori
Al mattino si prosegue il giro della città; abbiamo grandi aspettative per questo mercato del giovedì. In realtà, nessun
abitante del luogo sembra farci troppo caso. Il mercato a Mopti è permanente, il giovedì c’è solo un maggior afflusso, in
specie, merci di consumo poco interessanti, come abbigliamento e calzature. Il mercato delle spezie, del pesce essiccato e
degli altri alimenti rimane più o meno fisso sulla banchina. Acquisto del peperoncino da un vecchio incanutito che non
parla francese, e nemmeno ci vede, forse per via della evidente cataratta che gli appanna le pupille. Fate attenzione con le
foto, le persone, anche qui, non amano essere riprese (e non è solo una questione di mancia).
Alle 10.30 siamo in marcia verso Douentza e Hombori. Una lunga strada diritta e assolata, il fondo a tratti sconnesso.
Ci vogliono circa tre ore per raggiungere Douentza, un luogo insignificante.
Il paesaggio comincia a cambiare poco dopo. Fenomeni di erosione hanno scolpito nei secoli i monumenti di calcare e
di rossa arenaria che si stagliano imponenti contro un cielo azzurro intenso. E’ vero che un po’ ricorda la Monument
Valley, anche se lo scenario è assai diverso, non fosse altro che per le acacie che tappezzano la radura e conferiscono al
paesaggio un inconfondibile carattere africano. Dopo altre due ore siamo alla formazione rocciosa detta “ La main du
Fatma”, nei pressi di Hombori.
Ce la guardiamo ben bene e la fotografiamo con la luce calda del pomeriggio.
Si raggiunge poi il villaggio e l’alberghetto scelto per la notte, il Mangou Bagni. Facciamo in tempo a visitare il
villaggio storico di Hombori, insieme a Ousmane, la Guida reclutata al Mangou Bagni.
Costruzioni di pietra antica, cortili, soliti aneddoti e leggende del villaggio, vita quotidiana: vecchi e bambini, calcio
giocato in uno spiazzo polveroso e limitato da un acquedotto costruito da una delle tante ONG, un solo pallone e venti
ragazzini.
Un paio di noi hanno preferito andare a sciare sulle dune di sabbia. La solita guida organizza il trasporto in motorino e
noleggia vecchi sci.
Dopo cena in compagnia della gente del posto, quasi tutti di etnia Songhai; il Mangou Bagni è un luogo di ritrovo.
Chiacchieriamo. Scambiamo indirizzi e telefono con qualcuno; con Ibrahim ci scriviamo ancora sms e ogni tanto ci
sentiamo.
Hombori è un villaggio atipico, l’ultima frontiera nord che si può raggiungere in Mali dopo l’interdizione della regione
di Gao. E’ poco visitato dai viaggiatori, ed è un peccato. Questa zona, privata del turismo, è diventata particolarmente
povera. Se volete lasciare materiale scolastico o altri generi in beneficenza, rivolgetevi a Ibrahim Meicouba, un ragazzo
sveglio che parla inglese (ci tiene molto a praticarlo) e si interessa della scuola.
Hombori - Doue ntz a - San
In marcia alle 8.00, percorrendo a ritroso lo stesso itinerario. Sosta pranzo a Seni, uno degli anonimi e polverosi
villaggi seminati ai bordi di questa strada che taglia il paese lungo la sua linea mediana, da nord a sud. Si arriva a San alle
17.00. L’albergo Terya, anonimo anche se accogliente e moderno, è fuori centro. A piedi si percorrono i dintorni, grigi e
privi di qualunque interesse, non fosse per qualche camion o taxi brousse stracarico di bagagli colorati che avanza
caracollando e tossendo.
San - Bamako
Al mattino si visita la moschea di San, unico monumento che valga la pena di vedere in questa città.
Ci mettiamo in marcia per Bamako, spezzando il lungo tragitto con una sosta alla scuola Bogolan di Segou. Il Bogolan
è una tecnica di pittura su stoffa ottenuta con elementi naturali (terre, vegetali), tipica dell’etnia Bamabra. Alla scuola ci
hanno mostrato come si esegue una decorazione Bogolan, ci hanno spiegato la simbologia dei disegni, e, infine, ci hanno
fatto provare a dipingere. Ognuno si è portato via il proprio capolavoro. Naturalmente la scuola dispone di un emporio
che è d’obbligo visitare (ha belle cose a prezzi fissi). Devo dire che ho trovato la visita interessante, anche se prettamente
turistica… Ma perché bisogna per forza aborrire tutto ciò che è riservato ai turisti? A volte ci sono buone iniziative che
favoriscono l’economia locale.
Bamako
Abbiamo pagato il pulmino per la giornata di oggi, che inizia con la visita al grande mercato. Si inizia da quello di
medicina tradizionale, detto anche “ degli sciamani”. Davvero curioso, con i talismani più assurdi: teste mummificate di
mammiferi, rettili, chiocciole, conchiglie, piante secche, droghe. Guai a fotografare (si può se si sborsa davvero un fracco
di quattrini).
Nei pressi, il bazar coperto ospita il più tranquillo mercato artigianale. E’ piacevole girovagare tra le viuzze e i cortili
di questa bella costruzione. Vi trovate un suq diviso per genere: scarpe, pelletteria, gioielli, maschere e souvenir di ogni
tipo.
Il mercato continua all’esterno con una grande area dedicata all’abbigliamento e un’altra riservata agli alimenti.
Si prosegue con la visita al museo di Bamako, uno dei più belli dell’Africa. E’ situato sulla collina di Kouluba,
all’interno di un orto botanico assai bello. La collezione non è grande, ma comprende bei manufatti lignei che
rappresentano l‘espressione artistica delle etnie principali. Periodicamente il museo ospita esposizioni di vario genere; al
momento c’è una bella mostra sui tessuti. Il pomeriggio finisce con una passeggiata lungo il fiume; il grande Niger è stato
davvero il fil rouge di questo viaggio; ci ha accompagnato affiancando il nostro percorso e cullandoci sulle sue acque pigre.
Ci prepariamo alla partenza. Fiato sospeso fino all’ultimo: non sappiamo se il nostro volo T unis Air con scalo a T unisi
partirà, visti i disordini appena scoppiati in T unisia. Poi la conferma, e alle 20.00 siamo in aeroporto. Cominciano gli
annunci di ritardi progressivi: alla fine il volo sarà posticipato fino all’indomani mattina.
Ci sistemiamo all’addiaccio con i nostri sacchi a pelo.
Bamako - Italia
Partenza alle 10.00 e arrivo a T unisi nel primo pomeriggio. Il personale della T unis Air fa miracoli per sostenere una
situazione di caos totale e imprevisto. Sguardi smarriti, stanchezza evidente nei visi stravolti. I negozi hanno tirato i
bandoni, il bar è preso d‘assalto e ormai privo di scorte.
Ci rassegniamo all’attesa, cercando di capire prima possibile quando partirà il volo per Roma. Nel frattempo tutte le
coincidenze con voli interni e treni sono saltate e dobbiamo riorganizzarci.
Finalmente a Roma!
Mali - Dogon: analisi su un paese denso di contraddizioni
Franco Sarcinelli
Un viaggio può servire a misurare la distanza tra il proprio immaginario e la realtà esterna e a riempirne il vuoto con
l’insieme denso e contraddittorio di immagini, sensazioni, parole, colori che durante il suo svolgimento si depositano nel
proprio patrimonio di esperienze. Per poi tirar fuori dal magazzino di ricordi une selezione filtrata di impressioni e giudizi
- spesso totalmente differenti da quelle degli altri compagni che hanno condiviso lo stesso repertorio di elementi. Quindi è
molto soggettiva la categoria che ho filtrato e privilegiato come sintesi di questa esperienza; la contraddizione, forse
derivata da antiche e ormai ripudiate consuetudini hegeliane.
Ma quali contraddizioni? In primo luogo l’impasto variato di popolazioni, tradizioni culturali, modi di vita differenti. Il
Mali è uno Stato ma fatto di tante nazioni, in quanto unità geo-antropiche: i Bambere agricoltori della pianura attraversata
dal Niger, i Peul pastori dell’altipiano, i Bozo pescatori del fiume, i Dogon abitatori della fascia abbarbicata alla “ falaise”, i
T uareg delle parte meridionale del deserto, infine i Senoufo del sud del paese.
L’occhio non esercitato coglie solo alcune delle differenze - le più evidenti tra queste differenti realtà, e in pochi giorni
non è possibile acquisire gli strumenti per coglierne quelle meno appariscenti ma più significative - le differenze culturali,
economiche, di storia, di linguaggio, di visione della vita.
Seconda contraddizione: l’impressione apparente, consolidata dalle immagini colte ovunque, è di ritrovarsi in un paese
immobile, fuori dal tempo, non toccato dal fluire tumultuoso della storia. Il presente non sembra il prodotto dl una
evoluzione ma l’inizio di uno svolgimento che non c’è mai stato. Eppure, leggendo e parlando con qualcuno del posto che
sa le cose emerge una verità tutta differente: si, perché già nel 1200 si era formato un grande impero, dominato dalla
dinastia dei Kella, sorretto economicamente dalla estrazione dell’abbondante oro e dal controllo delle vie carovaniere che
determinavano gli scambi tra l’Africa nera e quella araba affacciata sul Mediterraneo tagliando nei due sensi l’enorme
distesa sahariana.
Erano fioriti anche centri di cultura ed università mentre nell’anno 1982 in Mali non esiste neppure una università, ma
qualche singolo corso di laurea sparso in differenti edifici.
Terza contraddizione, la più clamorosa dl tutte: il contrasto tra la ricchezza degli abbigliamenti, la bellezza dl molti
volti, l‘allegria e la spontaneità della popolazione, la profondità delle loro credenze religiose e delle loro cosmogonie e la
presenza, talora discreta, più spesso evidente e tangibile, della fame e della miseria (gli episodi al riguardo si ripetono
durante il trekking nel paese del Dogon: i nostri rifiuti vengono scartati e mangiati - l’unto delle scatolette di carne e di
tonno aperte e già vuote è leccato e succhiato). Le pance dei bimbi sono spesso esageratamente gonfie e coronate da
forme simili a grossi tumori determinati dalla cosiddetta ernia dell’ombelico; gambe e braccia al contrario sono rinsecchite
e le teste in qualche caso esageratamente allungate segnano anomalie dello sviluppo psichico.
Un maliano conosciuto a Bamako, ci traduce in dati queste impressioni visive: 58 bimbi su mille muoiono nel primo
anno di vita, il tasso di mortalità è altissimo fino all’adolescenza e naturalmente la durata della vita media non supera i 35
anni. Il reddito annuo medio per abitante è di 100 dollari ed il dato è plausibile se si pensa che una larga fetta
dell’economia è di puro autoconsumo e quindi la produzione agricola non entra in buona parte nel conto. Egli ci aggiunge
alcune sue valutazioni sulla situazione economica generale del paese: non solo l’economia è stagnante, ma la crisi
economica importata dal mondo occidentale “ sviluppato” è disastrosa in questo paese dalle strutture fragili e dalla base
produttiva così limitata. Egli sintetizza tutto ciò con una frase efficace «Quando voi in Europa avete la tosse, noi in
Africa abbiamo la bronchite acuta». (Questa frase mi è rimasta impressa e ne ho compreso a pieno il significato quando di
recente sui giornali sono rimbalzate le notizie del disastroso esodo di milioni di lavoratori dalla Nigeria a causa della crisi
economica determinata dal calo della domanda di petrolio sul mercato internazionale). Queste contraddizioni non hanno
tolto nulla alla bellezza del viaggio. AI contrario l’hanno reso più ricco e denso dl significato per una riflessione meno
superficiale e approssimativa del solito turismo consumistico e distratto (questo vale naturalmente a seconda della
disponibilità soggettiva di desiderio di conoscenza di una realtà diversa).
La difficoltà di comprensione di una realtà così diversa è stata spesso insormontabile. Non è possibile del resto capire
una cultura che si è formata nel volgere lento di molte generazioni e di cui gli abitanti sono fieri e gelosi depositari. Del
resto, lo scopritore dei Dogon, Marcel Griaule, capitano dell’esercito coloniale francese, arrivò in zona nel 1931 e
passarono ben 15 anni prima che un «hogon», ovvero un capo-villaggio, di nome Ogolammeli lo chiamasse per rivelargli
tutti i segreti della cultura e della mitologia Dogon in un racconto che durò ben 35 giorni e che è stato raccolto da Griaule
nel libro «Il Dio d’acqua».
Per questo scatta quasi automaticamente il meccanismo per cui si cerca di «carpire» il più possibile da una realtà che ci
scorre rapidamente - troppo rapidamente purtroppo - davanti ai nostri occhi. Si cerca di “ prendere” le immagini - il clic
delle macchine fotografiche è continuo, quasi asfissiante - si compra di tutto - gli zaini si riempiono dl statuette, maschere,
serrature di granaio, collane e braccialetti, zucche decorate, strumenti musicali, stoffe colorate, copricapi da pastori e le
più incredibili altre cianfrusaglie. Per inciso, durante il viaggio mi sono chiesto perché si privilegiano sempre immagini
fotografiche ed oggetti e non ho mai trovato in nessun viaggio qualcuno che si portasse dietro il registratore per fissare su
nastro linguaggi, suoni e canti. Sarebbe stato bello per me risentire in Italia i lunghissimi, cerimoniosi, cantilenanti saluti
che i dogon sono soliti scambiarsi tra loro quando si incontrano!
Il bilancio, comunque, è positivo.
Abbiamo visto paesaggi, costruzioni, oggetti, volti umani. Abbiamo camminato per alcuni giorni sulle pianura orlata
dallo strapiombo della «falaise». Abbiamo stretto centinaia di mani, parlato e scherzato tra noi e con la gente del posto.
Un arricchimento di sé, per quel tanto che ciascuno ha voluto e potuto. Per concludere, ricordo con particolare
impressione un dialogo con l’amico africano di Bamako.
Gli avevo chiesto se la cultura dei Dogon fosse così unica e particolare in Africa rispetto alle altre, dato che così
conosciuta e apprezzata in Europa. Mi ha risposto così: «Amico, è un caso che alcuni europei conoscano i Dogon, solo
perché un francese un po' più sensibile degli altri si è accorto di loro, li ha apprezzati e li ha amati. Non capisco cosa
significhi distinguere le culture Dogon dalle altre per i suoi valori particolari. Da noi in Africa ogni popolo ha le sue
culture, i suoi miti, il suo universo simbolico. E tu che cose pretendi, di confrontare queste culture tra loro e poi farne la
classifica?».
Non gli ho risposto, convinto del suo ragionamento, ma dentro di me ho pensato: «Già, è vero, ma cosa mi
risponderebbe un qualsiasi Europeo se gli chiedessi se ritiene Ia sua cultura unica e particolare?».
Dakar - Lomè e lo stupore non finiva mai
Silvia Mantino
Di là l’oceano, di qua il nostro Mediterraneo. Ecco dall’aereo la terra d’Africa: desertica, ma a volte ordinatamente
coltivata, come quella intorno a Casablanca. Da sopra le nuvole il tramonto dura circa un’ora. La linea infuocata
dell’orizzonte taglia in due i blu del cielo e del mare, così diversi nelle loro contrastate sfumature. Atterriamo a Dakar
stanchissimi e volentieri ci tuffiamo nel nostro accogliente albergo. Al petit déjeuner abbiamo tutti un’altra faccia; accordi
da prendere, visti, appuntamenti vari. Uscendo tra la folla ti accorgi che tutti sono interessati a te. Chi ti guarda, chi ti
intercetta, chi commenta in una lingua sconosciuta. Il tono è sempre cordiale, ma è un po’ fastidioso questo continuo
dover dire di no: vendono qualcosa, tutti. Solo le donne non chiedono. Bellissime, anche se sfatte dagli anni e da grappoli
di bimbetti che le circondano, tutte espongono la loro eleganza, la cura dei colori, dei particolari.
Nulla è casuale, anche negli incontri più poveri: tutti indossano abiti dignitosissimi, dai colori vivaci e vitali. Stoffe
pulite, stirate, addosso ad uno sguardo fiero e ad un sorriso gentile. Persino la mendicante accucciata fuori dall’agenzia
dell’Air Afrique indossa una tunica con il turbante dello stesso colore, intona una nenia lontana e brilla nel suo poco oro
rilucente sulla pelle scura e lucida, il mercato di Dakar è fittissimo, ricco di frutta coloratissima e di oggetti, anche preziosi,
d’artigianato: mogano ben lavorato e monili di pietre dure attraggono l’attenzione di chi riesce a farsi spazio nella ressa.
All’Ambasciata del Mali, dove ci rechiamo per visti, una enorme giovane donna elegantemente avvolta nel suo grande
velo trasparente, cerca con modi leziosi e seducenti di estorcerci del denaro. Lei, funzionario di un’ambasciata piena di
bottiglie vuote, moquette rotta sotto ad un tavolo di fòrmica, in una stanza con ventola. Vizietti intercontinentali!
Partiamo per l’isola di Gorea, di fronte al porto, antico luogo di imbarco delle grandi navi che deportarono migliaia di
neri nelle piantagioni e nelle miniere d’America. T utta l’isola, dai colori pallidi e roseti davvero suggestivi, ruota intorno a
questo piccolo «Musée des Esclaves», in cui un attento e geloso custode ci mostra, con grande perizia ed un certo orgoglio,
l’intreccio delle minuscole stanze in venivano assiepate centinaia di persone prima delle partenze. Dal castello dell’isola
giungono suoni di bongas. Saliamo sulla cresta, quattro giovani suonatori diffondono ritmi trainanti e potenti. La gente
sale, come in un magico pellegrinaggio. l suoni ti entrano dentro: loro danzano, ma soprattutto saltellano con garbo e
melodia le loro canzoni. L’indomani siamo pronti per una nuova meta. Joule, la guida, occhi neri e profondi, corpo snello
e gentile, ci fa salire sul pulmino con il quale ci accompagnerà tutto il giorno. L’autista, sicuro e veloce, affronta il lungo
rettilineo che attraversa un’interminabile pianura punteggiata da palme e baobab, Attraverso il pannello di plexiglas, che
sostituisce un vetro rotto, opacamente scorrono immagini senza tempo: casupole dalle quali escono mucche macilente,
bambini che giocano goffamente a calcio, donne dal portamento lento e altero, fanciulle colorate che ti offrono ceste di
mango durante le soste, qualche uomo con anonimi strumenti tra le mani, capre, cuccioli d’uomo che giocano a grappoli,
cani simbolo di fame sedimentata.
Sembra che la gente non sappia cosa fare e aspetti qualcosa. Lungo i numerosi chilometri le immagini si ripetono.
Giungiamo al Lago Rosa. La scena è potente: una grande distesa del colore dell’alba. Stare in piedi è difficoltoso, dopo
essersi immersi. L’acqua, concentrato di una forte salinità, è calda, vellutata, avvolgente. E’ un’immersione totale, quasi
più mentale che fisica: finalmente ci accorgiamo dei volti, delle palme, degli odori forti, di quei sorrisi candidi, di quel cielo
sempre bianco, di quel tempo quasi fermo. Proseguiamo a sud e arriviamo a Joal, un villaggio sulla costa. La scena del
rientro dei pescatori all’imbrunire è quasi insostenibile, per noi appena giunti in terra d’Africa. Gli odori del pesce fresco,
di quello secco, delle foglie, dell’oceano sono inebrianti, misti all’ubriacatura dei variopinti abiti delle donne, dalle
sfumature delle loro incomprensibili merci, dei disegni sulle piroghe tirate sulla sabbia. Anche l’indomani siamo
sull’oceano, prima di spiccare il volo per il Mali. Ma questa volta sulle spiaggia di Malika; arriviamo dopo un folcloristico
viaggio su di un «autobus di linea». Ad ogni fermata sale un gruppo di persone diverse: donne con ceste in testa, anziani
quasi ciechi, bambini in tunichette bianche con la cuffia della cerimonia della circoncisione appena avvenuta.
Il mare appare improvviso, dietro alle dune di sabbia dorata. L’acqua è azzurrissima, la sabbia lievissima come seta,
senza una conchiglia, ne un sassolino. Il bagno sembra quasi una purificazione, le onde fittissime ti travolgono, impedendo
ogni tua opposizione, mentre la successiva carezza della sabbia direttamente sulla pelle è penetrante e caldissima.
Andiamo, subito dopo, a Kajar un altro villaggio di pescatori dall’atmosfera forse più dolce e distesa. l bambini ti
trotterellano dietro senza troppo assillo e la gente sorride, mentre alcuni fanciulli ti implorano di prendere il loro indirizzo
per avere una cartolina dall’Italia. L’ambiente è familiare, i colori teneri e caldi: il paese successivo è Fadiouth, un
villaggio di conchiglie costruito su di un’isola lontana da terra è collegato da un ponticello di legno. Il paese è molto
suggestivo, le costruzioni sono simmetriche e ben organizzate ad incastro.
Quando andiamo via attraversiamo un’assemblea di villaggio: gli uomini sono riuniti sotto una tettoia, in silenzio
aspettano il sindaco. Le donne non ci sono, solo ritmicamente si ascolta il rumore del tam-tam.
Ci trasferiamo in volo a Bamako, capitale del Mali, dalla quale partiamo in “ bachè” alla volta di Mopti, la Venezia del
Mali, città suggestiva adagiata sulle sponde del fiume Niger.
La strada è faticosa, sterrata, piena di sabbia. Ad ogni sosta, e sono molte dato che incontreremo dieci posti di blocco,
veniamo circondati da bambini che ci vendono uova lesse e banane. Pernottiamo alla meglio a San e l’indomani ci
dirigiamo verso Djennè la città sacra, sorella di T imbouctou. La sua immagine ci appare all’orizzonte tra le dune, dopo una
fastidiosa nuvola di sabbia rossa, che ci ha costretto a mascherarci con foulards e cappelli. La moschea è sublime. Le guglie,
costruite con il fango, esprimono tutta la ricchezza e la fantasia di questo popolo povero, ma ricco dei suoi intensi valori.
Entriamo dalla Porta Sacra in un brulichio di voci e colori totalmente nuovi: nessun occidentale, tranne noi. E’
un’atmosfera febbrile e i colori sono quasi troppi da catturare: donne Peul, con l’anello al naso, Bozo, Songhai, T uareg
venuti dal deserto in questo giorno, il lunedì, fatidico appuntamento di mercato per le carovane provenienti dal deserto e
per quelle che si ricongiungono dalle varie zone del Sahel.

Siamo eccezionalmente introdotte, noi donne, nella moschea (dato che non è frequente permettere al gentil sesso
l’ingresso in questi luoghi di culto musulmani), che ci viene spiegata in ogni particolare: la zona pura e quella impura, la
destra e la sinistra, lo spazio sacro degli uomini, degli adolescenti, delle donne, delle fanciulle, infine il sistema di
costruzione. Ci rituffiamo e, in parte, ci perdiamo volentieri nel mercato, per ritrovarci e prendere la strada del ritorno.
L’indomani a Mopti siamo ben equipaggiati per iniziare ciò che ognuno di noi attendeva con emozione: il trekking nel
paese dei Dogon. La strada, sterrata e piena di crepe profonde, ci fa sobbalzare nel corso della lettura, che ci accompagnerà
in baché, sui miti e la storia di questo popolo fantastico.
Ci arrampichiamo verso la parte montagnosa del Mali, in direzione della Falesia di Bandiagata. Comincia una pioggia
violenta e incessante: tutto si trasforma in una melma scivolosa, mentre l’afa è, comunque, insistente. Arriviamo a
Sangha, capitale del regno Dogon. Il capo del campement ci accoglie con una gentilezza squisita e ci fa servire da un
cameriere, in surreale livrea, zuppa di cipolle e carne in umido.
Al mattino, in fila indiana, inseguiti da gruppi di bimbi, cominciamo a penetrare in questa terra magnifica; Banani,
T ireli, T relé, Amani, Nombouri e tutti gli altri villaggi ci appaiono uno alle volta, quasi all’improvviso. Saliamo sulla
falesia, imponente, sovrastante una piana sconfinata. Asco, la nostra guida, ci mostra, nascosti sotto la roccia, i loculi dei
morti Dogon, sui quali sembrano vigilare meravigliosi enormi uccelli, che ogni tanto si alzano in volo. La simbiosi con la
natura è totale. l granai assomigliano a piccoli trulli circolari con un tetto di canne sovrastante. Le abitazioni sono strette
le une alle altre e, su tutte, spicca il Togu Na, il luogo sacro degli anziani, il loro parlamento. Il volto di questa gente è
sempre sorridente e noi impariamo i loro musicalissimi saluti. Al mattino ci alziamo sempre prestissimo, con il sorgere del
sole; la sera, d’altronde, non avendo luce, andiamo a letto con il calar delle tenebre. Ritmi naturali che ci fanno ancor più
entrare in sintonia con questo mondo.
Il paese ci accoglie festoso, stanno preparando le danze per noi. Nell’attesa alcuni bambini, con la febbre altissima, ci
vengono portati da giovani che balbettano un po’ di francese: è malaria e le nostre medicine sarebbero per loro una
manna. Noi gliele diamo timorosi per la posologia, data la loro scarsa attitudine all'ingestione di farmaci. Il giorno prima
una giovanissima mamma, con due gemelline di un mese attaccate al seno, vuoto di latte, ci aveva chiesto se avevamo del
latte condensato: glielo abbiamo portato e lei si è fferta di farsi fotografare con le piccole e di avere poi una foto da noi.
La gente qui è sempre apparentemente serena, malgrado tutto. Il rullo dei tam tam è aumentato, scendono dalle rocce le
maschere delle danze. La sensazione di immersione in questa atmosfera ci rapisce completamente. Il suono dei vari
strumenti ci entra nella pelle, gli occhi non sanno più dove fermarsi.

Un po’ alla volta sfilano tutti i personaggi, formanti ognuno una propria coreografia: l’antilope, sacra ai Dogon, la
scala della vita, la Signora della danza, la donna, simbolo di fertilità, l’uomo che la insegue, il Kanaga, croce di Lorena,
simboleggiante la cosmogonia dogon di unione tra cielo e terra. l danzatori sono bravissimi. I colori si mescolano ai volti
nascosti, i piedi cadenzano i rumori degli strumenti, quasi inciampando nella sabbia, che si solleva appena. Siamo giunti alla
fine, dopo l’esibizione delle maschere sui trampoli, si schierano di fronte a noi e, tutti insieme, andiamo a salutarli, come
faremo dopo poco con il capo del villaggio, che ci accoglie cordialmente nella sua abitazione.
Riprendiamo il cammino più in basso, ai piedi della falesia: il sole è cocente e ogni tanto incontriamo refrigeranti
pozze d’acqua, formate da ruscelli scorrenti. Il divieto di bagnarci per paura dei parassiti era tassativo all’inizio del viaggio:
adesso siamo tutti più sciolti e speriamo nella buona sorte. Sosta per il pranzo: montiamo il fornello, prepariamo la
minestra anche per i portatori.
Altri villaggi dogon sfilano radi sul fianco della falesia: dobbiamo sforzarci per distinguerli, tanto sono mimetizzati
nella roccia.
Ci accampiamo in una scuola. I banchi sono come quelli di legno delle nostre elementari di trenta anni fa. La lavagna
riporta un problema di matematica e due esercizi di lingua: l’immagine è tenera. Nel problema ci sono i segni di
un’economia di baratto, basata sullo scambio della merce.
Lasciamo lo zaino e ci dirigiamo verso il villaggio, guidati dal figlio del capo. Saliamo su su in alto, li dove le case si
congiungono con quelle delle antiche popolazioni Tellem, precedenti abitatori di queste terre, insieme ai pigmei. Le loro
vecchie case sono ora utilizzate, come buchi nella roccia, per i cimiteri dogon. Il corpo del morto viene issato sullo
strapiombo con una specie di carrucola e poi infilato nella roccia sull’immensa distesa a valle. Saliamo ancora e giungiamo
ai piedi di questi tumuli: il ragazzo ci spiega che li vive Hogon, il capo spirituale del villaggio e che noi possiamo salutarlo,
ma senza toccarlo. Ci avviciniamo con una certa emozione: sul bordo del piccolo recinto della sua abitazione ci guarda
questo vecchio saggio. Hogon ha l’aria intelligente e magica di chi racchiude dentro di sé il senso della vita. Ha novanta
anni e aspetta di morire: nel frattempo vigila il suo popolo, la sua terra, la sua Falesia. Non può mai essere toccato e non
può lavarsi se non una volta l’anno: indossa solo una pelle di montone. Ci parla con gentilezza, con pacatezza. E’ in alto
come a fianco dei nidi di questi enormi uccelli, ad incutere rispetto e a illuminare la sua gente: certo la vita può essere
davvero letta in mille modi, la nostra, la sua, eremita sublime tra la terra e il cielo, tra la vita e la morte.
Torniamo a valle. Dopo cena improvviso, violentissimo, arriva il temporale: la pioggia allaga tutto, le tende
cominciano a volare. Ci ripariamo nella scuola: la Falesia è illuminata a giorno da fulmini mai visti. E’ inquietante,
terrificante, bellissimo. Quasi come un miraggio, appare nella montagna una cascata prima assente.
L’acqua scende spumeggiante e rumorosa. Un po’ alla volta la burrasca si riassorbe. Cerchiamo malamente di dormire
con i sacchi a pelo sui banchi riuniti, mentre tutto intorno a noi è fradicio. Al mattino riprendiamo il trekking con le ossa
un po’ rotte. Dobbiamo risalire la falesia e camminare sul plateau.
La falesia che si squarcia ai nostri piedi è fantastica. l piani di roccia rossa stratificata fanno sembrare la montagna, pur
nella sua maestosità, quasi fragile, come fosse di un legno morbido e malleabile. Vediamo un animale nero con la coda lunga
e chiediamo spiegazioni ad Ali, la nostra gentilissima guida. Ci racconta che tra queste montagne c’è la pantera nera e «il
gran serpente», sacri ai Dogon. Loro non li cacciano e la pantera non uccide i Dogon: anzi, siede accanto a loro e vigila su
di loro quando la notte dormono nel bosco. E’ il gran «serpente» va a toccare l’Hogon, sfiora il suo corpo sacro e poi
riporta tra i Dogon il suo influsso benefico. Il racconto fantastico: la vita di questo popolo ricca di valori, una simbiosi
perfetta con la natura, di cui sono animali felici. Giungiamo a Dourou, dove subito vengo conquistata da Ali. In questi
villaggi, quando frotte di bambini ti circondano, se uno riesce a parlarti e tu sei presa dalla sua simpatia, diventi «sua», non
ti si stacca più e gli altri si avvicinano appena. T u mangi, lui li; tu vai a dormire, quando tu ti alzi, lui è li; tu scrivi per
un’ora sotto al sole e lui è li, seduto accanto a te, che non si muove; vai al mercato, ti accompagna, vai a fare un giro, è
con te.
Ceniamo prestissimo con i nostri soliti spaghetti: la stellata è stupenda ed il clima molto gradevole, finalmente non c’è
umidità e i colori sono nitidi. Distesi su di un nuovo drappo dogon appena acquistato e maleodorante di lana di capra, ci
ritroviamo a scambiarci sensazioni «africane».
Al mattino, salutato l’immancabile Alì e gli altri nostri piccoli amici (ognuno di noi aveva il suo angelo custode),
partiamo per Mopti per organizzare il grande viaggio sulla pinasse che ci condurrà lungo il Niger alla volta di T imbouctou.
Con una piroga visitiamo alcuni villaggi lungo il fiume: sono Bozo, Peul, T uareg. Per la prima volta si ha l’impressione
di un’Africa veramente povera. l bimbi ti vengono incontro con il moccio al naso, le donne hanno un’aria questuante, gli
uomini sono lontani. Il primo villaggio è Bozo, di pescatori, il secondo è T uareg. Questi sono venuti qui nel 1973 a causa
di una grande siccità che li ha scacciati dal Sahara: sono sistemati alla meglio e chiedono aiuto. Pur nella loro semplicità
sono sempre molto dignitosi ed eleganti.
Rientriamo alla base e partiamo per T imbouctou. La pinasse che ci ospiterà per i successivi quattro giorni (crediamo
noi, ma saranno di più) è simpatica. Ha la forma di un’enorme gondola coperta di stuoie: è completamente colma di sacchi
di granaglie, aiuti americani al Terzo Mondo. Siamo appollaiati sui sacchi: il clima è disteso (in tutti i sensi), si parla, si
scherza più del solito. La falsa partenza è, tuttavia, estenuante: dalle due del pomeriggio si parte alle sei, ma, dicono, in
Africa è «giusto» così.
Finalmente partiamo. La pinasse scivola liscia sul fiume. Il Niger è calmo, senza orizzonte, quasi assente, nella sua
silenziosa e avvolgente presenza. l rumori sono dolci e pacati. Girandoti intorno noti rarefatte figure, alberi, capre, palme.
La luce ci lascia, le prime ombre disegnano figure indefinite. La notte passa faticosamente sui sacchi di grano, tanto che
decidiamo per i successivi pernottamenti di montare le tende lungo il fiume. A pranzo cuciniamo le nostre ormai familiari
minestre Knorr, mentre a cena gli immancabili spaghetti consolano il nostro stomaco ormai sempre più abituato alla
ristrettezza dei sapori dei cibi. Il fiume attraversa il lago Debo, rivelando qua e là sparsi villaggi, costituiti da casupole di
fango, quasi sempre disposte intorno ad un’immancabile moschea.
L'acqua che avevamo portato con noi comincia a scarseggiare, anche perché non sempre incontriamo villaggi dove è
possibile trovarne e il caldo, andando verso il deserto, si fa sempre più forte. Oggi 12 agosto l'Assemblea Gruppo «Godon»
(come ci siamo ribattezzati, anagrammando i nostri ignari amici Dogon) ha così deliberato: l’acqua è razionata, un litro a
testa (aiuto!).
Il tempo scorre lentissimo e ricordiamo anche le cose passate: il cinguettio dei bimbi Dogon «Ça va!» ci ronza
simpaticamente nelle orecchie (in quello stereotipato francese, che serve sia come saluto che come invito a donare
qualcosa), così come i loro saluti: Agapò, saò, usseò, saò, umanà saò, saò, iapò, iapò (buongiorno, come stai, come sta la
famiglia, arrivederci)!
A volte è sconcertante vedere come anche le più desolate lingue di terra, in mezzo al deserto, siano abitate da gruppi di
nomadi, che non hanno davvero niente. Eppure vivono, sorridono, amano, procreano e muoiono, riuscendo anche a
dimostrare la loro serenità. E tutto ciò ricorda quanto la nostra esistenza sia fatta di soglie di desideri e di bisogni: ogni
soglia si innalza o si abbassa a seconda di ciò che sai che ti manca e che conosci. Il Niger scorre lento in mezzo ad una terra
sempre più desolata. Ci aspetta T imbouctou, la mitica regina delle sabbie, leggiamo insieme la sua storia.
Ci svegliamo dopo aver dormito in tenda su di un altopiano pieno di mucche e capre. I rumori nella notte erano i più
disparati: muggiti, belati, zoccolate. L’alba è soffice e suggestiva, la luce è tenue, il fiume fermo. La giornata è molto
gradevole, ci stiamo abituando a questo tempo che non passa mai, a questi paesaggi che scorrono laterali. Il clima sulla
pinasse è sempre più sereno, giochiamo a carte, prendiamo il sole, ci facciamo curare le casuali piccole ferite da Cristina, la
nostra assistente sul campo, filtriamo l’acqua del Niger che ormai è l’unica da bere, operazione nella quale Franca si è ben
specializzata. La notte è stata piacevole e fresca, ma le zanzare si sono divertite su di noi: siamo prudenti, ma qualche
pensiero preoccupato, talvolta, ce l’abbiamo, visto che siamo in una delle zone d’Africa a più alto rischio malarico. Il
tempo nella notte è stato brutto ed un forte temporale ci ha costretto a smontare le tende e a ripararci nella pinasse; al
mattino avremmo tanta voglia di lavarci dato che cominciano ad accumularsi sulla nostra pelle strati di Autan, pomate
varie, polvere e sudore. Cediamo alla tentazione e facciamo il bagno nel fiume. La sera, distesi sulle stuoie, e sotto un cielo
stellato come pochi, ci ritroviamo a cantare a lungo e a farci cullare dalla splendida voce di Angela.
Superata Niafounké, eccoci a T onka, sede di un singolare mercato T uareg.
La mattina di ferragosto ci svegliamo in un simpatico villaggio Bozo. Riprendiamo la navigazione.
Ogni tanto incrociamo il solito stupendo volto del timoniere, pelle nerissima, occhi tagliati e lunghi, sguardo profondo,
sembra uscito da un fumetto. Fiero nei suoi panni sporchi e sdruciti, guarda l’orizzonte e prega verso La Mecca tre volte al
giorno. Poi si inginocchia e si china ritmicamente tre volte come fanno i musulmani. La sua spiritualità è commovente e
suggestiva e sembra quasi penalizzi chi non riesce ad essere come lui.
Ahimè, anche il secondo motore non va ed i pronostici non sono dei più felici, se non fosse per Massimo, il nostro
Archimede, ad intervenire con tempismo sui guasti meccanici che in questi luoghi assumono dimensioni ciclopiche. Per
fortuna la sera, nonostante l’ormai tangibile ritardo accumulato, avremo un momento bellissimo. Infatti con Rita, Cristina
e Claudia ci avventuriamo verso l’interno del paese in direzione di indefiniti rumori di tam tam: scopriremo una festa di
donne e bambini, che ci accoglieranno con un inaspettato calore. Balliamo freneticamente ritmi africani insieme a loro,
quasi immerse nella sabbia. Il momento è cordiale e affettuoso; la gente è bellissima e ci ringrazia della nostra cortesia. Poi
le donne ci riaccompagnano alle tende, come si fa con gli ospiti sacri.
Arriviamo finalmente a Kabara, il porto fluviale di T imbouctou. T rasportati da un camion, ci ammassiamo con zaini e
bagagli sul cargo, costituito, guarda caso, dai nostri immancabili sacchi di grano americani.
Si parte e cominciano ad apparirci le prime vere zone desertiche man mano che ci avviciniamo alla «mitica». Quando
ci fermiamo al campement ci sembra, nonostante l’abbondanza di scarafaggi e zanzare, di essere arrivati in Paradiso.
Il nostro è carissimo e le bibite e l’acqua ci costano un patrimonio. E' chiaro che la cosa, in questo momento, ci tocca
pochissimo e ne sanno qualcosa Alberto e Bob, che hanno ceduto alla loro «bionda». Ceniamo in un simpatico localino
africano a lume di candela. Poco prima, aspettando alcuni compagni, ci siamo addentrati nel buio della notte tra i vicoli
della città, accompagnate da Barék, gentile ragazzo poliomielitico e da una stupenda fanciulla T uareg, che ci ha fatto da
guida. Dagli angoli delle abitazioni provenivano luci fioche e odori di miglio cucinato. T utto il fascino della mitica città è
ormai racchiuso nel suo splendore antico e decadente che traspare, discreto, nelle costruzioni di fango, nei vicoli, nella
moschea, nelle case dei viaggiatori europei dell’ottocento e soprattutto in quei volti T uareg così diversi da quelli visti
finora.
Dopo cena la stanchezza è intensa, ma non riusciamo a rinunciare all’invito ricevuto di andare in una tenda a bere il tè.
Il clima è quasi misterioso e preoccupante: Rita, Daniele e Silvia sono circondati da una decina di «uomini blu», dai
variopinti turbanti e dagli occhi a fessura appena rilucenti, dietro al loro tipico drappo.
Il rito del tè è davvero affascinante: si mettono foglie di menta infuse in acqua bollente e poi si versa nei bicchierini di
questa bevanda, che vengono nuovamente riversati nella teiera più e più volte, prima di essere offerti. Il primo è fort
comme la mort, il secondo è doux comme Ia vie, il terzo è secret comme l’amour. E’ emozionante la spiritualità che
infondono in tutto ciò che fanno.
L’indomani ci si ritrova per la visita al villaggio T uareg, fuori dalla città, dove ci rechiamo a bordo di fantastici
cammelli. Il deserto che circonda la città è splendido nel suo candore. T ra le dune appaiono le prime casupole
dell’accampamento.
Il cammello, con quella sua aria sorniona e ondeggiante, è un personaggio ben integrato in questo paesaggio dai toni
spenti e opachi, dato che anche lui è del colore della sabbia.
Ci lasciamo dondolare dalla loro andatura seguendo l’esempio di Louise, «the queen». All’accampamento troviamo
ancora tanta gente, perché nei giorni precedenti sono arrivati dal deserto i venditori di sale.
Questo popolo ha una fierezza particolare; gli occhi scurissimi e quasi tagliati sotto al turbante sembrano racchiudere
storie misteriose. Compriamo alcuni oggetti e torniamo indietro, lasciandoci il deserto alle spalle; questi colori, le dune, il
cielo che diventa di sabbia sembrano appartenere ad un’atmosfera surreale. Prima di lasciare la città siamo, però, colti da
una tempesta di sabbia. E’ furiosa, violentissima, seguita da lampi e pioggia a dirotto. Rimandiamo la partenza di un’ora
ma quando partiamo il terreno è battuto e la sabbia non ci sommerge.
Arriviamo a Berr, un villaggio nel deserto, verso le dieci di sera, ci accampiamo e lì trascorriamo la notte dopo una
calda minestra. Le luci dell’alba ci colgono soffici, dietro le dune del villaggio T uareg. I bambini ci guardano uscire dalle
nostre tende, come fossimo marziani, mentre alcuni uomini pregano distanti. Il nostro morale è buono, dopo una fresca
notte.
Partiamo e dopo poco tempo ci insabbiamo: riusciamo e venirne fuori rapidamente, ma dopo due ore foriamo
contemporaneamente due ruote, con sommo «gaudio» di tutti ed in particolare di Gaetano, che si industrierà mirabilmente,
dando due dritte tecniche all’ignaro Bebe, il nostro anziano autista.
Le soste sono lunghe e faticose, sotto il sole cocente, fra le dune bianchissime. Ripartiamo con molte insicurezze dato
che il motore spesso si spegne e Bebe non sa cosa fare. Facciamo pronostici di arrivo: i più ottimisti danno il pomeriggio,
lo chef, cioè Daniele, dice le dieci di sera. In realtà, in quel giorno, non arriveremo mai.
Smangiucchiamo le residue provviste alla meglio, senza fermarci lungo le strade. Il clima comincia a modificarsi e
compaiono nubi all’orizzonte. Gradualmente il cielo si copre e capiamo che sta per arrivare una tempesta di sabbia: le luci
mutano la loro intensità come in una dissolvenza, mentre la tempesta visibilmente avanza. Sappiamo di avere pochi
minuti per proteggere le macchine fotografiche e chiudere i finestrini.
Il temporale arriva violento, la sabbia è velocissima, nebulosa, ricopre tutto, travolge gli alberi. Dobbiamo fermarci,
perché non si vede assolutamente nulla.
Il momento è magico, lontano, tanto diverso da noi. Alla tempesta di sabbia segue immediatamente l'uragano: la
pioggia torrenziale batte su tutte le precarie giunture del nostro automezzo che lascia, infatti, penetrare continui e
fastidiosi rivoli d’acqua all’interno. Il terreno diventa fangosissimo e pericoloso.
Ci fermiamo in un villaggetto a comprare una tanica di benzina, riparandoci sotto le tettoie di quello che sembrerebbe
un ospedale.
T amaré è un paese spettrale all’apparenza disabitato: ci raccontano che quasi tutti gli abitanti sono andati via per paura
delle tempeste, delle alluvioni e dei T uareg, famosi predoni. Incontriamo un’altra Land Rover con una famiglia con
numerosi bambini a bordo, l’unica che vedremo nei due giorni di viaggio.
Siamo vicini al tramonto e la strada è in pessime condizioni.
Inesorabilmente ci impantaniamo e scendiamo dall’auto con il fango fino alle ginocchia e con un po’ di angosce
addosso. Anche il nostro autista è scoraggiato. Ci lasciamo consolare da un tramonto dalle luci tenebrose e limpidissime,
che Enrica si precipita a fotografare: le palme grigie rispecchiano le loro ombre nelle pozze d'acqua del fango, mentre il
sole, dietro, se ne va.
Ritentiamo di uscire dal fango e - Insciallah! - ci riusciamo! La strada però, è persa e non sappiamo più come
proseguire.
Aspettiamo l’altra macchina che compare all’orizzonte dopo un po’. Siamo, comunque, nel pallone, perché anche
l’autista dell’altra vettura non ricorda più la strada e, di notte, non riusciamo a procedere nel fango, con il rischio di
impantanarci di nuovo. Dopo un’altra ora di guida «intuitiva», avvistiamo un fortino all’orizzonte e capiamo che c’è un
villaggio. T rascorreremo la notte a Bourém, ospitati in una gendarmeria nel cui cortile monteremo le tende.
Ripartiamo alla volta di Gao, dopo una riposante e fresca nottata. Il viaggio continua ad alternarsi tra insabbiamenti e
forature e, quando arriviamo in città, siamo davvero provati e conteremo su un adeguato ristoro. L’Hotel Atlantide, antica
meta dei viaggiatori provenienti dal deserto ci accoglie con quella solita finta opulenza degli alberghi africani.
Ci sistemiamo alla meglio e andiamo a prendere informazioni su come fare a raggiungere Niamey: sigh, nella notte ci
sono state burrasche e alluvioni, la strada è completamente allagata ed è precipitato il ponte tra Gao e Niamey. La città è,
quindi, isolata. Le alternative sono poche, o si raggiunge la capitale nigeriana in pinasse, o in Land Rover fino alle sponde
del flume, per poi traghettare.
Optiamo per la seconda soluzione. Nel frattempo abbiamo organizzato il giro in piroga per andare a vedere la grande
Duna Rosa sul Niger. Il villaggio di pescatori, che incontriamo lungo le sponde del fiume, ci accoglie con le luci dell’iniziale
tramonto, ma il caldo è ancora forte. l colori del fiume sono suggestivi come mai. La luce è limpida e le tinte della gente e
della natura sono molto sature. La piroga scivola dolcissima sulle acque del Niger, in direzione della Duna Rosa che si
intravede all’orizzonte. Sola, lenta e ritmica compare a tratti la silhouette del pinassiere, che spinge l’imbarcazione con un
lungo asse, che affonda nell’acqua a destra e a sinistra.
E' quasi un cullarci.
Sfioriamo le piante fuoriuscenti dalla superficie, mentre ogni tanto compare improvviso un volto nero di qualche uomo
che si sta facendo il bagno. Uccelli bellissimi si alzano in volo dalle sponde laterali.
Arriviamo lentamente alle pendici della Duna Rosa. Lo spettacolo è emozionante come pochi. Una collina rosa di
sabbia finissima e immacolata compare poggiata sulle acque del fiume che scorre lento. Saliamo silenziosi, circondati dai
bimbi del luogo. La sabbia è calda ed è irresistibile la voglia di lasciarci rotolare fino a terra. Il paesaggio che si osserva
dall’alto, camminando sulla cresta della duna è mozzafiato: da un lato, la vallata punteggiata da arbusti verdi, dall’altro il
fiume argentato dalla luce del tramonto.
Il ritorno in città in piroga completerà l’atmosfera del momento: accarezzati dai fili d’erba fuoriuscenti dalla superficie
arriviamo, dopo circa un’ora di navigazione, sull’altra sponda.
Il villaggio appare appena, nell’ombra ormai spessa, al confine con la notte.
Partiamo da Gao con la speranza di arrivare in tempo a Niamey, per sostare un po’ e poi proseguire il nostro viaggio.
La strada è terribile, non viaggia quasi nessuno e i ponti sono crollati in più punti. E’ un susseguirsi di impantanamenti e
insabbiamenti. Dobbiamo arrivare al più presto e quindi le soste sono solo di pochi minuti. Dormiremo a Fafa, luogo
aperto come una piazza. Fuori dalla tenda con il fresco della sera ed una luna luminosissima tre fanciulle compaiono
silenziose e cominciano ad intonare un canto lentissimo e quasi sottovoce.
A poco a poco dal fondo del villaggio si aggiungono altre ragazze. Il canto diventa cadenzato e coinvolgente e noi ne
siamo rapiti, mentre Claudia, la nostra eroica contabile, danzerà con loro confondendosi nei loro ritmi dolci e ripetitivi.
Ripartiamo alle cinque. Il viaggio é allucinante. Ci impantaniamo ogni mezz’ora e incontriamo camion rovesciati e
ponti rotti. Alla frontiera tra Mali e Niger ci controllano per ben due volte tutti gli zaini, che dobbiamo tirar giù dalla
baché. Quando arriva la notte siamo allo stremo delle forze.
Niamey, ore due del mattino, doccia, albergo.
Al mattino ci ritroviamo con un’altra faccia. Niamey è una città accogliente, verde di piante, colorata di gente. La
città è un misto di modernità e forme arabe poggiate sull’immancabile sabbia rossa, interrotta da banchi tipicamente
africani. Il suo Museo Nazionale custodisce la storia del Sahel, dal paleolitico ai giorni nostri ed è straordinario notare
come in questi paesi così poveri, in cui non si sa cos’è il latte e si beve l’acqua del fiume, abbiano una cura così
particolareggiata della loro storia e delle loro tradizioni, tanto da trovare anche in posti poverissimi, in cui non c‘è
l’illuminazione pubblica, piccoli musei, assai ben allestiti. L’amore per la loro terra e il desiderio di spiegarne, a chi
osserva, i segreti più nascosti, porta questi custodi dall’aria annoiata a trasformarsi in solerti guide, minuziose illustratrici di
oggetti T uareg, indumenti Peul, armi Songhai.
Partiamo in direzione del Benin. Il paesaggio scorre veloce e molto diverso: la sensazione è che si stia andando verso
luoghi più civilizzati ed è sufficiente vedere la strada asfaltata e le automobili, oltre che le costruzioni delle case dei
villaggi, per capire che lo sviluppo locale è maggiore.
Il Niger è sempre più verde, mentre ci si avvicina al fiume, che segna anche il confine con il Benin.
Entriamo in questo nuovo Stato e finalmente l’orizzonte comincia ad essere interrotto da colline ed incipienti
montagne, preludio di nuove altezze. Dopo qualche sosta arriviamo a Natitingou, dove alcuni di noi alla buon’ora, una
domenica mattina, si recano nella locale chiesa cattolica, la prima che incontriamo in questa zona d’Africa notoriamente
musulmana.
La chiesa è gremitissima di gente incredibilmente ordinata. Sul selciato, alcuni infermi in carrozzella aspettano di
entrare: la concentrazione è elevatissima e il clima è commovente. Nelle parole del parroco ci sono riferimenti alla
salvaguardia della famiglia, al ruolo della donna, alle cattive tradizioni, con chiaro riferimento al feticismo, ancora tanto
presente in questa zona, patria dei riti vudù. La musica accompagna le preghiere quasi con un’andatura da gospel. La
comunione è molto praticata e l’omelia, la liturgia sono corali.
Usciamo prima per raggiungere gli altri, abbandonando un tappeto di teste inginocchiate e serie, in mezzo al variopinti
abiti femminili, segno di un’attenzione per il “ dì di festa”.
Oggi siamo diretti verso i villaggi Somba. Ne incontriamo alcuni quasi subito. Sembrano castelletti fortificati, sempre di
fango, ma recintati da uno spesso muro, che circoscrive lo spazio della famiglia. All’interno si notano tre o quattro
costruzioni coniche formate da un piano inferiore, in cui ci sono gli animali, uno medio, in cui c’è la cucina, ed uno
superiore, in cui c’è il luogo della notte. La terra intorno è sapientemente coltivata con maestria, segno di una tradizione
agricola consolidata.
Singolare è questa frammentaria appropriazione dello spazio del villaggio, che non è per agglomerati assiepati, ma per
singoli quartieri. Gli uomini e le donne sono poco disponibili e piuttosto aggressivi con i turisti che vogliono fare foto: è
imbarazzante, infatti, farne, anche quando ci sono cose che non vorresti perdere, come i feticci apotropaici sulle coperte
d’ingresso delle case, segni sacri di scacciamento del male.
Sembra quasi di violare questo loro mondo, con la tua occidentale curiosità, che si insinua tra i poveri cenci dei loro
abiti e nelle loro capanne risuonanti dei belati delle loro caprette. Proseguiamo verso il T ogo.
La terra è molto verdeggiante, le palme abbondanti, le vallate stracolme di una vegetazione fittissima, segno anche
dell’abbondanza delle piogge e di una diversa altitudine. La boscaglia diventa sempre più fitta e verde: le palme fuoriescono
da un tappeto di banani e strani cactus.
Arriviamo a Lomé, dopo numerosi posti di blocco. L’immagine dell’oceano è molto emozionante: le palme altissime
sulla spiaggia rossa disegnano ombre insolite, accompagnate dal rumore forte e ritmico delle onde del mare. Robinson
Plage ci accogliera, la sera, per proporci le tanto agognate e, a questo punto, meritate aragoste.
Ventinove agosto, ore sei: partenza per l’Italia. E’ un po’ frenetico il ritrovarsi e, forse, proprio grazie ai preparativi
non ci accorgiamo che stiamo per lasciare l’Africa.
L’aereo si alza e immediatamente incontriamo l’oceano.
Atterriamo in Costa d’Avorio ad Abidjan. Quando ci rialziamo per salutare questo continente ci passano nella mente
tante immagini, mentre, sotto di noi, per ore e ore scorrerà, immobile e stupendo, il deserto del Sahara.
Mali 1981 stelle dal cielo. Dalla regina delle sabbie alla
falesia Dofno
Wanda Romagnoli e Marco Vasta
Dobbiamo confessare che in Mali ci siamo finiti per caso. L’amico Gino Bernardi aveva preparato un viaggio in
Camerun, ma noi avevamo dimenticato un passaggio fondamentale: spedire a Roma la scheda di iscrizione! E così finimmo
in Mali, attratti da un articolo di “ Airone”: da allora non abbiamo più comprato questa rivista. L’articolo presentava il
Mali ed i Dogon.
Immagini e testo erano entusiasmanti, ma alla fine si proponeva il viaggio come possibile solo se effettuato tramite
agenzie ad alto budget. Da allora non ho mai sopportato la “ spocchia”, la superbia, di chi non ammette che con budget più
semplici ognuno di noi può conoscere un paese e anche acquisire una conoscenza meno superficiale e non “ scatta e fuggi”.
Per me e Wanda erano anche i primi viaggi nell’universo degli aeroporti. Il Charles De Gaulle a Parigi sembrava un luna
park spaziale, con ampi spazi, strutture avveniristiche, lunghissimi tappeti mobili. Era la scoperta degli orrendi sapori dei
vassoi con il pranzo a bordo (l’anno dopo su un volo Lufthansa ho assaggiato il primo kiwi, non sapevo come fare e l’ho
mangiato con la buccia).
Africa, Africa nera, l’odore della terra che all’equatore assume un colore rossastro. Le diapositive raccontano paesaggi
e incontri, le parole comunicano emozioni, ma qui non posso farvi percepire i profumi, gli aromi, che contraddistinguono
questo come ogni altro paese del mondo. Bamma Ko, il fiume del coccodrillo, era uno sperduto villaggio sulle rive del
Niger fino a cento anni fa. I francesi vi costruirono un fortino. Oggi è la capitale del Mali, uno degli Stati tranciati sulla
carta al momento dell'indipendenza dell'Africa Occidentale francese. Siamo a poche ore di volo aereo dall'Italia, ma per
noi l'Africa è un mondo nuovo, diverso e lontano.
Mentre con il gruppo ci aggiriamo per Bamako, il nostro capo, Aldo Sestrieri, professore universitario a Roma, si
sbatte veramente per trovare un mezzo che ci porti verso nord. Allora con Avventure nel Mondo ci si organizzava sul
posto. Aldo noleggia una bachette, una Peugeot 505 tipo pick-up telonato che ci trasporta in 16 verso un aeroporto più a
nord. Sul volo Bamako-T imbouctou non ci sono posti, si libereranno solo al primo scalo. E così viaggiamo negli odori
della notte africana, cercando di precedere l’aereo. Arriviamo che è ancora buio, ci sdraiamo con i materassini sulle porte,
così saremo i primi ad entrare. E facciamo bene, perché quando l’aereo atterra il capitano blocca tutto e ordina di pesare
passeggero e bagaglio. Ha una scorta limitata di carburante e non può imbarcare più di un certo peso.
A me va bene, sono l’ultimo ad esser accettato. Sorvoliamo il fiume Niger. Sotto di noi si allarga il delta interno: un
dedalo di lagune, paludi, laghi, villaggi ed isole steppose. L'occhio spazia sulla distesa di canali, larga fino a 200 chilometri e
lunga più di 300, che coprono una minima parte di questo paese grande quattro volte l'Italia.
La re gina de lle sabbie
Il nostro itinerario parte da T imbouctou, mitica regina delle sabbie, ma il mito della città proibita vive solo per noi.
Chi di voi è stato a Zagorà, in fondo alla valle del Draa in Marocco, avrà sicuramente scattato la foto ricordo con il
cartello: “ T imbouctou, 42 giorni di cammello”. Oggi pochi sono i resti degli splendori passati. Fondata dai T uareg, è stata
conquistata dai grandi imperi dei Mandingo, dei Peul, dei musulmani ed infine dai francesi. Si racconta che i suoi abitanti
possedessero oltre centomila cammelli. Oggi è fuori dai traffici commerciali. Solo l'Az alai,
E’ una carovana del sale a cadenza semestrale praticata dai commercianti Tuareg nel deserto del Sahara tra Timbuctu e la miniera di sale Taoudenni in Mali. Con
questo termine si indica anche l'atto di viaggiare con una carovana lungo quel percorso. L'altra grande via carovaniera del sale dell'Africa occidentale, si trova in
Niger, si chiama Taghlamt (in Tamasheq, o Taglem o Tagalem in lingua Hausa). Entrambi sono alcune delle ultime vie carovaniere del Sahara che sono ancora in uso.
Entrambe le carovane sono state in gran parte sostituite da strade non asfaltate.
la carovana del sale, giunge puntuale dal lontano deserto del Toudenì, attraversando 700 chilometri di sabbia e rocce
con un carico di salgemma da imbarcare nel vicino porto fluviale di Kabara.
Siamo alloggiati in un vecchio edificio, un collegio islamico, tutto in pietra, a differenza di altre case. L’acqua è poca,
ci si lava di corsa a gruppi di tre sotto l’unica doccia. Case senza finestre racchiudono freschi cortili, la moschea è un
castello di sabbia, il minareto e le merlature a cono sono caratteristici dello stile sudanese. Il muezzin ci accompagna fra gli
enormi pilastri di fango secco che sostengono le navate interne. Si lamenta dei danni causati dall'ultima pioggia di dieci
anni fa (1971).
Le tre grandi moschee, una delle quali aveva le dimensioni della Kaaba a La Mecca, e le madrasse, università e
biblioteche rinomate in tutto l'Islam, erano già decadute come centri culturali letterari e scientifici quando il maggiore
Laing le visitò nel 1826: primo europeo a raggiungere la porta sud del Sahara dopo aver attraversato il "nulla" del deserto.
Al mercato incontriamo Songai, T uareg, Mauri e gente del fiume. Ben lontano è il tempo quando questa città era capitale e
luogo di incontro delle carovane giunte da migliaia di chilometri con oro, tabacco, datteri algerini, avorio ed altre
mercanzie come salgemma o tappeti da scambiare con gli schiavi del golfo.
Ibn Batuta, il geografo maghrebino, racconta l’arrivo al Cairo della maestosa e ricca carovana diretta da T imbouctou a
la Mecca. T utto scompare diventa sabbia che il vento ci porta negli occhi.
Dei centomila abitanti ne restano qualche migliaio sparsi fra la città e gli accampamenti della zona, ma obiettivo del
nostro viaggio non è il deserto che si estende a nord verso Marocco ed Algeria, bensì il popolo sudanese. Questo è un
termine molto ampio che indica le popolazioni stanziate a sud del Sahara, e che comprende i pescatori e gli allevatori che
si sono insediati lungo il grande Niger.
Ancora una volta Aldo fa del suo meglio: ingaggia il capitano di una pinasse che trasporta un carico di lastre di sale
appena giunte a dorso di cammello da Toudenì (lo pronuncio alla francese perché fa molto chic, come T ibét anziché
T ibet). L’accordo prevede che risaliremo il fiume in quattro giorni e che ogni giorno egli attraccherà due volte ad un
villaggio. Una scelta, quella di Aldo, che si rivela formidabile: toccheremo insediamenti sperduti dove i turisti mai sostano.
La pinassa è un barcone lungo e sottile. Lunga venti metri e larga tre, con una copertura di canne e di tela, ha due
motori. La coabitazione è felice. Noi sul carico, a poppa uno spazio vuoto dove su pietre viene acceso un fuoco e la
moglie del capitano cucina pentoloni di riso. Il capitano sta a prua e con due cavi controlla il timone, così può avvistare in
tempo le reti. Un motorista cura la velocità dei primordiali motori intrabordo.
Il ritmo della vita sul fiume è lento, un ritmo continuo come la fatica delle donne intente dalle prime ore del sole a
battere il miglio nei mortai. Si, avete capito bene, il miglio, quello che per noi è un cibo per canarini, è l’alimento che
queste donne possono offrire ai loro figli!
La decolonizzazione non ha portato molti cambiamenti nella condizione della donna africana. In Mali la donna è
considerata uno strumento di lavoro e la poligamia rappresenta ancora la regola, sebbene trovi in fondo un limite nelle
risorse finanziarie dello sposo. La monogamia diventa allora virtù di massa. Se una volta il matrimonio avveniva con lo
scambio di due fanciulli fra famiglie che divenivano alleate, oggigiorno si usa il sistema della dote che consiste in una
somma di denaro o in beni che il marito versa ai parenti della sposa.
Essendo ammesso il divorzio, la dote torna al marito al quale sono assegnati anche eventuali figli.
La nostra barca scivola fra le sponde del Niger. Attorno a noi la siccità mostra i suoi effetti ma è temperata dalla
presenza del fiume che trova alimento nella foresta pluviale. Il Niger è stato uno dei più grandi misteri geografici della
storia e sono occorsi anni per comprendere quale fosse esattamente il suo percorso che, sviluppandosi per oltre 4000
chilometri, ha tratto in inganno gli esploratori poiché in Mali scorre verso Nord per poi scendere a meridione in Niger,
dopo l'ampia curva del Delta interno e centinaia di chilometri nelle zone deserte attorno a Gao.
La vita a bordo è piacevole. Non è uno yacht. Non ci sono gabinetti, né privacy. Una lunga asse sporge da entrambi i
lati della barca, uomini a destra, donne a sinistra: non c’è bisogno di attendere una sosta per espletare le proprie necessità.
La cucina è un po’ monotona. Aldo ha fatto portare un po’ di spaghetti, ma a T imbouctou non abbiamo trovato
granché per integrare la cassa viveri. Il riso trovato al mercato ha un sapore nuovo, diverso, ed alla fine della cottura è
abbastanza colloso. È un chicco un po’ troppo spezzettato, da noi non sarebbe neppure in commercio, qui è un lusso!
Le soste tagliano la placida monotonia del paesaggio. Se siamo vicini ad un centro importante cerchiamo di fare
acquisti. T roviamo dei polli confezionati interi in una scatola: nauseabondi. Ed è proprio in uno di questi mercati che
provo la sensazione di essere solo, circondato da centinaia di volti neri.
E pensare che quando ero venuto a lavorare a Brescia, nel 1973, in città vivevano solo una decina di Africani, per lo
più studenti dell’Istituto Agrario, un paio a medicina, il più famoso era Idriz, di giorno insegnante e di notte disk-jockey.
Improvvisamente mi sono trovato in questo mercatino, unico bianco in un mare nero, mi sono sentito smarrito e mi sono
chiesto cosa provassero loro quando venivano a scuola da noi.
Scivolando fra le basse sponde prive di argini, ogni sera approdiamo in villaggi posti fuori dalla rotta del battello di
linea. Di tanto in tanto ecco un gruppo di alberi, una piccola moschea dal profilo inconfondibile con le merlature coniche
ed approdiamo fra misere capanne e casette. Chi ha la tenda scende a terra a sera per accamparsi, gli altri si stendono
cercando di conformare la schiena alle lastre di sale su cui viaggiamo.
La rustica abitazione dei Bambara e dei Bozo, costruita in mattoni seccati al sole, ha una pianta quadrangolare ed è
coperta da un terrazzo munito di parapetto. Vicino alla riva si trovano capanne di paglia intrecciata con l'armatura in
legno, abitazioni dei pescatori più poveri. Oltre alla moschea, gli elementi che caratterizzano i villaggi sono i granai di
miglio. Costruiti presso i recinti familiari, o in gruppi lungo la palizzata del villaggio o sparpagliati fra i campi, hanno
forma quadrata, sono sollevati dal suolo e hanno il tetto conico.
Pur non avendo sbocco sul mare, grazie al fiume Niger il Mali riesce a garantire un’attività di pesca a più di centomila
persone. La siccità ha trasformato gran parte dei canali del Delta interno in paludi di fango, danneggiando anche
l'allevamento del bestiame che si dice sia arrivato fin qui con una grande migrazione di popoli dall'Egitto. Eppure pensate
ormai a questo nostro mondo così globalizzato. Il fiume Niger trasporta dalle zone abitate una infinità di liquami, pieni di
tutti quei prodotti chimici che Europa ed USA hanno vietato e che produciamo per smerciarli qui. Quando il fiume si secca,
veleni e polvere si depositano su queste piane. Il vento arriva, la polvere si alza e viene trasportata fin sui Carabi, dove si
deposita. Questa è una delle recenti teorie sull’imbiancamento e la morte dei coralli. La polvere velenosa arriva anche in
Florida. In questo mondo tutto è compenetrato.
Ogni giorno la vita diventa sempre più dura per gran parte degli undici milioni di abitanti (nell’81 erano sette milioni),
soprattutto per chi vive nella “ brousse” cioè nella boscaglia. Bambini e adulti sono falcidiati da malattie intestinali e dalla
carestia. In alcuni villaggi i bimbi piccoli strillano di paura. Non hanno mai visto un bianco, e certamente i medici del
nostro gruppo devono sembrare loro delle creature mostruose. Per molti Africani, l’uomo bianco è un essere maledetto
perché gli dei non gli hanno concesso la pelle, che ovviamente come tutti sanno è nera. Con dignità, le madri chiedono
medicine e soprattutto quella che sembra risolvere ogni male: l'aspirina. Fra questi sperduti villaggi i medici delle missioni
ONU non possono giungere e l'assistenza medica non esiste.
Ben poco è l'aiuto che si riesce a dare. Una goccia nel deserto. Forse la ragazza cui abbiamo curato la ferita infettata
non perderà il braccio, ma la nostra inadeguatezza non è che lo specchio degli sforzi spesso inutili e mal diretti della
comunità internazionale che è presente in Mali sotto varie forme. La speranza di vita, non la media, qui come in gran
parte del mondo, è di 35 anni. Sarò fortunato se vivrò 35 anni!
Spesso sentiamo la frase “ aiutiamoli a casa loro”. Ebbene, il governo francese aveva proposto una serie di aiuti al Mali
in cambio di un blocco della emigrazione verso la Francia. L’ammontare degli aiuti, per quanto consistente, era
piccolissimo rispetto alle rimesse degli emigrati che lavorano in Francia...
Al termine della navigazione sul Niger sbarchiamo a Mopti. La moschea costruita con la terra rossa, gli ampi cappelli
in paglia, le guglie slanciate del minareto, l'animazione del mercato, stordiscono chi si è abituato al lento e pigro procedere
della barca. Il profilo architettonico degli edifici appare esotico ed irreale.
L'Africa è una sorpresa continua. Ma la vita del Mali non è solo lungo il fiume. Per questo, recuperata fortunosamente
la benzina acquistandola presso la caserma di polizia, affittiamo un furgone e raggiungiamo Sangha, punto di partenza per
una lunga camminata fra un popolo poco conosciuto: i Dogon della "falaise" di Bandiagara.
Griaule “scopre i Dogon”
"All'inizio dei tempi le donne Dogon staccavano le stelle dal cielo per darle ai loro bambini. Essi le bucavano con un
fuso e facevano girare queste trottole di fuoco per mostrarsi fra loro come funzionava il mondo". Così raccontava un
Ogon, un vecchio capo, a Marcel Griaule, antropologo che per primo si è spinto fra questo popolo enigmatico. Ed è allo
spuntare delle prime stelle che giungiamo a I-n Banana, dopo due ore di marcia sull'altopiano. Una pericolosa discesa in
una stretta forra che fende la muraglia ed eccoci ai piedi della "falaise" di Bandiagara, enorme parete di arenaria, lunga più
di duecento chilometri, che attraversa il territorio Dogon.
L'immensa pianura del Séno, divisa fra Mali e Niger, si estende a perdita d'occhio quando all'alba il brusio del villaggio,
adagiato su groppe rocciose, ci invoglia ad inoltrarci fra le case.
Il gigantesco scenario di pietra gialla incombe sulle case di fango e gli speroni rocciosi sembrano precipitare sulle
capanne, l'attenzione è subito attratta dalle numerose e strette grotte che punteggiano la parete, alcune chiuse da muretti
di fango. Sono le case dei mitici Tellem, "piccoli uomini rossi" forse pigmei, scacciati, circa settecento anni fa, dall'arrivo
del Dogon, che ora vi depositano i loro morti, issando il feretro lungo le cenge con robuste corde di fibre.
Popolo misterioso ed inavvicinabile, considerati stregoni ed antropofagi, i Dogon sono rimasti animisti, rispettando
l'Islam e combattendolo, come ricordano i numerosi feticci fallici incontrati nella "brousse", la boscaglia di arbusti che
attraversiamo per giorni costeggiando la falaise da un villaggio all’altro. Ma come osservava recentemente Umberto Eco
sull’Espresso, un Dogon che risponde “ io sono animista” è un dogon istruito che conosce categorie di sociologia religiosa,
sconosciute al suo popolo. Ed io aggiungo è il contentino per il turista che ascolta proprio quello che vuole sentirsi dire...
Ogni aspetto della vita sociale, domestica ed economica di questo popolo è da sempre unito ai miti della loro complessa
cosmogonia. La parola, ogni parola, ha un significato diverso che muta in differenti contesti, il suono diventa presenza
fisica dell'entità nominata. Ma non solamente i nomi ed i numeri hanno importanza nella concezione del mondo
sviluppata dai Dogon. Ogni oggetto si trasforma da strumento in rappresentazione concreta di concetti astratti; le falangi
della mano non sono solo numeri ma disegnano i rapporti di parentela, un cesto rovesciato rappresenta, con la sua
piramide conica tronca, la forma del mondo. La stessa distribuzione spaziale delle case rotonde segue questa simbologia per
noi difficile e talvolta incomprensibile.
I vari quartieri di un villaggio rispecchiano l'organizzazione in famiglie ed i clan totemici, ma ad uno studio più attento
ci si accorge che anche la topografia del villaggio ha una sua caratteristica dovendo richiamare concettualmente
l'immagine di un uomo supino per terra. La casa del consiglio, rappresenta la testa ed è a Nord sulla piazza principale. Ad
Est ed Ovest le case per le donne mestruate, rotonde come l'utero, rappresentano le mani. A Sud gli altari comuni sono i
piedi e le grandi case di famiglia segnano il petto ed il ventre. Ogni quartiere deve rispecchiare questo stesso simbolismo, ed
ecco altre piazze principali ed altre "T ogu Na".
La "Togu Na", o "grande riparo", è l'edificio del consiglio degli anziani. Il "luogo della parola" è una spessa tettoia di
arbusti elevata su base quadrangolare, con pilastri di legno o pietre adorni di figure stilizzate. I corridoi interni devono
essere bassi, nessuno s'alzerà di scatto in preda all'ira; devono essere scomodi per giungere presto a rapide decisioni ci dice
un vecchio capo, l'unico in questo villaggio che conosca un po' di francese, che consultiamo senza dover ricorrere alla
guida assegnateci dalla polizia per attraversare la zona.
Avvolto in un cappotto militare russo se ne sta accanto alla Togu Na leggendo il libretto rosso di Mao. Il nostro
giovane interprete, convertito all'Islam, irride a noi ed al nostro colloquio: "tutte frottole per gli studiosi" è il laconico
commento. Suo compito e sua preoccupazione maggiore è guidarci lungo i sentieri consentiti agli stranieri e prevenire ogni
nostra inavvertita offesa ai costumi del nostri ospiti. Vietate le fotografie delle persone, pena il sacrificio di un montone.
Pericoloso toccare le pietre sparse nei campi perché potrebbero essere feticci "tabù". Vietato avvicinarsi alle tombe:
troppi "antropologi" le hanno saccheggiate con furtive incursioni notturne.
I villaggi che attraversiamo si ripetono per struttura, le viuzze strette fra le case quadrate di fango, spesso diroccate dal
tempo, qua e là si ergono le torri cilindriche a due piani dove vengono educati assieme i ragazzini di entrambi i sessi.
Stupisce la libertà delle donne Dogon, a confronto con le vicine donne musulmane. Libero il corteggiamento, ammesso il
rapporto prematrimoniale, concesso un periodo di prova in cui i coniugi vivono nelle case d'origine. Il matrimonio diventa
obbligatorio solo dopo la nascita del secondo figlio.
Io danz o, tu paghi
Ma se l'antropologo impazzisce dalla gioia nello studiare i costumi di questo popolo, ben più immediato è l'entusiasmo
suscitato dal partecipare ai momenti collettivi quali i funerali o le danze.
Quando la "società delle maschere" si esibisce, la vita del villaggio si concentra su questo momento di ritmo e di colore.
Un posto di grandissimo rilievo è tenuto, nella simbologia dei Dogon, dalle maschere, che contano una ricchissima varietà
di tipi. In genere sono rappresentazioni di animali: la lepre, l'antilope, oppure raffigurano i personaggi tradizionali della
stessa società Dogon: il capo religioso, le ragazze dei villaggi, il vecchio, oppure mostrano le fattezze delle bellissime
donne Peul o Bozo, i vicini di sicura origine etnica differente, essendo i Dogon del Niger famosi per la loro bellezza ed i
giovani Peul si vantano dei loro lineamenti androgini. Vi consiglio di leggere “ Diario Dogon” pubblicato in EDT,
dall’antropologo Marco Aìme, con il quale ho avuto il piacere di compiere il mio primo viaggio in Pakistan nel 1983 fra
le popolazioni Kalash e Hunza.
Scoprirete che ormai la danze avvengono solo per i turisti. Ebbene, nel 1982 fummo fortunati perché ci imbattemmo
in un funerale. Da una cengia vedemmo scendere la corda che avrebbe permesso di sollevare il corpo del defunto fino alla
grotta dove avrebbe riposato. C’era molta animazione, colpi di fucile sparati in aria; rimanemmo a guardare da lontano.
Fra le maschere che più attraggono l'interesse vi è quella che rappresenta la casa più bella del villaggio. E’ un'asse
traforata con i colori classici rosso, bianco e nero, alta fino a cinque metri. Infine la maschera "kanaga", con la croce di
Mali, le braccia volte al cielo ed alla terra per unificarle al centro del mondo.
Le maschere policrome sono completate da un costume a frange, tinte di rosso, e da monili di conchiglie e vimini
intrecciati. Ognuna richiede un diverso passo di danza, quello della maschera kanaga è particolarmente ritmico e selvaggio,
ergendosi ora verso il cielo, ora strusciando nella sabbia.
Ho rivisto a Brescia la danza in un teatro, sicuramente affascinante, ma “ non era la stessa cosa”: lo spettacolo era
organizzato da alcuni psichiatri junghiani. Un giorno andammo a pranzo, c’era anche la proprietaria africana dell’agenzia
che organizzava la loro permanenza. Mi sono chiesto cosa esattamente fosse stato mostrato a noi, sicuramente con una
organizzazione naif e cosa venisse propinato oggi a chi scende a visitare la falaise. Ok, lasciamo da parte queste
considerazioni...
Le maschere sono usate dai membri delle numerose "società" di quartiere in occasione di feste, funerali, riti propiziatori
o dietro congruo compenso da parte del visitatori. Sono gli stessi danzatori a scolpirle usando un legno tenero e leggero.
Sono quindi fragili e spesso riparate o ridipinte ed alla fine gettate nelle caverne dei Tellem o vendute ai mercanti d'arte
che le contrabbandano in Europa dove le maschere raggiungono quotazioni molto alte. E si racconta di famosi alpinisti
francesi che hanno girato documentari sulle loro arrampicate in falaise e poi di notte scendevano a saccheggiare le tombe.
Nell'afa del meriggio l'Ogon non accenna ad interrompere il suo racconto mentre, attorno a noi, sulla piazzetta della
Togu Na i vecchi del villaggio sfilacciano la corteccia di un baobab, si inumidiscono le labbra e la attorcigliano costruendo
robuste corde. Giunge alla fine la domanda che ogni viaggiatore pone quasi a liberarsi dal senso di colpa: "Che ne sarà del
tuo popolo?". "Il primo Monno ha creato l'ordine dell'universo” – risponde l'Ogon fissandoci negli occhi ad uno ad uno -
“ anche i Dogon scompariranno poiché questo è stabilito".
Il trekking finisce qui. Le bachette non sono all’appuntamento, ma a tutto c’è rimedio. I francesi avevano favorito lo
sviluppo della coltivazione delle cipolle ed è su un camion carico di cipolle che torniamo a Bandiagara, poi a Mopti dove
gli autisti trovano benzina andando fino al confine con l’Alto Volta. E poi via, passando dal fascino di Djennè, con la sua
immensa cattedrale di sabbia. Si conclude il nostro viaggio.
Lungo la via del sale – Le miniere di sale di Taudenni
nell’estremo nord del Mali
Stefano Pansotti
Dov’è Taude nni?
Il mio primo viaggio nel deserto l’ho fatto nel 1986. Prima di partire ci avevo riflettuto a lungo, considerando pericoli
ed imprevisti possibili, progettando partenze che non si realizzavano mai. Alla fine di tanto dinamico immobilismo stabilii
che assolutamente sarei partito per l’Africa e la mia scelta, quale battesimo africano e verifica delle mie qualità di
viaggiatore, sarebbe stata quella di impegnarmi in una camminata nel deserto, con tanto di cammello e tuareg al seguito, da
T amanrasset sino al massiccio montuoso del T assili d’Hoggar.
Il deserto è distanza da colmare di senso, è sperimentare la pura “ assenza”. Nello stesso tempo è rinascita. Una prova
iniziatica.
Tante altre partenze si sarebbero succedute, esperienze sui tanti sentieri del mondo, sugli altopiani tibetani, nelle
pianure disegnate dal Gange, nel cuore dell’Africa nera, sempre mosso dall’inquieto desiderio di incontrare altre culture,
altri popoli che, con il loro modo di vivere, vestire, dipingere ed ornare il loro corpo, mi raccontavano della loro storia,
dei loro avi, delle loro credenze. Avrei sperimentato anche il ritorno tra le sabbie dei deserti giungendo alla convinzione di
aver provato tutte le emozioni che solo lo spettacolo misterioso e seducente di questi luoghi di sole e solitudine sono in
grado di evocare.
Nonostante tutto questo pellegrinare per il mondo, viaggio dopo viaggio, si fece strada un desiderio, destinato a restare
a lungo inappagato: arrivare a T audenni.
Taudenni è l’isola che non c’è, periferia del mondo, è viaggiare fuori da ogni traccia per 750 chilometri di sabbia, sino
alle miniere. Centinaia di grandi buche rettangolari, da cui lunghe carovane di dromedari carichi di sale partono in direzione
di T imbouctou, percorrendo fra andata e ritorno 1500 Km di deserto assoluto. Non grandi dune di sabbia rossa, nessuna
falesia istoriata da capolavori preistorici né picchi di basalto. Solo il nulla a 360 gradi, a destra e a sinistra, sopra e sotto,
all’orizzonte il cielo che si fonde alla terra con effetto “ palla da pesciolino rosso”.
Un desiderio figlio di una strana coincidenza, nato dopo il casuale incontro con Giosuè: abitiamo a 300 metri l’uno
dall’altro, ma il fato ci ha fatto incontrare a causa di T audenni, di questo puntolino nero perso sulle mappe del Mali.
Giosuè e la moglie Miriam avevano fatto il viaggio a Taudenni, andata e ritorno, a piedi con una Azalai ed il loro
racconto mi aveva stregato.
“ La carovana è implacabile come il territorio che attraversa. Ogni giorno percorre da quaranta a cinquanta
chilometri. Non si ferma se qualcuno ha i piedi doloranti per le pietre, la sabbia o le erbe pungenti. Ignora i dolori di
testa, i crampi allo stomaco, gli attacchi di dissenteria. Alla fine di ogni giornata i cammelli vanno scaricati e lasciati
liberi. La mattina gli animali devono essere radunati e caricati; per farlo occorre alzarsi prima dell'alba per poi mettersi
in marcia e fermarsi molto dopo il tramonto. Di soste per il pranzo non se ne parla. Mentre si cammina si trangugia la
"crème", un impasto di acqua, miglio e di frutto di baobab polverizzato”.
Questo avevano detto, ed io avevo iniziato a desiderare di arrivare a T audennì.
Da quel racconto erano passati molti anni quando, nel dicembre del 2002, avevo visto arrivare a T imbouctou un’azalai
carica di barre di sale. Quel giorno i bambini del quartiere di Abaraju, a nord di T imbouctou dove vivono i Berabich di
origine Maura, erano accorsi alla Porte del Deserto ad accogliere la carovana, gli uomini lesti a sgravare le bestie dal
fardello portato per 20 interminabili giorni di marcia. E li, seduto sulla calda sabbia che invadeva le strade di T imbouctou,
avevo riprovato il desiderio di partire, spasmo miocardico, per vedere il luogo da cui proveniva quella carovana.
Uomo fortunato, non c’è che dire. 12 mesi più tardi partivo per quel viaggio, tanto a lungo rimandato, alla volta di
Taudenni e oltre ancora: per 1500 chilometri attraversare tutto il deserto del Djouf sino a ritornare a rivedere il mondo a
Tessalit nell’Adrar des Iforhas. Con otto compagni di avventura ritornavo tra quelle sabbie ad ascoltare, attorno al fuoco
acceso per scacciare il freddo della notte nel deserto, i ricordi della guida Alaghdje, un Berabich, che tante volte aveva
seguito l’Azalai di Taudenni. “ Ero un ragazzo, Taudenni mi ha fatto Uomo” ci ha raccontato Alaghdje. Vera prova
iniziatica la sua. Per noi T audenni è stata la Grande Esperienza del Nulla, l’indimenticabile emozione di domare il Sahara, il
gigante addormentato tra le sabbie.
Az alai
Il commercio del sale conserva un sapore antico. Materia prima indispensabile, utilizzata così come viene raccolta, la
sua estrazione non richiede impianti costosi, ma attrezzi elementari: mani e zappe. Quello di Taudenni viene venduto in
lastre da circa trenta chili, il venditore ne riceve spesso in cambio capre, zucchero, tè, verdura, sacchi di miglio, acqua. Per
migliaia di persone, minatori, carovanieri, commercianti e le loro famiglie, esso rappresenta l'unica fonte di reddito.
Il commercio del sale fu alla base di tutti i traffici che si svolgevano lungo le grandi carovaniere del Sahara. Bilma in
Niger, ldjil in Mauritania e Taudenni in Mali erano meta di carovane di dromedari che in tempi remoti raggiungevano
anche le 500 unità, uno spettacolo grandioso al quale si poteva ancora assistere all'inizio degli anni settanta.
Oggi le carovane maliane di Taudenni sembrano essere le ultime impegnate in questo antico commercio assieme a
quelle del Niger. Le favolose, inesauribili, miniere di sale, 700 chilometri di sabbia a Nord di T imbouctou, continuano ad
essere l'approdo obbligato di centinaia di cammelli, un pellegrinaggio commerciale iniziato più di 5 secoli fa. Da allora le
chiamano Azalai, le carovane del sale, che già nel 600 gli arabi mercanteggiavano come l'oro bianco, scambiandolo
direttamente col prezioso metallo.
Le Azalai di Taudenni si formano in 2 periodi dell’anno: ci sono quelle di Alawa che si svolgono nella stagione fredda
tra novembre e dicembre e quelle di T ifiski nella stagione calda fra aprile e maggio. Partono per il deserto da T imbouctou,
cariche di foraggio che lasceranno lungo la via per il viaggio di ritorno. In circa 20 giorni raggiungono le saline dove
vivono, in condizioni estreme, i minatori che preparano le barre di sale pronte per essere caricate e portate, altro viaggio
di 20 giorni, sino a T imbouctou: le Azalai qui si fermano, le lastre proseguono il loro cammino verso i mercati di Mopti e
Djenné. T rasportate da lunghe file di asini, le barre di sale attraversano la fascia di 250 chilometri di Sahel (in arabo "la
sponda del deserto") che separa T imbouctou da Douenza. Oppure imbarcato su vecchie "pinasse", il sale segue il corso del
Niger, sino a giungere a Mopti da cui verrà portato in tutta l’Africa Occidentale.
T imbouctou, regina delle sabbie, città del mito raccontata e sognata dai viaggiatori. Merito del suo splendido e
illuminato passato, quando costituiva il centro culturale, commerciale e religioso più importante e ricco delle regioni
bagnate dal Niger. Merito del suo lungo isolamento, poiché come città santa rimase per molto tempo proibita.
Un sacco d'esploratori affascinati dall'esotico morirono di dissenteria per andarla a cercare e godere della sua cultura,
tra moschee, musei, biblioteche. Molto è cambiato ed oggi T imbouctou svela le sue ricchezze con il fascino discreto della
realtà quotidiana e della sua storia. Assediata dalle sabbie che la circondano, con le case dai pavimenti di fine sabbia bianca,
vie ombrose e silenziose, la sua gente. Il senso di T imbouctou è la presenza stessa, sterminata, del deserto appena al di là
dell'abitato, da dove arrivano, oggi come ieri, le ultime carovane del sale.
La carovana si forma a T imbouctou. Qui i Berabich, loro seguono l’Azalai e non i T uareg che non vivono più a
T imbouctou, radunano gli instancabili mehari bianchi. Qui si acquistano le provviste per la marcia che durerà più di 40
giorni per andare e tornare. La carovana deve essere autosufficiente in tutto e per tutto. Ogni giorno si devono percorrere
dai 40 ai 50 km. Dall’alba al tramonto si è sempre in cammino. Il pranzo lo si consuma camminando. Non ci si ferma per
nessun motivo. Da T imbouctou si parte in direzione di Agunni, si supera la cintura di dune che assedia la città, verso nord
seguendo la rotta delle stelle e quei segni del terreno che solo i Berabich sanno decifrare.
La prima parte del percorso attraversa l’estremo limite del Sahel dove si trovano gli ultimi pozzi, bisogna scavare più
di 50 metri di sabbia, dove abbeverare i mehari.
Con l’acqua il deserto si popola di presenze inattese, si incontrano accampamenti di nomadi Mauri e di T uareg, le loro
tende, le greggi di capre e montoni in perpetuo movimento per sfruttare i magri pascoli dove c’è ancora qualche alberello
secco e curvo che attende di essere violentato dall’harmattan.
Vento secco e polveroso che soffia a nordest e ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea. È considerato un disastro naturale. Quando soffia forte, può spingere polvere e
sabbia addirittura fino al Sud America. In alcuni paesi dell'Africa Occidentale, il grande quantitativo di polveri nell'aria può limitare severamente la visibilità e
oscurare il sole per diversi giorni, risultando paragonabile alla nebbia fitta. L'effetto delle polveri e delle sabbie rimescolate da questi venti è noto come Harmattan
haze, e costa ogni anno milioni alle linee aeree in voli annullati e dirottati. Nel Niger, la gente attribuisce all'Harmattan la capacità di rendere uomini e animali sempre
più irritabili, ma oltre a questa brutta reputazione, l'Harmattan può talvolta risultare fresco, portando sollievo dal calore opprimente. A motivo di ciò, l'Harmattan si è
guadagnato anche il soprannome di Il Dottore.
Dopo 250 chilometri si giunge ad Araouane, antica città T uareg: le vestigia della grande città giacciono sepolte dalla
sabbia. Sulle dune oggi c’è un minuscolo villaggio di poche case di bankò abitate da donne e bambini Berabich. Gli uomini o
sono a T audenni o sono in cammino con l’Azalai. Ad Araouane il Sahel lascia il posto al crudele deserto del Djouf.
Si prosegue per 500 chilometri, ancora 12 giorni, in una indifferenziata pianura di sabbia e solo sabbia. L'acqua diviene
un bene prezioso e raro, la piccola scorta serve solo per dissetarsi, gli uomini e non i dromedari, per preparare il tè e
cucinare. Poi dopo la duna di Foum el Alous si scorge Taudennì: non è un villaggio e tanto meno un'oasi, sulle mappe
dell'Africa Occidentale la località viene semplicemente indicata con un puntolino nero.
"Tau" è l’arrivo, e "Denni" è subito partenza: già il nome è un programma. Il paesaggio è irreale, senza tracce di
vegetazione, un regno minerale inadatto ad ogni tipo di vita. Originariamente, qui si trovava un grande complesso di laghi
salmastri che, circa seimila anni fa, si sono prosciugati depositando spessi strati di cloruro di sodio e calcite.
A trenta chilometri da Taudenni, in direzione di Tessalit, un grande lago fossile, dove candide scogliere di calcite
testimoniano di un tempo in cui i big five si aggiravano per le verdi praterie del Sahara. Taudenni era anche sede della
colonia penale Bagne-Mouroir: per questo le miniere furono vietate agli stranieri sino al 1992, anno di chiusura del
penitenziario.
Oggi vi lavorano circa 100 persone, reclutate a T imbouctou e Araouane. Ogni lavoratore deve estrarre dalle quattro
alle otto lastre al giorno, un lavoro faticosissimo per il quale si serve unicamente di piccole zappe. Il lavoro inizia alle 5
del mattino e termina alle 11, quando il sole è rovente, dopo di che tutti si rifugiano, esausti, nelle loro tane di blocchi di
sale e tetto di lamiera. T utto il pomeriggio a 40 gradi, poi arriva la notte, la temperatura s'abbassa ed è il freddo che
penetra nelle ossa. Lo stipendio è di circa 70 Euro al mese, più vitto e alloggio.
Le miniere, una vicino all'altra, sono fosse quadrate, 8 metri di lato per 4 di profondità. Rimosso il terriccio argilloso,
gli uomini scavano piccole gallerie nelle pareti da cui estraggono spesse lastre grezze che una volta ripulite e levigate
misurano circa un metro e venti per mezzo metro, spessore di 3/4 centimetri, 30 kg di sale. A secondo della profondità di
estrazione si ottengono lastre di 3 qualità di sale: solo quella migliore è usata per l’alimentazione umana, le altre sono per
le bestie. Prima di essere spedite, ogni proprietario traccia il proprio segno di riconoscimento e sui due lati vengono scritti
in arabo i nomi di santi o personaggi famosi, affinché il viaggio si svolga nel migliore dei modi. E così, simili a candide
lastre di marmo destinate a sontuosi palazzi, sono sistemate sulla groppa dei cammelli per la lunga traversata. Quattro
lastre, levigate e lucenti, ingabbiate nei basti a pendolare, due per fianco, 120 chilogrammi per ogni meharì.
L' acqua dei pozzi di Taudenni è salata e a lungo andare il berla scatena irrefrenabili dissenterie. Il cibo è poco e di
pessima qualità: crema di miglio, pane raffermo e quando c’è qualche pezzo di montone rinsecchito. Quanto basta a
placare la fame.
I minatori restano a Taudenni per 6 mesi all’anno in queste condizioni, soli come gli ergastolani che sopravvivevano
nelle anguste celle della vicina colonia penale, ora solo dei ruderi. Le famiglie stanno lontane, ma è proprio per garantir
loro il minimo sufficiente alla sopravvivenza che si rassegnano ai lavori forzati nella periferia del mondo, che si muovono
come fantasmi tra le fosse che sembrano enormi tombe.
Scava uomo scava, il canto di un minatore e della sua radio assicurano che anche all’inferno si può vivere.
Un’altra realtà un altro mondo
Valeria Colombera
Ritornata ormai da un po’ da questo viaggio mi ritrovo ogni tanto a ripercorrere quei giorni, con il pensiero, con le
foto, scrivendo. E mi pare impossibile che sia già così lontano. Temo di perdere i ricordi, non solo i più intensi, ma tutti.
Perché... in fondo non riesco a dire che ve ne siano alcuni più intensi di altri. L’intero viaggio è un tutt’uno, un’unica
intensa esperienza.
Per questo scrivo, per la paura di dimenticare cosa è stato, per fissare le emozioni che a distanza di tempo riaffiorano
ancora forti. Vorrei tornare là e ripetere l’esperienza, assaporare un’altra volta, in un altro modo, quell’atmosfera. Come
se ora avessi capito che servono altri strumenti per leggere quella realtà ed io ho appena iniziato a capire quali sono, come
devono essere usati, ma avessi solo bisogno di tempo, di affinarli e impratichirmi con essi.
Per ora, le uniche cose che mi permettono di tornare in Mali sono appunto i ricordi, le fotografie, scrivere e rileggere
ciò che ho scritto.
In Mali non c’è niente, ma forse proprio per questo c’è tutto. Per lo meno tutto ciò che a me piace, che mi serve e
che mi manca qui, nella mia civilizzata città.
Ho capito che in Africa è tutto più genuino: mancando a volte anche l’essenziale, ciò che resta non è altro che la
relazione umana. E per costruirla non c’è bisogno di altro che dell’individuo, spoglio, senza tutte le cianfrusaglie, le
maschere che normalmente si porta dietro dalle nostre parti.
In Africa c’è poco da mascherarsi! Le uniche maschere che io ho visto erano quelle dei Dogon.
La parte nz a - 20 ge nnaio 2007
E così un aereo mi catapulta in poche ore di volo in un tripudio di colori, polvere, sorrisi, odori, rumori, suoni, ma
anche silenzi, volti e incredibile natura incontaminata. Scalo ad Algeri e si riparte con un aereo che sembra quasi un bus:
dopo la fermata a Bamako, la prossima sarà Dakar!
Durante il viaggio si respira già un’aria diversa, i visi che mi circondano non sono più quelli a cui sono abituata. Non ci
sono più così tanti “ visi pallidi” e, sarà l’aria di vacanza, sarà l’entusiasmo del viaggio, ma secondo me l’uomo d’Africa è
anche più sorridente.
Sfogliando la rivista dell’Air Algerie mi soffermo a guardare la cartina del Mali. Il ragazzo seduto accanto a me mi
indica la sua città, Gao, e mi dice che una volta arrivato a Bamako dovrà fare altre 15 ore di bus. Certo mi sorprende, ma
solo nei giorni seguenti, quando vedrò i bus della Brousse, potrò capire un po’ meglio cosa significhi.
All’uscita del piccolo aeroporto tanti occhi mi guardano nel buio, paiono mille. Sono come una barriera schierata e,
mentre avanziamo, la barriera umana si divide in due formando un corridoio dentro il quale passiamo. Mi sento osservata,
scrutata, indossano tutti vestiti coloratissimi, ma i visi paiono seri e quasi mi intimoriscono.
I vissuti si ribaltano, perché è forse la prima volta che mi sento in minoranza. Forse sperimento un pizzico di ciò che
provano loro quando vengono in Italia. Ma la curiosità supera immediatamente il timore. Da tanto l’ho desiderato e sono
contenta d’esser lì: non voglio altro che conoscere almeno un poco la loro terra, le loro usanze, entrare in relazione con
queste persone che stanno dall’altra parte del mondo, provare a capire la loro vita così diversa, ma in fondo con gli stessi
bisogni della mia.
La mattina seguente non resisto e timidamente inizio ad aggirarmi sola per le vie intorno all’albergo. Fra le prime cose
che vedo c’è, ahimé, lo stabilimento della Nestlè (il logo della multinazionale è diffusissimo e se si vuole un caffè, a quanto
pare, non c’è altra possibilità di scelta) e poco lontano, sulla strada, un gruppetto di uomini, seduti a terra sta cucinando.
Mi invitano a sedermi con loro e mi offrono del cibo. Pare carne, ma, ehm, per colazione non è il massimo! Speriamo
non si siano offesi al mio rifiuto.
Vorrei socializzare con loro, ma mi sento inopportuna, mi pare d’entrare nell’intimità di una casa solo per curiosare,
non capisco invece che forse lì è normale. Ma non ho tempo di farmi troppe domande perché è ora di partire a bordo del
nostro sgangheratissimo pulmino, stracarico di noi passeggeri e di bagagli che, legati sul tetto del mezzo, temiamo di
perdere ad ogni curva.
Ci accompagnano, oltre all’autista, la guida dogon ed un personaggio misterioso, dagli occhiali neri a fascia sempre sul
naso, pressoché impassibile ad ogni stimolo, che poi scopriremo avere la sola funzione di caricare e scaricare, legare e
slegare dal tetto del pulmino i nostri bagagli.
Bamako brulica di gente e mezzi di trasporto di ogni sorta, mentre ai bordi delle strade sono frequenti cucine
improvvisate, donne chine sui fuochi da cui esalano fumi che si confondono con lo smog della città.
I miei occhi e il mio cervello sono in un’attività quasi frenetica, ho la faccia incollata al finestrino del pulmino, mi
arrivano immagini e si producono pensieri confusi, a volte sconnessi, non ho tempo di collegarli fra loro, non ho tempo di
elaborarli. Le immagini e i rumori continuano a susseguirsi velocemente e sono concentrata a immagazzinare tutto ciò che
vedo, tutti gli stimoli che arrivano, uno dietro all’altro.
Spero di poter in seguito ritirare fuori tutto.
La brousse
È deserto, ma allo stesso tempo non lo è. Arbusti bassi si perdono all’orizzonte e non se ne vede la fine. Il pulmino
corre in mezzo alla brousse su una strada sterrata semi-dritta. Intorno tutto è secco, brullo, il fondo un po’ pietroso e un
po’ sabbioso. Il colore è rossastro, a tratti pallido, a tratti più intenso. Gli arbusti, spesso spinosi, affiorano bassi da questo
suolo che pare essere troppo sterile per qualsiasi altra cosa. Alcune zone di brousse, per un fenomeno di autocombustione,
sono una distesa di fuoco basso che, una volta spento, rende tutto nero. Se fossi sola avrei paura, perché non ci sono punti
di riferimento, è tutto uguale: solo cielo, terra e arbusti. E silenzio, interrotto solo dal passaggio di qualche mezzo. Ogni
tanto si incrociano carretti trainati da asini, camion, bus, e nei tratti di strada, se così si può chiamare, più vicini alle città,
si vedono anche persone a piedi o in bicicletta.
L’autogrill de lla brousse
Ogni volta che si fa una sosta nei pressi dei villaggi, per far rifornimento di carburante, per chiedere informazioni o per
qualsiasi altro motivo, il nostro pulmino viene circondato da donne, ma soprattutto bambine e ragazze bellissime, dai
vestiti colorati e dai capelli intrecciati.
Si avvicinano ai finestrini per offrire per pochi CFA i loro prodotti: vassoi tondi in bilico sul capo, su cui sono esposti
in bella mostra banane, arance, manghi, papaie, noccioline, barrette di sesamo. Altre vendono anche bibite fresche o
addirittura ghiaccio, e ancora pesci secchi, frittelle di miglio dalle svariate sagome e spiedini, il tutto appena cotto laggiù
nell’angolo a terra! A volte c’è la possibilità di comprare anche qualche souvenir!
Insomma, è come se fosse l’autogrill delle piccole - grandi strade d’Africa! La fermata di ogni mezzo pare essere
l’occasione per vendere e far su quattro soldi. E così ad ogni sosta siamo circondati da queste faccette che offrono tutto e
chiedono qualsiasi cosa. E se anche non si vende nulla, per i bambini specialmente, è l’occasione per chiedere ai turisti un
cadeau, che può essere qualsiasi cosa.
Può essere cadeau ogni contenitore di plastica dura, anche una bottiglia di plastica vuota, o meglio, il bidon, che tutti si
affrettano a chiedere appena scoperto quanti ve ne sono sotto i sedili. Ma non ce n’è mai abbastanza per accontentare
tutti e il bidon regalo fatto a uno, se va bene lascia scontento un altro, se va male è in grado di scatenare una lite.
Ogni tanto, nel percorrere la brousse, incrociamo anche dei bus, per così dire, di linea, stracolmi di gente e bagagli,
dentro l’abitacolo e spesso pure sul tetto del bus stesso. Sono di varie dimensioni e chiaramente datati e, come il nostro
pulmino, pure quelli sono belli scassati. Ed anche quei passeggeri sono alle prese con il personale dell’autogrill
improvvisato.
Dje nné
Maciniamo chilometri su chilometri di brousse, su una strada che non finisce più. L’autista sin dalla mattina ci aveva
informato che avremmo dovuto percorrere tot chilometri per tot ore, però non si sa come mai le ore passano, i
chilometri anche, ma non si arriva mai. Ad un certo punto chiediamo spiegazioni. Ma... che domande ci vengono mai in
mente! Spiegazioni? Puah! Scopriremo che il tempo e lo spazio sono dei concetti molto relativi in Africa, sicuramente
non hanno lo stesso significato che gli diamo noi.
È già buio e non siamo ancora arrivati. Mi viene voglia di piantare la tenda in un posto qualunque nella brousse, ma
pare che ormai la meta sia davvero vicina.
Ci siamo quasi, il pulmino deve ancora attraversare un tratto di fiume con una chiatta di cui per fortuna riusciamo a
prendere l’ultima corsa della giornata. Dietro e davanti a noi ci sono anche camioncini, carretti carichi venuti per il
mercato del lunedì già dalla sera prima.
Dormiamo sul tetto terrazzato di questa specie di albergo fatto in banko. Due piani di fango secco e paglia così instabile
che, la sera, mentre sono sdraiata, posso avvertire il tremolio prodotto dai passi di chiunque cammini, tanto da temere che
il passaggio di qualcuno un po’ più pesante possa far crollare tutti di sotto. Intorno basse case, sempre tutte di banko dal
color rossiccio.
La mattina seguente, come ogni lunedì, lo spiazzo vicino alla moschea si riempie improvvisamente come un formicaio.
Gente che, per essere lì a vendere qualsiasi cosa, ha percorso chissà quanta strada; è arrivata da chissà dove, come abbiamo
visto anche noi spesso dalla sera precedente, con piccoli o grandi carretti carichi di merce. L’atmosfera è frenetica e
ancora una volta io ho l’impressione di non aver le capacità per assorbire, per cogliere tutto quanto mi circonda. Ci sono
troppi stimoli e non so più dove guardare.
Ancora prima di colazione faccio un giretto intorno e vedo delle donne, spesso con un fagotto-bambino legato sulla
schiena, indaffaratissime a tirar fuori da grandi sacchi e sistemare la merce in vendita. Ho con me alcuni dei vestitini per
bambini portati dall’Italia e nel regalarli vorrei tentare di comunicare loro qualcosa, ma mi rendo conto che non è possibile
poiché non parlano francese. Per di più ci sono un sacco di mamme e non ce n’è neppure per tutte. La situazione mi
spiazza, mi rendo conto di non essere preparata e temo di commettere ingiustizie. Mi sento un po’ la classica occidentale
che distribuisce aiuti in modo poco razionale.
Un ragazzino traduce per me ed alla fine mi dice che posso darli alla donna più anziana che poi provvederà a distribuirli
a chi sa può averne più bisogno. Spero che non sia una megera che ne approfitterà, ma d’altronde mi pare d’intuire che qui
non ci siano poi molti livelli di povertà.
Continuo ad aggirarmi tra la folla di questo mercato in cui è in vendita ogni sorta di merce: verdura, pasta, miglio,
pesce secco e pesce fresco (con mosche), bestiame, spezie, stoffe, collane, perle, secchi di plastica, di latta, callebasse,
stoviglie, vestiti, stoffe. Pare che qui tutto si possa vendere.
Intanto, intorno al mercato la vita del villaggio continua: in alcuni angoli ci sono donne che si alternano nel battere il
miglio per farne farina, altre sono al pozzo, con la fune tirano su l’acqua che poi trasportano dentro grandi secchi di
plastica colorata in bilico sul capo, in un altro spiazzo della strada gruppi di bambini studiano il corano con le loro
tavolette.
I villaggi Dogon
Immaginando l’Africa, non pensavo di poter fare anche del trekking.
Dopo aver attraversato un lungo tratto di brousse, man mano il panorama diventa meno brullo e sempre più verde,
compaiono alberi ed alcune verdissime coltivazioni. Intorno si fanno vedere le prime rocce, annuncio delle falesie a cui ci
stiamo avvicinando e, mentre osservo questo che pare un giardino roccioso, mi chiedo da dove arriva l’acqua!
Camminiamo fra le rocce che diventano sempre più alte, vanno da un colore bruno, che a tratti è più chiaro, al rosso,
colore prevalente in tutte le sue sfumature, talvolta tendenti all’ocra o al rosa. Fa caldo, ma non è insopportabile, è secco.
Appena cominciamo il trekking, dal villaggio vicino dei bimbi corrono verso di noi, attirando la nostra attenzione con le
loro vocine. Ci circondano. Due mi prendono per mano e mi accompagnano per un tratto di strada, anche abbastanza
lungo. Non so se è davvero così, ma per me è come se mi facessero festa, come fosse un benvenuto. La scena, che ora mi
sorprende, si ripeterà e diventerà abituale nei giorni seguenti, in ogni villaggio che incontreremo lungo il nostro cammino.
Io non ho più nulla da dare a questi piccoli che chiedono un cadeau, una bic, ma pare non essere un problema visto che
sembrano accontentarsi di prendermi per mano e camminare silenziosamente al mio fianco per un tratto di strada, per poi
dopo un po’ ritornare per la loro. Tento di parlare con loro, ma non è facile, conoscono solo qualche parolina francese ed
alla fine l’unica cosa che possiamo fare è guardarci negli occhi, osservarci, scrutarci, sorriderci.
Mentre cammino a piedi nudi su questa terra calda arrivo alla fine di una roccia e mi rendo conto d’essere sull’orlo di
una gola. Pian piano, scendiamo addentrandoci tra le rocce che si innalzano sopra di noi e ai nostri fianchi. Percorrendo
sentieri in discesa, attraversiamo la falesia dal di dentro, dentro una gola che ci fa sbucare dall’altra parte dove si apre
davanti a noi un panorama bellissimo. Ho ancora negli occhi quell’immagine: le rocce alte a miei fianchi e di fronte a me,
che sono ancora in alto, un paesaggio spettacolare.
Le rocce in mezzo alle quali cammino proseguono e costeggiano un’immensa pianura: i tratti più vicini alla falesia
sono coltivati e quindi verdissimi, ma allontanandosi il terreno diventa sempre più sabbioso, una distesa di sabbia color
aragosta che diventa a poco a poco un mare ondulato di sabbia rossastra. Percorriamo sentieri a tratti sulle rocce, a tratti
sul deserto, attraversando villaggi arroccati sulla falesia o ai suoi piedi.
I villaggi sono dedali di stradine che si snodano tra muretti a secco e di banko. Al di la del muretto, spesso, c’è un
cortile, dove una donna pesta il miglio, un’altra stende i panni, cucina o bada a un bimbo. Questi appena si accorgono della
presenza di qualcuno che non è del posto sbucano improvvisamente da dietro un muretto e, come se si passassero la parola,
in breve, da uno diventano dieci. Spesso svestiti o con pochi indumenti indosso, a volte impolverati, sporchi di sabbia, ci
vengono incontro e porgono la manina con qualche parolina a noi sconosciuta. Qua e là sono sparse casupole tonde
sormontate da tetti conici fatti di paglia: sono i granai dei Dogon che paiono case degli gnomi.
E poi c’è la Togu Na, la casa della parola, vicino alla quale troviamo spesso gli anziani del villaggio nei loro abiti tipici,
dall’aspetto austero e fiero malgrado quel cappello di stoffa spessa con due punte che scendono ai lati e che a me fa un po’
sorridere. Ci danno la mano e accennano un sorriso o una parola, ma non si concedono troppo. In alto, nella parete della
falesia, si vedono strani fori che paiono finestrelle, e abbozzi di casette, un tempo dimore dei Tellem, vicini di casa dei
Dogon dai quali, si dice, sono stati cacciati.
Qua e là incontriamo gente, ragazzi che a fine giornata ritornano da scuola dopo aver percorso una decina di
chilometri, uomini che pascolano greggi, donne che trasportano pesanti secchi d’acqua sul capo. Una donna ci guarda
incuriosita da dietro un muro e da dovunque continuano a sbucare bambini che ci vengono incontro, ci circondano e ci
prendono per mano, ci parlano e urlano per salutarci.
La presenza di moltitudini di bambini ci accompagna per tutto il viaggio. Ricordo con nostalgia le indimenticabili notti
sui tetti, tentando di prendere sonno guardando le stelle, ascoltando il silenzio o i rumori non familiari di questo luogo che
riempiono le mie orecchie e la mia testa. In lontananza sento suoni di tamburi, ancora voci di bambini, di animali, non so
più se sono reali, se li sto sognando, se sono solo rimasti nelle mie orecchie dalla giornata appena trascorsa.
La sveglia all’alba è al suono del canto potentissimo di galli che, da un villaggio all’altro, si chiamano e si rispondono.
Sono ancora sdraiata nel mio sacco a pelo e le rocce appena sopra la mia testa con la luce del sole che sta sorgendo sono
ancora più rosse. Pian piano si avverte che la vita tutt’intorno si sta risvegliando. Le giornate che passano sono così
immerse in un sole potente che pare quasi schiacciarci contro la sabbia. E poi rocce, villaggi e ancora bambini. Un giorno
dietro l’altro saliamo e scendiamo da queste falesie, mentre più in basso, sulla sabbia color rosa aragosta, i muli che tirano il
carretto sgangherato carico dei nostri bagagli.
Talvolta anche noi ci ritroviamo a camminare sulla sabbia calda, ad attraversare tratti di deserto per raggiungere la
falesia che sta dalla parte opposta a noi. La falesia rimane sulla sinistra, alta roccia spoglia, rosa arancio come la sabbia che
si distende alla nostra destra, con qualche arbusto che man mano si fa sempre più rado per lasciar posto alle dune.
Attraverso passaggi dentro la roccia ci inerpichiamo sempre più in alto, la percorriamo nel suo interno ed alla fine ci
ritroviamo sulla sommità della falesia. Percorsi stretti e scoscesi, scalette e ponti di legno ci permettono di arrivare in
cima da dove il panorama è mozzafiato: sotto di noi si distinguono le casette Dogon, poi la sabbia rossastra e, in
lontananza, le dune. La falesia è alta e ampia, la percorriamo per un lungo tratto nella sua lunghezza per poi, ridiscendendo
dall’altro lato, ritrovarci in un altro arroccato villaggio Dogon.
Al poz z o
A fine giornata arriviamo ogni volta sempre più sporchi, i nostri vestiti cambiano colore e prendono tinte vicine a
quelle della sabbia. Siamo pieni di sabbia ovunque, ma io non mi sento poi così sporca, perché anche questo diventa un
concetto relativo in questa terra.
Arrivati alla fine della giornata spesso cerchiamo il pozzo per lavare le due cose che, asciugando nella notte, potremo
indossare di nuovo la mattina successiva. Sin dalla prima volta mi rendo conto che i nostri lavaggi al pozzo possono
rappresentare un’opportunità di comunicare con le donne. T ante sono lì per fare anche loro il bucato, poi, finito di lavare,
stendono la biancheria sulle rocce calde e attendono che asciughi, mentre fanno quattro chiacchiere. Ci osservano in
silenzio, qualcuna chiede il sapone in regalo, così ne taglio un pezzo del mio, perché una parte la devo tenere per il resto
del viaggio. Come sempre sono molto colorate, eleganti anche in questa semplice e umile attività, e spesso con un
bambino fagotto legato sulla schiena. Questi toubab al pozzo sono l’attrazione del giorno e quindi, come dire, mi sento un
po’ osservata e mi chiedo cosa pensano.
Serve un secchio e per fortuna riusciamo sempre a trovarne uno nella casa dove dormiamo. Capisco che bisogna
mettersi in coda e aspettare il proprio turno per prendere l’acqua al pozzo con la pompa o con la corda, calando fino in
fondo un secchio di gomma. Una volta un paio di donne attivano la pompa per me e mi riempiono il secchio, forse hanno
intuito che avrei avuto difficoltà ad attivare quel marchingegno. Si insapona tutto, poi si riempie un altro secchio d’acqua
e si sciacqua facendo attenzione a non sprecarla. Non avrei il coraggio di prenderne un altro.
Mi piace questo momento della giornata perché mi sembra di entrare nella loro quotidianità e perché, pur venendo da
mondi diversi, allo stesso modo ci dedichiamo ad un’attività che in qualche modo accomunarci un po’, che ci mette sullo
stesso piano e ci rende un po’ più uguali. Anche se poi non si riesce a comunicare più di tanto, senza tante parole ci si
scruta reciprocamente: loro sono al centro della mia attenzione perché cerco di capire come comportarmi, quali sono le
regole del pozzo e noi, credo, siamo al centro della loro attenzione perché chissà, forse non si immaginano che anche noi
ci dedichiamo a queste attività.
Timbouctou
Ancora una volta ci ritroviamo a percorrere chilometri e chilometri di brousse; destinazione T imbouctou. Ogni tanto
la jeep si insabbia, allora è necessario scendere, caricare l’auto sul lato non insabbiato mentre gli autisti sono al volante.
Poi si riparte.
E ancora chilometri su chilometri di brousse.
L’autista ha il taguelmoust di T uareg, ma non so se lo è davvero. Corre come un matto sulla pista che non è neppure
troppo chiara, ma lui pare sicuro. Un po’ il timore mi prende quando vedo una jeep ribaltata, abbandonata a lato. Poi
ancora brousse, arbusti, sabbia, pista di cui non si vede la fine. A volte, qua e là, compaiono in questo arido panorama,
figure umane che camminano al fianco di un asinello o alla guida di piccole carovane di asinelli carichi di lastre di sale. Pare
incredibile che queste persone riescano a restare, magari per giorni e giorni, in solitudine e sotto il sole cocente. Ogni tanto
ci è concessa una sosta, soprattutto per far riposare le nostre ossa provate dai sobbalzi dell’auto i cui ammortizzatori
funzionano ormai sempre meno. E si riparte un’altra volta.
Manca poco a T imbouctou, dobbiamo ancora attraversare su una chiatta un tratto del fiume Niger e poi ci siamo. La
presenza di tanta acqua dopo tanta terra asciutta è rassicurante. E’ come se perfino gli occhi ne traessero beneficio. Mi
colpisce questo passaggio improvviso dall’asciutto del deserto, alle atmosfere e ai panorami rigogliosi che costeggiano il
Niger. Anche la traversata sulla chiatta è un momento pieno di colori, di gente, reso ancor più bello dal tramonto. Finita la
traversata si rimonta sulle jeep, mancano ancora pochi chilometri e siamo alla mitica T imbouctou.
Sin dall’inizio si nota che è una grande città, mentre io invece mi aspettavo un villaggio ormai sperduto nel deserto.
Molto meno rigogliosa del passato, delle cui glorie ancora gode, è comunque rimasta la più grande città del nord del paese,
ma la sabbia pian piano avanza e la rende parte del deserto.
Lato negativo del luogo sono le vere e proprie aggressioni commerciali subite da parte dei tuareg, o presunti tali, visto
che essere tuareg pare essere un affare. Sin dalla sera stessa ci invitano insistentemente a comprare, a contrattare e non si
riesce facilmente a toglierseli di torno per poter gustare tutti gli altri aspetti della città. Le strade sono di sabbia e ventose.
Ho ancora in mente le figure, uomini e donne che camminano per le vie avvolti in vestiti leggeri svolazzanti alle folate di
vento che si sente passare in mezzo alle case basse a ricordarci che dopotutto siamo in mezzo al deserto, poco lontano,
appena fuori dalla città.
Nel pomeriggio, a piedi, raggiungiamo le prime dune. Una moltitudine di sacchetti di plastica sono disseminati sulla
sabbia ai margini di T imbouctou e, oltre ai tanti sacchetti, tante baracche vicino alle quali scorgiamo i movimenti delle
persone che vi abitano mentre dei bambini giocano a far capriole buttandosi dalla cima di una duna. Qui i bimbi non sono
così intraprendenti come altrove, non ci vengono incontro, sono intimoriti dalla nostra presenza, a momenti pare anzi
che abbiano proprio paura. Non è facile avvicinarsi, con alcuni è impossibile. Alla fine una mamma chiama a se l’unica
bimba che ha avuto il coraggio di farlo.
È praticamente impossibile muoversi senza accompagnatori indigeni e così la passeggiata è in compagnia di due
adolescenti. Uno dei due mi racconta di sé, che è originario della Costa d’Avorio e che si è trasferito in Mali con la
famiglia, sta studiando alle scuole superiori ma non sa ancora cosa farà da grande. Gli chiedo della spazzatura che circonda
la città e lui mi spiega che non ci sono i mezzi per raccoglierla, per mantenere l’ambiente pulito.
Penso che in effetti non ce n’è neppure poi molta, rispetto a quella che produciamo noi, perché qui non ci sono né
così tanti prodotti, né così tanti involucri che li racchiudono, però evidentemente non c’è nessun tipo di organizzazione
finalizzata alla raccolta della spazzatura.
Ed è di nuovo tramonto. Il sole scende dietro l’orizzonte, le dune e il paesaggio tutto intorno hanno un colore rosato.
Lo splendido panorama ci strappa una foto.
Navigaz ione e vita sul Nige r
Partiamo da T imbouctou e ritorniamo verso il sud del Mali navigando sul Niger.
Lasciamo il deserto, luogo arido, che rende difficile la sopravvivenza di qualsiasi essere vivente per trovarci
all’improvviso immersi fra la rigogliosa vita che si concentra intorno a questo immenso corso d’acqua. Le nostre giornate
di navigazione iniziano quando è ancora buio e fa quasi freddo. Qualcuno riesce a vedere ancora qualche stella cadente,
mentre pian piano si fa giorno, la luce e le attività tornano ad essere più intense. L’atmosfera tutt’intorno diviene
luminosissima, resa tale dai riflessi del fiume che riempie di bagliori e luci. Il silenzio prevale ed è interrotto solo dal
rumore della prua della pinassa che taglia l’acqua e da qualche voce in lontananza. Pinasse di varie dimensioni vanno e
vengono, dalla più minuscola fatta di una sottile striscia di legno, a quelle un po’ più grandi dalle fantastiche vele, talvolta
rappezzate a più colori e piene di vento che fanno un baffo agli spinnaker del Mediterraneo.
Ci sono pescatori solitari appollaiati sulla punta della loro pinassa che aspettano di tirare su un pesce guardando pacifici
l’ambiente che li circonda.
Non si sa se l’attività principale sia pescare o, influenzati dal calmo fluire del fiume, godersi questo dolce far niente,
l’inerzia, attività peraltro abbastanza frequente in Africa. Altri sono invece più indaffarati, trafficano con le reti che,
tirate su dall’acqua, sono da sistemare; caricano, scaricano o, con una lunga pertica che tocca il fondo, spingono
l’imbarcazione. Alcune pinasse, non adibite alla pesca, sono più grandi e trasportano chiunque e qualunque cosa, da esseri
umani, alla pecora che sperimenta l’ebbrezza della navigazione, fino al motorino che forse è più utile all’altra sponda. Fra
queste, alcune sono davvero gigantesche e stracariche di gente, di fagotti pieni di chissà cosa, di grandi sacchi forse colmi di
miglio.
Caricate sia dentro lo scafo, sia sulla tettoia che le ricopre, danno l’impressione che da un momento all’altro possano
sprofondare: la linea di galleggiamento coincide praticamente con il bordo della carena. Sulle rive si scorgono le basse case
in fango, qualcuno che pascola gli animali e, nelle vicinanze dei villaggi, talvolta si vedono gruppi di donne intente a lavare
se stesse, i figlioletti e i panni che indossano poi subito dopo. Questi momenti, forse per loro occasione di socializzazione,
sono un tripudio di colori e di vociare di bimbi che vengono innaffiati dell’acqua del Niger. Ogni tanto il nostro pinassiere
attracca a riva per una sosta, sempre troppo breve.
Ci fermiamo in alcuni villaggi adagiati sulle sponde del fiume e quasi ogni volta la scena si ripete: appena la pinassa si
accosta a riva, per il villaggio sembriamo diventare l’attrazione del giorno, si avvicinano persone, ma soprattutto bambini,
tantissimi bambini colorati, sorridenti, curiosi, vocianti.
Inoltrandomi fra le strette viuzze dei villaggi, che col passare dei giorni, scendendo a sud, diventano anche ventose,
spesso mi ritrovo ad essere inseguita da questa miriade di bimbi. Fanno festa, battono le mani a ritmi diversi e armoniosi
che creano musica insieme alle loro voci e, nel farlo, muovono i loro corpi.
Si avvicina la sera. E’ il momento di attraccare per cercare un luogo dove montare la tenda per la notte. Al tramonto
tutto pare farsi ancor più lento, ma le attività non si fermano neppure di notte. Mi guardo attorno e non capisco come
mai la terra è secca anche qui, nonostante la prorompente ricchezza d’acqua poco lontana.
È un’altra volta il tramonto. All’orizzonte vedo il proseguire dello scorrere del fiume e col calare del sole i colori si
intensificano, tendenti al rosso, pian piano divengono sempre più bruni, finché il buio arriva improvviso. Ma
sorprendentemente la vita notturna sulle rive del fiume continua. E’ più lenta, ma continua.
Dentro la mia tenda avverto da fuori rumori, suoni, a volte del tutto irriconoscibili, altre volte più legati all’uomo.
Sono scene incredibili, come il passaggio di una carovana in viaggio, in parte per fiume, in parte via terra. Forse hanno
scelto la notte perché è più fresco. Vorrei stare sveglia, ma alla fine il sonno sopraggiunge. Ma poi mi sveglio di nuovo e in
altri momenti sono in dormiveglia. Ma una notte non resisto, devo vedere a cosa corrisponde ciò che sento. C’è anche
musica!
Metto la testa fuori dalla tenda e una scena incredibile si presenta ai miei occhi: un pinassiere spinge una stretta pinassa
con una lunga pertica accompagnando i movimenti al tempo di una musica proveniente da un registratore che si alterna al
suo stesso canto. Poco lontano altri uomini governano pinasse altrettanto piccole e fanno da contro canto al primo. Mi
pare un sogno: il rumore della pertica in acqua, la musica del registratore, il canto alternato di questi uomini, il fiume, il
buio, la luna...
Strade polve rose di Mopti, Bamako, tanti odori, ge nte , smog, colori, rumori
Mopti: strade polverose, sterrate e anche quando sono asfaltate restano comunque molto polverose. T utto intorno è
tendente sempre al rosso, colore che pare riflettersi anche su ciò che rosso non è. Il Niger bagna questo grande paesone e
qui le pinasse arrivano al grande porto fluviale cariche di lastre di sale. Queste vengono scaricate, tagliate, vendute e poi
ricaricate su altri mezzi per essere trasportate altrove. La zona del porto purtroppo è anche una discarica a cielo aperto ed
allo stesso tempo uno spazio di gioco per i bambini che la percorrono incuranti di ciò che accade tutto intorno. Le rive del
fiume non sono solo un attracco per le pinasse, sono anche un luogo di vendita di qualsiasi cosa: un mercato. Sono uno
spazio dove stendere ad asciugare i panni. È l’ora della preghiera e c’è fermento vicino alla moschea che in breve vede le
sue entrate riempirsi di uomini.
Bamako
E per finire, ritorniamo nel traffico disordinato di Bamako.
Il Mali, non so ancora bene perché, mi ha un po’ stregato. Sono tornata con la sensazione di aver lasciato in sospeso
qualcosa, come se dovessi tornare in quella terra dove ho da concludere qualcosa.
La Main De Fatma: spedizione alpinistica in Mali
Raffaele Barbolini
I pre ce de nti de l viaggio
L’idea di andare in Mali ad arrampicare era sicuramente tra le proposte invernali possibili la più ambiziosa. La
decisione definitiva di organizzarci per questa spedizione l’abbiamo presa una domenica di ottobre su un sentiero, al rientro
dal Pilastro Lomasti in Valle d’Aosta. Le informazioni che avevamo in merito alla Mano di Fatma erano poche e limitate
a una manciata di relazioni che erano comparse su un paio di riviste specializzate. L’unica certezza, quindi, era che ci
saremmo mossi in un ambiente complessivamente molto severo in mezzo alla brousse e su pareti di granito rosso
decisamente verticali.
Siccome i sogni d’arrampicata si costruiscono poco alla volta, nei weekend successivi si andava delineando un quadro
della situazione più completo. A distanza di qualche settimana eravamo entrambi soddisfatti della decisione presa e ci
sembrava che anche solo in due potesse funzionare. Il risultato è stato un viaggio esaltante in Mali, dove Francesco e io,
nella magnifica cornice ambientale delle cinque dita della Mano di Fatma abbiamo effettuato sei ripetizioni e aperto due
nuovi itinerari.
Il viaggio
La sera del 21 dicembre sbarchiamo a Bamako. È già notte fonda e la città dorme, le sue strade sono poco trafficate,
immerse in un silenzio irreale. Poche auto, solo qualche motorino ma nulla di più; di giorno, invece, la città si trasforma.
Già dall'alba le sue strade si animano. Bamako in realtà, è un enorme mercato a cielo aperto, dove ogni via, ogni piazza,
ogni strada è una parte di quest'enorme commercio. La città ha strade piccole e marciapiedi inesistenti, con una
circolazione caotica e disordinata. C’è gente che cammina, che spinge, che parla e che osserva, il tutto in un'affascinante
atmosfera africana. Nei pressi del centro, vicino alla moschea, c'è una zona che ha mantenuto tutto il suo antico fascino
inalterato nel tempo. T utto ruota intorno a quest'enorme edificio; qui si trovano barbieri, venditori di scarpe e di tessuti.
Proprio accanto a loro c'è chi vende ossa, teste d'animali, pelli e unguenti. Ma il sole caldo e l'odore di questi feticci,
produce nell'aria un profumo non molto piacevole.
Facciamo rifornimento in un negozio di alimentari di Bamako di quanto ci servirà a coprire le due settimane di
permanenza al nostro campo e già in tarda mattinata siamo in viaggio nella direzione di Djennè. I quasi mille chilometri
che ci separano dalla Mano di Fatma richiedono più giorni per essere percorsi.
Il lunedì c'è il mercato a Djennè, ed è il giorno dalle tinte forti. Puoi trovare uomini, donne e bambini, ognuno con i
propri abiti tipici o con i propri oggetti in mano, ognuno con il proprio dialetto e ognuno con la sua storia.
Finalmente mi trovo davanti alla Grande Moschea, magnifico esempio di architettura sudanese, costruita con fango e
tronchi d’albero. La cosa più straordinaria è che ogni anno questa moschea dopo la stagione delle piogge viene ricostruita.
T utt'intorno un gran commercio. Gente che passa, compra, parla, e poi si siede a osservare il mondo attorno a se, perché
oggi il mondo è qui.
È solo il giorno della vigilia di Natale che là in fondo, dove la linea dell’orizzonte si perde tra cielo e terra vediamo
comparire la sagoma delle cinque torri di granito: una «mano» dalle linee semplici proprio come l’avevamo vista in quelle
poche foto e come l’avevamo immaginata sino ad allora. Scarichiamo dal bus il bidone blu da spedizione e il resto dei
bagagli e salutiamo gli amici con i quali abbiamo condiviso questi tre giorni di trasferimento.
Il Campo
Da questo momento in poi saremo sempre e solo io e Francesco, unici attori e protagonisti delle arrampicate alla Main
de Fatma. L’isolamento del luogo e le condizioni climatiche particolarmente avverse non hanno portato altri alpinisti in
loco durante il nostro soggiorno. T roviamo una sistemazione più che adeguata nel campeggio in una capanna di paglia
dove depositiamo tutto il materiale, creiamo uno spazio cucina e un giaciglio per i riposi pomeridiani del dopo-
arrampicata.
La vita al campo è scandita da ritmi molto regolari e dettati dalla legge del sole. Il calore già dalle prime luci avvolge
rapidamente il villaggio, le cose, le persone e gli animali per diventare quasi insopportabile verso mezzogiorno, è solo
verso la metà del pomeriggio che i suoi raggi si smorzano per tramontare intorno alle 18. Sarà sempre questa lotta contro
le poche ore di luce a disposizione e contro il caldo a dettare i ritmi di arrampicata. Già Salvador Campillo ci aveva messo
in guardia appena arrivati dicendoci per prima cosa “ ....qui non si può sbagliare”. In prima battuta pensammo che facesse
riferimento ai quantitativi di acqua da bere durante le arrampicate, ma solo in seguito capimmo che quelle parole avevano
un significato molto più profondo e si riferivano a qualsiasi azione che si svolge in parete e non.
Djounurè è il proprietario gestore del campeggio ai piedi di Fatma, situato a 10 minuti di cammino da Daari.
Nonostante vi siano solamente un paio di capanne e una casetta-ripostiglio, il campement è provvisto di un generatore di
corrente ed è sempre ben rifornito di acqua potabile. Noi per non compromettere il viaggio con spiacevoli e inutili
infezioni intestinali abbiamo preferito non fidarci troppo della limpidezza dell’acqua, depurandola.
Le pare ti di Fatma
E’ l’alba ed è anche il giorno di Natale, ma in questo momento ha poca importanza. Il sole sale lentamente e di fronte
a me si apre la visuale della valle in cui ci troviamo, alle mie spalle si alzano verticali i 600 metri della parete est del Suri
Tondo. L’Harmattan non ha mai smesso di soffiare da quando abbiamo lasciato il campo alle cinque di questa mattina e
ancora adesso soffia con ritmi delicati ma costanti; è un vento tiepido che arriva da lontano e ha sempre la stessa
intensità, mai rafficato e mai moderato. L’Harmattan soffia sempre.
Quando albeggia siamo già all’attacco della via da più di venti minuti aspettando in silenzio al buio. Per iniziare
abbiamo scelto una via lunga e dura, ma interamente attrezzata - tranne gli ultimi tre tiri.
Il primo tiro vado io, è facile e scivola via tranquillo, poi sul secondo tiro (VI°) vedo Francesco che sale lentamente, è
silenzioso, non ne capisco il motivo, ma penso che sia solo questione di ambientarsi un attimo.
Dalla sosta in cui mi trovo io la roccia sembra più che ottima; aspetto che mi recuperi le corde e parto. Dopo un paio
di metri mi accorgo a mia volta che qualsiasi appiglio è reso scivoloso da una patina lucida con un odore di orina
intensissimo. Anche la tenuta in fessure a incastro non è affidabile e dopo qualche secondo la presa comincia ad allentarsi e
a scivolare via.
La sensazione non è paragonabile nemmeno alla più unta delle pareti delle nostre Alpi, e così quando arrivo in sosta,
guardo Francesco e coniamo la parola “ sguizzo”: il termine che forse meglio racconta questa velocissima reazione chimica
tra il sudore acido della pelle con il sottile velo di guano-urina della roccia e che in pochi secondi ne modifica la struttura
rendendo una presa apparentemente solida, un pericoloso pezzo di granito insaponettato. Poi l’esperienza in loco ci
insegnerà che ci sono alcune regole abbastanza evidenti di sopravvivenza della fauna locale (uccelli) che determinano una
maggiore o minore presenza di guano. Successivamente saremo molto attenti a questo fattore nella scelta degli itinerari!.
Quel gres quarzitico liscio che i primi giorni ci rendeva l’arrampicata molto sostenuta, successivamente in vie quasi
interamente da attrezzare, si rivelerà un supporto solido e veloce per mettere le protezioni. Quello stesso vento che
sembrava voler togliere la voce al compagno durante le manovre di recupero e che sembrava volerci prosciugare il corpo
fino all’ultima goccia d’acqua, sarà l’unico modo per mantenersi freschi in giornate intere passate in parete sotto il sole.
Quel guano che tanto abbiamo odiato ci porterà ad arrampicare come veloci equilibristi risparmiando forze ed energie, e le
due corde nuove che alla fine della spedizione erano consumate oltre la calza ci confermarono che potevamo tornare a
casa più che soddisfatti.
I primi giorni hanno segnato le ripetizioni più impegnative e l’apertura di un primo itinerario “ Le Grand chef” sul
Wangel Deblidu. Ma il tempo scorre via veloce tra arrampicate, esplorazioni, riposi e ritirate, e ci affrettiamo a
individuare una nuova linea di salita sul Wanderdu che diventerà “ Pane e Birra”.
Si tratta di un viaggio ai confini del tempo dove l’eccezionale verticalità, l’ambiente, i numerosi quarzi affioranti e la
possibilità di proteggersi rendono l’arrampicata veramente entusiasmante, da considerarsi come un paradiso anche se gli
appigli spesso minimi, la mancanza di chiodi e fix assieme alla componente ambientale impongono il sapersi muovere con
estrema disinvoltura.
Attività alpinistica
Le vie da noi salite, nonostante la scarsa frequentazione della zona, sono tra le più ripetute e precisamente si tratta di:
Kaga T ondo: Sperone Nord, 600m T D+ (6a)
Vuelva Usted Mañana, 400m ED (6b e A2)
Kaga Pamari: Makumba Circus200m ED (6b)
Suri T ondo: Guy Abert 500m ED- (6b+)
Wanderdu: Etat Grippal 300m ED- (6a+)
Wangel Deblidou Normale 150m D+/T D- (5)
I due nuovi itinerari aperti con il trapano sono stati attrezzati a fix da 8 mm:
Wangel Deblidou: Le Gran Chef, 180m T D,5/A1
Wanderdu: Pane e Birra, 300m T D+,6a/b
Indice degli autori
Raffaele Barbolini
Luigi Belli
Valeria Colombera
Patrizia Galardi
Silvia Mantino
Stefano Pansotti
Wanda Romagnoli
Franco Sarcinelli
Marco Vasta
Brunella Venturi
Mappa interattiva

Clicca Q UI per visualizzare la mappa interattiva e arricchirla con le tue impressioni sui luoghi raccontati.
Sommario
Nota dell'editore
Prefazione
Cenni storici
La traversata del fiume Bani, appuntamento annuale per le mandrie dei nomadi Peul
Il paese dai mille volti
Itinerario in Mali
Mali - Dogon: analisi su un paese denso di contraddizioni
Dakar - Lomè e lo stupore non finiva mai
Mali 1981 stelle dal cielo. Dalla regina delle sabbie alla falesia Dofno
Lungo la via del sale – Le miniere di sale di T audenni nell’estremo nord del Mali
Un’altra realtà un altro mondo
La Main De Fatma: spedizione alpinistica in Mali
Indice degli autori
Mappa interattiva
Mali. Avve nture in un pae se ne gato
A cura di Asterisk edizioni
Con la prefazione di Karima Moual
Realizzato con i racconti e le fotografie di
Viaggi Avventure nel mondo srl
Chiuso nel maggio 2013
Segui Asterisk edizioni su Facebook
Segui Asterisk edizioni su Twitter

You might also like