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Università e sapere.

Alcune considerazioni ulteriori


Piero Vereni – Roma Tor Vergata
piero.vereni@gmail.com

Ho letto con grande interesse e credo pari attenzione il dossier “Università e sapere”
pubblicato sul numero di Achab 7/2006, e vorrei articolare alcune riflessioni sullo stato attuale
dell’Università italiana prendendo proprio spunto da quel dossier.
Per chi non l’avesse letto, ricorderò che si tratta di una raccolta di testi che commentano a
vario livello e da varie prospettive uno scritto di M ichel de Certeau del 1977 che è incluso nel
dossier con una bella introduzione di Paola Di Cori. Il testo si intitola “Che cos’è un seminario?
Una caquetoir (luogo di chiacchiere)” e risulta particolarmente ricco di stimoli e punti di
riferimento anche spiazzanti (come molta della scrittura di de Certeau, ricostruita nel suo quadro
genetico dal bel testo introduttivo di Paola Di Cori). Bene, cos’è un seminario, secondo de
Certeau? È innanzi tutto un luogo paritetico in cui i soggetti partecipanti possono prendere la
parola e produrre un sapere che nasce dalla condivisione, dall’incrocio non sistematico. La
metafora del caquetoir mi è particolarmente cara in quanto veneto, dato che il ciacolesso del
mio dialetto è un concetto affine, essendo una disposizione al chiacchiericcio, una pratica
sociale di linguaggio apparentemente non finalizzato. Proprio questa dimensione pratica del
seminario è enfatizzata da de Certeau che insiste sul fatto che il seminario, di fatto, non è un
luogo. È invece uno spazio di transito, “come gli svincoli stradali”, che ovviamente non sono
fatti per soggiornarvi ma per portare da qualche parte, venendo da qualche altra. Così, il
seminario è un punto di passaggio a cui si porta la propria esperienza e da cui si riparte per
mutare il nostro rapporto con il reale che travalica lo spazio del seminario.
C’è un punto particolarmente interessante in cui de Certeau sintetizza il suo atteggiamento
nei confronti del seminario, collocato come una sorta di media virtus tra due estremi:

…io cerco di “tenerlo” [il seminario] (come si “tiene” una direzione) tra due modi di dare a
un Seminario un’identità ripetitiva che esclude l’esperienza del tempo: l’uno, didattico,
suppone che il luogo è costituito da un discorso professorale o dal prestigio di un maestro,
cioè dalla forza di un testo o dall’autorità di una voce; l’altro festoso e quasi estatico,
pretende di produrre il luogo tramite la ricerca di una trasparenza di espressioni comuni.
T utti e due sopprimono le differenze al lavoro in un collettivo, – il primo schiacciandole
sotto la legge del padre, il secondo cancellandole illusoriamente nel lirismo indefinito di
una comunione quasi materna (p. 48).
P iero Vereni – Università e sapere – novembre 2008

Quindi il seminario è uno spazio dove scorre il tempo che si colloca tra due situazioni invece
atemporali. La prima (quella “paterna”, in senso veramente lacaniano) è “la lezione”, in cui vige
il principio di autorità, mentre l’altra, quella “materna”, a me ricorda moltissimo “l’assemblea”
descritta e teorizzata da Pietro Clemente in Triglie di scoglio. Sono due forme di comunicazione
senza tempo, ci spiega de Certeau, perché sopprimono o fingono di sopprimere la differenza,
mentre il seminario è dentro il tempo, e consente quindi un suo utilizzo storico e politico perché
“L’esperienza del tempo comincia in un gruppo con l’esplicitazione della sua pluralità”. Trovo
particolarmente illuminanti questi riferimenti per l’argomentazione che voglio sostenere in
queste righe, e quindi prego chi legge di porgervi la massima attenzione.
Altri punti estremamente utili della riflessione di de Certeau su cosa sia un seminario sono la
sua natura sistematicamente tattica (secondo la sua classica definizione che ricorda molto quella
di resistenza di altri vocabolari delle scienze sociali) e l’intento antielitario che informa il
seminario, un intento che giunge a considerare quasi demartinianamente il “rischio”
dell’ingresso di nuove classi nelle stanze del sapere/potere:

…in rapporto al CNRS o ad altre istituzioni spesso formate da luoghi inaccessibili per
privilegiati senza responsabilità sociale e senza una regolare relazione con il recente flusso
delle ricerche degli studenti, le università offrono spazi di confronto permanenti con le
domande e le innovazioni che i “ricercatori” patentati non percepiscono più. Mi sono
sistemato a Parigi VII per questo. Alle grandi scuole “ famigliari” o alle strutture insulari
della Ricerca, “ home” per un’intelligenza tranquilla da sola, preferisco questi luoghi
universitari (del resto lentamente proletarizzati in rapporto ad una élite che gli sta di fronte)
(…) Certo la “ miseria” dilaga in questi luoghi. Ma proprio per questa ragione può essere
che l’intellettuale trovi in questa collaborazione un’altra figura sociale e un altro ruolo
tecnico, molto più che nelle celle ad aria condizionata in cui si giudica con disprezzo la
degradazione dell’università (p. 50).

Prima di riprendere questi punti, vorrei partire dal giudizio generale che il seminario, così
come è definito da de Certeau, è sicuramente una forma di propagazione e riproduzione del
sapere che va perseguita dentro l’università, ma la cui efficacia va commisurata ai partecipanti.
Da quel che posso desumere dalla mia esperienza didattica, il seminario di de Certeau è pensato
per lasciare finalmente la parola a studenti che hanno già percorso un tratto di strada verso la
posizione sociale di “studiosi”, che hanno cioè interiorizzato l’idea di sapere come processo, e
non semplice prodotto finito da acquisire passivamente.

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P iero Vereni – Università e sapere – novembre 2008

Eppure, mi chiedo, da dove viene questa concezione già/sempre critica del sapere? A meno
che non ne vogliamo fare una questione di predisposizione genetica – per cui alcuni fortunati
nascerebbero con la capacità di essere studiosi, e potrebbero così partecipare proficuamente al
seminario, e altri sfortunati sarebbero semplicemente tagliati fuori ab ovo – dobbiamo
riconoscere che lo s guardo critico e riflessivo verso il sapere è una dote che si acquisisce nel
corso dell’acquisizione del sapere stesso, un po’ come la capacità di galleggiamento, che ci si
scopre ad avere mentre si impara a nuotare, ma senza che sia un obiettivo dichiarato
dell’apprendimento. E come un buon insegnante di nuoto non getta i suoi allievi nell’acqua alta
alla prima lezione, dato che non sanno nuotare e non vuole farli affogare, così io credo che un
buon insegnante dell’odierna università italiana non dovrebbe organizzare la didattica a
seminario fin dall’inizio, ma dovrebbe porsi l’obiettivo di creare seminari in cui gli studenti
possano/debbano prendere la parola non appena sono in grado di galleggiare sull’idea di sapere
come processo e come tattica.
Per giustificare l’inevitabile paternalismo di questa mia posizione pedagogica, non posso che
fare riferimento alle condizioni sociali di chi affaccia oggi, dopo la legge di riforma 270, agli
studi universitari. I dati sulle percentuali di studenti lavoratori e sul livello di scolarizzazione dei
genitori delle matricole sono molto interessanti (li prendo da un’inchiesta pubblicata sul
Corriere della Sera il 9 giugno 2008).
M entre con il vecchio ordinamento ad aver lavorato durante l’università era solo il 55,1%
degli studenti, con il nuovo ordinamento questo numero schizza al 73,2% per la triennale e al
70,9% per la magistrale. Questo dato può significare due cose: che frequentano l’università
persone già inserite nel mondo del lavoro che intendono migliorare le loro competenze (e le loro
prospettive di carriera, immagino) qualificandosi ulteriormente; oppure che hanno iniziato a
frequentare l’università persone che un tempo sarebbero state attratte direttamente dal mondo
del lavoro dopo il diploma. Le due cose sono ovviamente vere entrambe, e se molti sono
“tornati” a studiare dopo anni di lavoro, altri hanno continuato a studiare pur se la loro
condizione socio-economica li avrebbe, con un altro sistema, facilmente allontanati dal modo
dello studio.
Questa interpretazione sembra confermata dal secondo dato cui facevo riferimento, che è la
percentuale di studenti che hanno almeno un genitore laureato. Con il vecchio ordinamento
questa percentuale era del 45,1%, vale a dire che, qualunque università aveste avuto modo di
visitare fino al 1999, quasi uno studente su due aveva un genitore già laureato. Ora questo
numero è crollato al 23,5% per la triennale e al 31,1% per la specialistica. Non si può trascurare
la rilevanza di questo dato, che segnala un mutamento radicale nella struttura sociale del paese.

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P iero Vereni – Università e sapere – novembre 2008

Non sono più i laureati a generare figli che si laureeranno (com’era di fatto prima della riforma
del 1968), e non è più neppure vero che la laurea di un genitore è un fattore che predice quasi al
50% l’eventualità che un figlio si laurei: oggi quella percentuale è scesa a meno di un terzo per
le lauree specialistiche e addirittura a meno di un quarto per la triennale. Significa che la riforma
ha fortemente incrinato il sistema di casta dell’accesso all’istruzione terziaria, portando
all’università nuove masse di studenti che non portano da casa alcuna frequenza con l’alta
istruzione.
Una quota sempre più consistente dei nostri studenti proviene quindi da condizioni
economiche modeste e da contesti culturali in cui il sapere è concepito perlopiù come un nucleo
solido da acquisire per quanto possibile, ma sostanzialmente statico.
Certo, continua a frequentare l’università pubblica italiana – ma in numero sempre calante,
ché molti vanno alle private, e molti studiano all’estero – la progenie della buona borghesia
imprenditoriale e intellettuale, figli di professionisti, insegnanti, docenti e funzionari, che hanno
con la “cultura” una consuetudine domestica, che sanno chi è Foucault e Bizet o Gadda prima di
varcare le porte dell’Ateneo,e che sono certamente in grado con poco sforzo di comprendere il
valore di un seminario à la de Certeau.
A questo punto, spetta a noi docenti. Le alternative non sono molte e si possono rapidamente
elencare.
1. Possiamo lamentarci e rimpiangere i bei tempi dell’università d’élite, quando l’accesso era
consentito ai liceali (prima del Sessantotto) o al limite quando i ritmi blandi del vecchio
ordinamento ci consentivano di pascolare da novembre a maggio, per tre oruzze scarse la
settimana, senza una vera meta, il nostro gregge di studenti dal quale, quasi per fissione naturale,
veniva poco a poco distaccandosi la crema degli ottimati, in grado di giungere alla dimensione
esoterica del sapere, che coccolavamo come tesisti e che cercavamo poi di sistemare come
dottorandi, assegnisti, ricercatori.
2. Possiamo vivacchiare nel nuovo e ora nuovissimo ordinamento incolpando edipicamente
“la Legge” per il fatto che non sappiamo riorganizzare la nostra didattica nel 3+2, divenuto
quasi un male assoluto, solo perché ci costringe a modulare non solo il contenuto del nostro
sapere, ma anche le nostre forme della sua espressione. Tanto, qualche ottimate emergerà
comunque (sarebbe emerso in ogni caso, indipendentemente dal nostro lavoro) e potremo quindi
ricavare un briciolo di soddisfazione e, chissà, farci un bel seminario.
3. Possiamo infine prendere atto del fatto che l’università è veramente diventata di massa e
decidere che il nostro compito non è più quello di raccogliere la crema della crema, ma
produrre crema impegnandoci seriamente come formatori delle masse studentesche. Il 3+2 era

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P iero Vereni – Università e sapere – novembre 2008

stato originariamente concepito con questo fine, quello cioè di far maturare dentro l’università
dei giovani che per la prima volta venivano esposti al sapere critico e che non avevano ereditato
dal loro contesto familiare e sociale un’attitudine allo studio come processo.
È stato facile fare il docente universitario fino agli anni Ottanta: gli studenti arrivavano
all’università portando in sé già incorporato un habitus orientato al sapere critico e il numero
sempre crescente dei fuoricorso dal 1970 in avanti era un sintomo del progressivo ingresso di
studenti senza quest’habitus, che avevano bisogno (come me, che ci ho messo tre atenei e otto
anni per laurearmi) di un tempo lunghissimo per maturare un rapporto adulto con la conoscenza
che veniva proposta loro all’università. Quegli studenti dovevano prendersi più tempo (se
potevano economicamente permetterselo) perché il sistema della didattica non era pensato per
loro, ma sempre/ancora per la crema già ammantata dell’habitus giusto, che infatti si laureava
per tempo, vinceva presto i concorsi di dottorato e ricercatore e perpetuava, sia pure in
sedicesimo, il criterio nobiliare e distintivo che aveva garantito l’accesso alla docenza negli anni
precedenti.
Il 3+2, proprio perché invoglia l’ingresso all’università di ulteriori fasce sociali poco avvezze
alla cultura, ci offre, come docenti, un’opportunità unica, vale a dire quella di recuperare, dopo
secoli, il nostro ruolo di maestri, che sono coloro che insegnano sapendo/sperando che i loro
allievi imparino a contestarli, acquisiscano gli strumenti per criticarne i fondamenti e articolare
nuove modalità di conoscenza.
M a qualunque rapporto di questo tipo (che io vedo per molti versi simile al rapporto tra
artista rinascimentale e ragazzo di bottega) prevede necessariamente una fase di apprendistato,
in cui il maestro si assume la responsabilità di trasmettere il suo sapere. Parlo intenzionalmente
di responsabilità perché questa fase (la fase “del manuale”, del “modulo di base” nei nostri corsi
di laurea) viene stranamente (o lapalissianamente, se si adotta una prospettiva bourdiana)
sottovalutata da una certa critica al nuovo modello di didattica come fosse una sciocchezza, una
perdita di tempo dal valore irrisorio se non nullo, rispetto almeno ai “moduli di
approfondimento”, ai “corsi monografici” dove si può squinternare la propria scienza e, ça va
sans dire, ai seminari à la de Certeau. Ecco, ad esempio, come ne parla Franca Balsamo nel suo
commento su Achab (ma è chiaro che non ce l’ho con lei, dato che questo modo di rappresentare
la situazione “lezione al primo anno con il nuovo ordinamento” è molto comune):

Qui si insegna: qualcuno recita la sua parte, mostra quanto è bravo, quanto la sa bene – se la
sa – si aspetta un “ riconoscimento”: diviso tra questo “ riconoscimento” speciale di sé e
l’idea che gli altri (le/gli studenti) sia sacche quasi vuote (non hanno letto Simone de

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P iero Vereni – Università e sapere – novembre 2008

Beauvoir! Non sanno chi è Sartre! […]) sacchi vuoti da rimpire. E giù parole, lezioni,
concetti, collegamenti, passioni verbali e concettuali, giù giù dentro i sacchi – e infine la
verifica: quanto è rimasto dentro? (p. 52).

Quest’immagine completamente negativa della lezione (contrapposta alla natura “utopica”


del seminario spesso anche insistendo sui numeri eccessivi dei frequentanti, come se le aule ad
anfiteatro siano state un’invenzione della legge 270, e non una necessità che risale alle
università medievali) questa natura irrimediabile della docenza, mi viene da dire, è concepibile
solo se si ha un’idea del tutto passiva (e del tutto fuorviante rispetto ai processi reali) della
ricezione del contenuto dell’insegnamento trasmesso. Paradossalmente fedele alla
contestatissima “teoria ipodermica” della comunicazione (per i non addetti, ricordo che la
“teoria ipodermica” ipotizza che i messaggi siano trasmessi dall’emittente al ricevente come si
potrebbe trasmettere un vaccino per via ipodermica, senza alcuna partecipazione attiva da parte
del ricevente) questa concezione della “lezione alle matricole” o è figlia di una clamorosa
mancanza di conoscenza degli elementi basilari della semiotica (ipotesi che tendo ad escludere,
ovviamente) oppure deriva da un’inconsapevole vocazione elitaria, che guarda con fastidio le
grandi masse (ovviamente poco colte, non sanno chi è Sartre, figuriamoci) che si affacciano
nelle aule universitarie invece di andare a lavorare.
Questa tendenza chiaramente distintiva (in senso proprio bourdiano) che rende fastidiose agli
occhi di molti le aule stracolme, che trasforma gli studenti in scomodi postulanti, che vede nel
numero un ostacolo al sapere, assume connotazioni spesso e paradossalmente classiste, sulla
base di una concezione del sapere di indubbia derivazione idealistico-crociana. Un altro
commentatore sullo stesso numero di Achab che sto leggendo, vale a dire Stefano Boni,
riflettendo sulle riforme universitarie dal 1989 al 2005 sostiene che “lo scopo [del percorso
formativo] non è la costruzione di professionalità tecniche ma di una consapevolezza critica” (p.
55), come se le due cose fossero in antitesi necessaria, secondo la lezione di Croce per cui tutto
il sapere che non era critico (tutto quel che non era filosofia, per intenderci) non era vero sapere
e andava relegato nella tecnica intesa come la meccanica applicazione di principi eterologhi.
Anche senza rifarsi al marxismo canonico, credo che questa contrapposizione tra tecnica e
critica, tanto più oggi, non abbia ragione d’essere, dato che non si capisce come si possa
praticare la critica senza un’adeguata competenza tecnica. In questa vocazione “astratta” degli
studi universitari mi pare di intravvedere un residuo della concezione aristocratica dello studium
come otium, cui possono accedere solo quanti non hanno certo incombenze pratiche da svolgere.
La contrapposizione tra identità del fare e identità dell’essere è antica, ma mi chiedo perché mai

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P iero Vereni – Università e sapere – novembre 2008

l’Università dovrebbe programmaticamente privilegiare le identità dell’essere, notoriamente


classiste ed elitarie.
M a questa concezione paradossalmente elitaria del sapere universitario arriva al punto di
negare legittimazione a qualunque percorso professionalizzante con un contorsionismo logico
degno di un retore dell’antichità. Dice infatti sempre Boni: “La trasmissione di conoscenza è
pubblica nel senso che dovrebbe essere accessibile a tutti (e non solo a chi sta per entrare nel
mondo del lavoro)”. Ora, mi chiedo chi possano essere questi altri che si sentirebbero esclusi per
il fatto che all’università accedono persone che, una volte uscite, pensano (ohibò!) di entrare nel
mondo del lavoro: monaci stagiriti? M endici? Oppure signorotti con una rendita da latifondo?
Per loro, del resto, l’università resta comunque aperta, anche se vi possono accedere ora perfino
persone che pensano che quel che imparano (come dice de Certeau per il seminario) vada
portato fuori dall’accademia, nella vita di tutti i giorni, e quindi anche nel lavoro. La vera
esclusione sarebbe semmai l’inversa, se un’università per sport non pensasse minimamente a
quanti stanno entrando nel mondo del lavoro, e non consentisse loro di accedere all’istruzione
terziaria. Quindi un’università che pensa a chi lavora consente a chi non deve lavorare (beato
lui) di accedervi comunque, mentre è un’università ristretta a quanti non avevano la necessità di
lavorare che non sarebbe democratica.
Come si vede, in nome di una concezione estremamente svilente e svilita della didattica “alle
masse” si possono enunciare paradossali petizioni all’esclusione, che hanno tutte come premessa
la straordinaria pesantezza e inutilità di insegnare gli elementi di base alle torme delle matricole
con il diploma professionale (mentre sarebbe così bello starcene a fare i nostri seminari per otto-
dieci eletti).
M a la trasmissione del sapere non è mai un’operazione di inoculazione del contenuto, e
implica invece un lavoro attivo da parte del discente. Certo, questa attività forse non è così
spettacolare come quella che si mette in mostra in un seminario inter pares, ma resta il fatto che
si può insegnare (si può trasmettere il sapere) solo a condizione che colui che apprende compia
lo sforzo di apprendere. Se non partiamo da questo punto ovvio ma spesso dimenticato,
rischiamo di porre tra seminario e lezione una contrapposizione dicotomica che nella realtà dei
fatti non ha ragione d’essere. E chi si è trovato a insegnare veramente alle masse (avete presente
un modulo di elementi di antropologia per 250 studenti del Dams che non hanno altri crediti M -
DEA?) con l’intento sincero di trasmettere i concetti basilari dell’antropologia senza pretendere
di laureare 250 antropologi fatti e finiti all’anno, ma solo di garantire a quelle masse alcuni
strumenti di analisi del reale che possono portarsi dietro nella vita e (ri-ohibò!) nel lavoro, quel

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tale dicevo sa benissimo quanta fatica ci vuole, quanto lavoro, ma sa anche quanto l’effetto
possa essere proporzionato all’intensità con cui ci si impegna nel realizzarlo.
Io voglio che i miei studenti di antropologia imparino a filtrare criticamente le mie idee sullo
stato nazionale e sul ruolo della televisione, e voglio che siano in grado di farmi sentire la loro
voce, la loro opinione e la loro presa della parola, portandomi le loro conoscenze e il loro
pensiero critico. M a per pretendere questo devo prima essermi assunto la responsabilità morale
del mio ruolo pedagogico, devo aver trasmesso loro alcuni strumenti di lavoro con i quali, spero,
saranno in grado di produrre nuovi strumenti di lavoro, smontare le costruzioni intellettuali che
propongo loro e articolare a volto volte le proprie costruzioni.
Per arrivare a rendere produttivo un seminario à la de Certeau, oggi in un’università pubblica
italiana (e non trasformarlo in una piscina piena di cadaveri galleggianti) devo prima accollarmi
il peso di essere maestro di antropologia, non solo professore. Devo essere disposto a estenuanti
sedute di ricevimento, per pomeriggi interi in cui gli studenti possano, senza fretta, esporre le
loro perplessità, o parlare delle cose che, banalmente, “non hanno capito”.
Bisogna pensare la didattica con verifiche frequenti, possibilmente scritte, anche se questo
implica ore e ore a leggere “compiti”. Si deve riuscire ad articolare le verifiche in forme
creative, per iniziare gli studenti alla creatività, e a volte bisogna capire quando è il caso di fare
il buffone, o di fare il burbero.
Il paternalismo incorporato in questa scelta è necessario e dobbiamo averne consapevolezza,
tenendo a mente che il padre è colui che si assume la responsabilità morale dell’educazione dei
figli, non solo e non sempre quello che comanda. Comanda quando questo gli viene imposto
dalle sue responsabilità, e non vede l’ora di essere “ucciso” dal figlio, che così si può liberare.
Il rapporto tra docente e discente nella “lezione”, fuori quindi dallo scambio paritario che
regna nel seminario, può essere metaforizzato anche in una forma meno imbarazzante, e più
vicina alla sensibilità degli antropologi. Nel suo commento al testo di de Certeau, Barbara
Caputo fa giustamente notare come il modello proposto nel seminario sia vicino allo spirito del
dono proprio come concepito dagli antropologi:

Credo che il modello del dono si attaglia mirabilmente a una idea di seminario, che fondi
una sua etica della tenacità su una “nobile gara”, dove la competizione va intesa non come
un superare l’altro, ma come superarsi reciprocamente nel dono, inteso come contributo
arricchente e fondamentale alla riuscita del seminario stesso (p. 59).

Notiamo intanto che non c’è riforma che possa regolamentare questo tipo di scambio
intellettuale, che appartiene al campo delle scelte morali di fondo, delle prospettive da cui

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guardiamo (o non guardiamo) al nostro lavoro, ma di certo esula da qualunque regolamento,


legge o decreto, costituendo piuttosto un atto tenacemente etico di superamento della legge, o di
sua interiorizzazione in senso kantiano.
M a questa concezione “equilibrata” della reciprocità, come sanno gli antropologi, è solo una
delle sue forme. A ggiunge infatti Caputo subito dopo:

Il riferimento maussiano all’obbligo di ridistribuire può rimandare a un differente senso o


linguaggio del dono, quello di Jacques Godbut, che porta alla donazione in senso verticale,
da una generazione all’altra, comportando un debito positivo che non contempla esigenza di
restituzione a breve scadenza, ma piuttosto la trasmissione dell’eredità alla generazione
successiva (ib.)

La lezione, più del seminario, costituisce questa opportunità di reciprocità dilazionata, anello
essenziale della trasmissione culturale: chi dona sa che non otterrà una restituzione in quel
contesto, ma si aspetta che ciò che ha donato venga fatto circolare e trasmesso (con tutte le
modifiche necessarie) in un altro tempo, in un altro luogo.

La didattica di base strutturata a lezioni, nel modello che io pratico e che considero adeguato
alle esigenze della riforma 270/509 e delle sue finalità di democratizzazione effettiva degli studi
universitari, non è una scocciatura (oddio, anche quest’anno mi tocca fare il corso di storia degli
studi!) ma la porta d’ingresso della vita universitaria di moltissimi studenti. Siamo noi su quella
soglia, e possiamo respingere gli zotici sperando che non ci disturbino dai nostri straordinari
progetti di ricerca (che ovviamente non sono per loro, ma per quelli come noi, di un’altra
specie), oppure possiamo accoglierli facendo loro vedere com’è fatta la casa, quali sono le
stanze più usate e gli oggetti che vi circolano. Se avremo la forza di non farli scappare, sono
sicuro che quanto prima molti di loro entreranno in quella stanza un po’ appartata, dove si
ascolta un mormorio soffuso che a volte si alza in una discussione animata, quella stanza di cui
loro avevano solo sentito parlare, da fuori, e nella quale ora sono curiosi di entrare per
partecipare a una cosa che i loro genitori non sapevano neppure cosa fosse: un seminario dove la
parola si prende, si cede, si scambia.

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