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Wladyslaw Szpilman. Il pianista.

Varsavia 1939-1945.
La straordinaria storia di un sopravvissuto.

Baldini&Castoldi.
http://baldini.editore.it
e-mail: infobaldini.editore.it

Traduzione dall'inglese di Lidia Lax.

Titolo originale The Pianist.

1988 Wladyslaw Szpilman

1999, 2002 Baldini&Castoldi S. p. A.
Milano

ISBN 88 8490 245 2


SCANSIONE DI SERENELLA - EMAIL: ANDALUSA@DAVIDE.IT


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Il 23 settembre 1939 Wladyslaw Szpilman, un giovane pianista di
Varsavia, suon il Notturno in C diesis minore di Chopin per la radio
locale, mentre le bombe tedesche cadevano sulla citt. Il rumore era
cos forte da impedirgli di udire il suono del suo stesso pianoforte. Fu
l'ultima trasmissione dal vivo in onda da Varsavia. Pi tardi, quello
stesso giorno, un ordigno tedesco distrusse la centrale elettrica e la
stazione radio polacca fu ridotta al silenzio. La guerra precipit
Varsavia nell'orrore feroce dell'occupazione. Rinchiusi nel ghetto e
assediati dalla fame e dalle malattie, gli ebrei furono a poco a poco
decimati. Agghiacciato testimone degli eventi che porteranno alla
rivolta e all'evacuazione della citt, Szpilman vide morire molti dei
suoi amici e la sua intera famiglia, riuscendo miracolosamente a
sopravvivere tra le rovine della sua amata Varsavia. Il pianista allo
stesso tempo la storia straordinaria della tenacia di un uomo di fronte
alla morte e un documento della misteriosa, possibile umanit degli
esseri umani: la vita di Szpilman fu salvata da un ufficiale tedesco che
lo ud suonare quello stesso Notturno di Chopin su un pianoforte trovato
fra le macerie. Subito dopo la guerra, Szpilman scrisse queste memorie
vivide e terribili. Le autorit comuniste polacche, per calcolo
politico, le censurarono, bloccandone la circolazione. Oggi, a distanza
di oltre cinquant'anni, esse vengono ripubblicate e rese per la prima
volta accessibili al pubblico internazionale. A corredo del tenerissimo
e implacabile testo originale, nell'edizione attuale de Il pianista,
lettori e lettrici troveranno un altro documento che non ha bisogno di
commenti: alcuni frammenti dell'accorato diario di guerra di Wilm
Hosenfeld, l'ufficiale tedesco che salv la vita a Szpilman, pagando
questa sua temeraria umanit con la prigionia in un campo russo e con la
morte.
Ritrovato alcuni anni fa
dai suoi eredi, questo diario un'accuse irrevocabile e insieme
struggente. Il pianista un testo splendido e fortissimo, da leggere e
far leggere, per non dimenticare e non ripetere le brutture che passano
sotto il nome di Storia. Prezioso come Il diario di Anna Frank o le
memorie per immagini di Charlotte Salomon, Il pianista si candida a
essere il libro pi necessario del secolo scorso. Da questo libro
stato tratto l'omonimo film, diretto da Roman Polanski, vincitore della
Palma d'Oro al 55 Festival di Cannes. Wladyslaw Szpilman, nato a
Varsavia nel 1911, ha studiato pianoforte presso il Conservatorio della
sua citt e presso l'Accademia delle Arti di Berlino. Dal 1945 al 1963
stato direttore dei programmi musicali alla Radio polacca, senza per
mai interrompere la sua attivit di pianista concertista e di
compositore. E' morto nel 2001.



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Prefazione.


Anche se fino a qualche anno fa mio padre non aveva mai parlato
delle sue esperienze di guerra, esse mi avevano per accompagnato
sin dall'infanzia. Proprio questo libro che io dodicenne tirai
fuori furtivamente da un angolo dei nostri scaffali mi permise
di scoprire perch non avevo nonni paterni e perch mio padre
non parlava mai della sua famiglia. Il libro mi rivel quella parte
della mia identit che ignoravo. Sapevo che lui sapeva che lo avevo
letto, ma non ne facemmo mai cenno tra noi. Forse proprio per questo non
mi pass mai per la mente che ci che aveva scritto potesse avere un
qualche significato per altre persone. E' quanto mi fece rilevare il mio
amico, Wolf Biermann, quando gli raccontai la storia di mio padre. Ho
vissuto in Germania per molti anni e la consapevolezza della dolorosa
incomunicabilit esistente tra ebrei e tedeschi e polacchi mi sempre
stata presente. Mi auguro che questo libro contribuisca a rimarginare
alcune delle ferite ancora aperte. Mio padre Wladyslaw Szpilman non
scrittore. Professionalmente quello che in Polonia viene definito un
uomo in cui la musica vive; un pianista e un compositore; da sempre una
figura carismatica, un punto di riferimento significativo nella vita
culturale polacca. Dopo aver completato gli studi di pianoforte con
Arthur Wladyslaw Szpilman Schnabel alla Accademia berlinese delle arti
e
quelli di composizione con Franz Schrecker, nel 1933, quando Hitler sal
al potere, torn a Varsavia dove lavor come pianista alla Radio
polacca. Nel 1939 aveva gi composto le colonne sonore di diversi film,
oltre a numerosi lieder, chansons e motivi all'epoca molto popolari.
Prima dello scoppio della guerra aveva suonato con Bronislar Gimpel,
violinista di fama internazionale, con Henryk Schoering e con altri noti
musicisti. Dopo il 1945 riprese a lavorare per la Radio polacca.
Ricominci a dare concerti in pubblico, come solista e con complessi da
camera. Ha scritto alcune composizioni sinfoniche e circa trecento
canzoni popolari, molte delle quali divenute grandi successi. Ha
composto anche musica per bambini, accompagnamenti musicali per
commedie
radiofoniche, e ancora altre colonne sonore. E' stato responsabile del
settore musicale della Radio polacca fino al 1963, allorch rinunci a
questo incarico per dedicarsi con maggiore impegno a tourne
concertistiche e al Quintetto pianistico di Varsavia che egli stesso ha
costituito insieme con Gimpel. Dopo pi di duemila concerti e recital in
tutto il mondo, nel 1986 si ritirato dalla carriera concertistica per
dedicarsi interamente alla composizione. E' un mio personale rammarico
che le sue composizioni siano ancora quasi sconosciute nel mondo
occidentale; ritengo che ci sia dovuto alla divisione in due mondi
culturalmente e politicamente contrapposti, cui l'Europa fu assoggettata
dopo la Seconda guerra mondiale. In tutto il mondo, la musica leggera e
di intrattenimento ha un pubblico ben pi vasto della musica classica. E
la Polonia non fa eccezione. La sua gente cresciuta con le canzoni di
mio padre perch lui, nel corso di diversi decenni, ha dato forma al
mondo della musica popolare polacca: ma la frontiera occidentale
polacca ha costituito una barriera per questo genere di musica.
Mio padre scrisse la prima versione di questo libro nel 1945, e sospetto
l'abbia fatto pi per se stesso che per l'umanit in genere. Scriverlo
gli permise di rielaborare entro di s le sconvolgenti esperienze della
guerra, liberando l'animo e i sentimenti cos da consentirgli di
continuare a vivere. Il libro non fu mai ristampato bench, nel corso
degli anni Sessanta, alcune case editrici polacche abbiano tentato di
renderlo accessibile alle generazioni nuove. Quei tentativi furono
contrastati: non ne fu data mai alcuna spiegazione, ma il motivo era
ovvio! Le autorit governative avevano i loro buoni motivi. Ora, a pi
di cinquanta anni dalla sua prima edizione, il libro stato pubblicato.
Forse una lezione utile per molte brave persone in Polonia, una lezione
che potrebbe indurle a farlo ripubblicare nel loro Paese.
Andrzej Szpilman


CAPITOLO I.

L'ora dei ragazzini e dei matti.

Ho iniziato la mia carriera di pianista durante la guerra, al Caf
Nowoczesna, che si trovava in via Nowolipki, proprio nel cuore
del ghetto di Varsavia. Quando nel novembre del 1940 i cancelli
del ghetto vennero chiusi, la mia famiglia ormai da molto tempo
aveva venduto tutto quello che si poteva vendere, persino
quello che noi consideravamo il nostro bene pi prezioso: il pianoforte.
La vita, alla quale quei tempi avevano tolto ogni valore, mi costrinse
tuttavia a vincere la mia apatia e a cercare un modo per guadagnarmi da
vivere. Grazie al cielo ne trovai uno. Il lavoro mi lasciava poco tempo
per rimuginare e la consapevolezza che tutta la mia famiglia dipendeva
da ci che io riuscivo a racimolare per sopravvivere, mi aiut
gradatamente a superare il mio stato di disperazione e di scoramento. La
mia giornata lavorativa iniziava nel pomeriggio. Per raggiungere il
caff ero costretto a farmi strada attraverso un labirinto di viuzze che
portavano nel cuore del ghetto o, in alternativa, se avevo voglia di
osservare le febbrili attivit dei contrabbandieri, potevo invece
rasentare il muro. Il pomeriggio era il tempo pi favorevole al
contrabbando. La polizia, stremata dopo una mattinata trascorsa a
riempirsi le tasche, in quel momento abbassava la guardia, occupata
com'era a fare i conti di quanto aveva incassato. Figure irrequiete
apparivano alle finestre e negli ingressi dei caseggiati che si
susseguivano lungo il muro, quindi si nascondevano di nuovo in
impaziente attesa del cigolio di un carro o dello sferragliare
di un tram che si avvicinava. A intervalli, il fracasso dall'altra parte
del muro si faceva pi forte e, non appena un carro trainato da cavalli
superava rapido il punto stabilito, s'udiva un fischio e sacchi e
involti volavano oltre il muro. Le persone in attesa si precipitavano
fuori dei portoni, afferravano svelte il bottino, scomparivano di nuovo
all'interno, e un silenzio ingannevole, carico di aspettative, di
nervosismo e di bisbigli misteriosi, calava di nuovo sulla strada per
minuti che sembravano eterni. I giorni in cui la polizia s'impegnava con
maggior energia nel proprio lavoro quotidiano, si poteva udire l'eco di
spari insieme con il rumore delle ruote dei carri e, al posto dei
sacchi, granate a mano volavano al di sopra del muro, esplodendo con
detonazioni cos violente da far sgretolare l'intonaco dalle pareti
degli edifici. I muri del ghetto non si estendevano per tutta la
lunghezza della strada. In alcuni punti c'erano lunghe aperture a
livello del terreno, attraverso le quali l'acqua fluiva dai tratti
ariani della via finendo nei canali di scolo, accanto ai marciapiedi
ebraici. Di questi varchi i ragazzini si servivano per la loro attivit
di contrabbando. Si potevano vedere figurette scure che vi si
dirigevano rapide provenienti da ogni dove, su gambette sottili come
stecchini, gli occhi impauriti che scrutavano furtivamente a destra e a
sinistra. Poi, piccole mani come nere zampette trasferivano la mercanzia
attraverso le aperture: mercanzia spesso pi grande dei contrabbandieri
stessi. Quando le merci contrabbandate erano dalla loro parte, i
ragazzini se le caricavano sulle spalle. Curvi e barcollanti sotto il
peso, le vene bluastre affioranti alle tempie per lo sforzo,
le bocche spalancate in doloroso ansito alla ricerca d'aria,
sgambettando veloci per disperdersi in tutte le direzioni, simili a
piccoli sorci impauriti. Il loro lavoro comportava gli stessi rischi e
gli stessi pericoli mortali di quello dei contrabbandieri adulti. Un
giorno, mentre costeggiavo il muro, mi capit di assistere a una di
queste fanciullesche operazioni di contrabbando che sembrava sul punto
di concludersi in modo positivo. Al ragazzino ebreo dalla parte opposta
del muro, mancava solo di seguire la sua mercanzia attraverso
l'apertura. La sua figuretta, tutta pelle e ossa, era gi parzialmente
visibile quando lui, a un tratto, prese a gridare. Al tempo stesso udii
lo sbraitare rauco di un tedesco dall'altra parte del muro. Mi
precipitai in soccorso del ragazzino per aiutarlo a sgusciare fuori
dalla strettoia il pi in fretta possibile ma, nonostante tutti i nostri
sforzi, si blocc incastrandosi con i fianchi nel canale di scolo. Lo
presi per i braccini tirandolo con tutte le forze che avevo in corpo,
mentre le sue grida diventavano via via pi disperate. Udivo i pesanti
colpi infetti dal poliziotto dall'altro lato del muro. Quando finalmente
riuscii a liberare il piccolo, mi resi conto che ormai era morto. La
spina dorsale era stata spezzata. Di fatto il ghetto non basava la
propria sopravvivenza solo sul contrabbando. La maggior parte dei sacchi
e dei pacchi lanciati al di sopra del muro contenevano doni dei polacchi
per gli ebrei pi poveri. L'effettiva e regolare attivit di
contrabbando era gestita da personaggi importanti come Kon e Heller. Era
un'operazione pi semplice e del tutto priva di rischi. Corrotti agenti
di polizia chiudevano un occhio a un'ora prestabilita e, subito, intere
colonne di carretti passavano attraverso il cancello del ghetto sotto il
loro naso e il loro tacito assenso. Trasportavano cibo, alcolici
costosi, ghiottonerie raffinate, sigarette arrivate
direttamente dalla Grecia, articoli diversi e cosmetici prodotti in
Francia. Al Nowoczesna ogni giorno avevo la possibilit di osservare il
passaggio di questa merce di contrabbando. Il caff era frequentato dai
ricchi che vi si recavano carichi di gioielli d'oro e di brillanti. Allo
schiocco dei tappi dello champagne, prostitute truccate vistosamente
offrivano i loro servizi ai borsaneristi seduti a tavoli riccamente
imbanditi. Fu l che io persi due illusioni: la mia fiducia nella
solidariet umana e nell'amore degli ebrei per la musica. Ai mendicanti
non era permesso di star fuori del Nowoczesna; robusti guardiaportoni li
cacciavano con i manganelli. Carrozzelle come risci spesso venivano da
lontano e gli uomini e le donne che vi sedevano indossavano costosi
indumenti di lana in inverno, cappelli di paglia e vesti di seta
francese in estate. Prima di arrivare nella zona protetta dai manganelli
dei guardiaportoni loro stessi, i volti contratti dall'ira, tenevano
lontano la folla con bastoni che brandivano menando colpi contro la
gente sbigottita. Non davano elemosine. Secondo loro, la carit
infiacchiva le persone. Bastava che uno lavorasse duramente quanto loro
per riuscire a guadagnare altrettanto. Chiunque aveva la possibilit di
farlo, e se qualcuno non era capace di cavarsela da solo, peggio per
lui. Quando si mettevano a sedere ai tavolini dello spazioso caff, che
frequentavano unicamente per motivi di lavoro, cominciavano a
lamentarsi
della durezza dei tempi e della mancanza di solidariet degli ebrei
americani. Che cosa si credevano di fare quelli l? Qui la gente stava
morendo, non aveva nulla da metter sotto i denti. In Polonia stavano
accadendo le cose pi spaventose, ma la stampa americana non ne parlava
e i banchieri ebrei dall'altra parte dell'oceano non facevano
niente affinch l'America dichiarasse guerra alla Germania, pur
essendo nella condizione di caldeggiare l'intervento. Al Nowoczesna
nessuno badava alla mia musica. Pi forte suonavo pi gli avventori
occupati a bere e a mangiare alzavano il tono della voce e ogni giorno
tra me e il mio pubblico si ingaggiava una gara per vedere chi riuscisse
a sopraffare l'altro. Una volta un cliente mi fece perfino chiedere da
un cameriere che smettessi di suonare per qualche minuto, perch la
musica gli impediva di assicurarsi dell'autenticit dei venti dollari
d'oro appena acquistati da un compare. Subito dopo butt delicatamente
le monete sul ripiano di marmo del tavolino, le prese tra i
polpastrelli, le avvicin all'orecchio e ne ascolt attentamente il
suono: l'unica musica per la quale mostrasse interesse. Non lavorai
ancora per molto in quel locale. Grazie a Dio, trovai un altro lavoro in
un caff tutt'affatto diverso in via Sienna, dove l'intellighenzia
ebraica veniva a sentirmi suonare. Fu l che cominciai a farmi conoscere
e che strinsi legami di amicizia con persone con le quali in seguito
avrei trascorso ore piacevoli, ma anche alcuni momenti di paura. Tra gli
habitus del locale, il pittore Roman Kramsztyk, un artista di grande
talento, amico di Arthur Rubinstein e di Karol Szymanowski. In quel
periodo stava lavorando a un magnifico ciclo di disegni raffiguranti la
vita all'interno delle mura del ghetto. Non sapeva che sarebbe stato
ucciso e che gran parte dei suoi disegni sarebbe andata perduta. Un
altro frequentatore del locale era una delle persone pi straordinarie
che io abbia mai conosciuto. Letterato, Janusz Korczak, conosceva quasi
tutti gli artisti di punta del movimento Giovane Polonia. Ne parlava
in modo affascinante, riferendone con parole insieme schiette e
avvincenti. Non era considerato uno scrittore proprio di primo
piano, forse perch le sue attestazioni nel campo letterario
erano di un genere molto particolare. Scriveva racconti per bambini e
che parlavano di bambini, rimarchevoli per la loro grande comprensione
dell'animo infantile. Non erano frutto della sua ambizione artistica, ma
direttamente ispirati dal cuore di un attivista e pedagogo nato. Il vero
valore di quell'uomo non stava tanto in ci che scriveva, quanto nel
fatto che viveva come scriveva. Anni prima, all'inizio della carriera,
aveva dedicato ogni minuto del proprio tempo libero e ogni zloti di cui
disponeva alla causa dei bambini, e a quella rimase fedele sino alla
morte. Aveva fondato orfanotrofi, organizzato ogni genere di raccolta
per i bambini poveri, e tenuto conversazioni alla radio, guadagnandosi
vasta popolarit (e non solo tra i bambini) come il Vecchio dottore.
Quando i cancelli del ghetto si chiusero egli li varc, anche se avrebbe
potuto salvarsi, e continu la propria missione all'interno di quelle
mura, diventando il padre adottivo di una dozzina di bambini ebrei
orfani, gli orfani pi poveri e pi miseri del mondo. Quando gli
parlavamo al caff di via Sienna non sapevamo in che modo nobile e con
quale passione vibrante si sarebbe conclusa la sua vita. Dopo quattro
mesi mi trasferii in un altro locale, lo Sztuka (Art) in via Leszno.
Era il caff pi grande del ghetto e aveva velleit artistiche.
Esecuzioni musicali vi si svolgevano nella sala dei concerti. Vi cantava
anche Maria Eisenstadt, il cui nome sarebbe potuto diventare famoso per
milioni di persone grazie alla sua meravigliosa voce, se i tedeschi non
l'avessero assassinata. Io mi esibivo al pianoforte in coppia con
Andrzej Goldfeder e ottenni un grande successo con la mia parafrasi del
Valzer di Casanova di Ludomir Rzycky, su parole di Wladyslaw
Szlengel. Il poeta Szlengel faceva tutti i giorni la sua comparsa
in compagnia di Leonid Fokczariski, del cantante Andrzey Wlast, del
popolare attore Wacs, l'amante dell'Arte e di Fola Brannwna nello
spettacolo Giornale dal Vivo, una briosa cronaca della vita nel ghetto,
piena di allusioni penetranti e azzardate sui tedeschi. Oltre alla sala
da concerto c'era il bar dove chi pi che l'arte amava mangiare e bere
poteva gustare vini eccellenti e cotelettes de volatile oppure boeuf
Stroganoff cucinati magistralmente. Sia la sala da concerto sia il bar
erano quasi sempre pieni, sicch in quel periodo guadagnavo piuttosto
bene e riuscivo cos a soddisfare, pur con qualche difficolt, i bisogni
della nostra famiglia composta da sei persone. Mi sarebbe davvero
piaciuto moltissimo continuare a suonare allo Sztuka perch l avevo
trovato una gran quantit di amici con i quali parlavo tra un pezzo e
l'altro, se non fosse stato per il timore che provavo all'idea del
rientro a casa la sera. Me ne preoccupavo durante l'intero pomeriggio.
Tale fu l'inverno del 1941-1942, un inverno durissimo nel ghetto. Un
mare di infelicit ebraica fluttuava attorno alle isolette di relativa
prosperit rappresentata dall'intellighenzia ebraica e dalla vita
lussuosa dei borsaneristi. I poveri erano gi duramente debilitati dalla
fame e non avevano alcun modo di proteggersi dal freddo, per l'assoluta
impossibilit di procurarsi il combustibile. Erano anche infestati dai
parassiti. Il ghetto brulicava di parassiti contro i quali non c'era
nulla da fare. Gli indumenti di chi per strada ti passava vicino erano
infestati dai pidocchi e cos pure i tram e i negozi. Pidocchi
formicolavano sui marciapiedi, su per le scale e cadevan gi dai
soffitti degli uffici pubblici nei quali toccava recarsi per le pi
svariate esigenze. Pidocchi si insinuavano tra i fogli piegati del
giornale, tra gli spiccioli che si tenevano in tasca, e ve ne
erano perfino sulla crosta del pane appena acquistato. E
ognuno di quei minuscoli parassiti poteva causare il tifo. E, infatti,
nel ghetto scoppi un'epidemia. Ogni mese il tasso di mortalit toccava
le cinquemila persone. L'argomento principale di conversazione sia dei
ricchi sia dei poveri era il tifo. I poveri si limitavano a chiedersi
quando il tifo li avrebbe uccisi, mentre i ricchi cercavano il modo di
riuscire a procurarsi il vaccino del dottor Weigel e cos proteggersi.
Costui, un eminente batteriologo, era diventato il personaggio pi
popolare in Polonia dopo Hitler. Il bene opposto al male, veniva da
pensare. Si diceva che i tedeschi lo avessero arrestato a Leopoli, ma
che grazie a Dio non l'avessero ucciso, e che addirittura quasi gli
volessero conferire la cittadinanza onoraria tedesca. Si diceva anche
che gli avessero offerto un ottimo laboratorio, un'ottima villa e
un'automobile altrettanto ottima, dopo averlo messo sotto l'ottima
tutela della Gestapo per assicurarsi che non preferisse fuggire, anzich
continuare a produrre la maggior quantit possibile di vaccino a
beneficio dell'esercito tedesco infestato dai pidocchi sul fronte
orientale. Naturalmente, la storia proseguiva raccontando che il dottor
Weigel aveva rifiutato tanto la villa quanto l'automobile. Non so come
stessero veramente le cose in proposito. So soltanto che era vivo,
grazie a Dio e che, dopo aver rivelato ai tedeschi la formula del suo
vaccino perdendo cos la propria indispensabilit, per chiss qual
miracolo non era stato alla fine consegnato a quell'ottima pi di ogni
altra conclusione che era la camera a gas. In ogni caso, grazie alla sua
scoperta e alla venalit dei tedeschi, molti ebrei di Varsavia
scamparono alla morte per tifo, pur se successivamente destinati a
perire per altro tipo di morte. Io non mi ero fatto vaccinare.
Non mi sarei potuto permettere pi di una sola dose di siero
che sarebbe bastata solo per me e non per il resto della mia famiglia e
quindi avevo rinunciato. Nel ghetto il numero dei morti per tifo era
cos alto da costituire un problema riuscire a seppellirli tenendo il
passo con l'indice di mortalit. D'altra parte, poich i cadaveri non
potevano essere abbandonati nell'interno delle case, fu trovata una
soluzione provvisoria: i morti venivano spogliati dei loro indumenti,
troppo preziosi ai vivi per lasciarglieli addosso, e quindi messi fuori
sui marciapiedi, avvolti nella carta. Spesso rimanevano l per giorni
fino a quando i veicoli mandati dallo Judenrat venivano a prelevarli per
portarli via e seppellirli nelle fosse comuni scavate nel cimitero.
Erano i cadaveri non solo dei morti di tifo ma anche di quelli morti di
fame, il motivo per cui mi riusciva terribile il rientro serale dal
caff. Io ero tra gli ultimi a lasciare il locale, con il direttore,
dopo che, chiusi i conti della giornata, avevo ricevuto la mia paga. Le
strade erano buie e quasi deserte. Accendevo la torcia elettrica e
guardavo se vi fossero cadaveri in modo da non inciamparvi. Il gelido
vento di gennaio mi soffiava in faccia oppure mi sferzava le spalle,
facendo frusciare la carta in cui erano avvolti i morti e sollevandola
cos da mettere a nudo tibie rinsecchite, ventri infossati, volti con i
denti scoperti e gli occhi sbarrati sul nulla. A quei tempi non avevo
tanta familiarit con i morti co me ne avrei avuta in seguito.
M'affrettavo per le strade, in preda alla paura e al disgusto. Volevo
arrivare a casa al pi Presto. Mia madre soleva aspettarmi con una
ciotola piena di cibo e un paio di pinze. Lei si preoccupava come meglio
poteva della salute della famiglia durante quella pericolosa
epidemia e non ci permetteva di attraversare l'atrio e di entrare
in casa fino a quando non ci aveva coscienziosamente tolto i pidocchi da
cappelli, cappotti e vestiti, prendendoli con le pinze e facendoli
affogare nell'alcol. In primavera, quando il mio legame di amicizia con
Roman Kramsztyk si era fatto pi stretto, spesso dal caff non andavo
direttamente a casa, ma da lui, che abitava in un appartamento in via
Elektoralna, dove ci ritrovavamo e chiacchieravamo fina a tarda notte.
Kramsztyk era un uomo molto fortunato: aveva una minuscola stanza dal
soffitto inclinato, all'ultimo piano di un caseggiato. Una stanza tutta
per s. L, aveva raccolto tutti i suoi tesori sfuggiti al saccheggio
dei tedeschi: un grande divano ricoperto da un kelim, due vecchie sedie
di valore, un delizioso piccolo cassettone rinascimentale, un tappeto
persiano, alcune vecchie armi, qualche dipinto, e ogni sorta di piccoli
oggetti che nel corso degli anni aveva trovato in diverse parti
d'Europa, ciascuno dei quali costituiva un piccolo capolavoro per se
stesso e una festa per gli occhi. Era bello stare seduti in quella
stanzetta, nella luce gialla soffusa della lampada riparata da un
paralume fatto dallo stesso Roman, a bere caff nero e a chiacchierare
allegramente. Prima che facesse buio uscivamo sul balcone a prendere un
po' d'aria, perch lass era pi pura che non nelle strade polverose e
soffocanti. Si avvicinava l'ora del coprifuoco, la gente era rientrata e
aveva chiuso le porte. Il sole primaverile, calando man mano, diffondeva
una luminosit rosata sui tetti di zinco, stormi di piccioni bianchi
solcavano il cielo azzurro e il profumo dei lill saliva al di sopra
delle mura, dal vicino Ogrd Saski (Giardino sassone) per arrivare sino
a noi, quaggi nel quartiere dei dannati. Quella era l'ora dei ragazzini
e dei matti. Roman e io guardavamo gi lungo via Elektoralna
alla ricerca della Signora con le piume come noi chiamavamo la
nostra pazza. Aveva un aspetto strano. Le guance imbellettate di un
rosa molto acceso, e le sopracciglia dello spessore di un centimetro,
erano disegnate da una tempia all'altra con una matita di kajal. Sopra
il lacero vestito nero portava una vecchia tenda di velluto verde con
frange, e dal cappello di paglia spuntava gigantesca una piuma viola di
struzzo che svettava dritta nell'aria, ondeggiando piano al ritmo dei
suoi passi rapidi e malfermi. Mentre camminava continuava a fermare i
passanti, chiedendo con un sorriso educato notizie del marito, ucciso
davanti ai suoi occhi dai tedeschi. Scusatemi per caso avete visto
Izaac Szerman? Un uomo alto e bello con una barbetta grigia? Poi
guardava attenta il volto della persona interpellata e, ricevuta una
risposta negativa, esclamava, delusa: No? Per un attimo il volto le si
distorceva nella pena; subito dopo, per, si addolciva in un sorriso
cortese ma forzato. Oh, vi prego di perdonarmi! diceva allora e
riprendeva a camminare scuotendo la testa, in parte dispiaciuta per aver
fatto perdere del tempo a qualcuno, in parte stupita perch quel
qualcuno non aveva conosciuto suo marito Izaac, un uomo cos bello e
delizioso. Era pi o meno a quell'ora del giorno che anche l'uomo che si
chiamava Rubinstein percorreva via Elektoralna, lacero e scarmigliato,
le vesti svolazzanti in tutte le direzioni. Brandiva un bastone,
saltellava e zoppicava, canticchiava e mormorava tra s e s. Era molto
popolare nel ghetto. Preannunziava il proprio arrivo facendosi
regolarmente precedere dall'immancabile grido: Animo, animo, ragazzo
mio!
Si occupava di tenere alto il morale della gente del ghetto facendola
ridere. Le sue battute e le sue osservazioni buffe circolavano
per tutto il ghetto diffondendo allegria. Una delle sue
specialit era quella di avvicinare le sentinelle tedesche
saltellando attorno a loro, con smorfie e invettive: Canaglie, banditi,
ladroni! e ogni sorta di pesanti contumelie. I tedeschi si divertivano
un mondo e spesso gli lanciavano sigarette o qualche monetina in cambio
dei suoi insulti. Dopo tutto non si poteva prendere sul serio un pazzo
del genere. Sul fatto che fosse pazzo non ero cos sicuro come lo erano
i tedeschi e a tutt'oggi non so se Rubinstein fosse davvero uno dei
tanti usciti di senno a causa dei tormenti subiti o se fingesse
semplicemente di esserlo per sfuggire alla morte. Alla quale tuttavia
non scamp. I pazzi non tenevano conto del coprifuoco, per loro non
significava nulla e lo stesso era per i bambini. O meglio, per quegli
spettrali bambini che sbucavano dagli scantinati, dai vicoli, dagli
anditi dove dormivano, mossi dalla speranza di riuscire ancora a
ispirare piet nei cuori degli esseri umani in quell'ora estrema del
giorno. Stavano in piedi accanto ai lampioni, vicino ai muri delle case
e in strada. Il capo sollevato, gemevano ripetendo monotoni il loro
lamento di fame. I pi dotati per la musica cantavano. Con voci flebili
e sottili cantavano la ballata del giovane soldato ferito, abbandonato
da tutti sul campo di battaglia, e che grida Mamma nel momento della
morte. Ma la madre non c', lontana, ignara che suo figlio sta
morendo. Cos solo la nuda terra culla il poveretto con il fruscio degli
alberi e dell'erba accompagnandolo nell'eterno riposo. Dormi bene,
figlio mio, dormi bene, mio caro. Un germoglio cade da un albero e
finisce sul suo petto inanimato, ed la sua medaglia al valore. Altri
bambini tentavano di appellarsi al buon cuore della gente supplicando:
Abbiamo tanta, tanta fame. Non mangiamo da un'eternit.
Dateci un pezzetto di pane o, se non avete pane, almeno una patata o una
cipolla che ci permetta di sopravvivere fino a domattina. Difficile
per che qualcuno avesse quella cipolla e, se l'avesse avuta, non gli
sarebbe bastato l'animo per privarsene. La guerra aveva trasformato il
suo cuore in pietra.


CAPITOLO II.

GUERRA.

Alla vigilia oramai del 31 agosto 1939, tutti a Varsavia gi da tempo
davano per certa l'inevitabilit della guerra con i tedeschi. Solo gli
ottimisti irriducibili continuavano a nutrire l'illusione che la ferma
presa di posizione della Polonia avrebbe trattenuto Hitler all'ultimo
momento. L'ottimismo degli altri si manifestava, forse in modo
inconscio, come opportunismo: era la convinzione intrinseca, a dispetto
di ogni logica che, pur essendo la guerra destinata a scoppiare, - questo
era stato deciso gi da tempo-, l'inizio effettivo delle ostilit
avrebbe subito un ritardo, sicch la gente avrebbe avuto modo di vivere
una vita piena ancora per un po'. Dopotutto, era bello vivere. Fu
imposto un rigoroso oscuramento notturno in tutta la citt. Le persone
sigillavano i locali che intendevano usare come rifugi contro i gas e
provavano le maschere antigas. Il gas era temuto pi di qualsiasi altra
cosa. Intanto, le orchestrine continuavano a suonare dietro le vetrine
oscurate dei caff e dei bar, dove i clienti bevevano, ballavano, e
attizzavano il loro patriottismo con canti osannanti alla guerra. La
necessit di imporre il coprifuoco, l'occasione di andarsene in giro con
la maschera antigas appesa alla spalla, un rientro notturno in tassi
attraverso vie che a un tratto apparivano diverse, conferivano un che di
avventuroso alla vita, visto soprattutto che ancora non c'era un
pericolo reale. All'epoca il ghetto non era ancora stato creato e
io abitavo con i miei genitori, le mie sorelle e mio fratello in
via Sliska e lavoravo come pianista alla Radio polacca.
Quell'ultimo giorno di agosto rincasai tardi e, sentendomi stanco, andai
subito a coricarmi. Il nostro appartamento si trovava al terzo piano, il
che aveva i suoi vantaggi: le sere d'estate la polvere e gli odori della
strada diminuivano e una brezza rinfrescante entrava dall'alto,
attraverso le nostre finestre aperte, recandoci l'umidit che la Vistola
esalava. Mi svegli un rumore di esplosioni. Faceva gi chiaro. Guardai
l'ora: le sei. Le esplosioni non erano particolarmente violente e
sembravano distanti: comunque fuori della citt. Chiaramente erano in
atto esercitazioni militari, in quegli ultimi due o tre giorni ci
avevamo fatto l'abitudine. Dopo qualche minuto le esplosioni cessarono.
Mi chiesi se rimettermi a dormire, ma ormai era piena luce e s'era
alzato il sole. Decisi di leggere in attesa della prima colazione.
Dovevano essere almeno le otto quando la porta della mia camera si apr.
Sulla soglia s'affacci mia madre, vestita come se avesse dovuto uscire
da un momento all'altro per andare in citt. Era pi pallida del solito
e, nel vedere che ero ancora a letto a leggere, non pot dissimulare un
certo disappunto. Apr la bocca ma, ancor prima di pronunciare una sola
parola, la voce le manc e dovette schiarirsi la gola. Poi disse con
precipitazione: Alzati! La guerra... cominciata la guerra! Decisi di
andare direttamente alla stazione radio dove avrei trovato i miei amici
e appreso le ultimissime notizie. Mi vestii, feci colazione e uscii di
casa. Sui muri degli edifici e negli spazi riservati alle affissioni gi
si potevano vedere grandi manifesti bianchi: recavano il messaggio del
presidente alla nazione e annunciavano che i tedeschi avevano
attaccato. Alcuni gruppetti di persone sostavano per leggerli,
mentre altri si allontanavano in fretta per sbrigare i loro affari pi
urgenti. La proprietaria del negozio sull'angolo, poco distante dal
nostro caseggiato, stava incollando strisce di carta bianca sulle
vetrine, nella speranza che avrebbero potuto salvarne l'integrit nel
corso dei bombardamenti futuri. Sua figlia intanto badava a decorare
alcuni piatti ovali carichi d'insalata mista a uova sode, di prosciutto
e di salsicce disposte in volute circolari, con bandierine nazionali e
con ritrattini di personalit polacche. Gli strilloni con le edizioni
speciali correvano a perdifiato su e gi per le strade. Non c'era
panico. Lo stato d'animo passava dalla curiosit: che cosa sarebbe
successo ora?, allo stupore: e cos questo era l'inizio? Un signore dai
capelli grigi e ben rasato se ne stava inchiodato sul posto, accanto a
una delle colonnette su cui era affisso il proclama del presidente. Le
chiazze d'un rosso vivo che gli ricoprivano il volto e il collo ne
palesavano l'agitazione e si era spinto indietro sulla testa il
cappello, cosa che sicuramente non avrebbe mai fatto in circostanze
normali. Consider attentamente il proclama, scosse la testa incredulo e
continu la lettura, premendosi con maggior forza il pince-nez sul naso.
In tono indignato lesse qualche parola ad alta voce. Ci hanno
attaccati... e senza preavviso! Gir il capo a guardare le persone che
gli stavano vicino per vederne la reazione, sollev una mano, si sistem
di nuovo il pince-nez, quindi prosegu: Questo non davvero il modo di
comportarsi! E, mentre si allontanava, dopo aver letto di nuovo da cima
a fondo tutto il testo e ancora incapace di controllare la propria
agitazione, scuoteva la testa e bofonchiava: No, no, non si agisce
cos! Io abitavo molto vicino alla sede della radio, ma arrivarci
non fu affatto facile: ci impiegai un tempo doppio del solito.
Ero circa a met strada quando l'ululato delle sirene prese a
risuonare dagli altoparlanti collocati sui lampioni stradali, alle
finestre e all'ingresso dei negozi. Poi si ud la voce dell'annunciatore
della radio. Questo un avviso di allarme aereo per la citt di
Varsavia... State all'erta! Stanno ora dirigendosi verso... A questo
punto l'annunciatore elenc in termini militarmente cifrati una serie di
numeri e di lettere dell'alfabeto che si abbatterono sulle orecchie dei
civili come una misteriosa minaccia cabalistica. Forse quei numeri
stavano a indicare quanti erano gli apparecchi che stavano arrivando?
Forse le lettere segnalavano in codice i luoghi in cui le bombe stavano
per essere sganciate? E il luogo in cui ci trovavamo noi in quel momento
era fra questi? La strada si svuot rapidamente. Le donne, in preda al
panico, si precipitarono verso i rifugi. Gli uomini non volevano
scendervi: stavano nei portoni, imprecando contro i tedeschi, facendo
gran mostra del proprio coraggio, e prendendosela con il governo che
aveva mobilitato alla carlona cosicch risultavano scarsi gli effettivi
validi per la difesa richiamati in servizio. I non richiamati andavano
da un'autorit militare all'altra senza riuscire a farsi arruolare in un
modo o nell'altro. Nella strada vuota e senza vita si potevano udire
solo le discussioni tra i capifabbricato e la gente che insisteva per
allontanarsi dai portoni per andare a sbrigare qualche faccenda e alcuni
tentavano di andarsene, tenendosi accosto ai muri. Qualche attimo dopo
si udirono altre esplosioni, ma ancora non molto vicine. Arrivai alla
stazione radio proprio nell'attimo in cui l'allarme si ripet per
la terza volta. Tuttavia nessuno all'interno dell'edificio
aveva il tempo per raggiungere i rifugi antiaerei ogni volta che le
sirene suonavano. I programmi delle trasmissioni erano in pieno caos.
Non appena veniva frettolosamente imbastito qualcosa che valesse come
programma sostitutivo, ecco subito subentrare annunci importanti o dal
fronte o dai circoli diplomatici. Bisognava interrompere tutto per
trasmettere il pi in fretta possibile siffatte notizie, il tutto
inframmezzato con marce militari e inni patriottici. La confusione pi
totale regnava anche nei corridoi, dove prevalevano sentimenti di
bellicosa baldanza. Uno degli annunciatori che era stato richiamato si
present per salutare i colleghi ed esibire la propria uniforme.
Probabilmente s'era aspettato che tutti gli si facessero attorno in una
scena d'addio nobile e commosso, ma rimase deluso: nessuno aveva il
tempo di badargli molto. Se ne stava l ad attaccar bottone con i
colleghi, che di fretta gli passavano accanto, desideroso di riuscire a
far trasmettere almeno una parte del suo programma intitolato L'Addio di
un Civile, nella speranza di poterne parlare un giorno ai nipoti. Non
poteva sapere che di l a neanche due settimane i colleghi non avrebbero
avuto tempo per lui... nemmeno il tempo di onorare la sua memoria con un
dignitoso funerale. Fuori della porta dello studio, un anziano pianista
che lavorava alla radio mi prese per un braccio. Caro vecchio professor
Ursztein. Laddove gli altri misurano la propria vita scandendola in
giorni e ore, per decenni invece la sua era stata scandita sugli
accompagnamenti al pianoforte. Quando il professore cercava di ricordare
i particolari di qualche evento passato, soleva cominciare dicendo:
Dunque, vediamo, all'epoca io accompagnavo il tal o tal altro... e,
una volta individuato con grande precisione un particolare
accompagnamento, con la relativa data, quasi si trattasse di
una pietra miliare sul ciglio stradale, lasciava vagare la memoria verso
altre reminiscenze invariabilmente meno importanti. Ora se ne stava
fuori dello studio, stordito e disorientato. Come si poteva
intraprendere questa guerra senza accompagnamento pianistico? Come
sarebbe stato? Smarrito prese a lamentarsi: Non vogliono dirmi se oggi
devo lavorare... Quel pomeriggio eravamo entrambi al lavoro, ciascuno
al proprio pianoforte. Le trasmissioni musicali continuavano, anche se
non seguivano il programma prestabilito. A met della giornata qualcuno
di noi aveva fame e usc dagli studi radiofonici per andare a mangiar
qualcosa in un ristorante vicino. Le strade avevano un aspetto quasi
normale. Nelle arterie principali della citt c'era un traffico intenso:
tram, automobili, pedoni. I negozi erano aperti e, dato che il sindaco
aveva rivolto un appello alla popolazione affinch non facesse incetta
di cibo, assicurando che non ce n'era bisogno, non s'erano formate
nemmeno code fuori dei negozi. I venditori ambulanti facevano buoni
affari vendendo un certo giochetto di carta raffigurante un maiale. Ma
se si ricombinava il foglio, e poi lo si spiegava in un dato modo ecco
che appariva il volto di Hitler. Riuscimmo, anche se con una certa
difficolt, a sederci a un tavolo del ristorante e l salt fuori che
quel giorno non erano disponibili alcuni dei piatti tipici del locale,
mentre altri erano di parecchio rincarati. Gli speculatori erano gi
all'opera. La conversazione verteva soprattutto sulla imminente
dichiarazione di guerra da parte di Francia e Inghilterra, attesa da un
momento all'altro. Per la maggior parte si era convinti, a eccezione di
alcuni pochi irriducibili pessimisti, che entrambe sarebbero entrate in
guerra entro tempi brevissimi e molti pensavano che anche gli Stati
Uniti avrebbero dichiarato guerra alla Germania. Si argomentava in base
alle esperienze della Grande guerra ed era opinione diffusa che le
uniche risultanze utili del precedente conflitto consistessero ora
nell'insegnarci a condurre meglio questo attuale, operando con
avvedutezza e sagacia. Il 3 settembre la dichiarazione di guerra da
parte di Francia e Gran Bretagna divenne realt. Mi trovavo ancora a
casa bench fossero gi le undici. Tenevamo la radio accesa tutto il
giorno per non perderci nemmeno una parola di tutte quelle notizie di
capitale importanza. I comunicati dal fronte non erano quelli che ci
eravamo aspettati. La nostra cavalleria aveva attaccato nella Prussia
Orientale e la nostra aviazione bombardava obiettivi militari tedeschi,
ma intanto la superiorit militare del nemico costringeva di continuo
l'esercito polacco a cedere questa o quella posizione. Com'era possibile
una cosa del genere quando la nostra propaganda ci aveva raccontato che
gli aerei e i carri armati tedeschi erano di cartone ed erano alimentati
da carburante sintetico di problematica efficacia anche per gli
accendisigari? Diversi aerei tedeschi erano gi stati abbattuti sopra
Varsavia, e testimoni oculari sostenevano di aver visto i cadaveri degli
aviatori nemici vestiti con divise e scarpe di carta. Come avrebbero
potuto truppe tanto scalcinate costringerci alla ritirata? Era insensato!
La mamma stava sfaccendando in salotto, pap si esercitava al violino
e io me ne stavo in poltrona a leggere, quando un programma di scarso
rilievo fu interrotto all'improvviso e una voce disse che stava per
esser trasmesso un comunicato della massima importanza. Io e mio padre
ci precipitammo vicino all'apparecchio, mia madre invece and
nella stanza vicina per chiamare le mie due sorelle e mio fratello.
Frattanto la radio trasmetteva marce militari. L'annunciatore
ripet quanto aveva detto poco prima, seguirono altre marce e ancora
l'annuncio di un imminente altro annuncio. Riuscivamo a stento a
controllare la tensione nervosa quando infine fu eseguito l'inno
nazionale, seguito dall'inno nazionale inglese. Apprendemmo cos che non
avremmo pi dovuto affrontare da soli il nostro nemico: avevamo un
alleato potente e la guerra sarebbe stata sicuramente vinta, sia pur tra
alti e bassi, sicch la nostra situazione nell'immediato non sarebbe
migliorata. e' difficile descrivere ci che provammo nel sentire quel
comunicato alla radio. Mia madre aveva le lacrime agli occhi, mio padre
singhiozzava senza vergogna e mio fratello Henryk ne approfitt per
sferrarmi un pugno e per dirmi in tono irato: Ecco! Te l'avevo detto,
no? A Regina non piacque vederci battagliare in un momento simile e
intervenne esortandoci in tono quieto: Smettetela! Sapevamo tutti che
questo sarebbe successo. S'interruppe, poi prosegu: e' la logica
conseguenza dei patti concordati. Regina era avvocato e aveva quindi
autorit in materia. Perci era inutile contrastarla. Frattanto anche
Halina si era seduta vicino alla radio e cercava di sintonizzarsi su
Radio Londra. Voleva la conferma diretta della notizia. Le mie due
sorelle erano le persone pi equilibrate della famiglia. Da chi avevano
preso? Se da qualcuno avevano preso doveva trattarsi della mamma, ma
anche lei, a confronto delle mie due sorelle, sembrava un temperamento
emotivo. Quattro ore dopo, la Francia dichiarava guerra alla Germania.
Quel pomeriggio mio padre insistette per partecipare alla
dimostrazione che si sarebbe svolta davanti all'ambasciata inglese.
Mia madre non ne era contenta, ma lui era deciso ad andarvi. Torn a
casa sovreccitato, i capelli scomposti per il pigia pigia in mezzo alla
ressa. Aveva visto il nostro ministro degli Esteri e gli ambasciatori
inglese e francese, aveva applaudito e cantato insieme con gli altri ma
poi, all'improvviso, la folla era stata invitata a disperdersi il pi in
fretta possibile, perch c'era il rischio di un'incursione aerea. E la
folla s'era dispersa d'impeto, sicch mio padre aveva rischiato di
rimanere soffocato in mezzo alla gente. Ma, nonostante questo, era
felice e con il morale alle stelle. Purtroppo la nostra gioia fu di
breve durata. I comunicati che arrivavano dal fronte si fecero via via
pi allarmanti. Il 7 settembre, poco prima dell'alba, udimmo colpi
violenti alla porta del nostro appartamento. Il nostro vicino
dell'appartamento di fronte, un dottore, stava sulla soglia, stivali
militari ai piedi, un giubbotto da caccia, in testa un berretto sportivo
e uno zaino sulle spalle. Aveva fretta, ma aveva ritenuto suo dovere
informarci che i tedeschi stavano avanzando su Varsavia. Il governo si
era trasferito a Lublino e tutti gli uomini fisicamente validi dovevano
lasciare la citt e recarsi sulla sponda opposta della Vistola, dove
sarebbe stata approntata una nuova linea difensiva. In un primo momento
nessuno di noi gli credette. Decisi di andare a chiedere conferme da
altri nostri vicini di casa. Henryk accese la radio ma non si ud nulla:
la stazione radio non trasmetteva pi. Non riuscii a trovare molti dei
nostri vicini. Qualche appartamento era chiuso a chiave. In altri le
donne stavano facendo i bagagli per i mariti o i fratelli, piangenti e
preparate al peggio. Era indubbio che il dottore aveva detto la verit.
Decisi su due piedi di non allontanarmi. Era inutile vagare per
la citt. Se il mio destino era morire, preferivo morire a
casa mia. Dopo tutto, pensai, qualcuno doveva pur preoccuparsi di mia
madre e delle mie sorelle, se mio padre e Henryk se ne fossero andati.
Per, quando ne parlammo tra noi, mi resi conto che anche loro avevano
deciso di restare. La mamma fu spinta dal suo senso del dovere a tentar
di convincerci a lasciare la citt. Guardava ora l'uno ora l'altro, gli
occhi sbarrati dalla paura, cercando argomenti validi per persuaderci a
lasciare Varsavia. Tuttavia, poich noi insistemmo per rimanere, i suoi
begli occhi espressivi manifestarono un sentimento istintivo di sollievo
e soddisfazione. Qualsiasi cosa fosse accaduta era meglio restare uniti.
Rimasi in casa fino alle otto, quindi uscii e scoprii di colpo una citt
irriconoscibile. Come poteva essere tanto e tanto radicalmente mutata
nel giro di poche ore? Tutti i negozi erano chiusi. Niente tram nelle
strade, solo automobili, stipate all'inverosimile e lanciate in
velocit, tutte nella stessa direzione, verso i ponti sulla Vistola. Un
distaccamento di soldati stava marciando lungo via Marszalkowska.
Avanzavano con aria di sfida e cantavano, ma risultava evidente che la
disciplina era stranamente allentata: non regolamentare era la posizione
dei berretti sulle teste, n il modo in cui tenevano i fucili, e non
marciavano a tempo. Qualcosa nei loro volti faceva intuire che andavano
a combattere, per cos dire, su loro iniziativa e che da tempo avevano
cessato di esser parte di un organismo perfettamente organizzato e
funzionante come si richiede per un esercito. Due giovani donne ferme
sul marciapiede gettarono loro astri rosa, gridando pi volte parole
sovreccitate. Nessuno se ne curava. La gente andava di fretta ed era
chiaro che tutti intendevano attraversare la Vistola, con
l'angustia di sbrigare innanzitutto le ultime impellenti necessit prima
dell'attacco tedesco. Anche queste persone apparivano diverse dalla sera
precedente. Varsavia era una citt molto elegante. Che cosa ne era stato
di tutte quelle signore e qui signori agghindati come figurini appena
usciti da una rivista di moda? Coloro che sgambettavano adesso in tutte
le direzioni sembravano quasi persone mascherate da cacciatori o da
turisti. Portavano stivali alti, scarponi e pantaloni da sci, calzoni
alla zuava, avevano sciarpe sulla testa e con le mani reggevano fagotti,
zaini e bastoni. Non s'erano punto curati di avere un aspetto civile
quando in fretta e furia, com'era evidente, s'erano buttati su indumenti
diversi per rivestirsi. Le strade cos pulite fino al giorno precedente
adesso erano piene di rifiuti e sporcizia. Altri soldati stavano seduti
o distesi nelle vie trasversali, sui marciapiedi, sulle cordonate in
mezzo alla strada. Arrivavano direttamente dal fronte, e dai loro volti,
dal loro portamento e dai loro gesti traspariva una profonda spossatezza
e l'avvilimento. Di fatto cercavano di rendere palese il proprio
scoraggiamento affinch i passanti intendessero che la ragione per cui
si trovavano l e non al fronte era diretta conseguenza dell'inutilit
di stare al fronte per combattere. Non ne valeva la pena. Gruppetti di
persone si scambiavano le poche notizie spigolate dai soldati circa
questo o quel settore operativo. Ed erano tutte brutte notizie.
Istintivamente mi guardai attorno alla ricerca degli altoparlanti.
Possibile che fossero stati tolti? No, erano ancora l, ma
improvvisamente si erano azzittiti. Mi precipitai alla stazione radio.
Perch non vi erano comunicati? Perch nessuno cercava di ridar fiducia
alla gente per bloccare quell'esodo di massa? Ma la stazione
radio aveva chiuso i battenti. La direzione aveva abbandonato
la citt. Erano rimasti solo i cassieri, per pagare frettolosamente agli
impiegati e agli artisti tre mesi di stipendio in sostituzione del
preavviso. Che cosa dobbiamo fare adesso? chiesi a un anziano
amministratore, bloccandolo con una mano. Mi lanci un'occhiata
inespressiva, poi negli occhi gli vidi lo scherno che divenne collera
mentre liberava la mano dalla mia. E chi se ne frega? grid,
stringendosi nelle spalle e uscendo in strada a grandi passi. Si sbatt
furiosamente la porta alle spalle. Era una cosa pazzesca! Nessuno era in
grado di convincere tutte quelle persone a non andarsene. Gli
altoparlanti sui lampioni erano muti, nessuno ripuliva la sporcizia
dalle strade. Sporcizia o panico? O la vergogna, piuttosto, di fuggire
lungo quelle strade, invece di combattere? La dignit che la citt aveva
di colpo perso non poteva essere ripristinata. Questa era la sconfitta.
Molto abbattuto, andai a casa. La sera del giorno successivo, la prima
granata dell'artiglieria tedesca si abbatt sul deposito di legname di
fronte a casa nostra. I vetri delle vetrine del negozio sull'angolo,
sigillati con tanta cura con strisce di carta bianca, furono i primi ad
andare in frantumi.


CAPITOLO III.


I PRIMI TEDESCHI!


Grazie al cielo, nei giorni successivi, la situazione miglior
molto. La citt fu dichiarata piazzaforte, le fu assegnato
un comandante, che rivolse un appello alla popolazione affinch
restasse dove si trovava e si mostrasse pronta a difendere
Varsavia. Sull'altro lato dell'ansa del fiume si stava
organizzando un contrattacco da parte delle truppe polacche mentre noi,
nel frattempo, dovevamo contrastare il grosso delle forze nemiche,
impedendo loro di entrare a Varsavia finch i nostri non fossero
arrivati a liberarci. La situazione stava migliorando anche attorno a
Varsavia; l'artiglieria tedesca aveva smesso di cannoneggiare la citt.
D'altro canto, le incursioni aeree del nemico diventavano sempre pi
frequenti. Oramai non si davano pi preallarmi: per troppo tempo avevano
paralizzato la citt e i suoi preparativi di difesa. Quasi ogni ora le
sagome argentee dei bombardieri facevano la loro comparsa, alti su di
noi, nel cielo straordinariamente azzurro di quell'autunno e potevamo
vedere le nuvolette bianche dei proiettili dell'antiaerea sparati dalla
nostra artiglieria. A quel punto dovevamo affrettarci a scendere nei
rifugi. Ora non c'era pi da scherzarci sopra: l'intera citt veniva
bombardata. I pavimenti e i muri dei rifugi antiaerei tremavano e, se
una bomba fosse caduta sull'edificio sotto il quale ci si nascondeva, la
morte era sicura: come il proiettile in una micidiale roulette
russa. Le ambulanze attraversavano di continuo la citt e,
quando non ve n'era pi disponibilit, venivano sostituite da
autopubbliche e addirittura da normali veicoli trainati da cavalli, che
portavano via i morti e i feriti estratti dalle macerie. Il morale della
popolazione era alto e l'entusiasmo cresceva di ora in ora. Non
contavamo pi sulla fortuna e sull'iniziativa individuale, come il 7
settembre. Adesso eravamo un esercito con comandanti e munizioni;
avevamo uno scopo, difenderci, e il successo o il fallimento di questo
stava nelle nostre mani. Bastava solo che impegnassimo tutta la nostra
forza. Il comandante generale fece appello alla popolazione perch
fossero scavate trincee attorno alla citt per impedire l'avanzata dei
carri armati tedeschi. Ci offrimmo tutti come volontari per scavare:
solo mia madre al mattino rimaneva in casa per riordinare l'appartamento
e preparare da mangiare. Scavavamo lungo il fianco di una collina
all'estrema periferia. Avevamo alle spalle un bel quartiere residenziale
dove sorgevano ville e davanti a noi c'era un parco pubblico folto di
alberi. Si sarebbe trattato di un lavoro addirittura piacevole se non
fosse stato per il rischio delle bombe che venivano sganciate su di noi.
La mira non era particolarmente accurata, per cui cadevano a una certa
distanza, e tuttavia non era piacevole sentirne il sibilo in arrivo
oltre le trincee nelle quali lavoravamo, consapevoli che una di queste
avrebbe potuto colpirci. Il primo giorno un vecchio ebreo col caffettano
e la yarmulka stava scavando il terreno al mio fianco. Lavorava con
fervore biblico, buttandosi sulla vanga come su un nemico mortale,
schiumando, rivoli di sudore sul volto pallido, il corpo tremante, i
muscoli contratti. Mentre scavava digrignava i denti, in un nero
turbinio di caffettano e barba. Quel suo sforzo caparbio, pi che
soverchio rispetto alle sue reali capacit fisiche, dava risultati del
tutto inconsistenti. La punta della sua vanga riusciva a stento a
penetrare nel fango rassodato e le zolle gialle e aride che lui staccava
via riscivolavano nel solco aperto prima che quel poveretto, con uno
sforzo sovrumano, riuscisse a girarsi all'indietro con la vanga per
rovesciarne il contenuto fuori della trincea. Di continuo s'appoggiava
col dorso a quel muro di terra, il corpo scosso dalla tosse. Pallido
come un morente, sorseggiava l'infusione alla menta preparata per
ristorare gli uomini al lavoro da vecchie donne troppo deboli per
scavare ma egualmente desiderose di rendersi utili in qualche modo.
Stai esagerando, gli dissi, durante una di quelle sue pause. Non
dovresti esser qui a scavare, perch non sei abbastanza forte. Provavo
pena per lui e cercai di persuaderlo a rinunciare. Era ovvio che non
poteva far quel lavoro. Guarda che nessuno ti chiede di farlo. Lui mi
fiss, sempre ansimando, poi alz gli occhi al cielo, a quell'azzurro
zaffiro in cui ancora si libravano le nuvolette bianche lasciate dagli
shrapnel, e negli occhi gli comparve un'espressione rapita, come se l
nel cielo avesse visto Jahweh in tutta la sua maest. Ho un negozio!
bisbigli. Trasse un sospiro ancor pi profondo e dalle labbra gli
sfugg un singhiozzo. Mentre si chinava di nuovo sulla vanga, quasi
annientato dallo sforzo, sul volto gli si dipinse la disperazione. Dopo
due giorni smisi di andare a scavare. Avevo sentito che la stazione
radio aveva ripreso a trasmettere, con un nuovo direttore, Edmund
Rudnicki, che prima era a capo del settore musicale. Non era fuggito
come gli altri, invece era riuscito a riunire i colleghi rimasti
e a riattivare la stazione. Ne conclusi che sarei stato pi utile
l che non a scavar trincee, il che risult esser vero:
suonavo molto, sia come solista, sia come accompagnatore. Nel frattempo
la situazione della citt prese a deteriorarsi in misura inversamente
proporzionale, si potrebbe dire, al coraggio e alla determinazione della
gente. L'artiglieria tedesca ricominci a cannoneggiare Varsavia, prima
la periferia poi il centro urbano. Crebbe il numero degli edifici
rimasti privi dei vetri alle finestre. Fori circolari sui muri colpiti
dai proiettili, angoli di facciate sfregiati. Di notte il cielo
rosseggiava per il bagliore degli incendi, e l'aria era greve del puzzo
di bruciato. Le provviste calavano. Risult essere questo il solo punto
sul quale l'eroico sindaco Starzyriski si era sbagliato: non avrebbe
dovuto dissuadere la popolazione dal far provviste. La citt ora non
solo doveva provvedere a sfamare se stessa ma anche i soldati ivi
intrappolati e il corpo d'armata posnano che, dal fronte occidentale,
s'era fatto strada fino a Varsavia per rafforzarne le difese. Verso il
20 settembre tutta la nostra famiglia si trasfer dall'appartamento in
via Sliska presso amici che abitavano in un appartamento al pianterreno
di una casa in via Pariska. A nessuno di noi piacevano i rifugi
antiaerei. Nelle cantine l'aria era cos soffocante che si riusciva a
stento a respirare e il soffitto basso pareva potesse crollare da un
momento all'altro, seppellendo tutto sotto le macerie di un edificio di
molti piani. D'altra parte ostinarsi a rimanere nel nostro appartamento
al terzo piano era pericoloso. Continuavamo a sentire il sibilo dei
proiettili fuori delle finestre, ormai tutte prive di vetri, ed era
concreto il rischio che uno di questi proiettili concludesse la sua
traiettoria aerea contro il nostro caseggiato. Decidemmo che
al pianterreno saremmo stati pi al sicuro: i proiettili avrebbero
colpito i piani alti e l sarebbero esplosi, evitandoci cos la
necessit di scendere in cantina. Nell'appartamento dei nostri amici si
erano gi rifugiate diverse persone. Era affollato e noi dovevamo
dormire per terra. Frattanto l'assedio di Varsavia, il primo capitolo
della tragica storia di questa citt, stava arrivando a conclusione. Mi
riusciva sempre pi difficile raggiungere la stazione radio. Cadaveri di
persone e di cavalli uccisi dalle granate erano disseminati per le
strade, interi quartieri della citt erano in fiamme e, dacch
l'acquedotto municipale era stato danneggiato dall'artiglieria e dalle
bombe, non v'era possibilit alcuna di spegnere gli incendi. Era anche
pericoloso suonare negli studi della radio. L'artiglieria tedesca
cannoneggiava tutti i luoghi pi importanti della citt e, non appena un
annunciatore comunicava l'inizio di un programma, le batterie tedesche
aprivano il fuoco sulla stazione radio. Durante questo penultimo stadio
dell'assedio, la paura isterica che la gente aveva dei sabotaggi giunse
all'acme. Chiunque poteva venir accusato di essere una spia finendo
fucilato all'istante, senza neppure il tempo di dare spiegazioni. Al
quarto piano dell'edificio in cui ci eravamo rifugiati presso i nostri
amici, viveva un'anziana zitella, un'insegnante di musica. La sua
sfortuna fu quella di chiamarsi Hoffer e di esser una donna coraggiosa.
Il suo coraggio avrebbe senz'altro potuto essere definito
eccentricit. Non c'erano incursioni aeree o cannoneggiamenti che la
inducessero a scendere nel rifugio dissuadendola dalle sue quotidiane
due ore di esercizio al pianoforte prima di pranzo. Sul balcone teneva
certi uccellini in gabbia e dava loro da mangiare tre volte al giorno,
con la medesima regolarit ostinata. Un tal comportamento
appariva decisamente strano in quella assediata Varsavia. Pi
che sospetto appariva alle domestiche del caseggiato che si riunivano in
casa del custode per discutere di politica. Dopo averne fatto un gran
parlare giunsero alla incrollabile conclusione che un'insegnante dal
nome cos inconfondibilmente tedesco doveva essere lei stessa tedesca e
che i suoi esercizi al pianoforte erano un codice segreto con il quale
mandava segnali ai piloti della Luftwaffe per indicar loro dove
sganciare le bombe. Senza perder tempo quel gruppo di donne concitate
era entrato nell'appartamento dell'eccentrica signora, l'aveva legata,
portata da basso e rinchiusa insieme con i suoi uccellini in una delle
cantine a riprova della sua opera di sabotaggio. Senza volerlo, le
salvarono la vita: qualche ora dopo un proiettile si abbatt sul suo
appartamento, distruggendolo completamente. Suonai per l'ultima volta
davanti al microfono il 23 settembre. Io stesso non ho idea di come quel
giorno raggiunsi la stazione radio. Correvo dall'androne di un edificio
a quello di un altro, vi restavo nascosto per un po', e quando mi
sembrava di non sentire pi nelle vicinanze il sibilo dei proiettili,
correvo di nuovo in strada. Sulla porta della stazione radio incontrai
il sindaco Starzyriski. Era scarmigliato, aveva la barba lunga e dal suo
volto traspariva un'espressione di stanchezza mortale. Non dormiva da
giorni. Era lui l'anima e il cuore della difesa, il vero eroe della
citt. L'intera responsabilit del destino di Varsavia posava sulle sue
spalle. Era dappertutto. Percorreva le trincee, aveva la responsabilit
di erigere le barricate, di organizzare gli ospedali, distribuire
equamente le scarse provviste, organizzare la difesa antiaerea, il corpo
dei vigili del fuoco, e ancora trovava il tempo per rivolgersi
quotidianamente alla popolazione. Tutti aspettavano con ansia i suoi
discorsi, dai quali attingevano coraggio. Fintanto che il
sindaco non aveva dubbi, non c'era motivo di perdersi d'animo.
Comunque,
la situazione non sembrava troppo disperata. I francesi avevano sfondato
la Linea Siegfried, Amburgo era stata pesantemente bombardata
dall'aviazione britannica e, da un momento all'altro, l'esercito inglese
sarebbe potuto sbarcare in Germania. Almeno cos noi pensavamo.
Quell'ultimo giorno alla stazione radio stavo suonando musica di Chopin.
Fu l'ultima trasmissione musicale in diretta da Varsavia. Per tutto il
tempo in cui suonai, i proiettili continuarono a esplodere vicino alla
stazione radio e gli edifici pi vicini a noi erano in fiamme. Nel
frastuono riuscivo a stento a sentire il suono del mio pianoforte. Dopo
il recital dovetti attendere due ore prima che il bombardamento
rallentasse quanto bastava per consentirmi di tornare a casa. I miei
genitori, mio fratello e le mie due sorelle mi avevano ormai dato per
morto e mi accolsero come un uomo risorto dalla tomba. L'unica a pensare
che tutta quella preoccupazione era stata inutile fu la nostra
domestica. In fin dei conti, aveva i documenti in tasca, fece notare.
Se fosse morto avrebbero saputo dove portarlo. Alle 3.15 del
pomeriggio di quello stesso giorno, Radio Varsavia cess le
trasmissioni. Stava andando in onda una registrazione del Concerto per
pianoforte in do minore di Rachmaninov e, proprio alla conclusione del
secondo bellissimo e sereno movimento, una bomba tedesca distrusse la
centrale elettrica. In tutta la citt gli altoparlanti tacquero. Verso
sera, nonostante il fuoco dell'artiglieria infuriasse nuovamente, mi
sforzai di dedicarmi alla composizione del mio concertino per piano e
orchestra. Ci lavoravo dall'inizio di settembre, bench mi riuscisse
sempre pi difficile farlo. Quando quella sera cal l'oscurit, sporsi
la testa fuori della finestra. La strada, rossa per i bagliori
degli incendi, era deserta, e non s'udiva altro che l'echeggiare
continuo delle esplosioni dei proiettili. Sulla sinistra,
via Marszalkowska era in fiamme e lo erano pure via Krlewska, piazza
Grzybowski alle nostre spalle e via Sienna proprio davanti a noi. Densi
cumuli di fumo color rosso sangue incombevano sugli edifici. Strade e
marciapiedi erano cosparsi di volantini bianchi dei tedeschi, ma nessuno
li raccoglieva perch si diceva che fossero avvelenati. All'incrocio,
sotto un lampione stradale, giacevano due cadaveri, uno con le braccia
spalancate, l'altro raggomitolato quasi dormisse. Davanti al portone del
nostro caseggiato giaceva il cadavere d'una donna con la testa e un
braccio tranciati di netto. Accanto a lei c'era un secchio capovolto:
era andata a prendere l'acqua alla fontana. Il suo sangue scendeva nel
canale di scolo in un rivolo lungo e scuro e proseguiva, finendo nello
scarico della fogna protetto da una grata. Una vettura tirata da un
cavallo avanzava a fatica proveniente da via Wielka e diretta verso via
Zelazna. Non si capiva come fosse riuscita ad arrivare fin l e perch
cavallo e guidatore apparissero tanto tranquilli, come se attorno a loro
non stesse accadendo nulla. L'uomo ferm l'animale sull'angolo di via
Sosnowa, incerto se svoltare o proseguire. Dopo una rapida valutazione
decise di andar diritto, schiocc la lingua e il cavallo si rimise in
movimento. Distavano gi una decina di passi dall'angolo della via
quando si ud come un sibilo, poi un boato e la strada per un istante
avvamp in una accecante luce bianca, simile al lampo d'una macchina
fotografica: ne fui abbagliato. Quando i miei occhi si furono riadattati
alla luce crepuscolare, del veicolo non restava pi nulla. Schegge di
legno e residui delle ruote e delle stanghe, brandelli del rivestimento
interno e i corpi dilaniati dell'uomo e del cavallo
giacevano lungo i muri degli edifici. Se l'uomo avesse imboccato via
Sosnowa... E vennero i terribili giorni del 25 e 26 settembre. Il
fragore delle esplosioni si mescolava di continuo al rombo dei cannoni,
perforato dall'urlo degli aerei in picchiata, simile a trapani elettrici
che bucassero il ferro. L'aria era greve di fumo e della polvere
sollevata dallo sgretolarsi dei mattoni e degli intonaci. Si diffondeva
ovunque, soffocando la gente che si era rifugiata nelle cantine o nei
propri appartamenti nel tentativo di tenersi il pi lontano possibile
dalla strada. Non so come in quei due giorni riuscii a sopravvivere. Una
scheggia di shrapnel uccise un tizio che stava seduto accanto a me nella
camera da letto dei nostri amici. Io trascorsi due notti e un giorno con
dieci persone, in piedi dentro un piccolo gabinetto. Qualche settimana
dopo, quando ci chiedemmo come ci fossimo riusciti, e tentammo di
pigiarci di nuovo l dentro, scoprimmo che solo otto persone, purch non
terrorizzate a morte, vi sarebbero potute entrare. Varsavia si arrese
mercoled 27 settembre. Passarono altri due giorni prima che mi
arrischiassi ad arrivare in centro. Rientrai in preda a una profonda
depressione: la citt non esisteva pi - o almeno questo pensai in quel
momento nella mia sprovvedutezza. Nowy Swiat era uno stretto vicolo
che
si snodava attraverso cumuli di macerie. A ogni angolo ero costretto a
fare deviazioni attorno a barricate costituite da tram rovesciati e
masselli del lastricato divelti. Cadaveri in decomposizione erano
ammucchiati per le strade. La gente affamata per il lungo assedio si
buttava sulle carogne dei cavalli che giacevano al suolo. Le rovine di
molti edifici erano ancora fumanti. Mi trovavo in Aleje Jerozolimskie
quando si avvicin una motocicletta proveniente dalla Vistola. In sella
c'erano due soldati con uniformi verdi sconosciute e elmetti
d'acciaio. Due volti grandi, impassibili e occhi cerulei. Si
fermarono vicino al marciapiedi e chiamarono un ragazzo che li stava
fissando spaventato. Lui si avvicin. Marschallstrasse!
Marschallstrasse! Continuarono a ripetere quell'unica parola, la
parola tedesca che stava per via Marszalkowska. Il ragazzo rimaneva l,
immobile, confuso, a bocca aperta, non riuscendo a profferire parola. I
soldati persero la pazienza. Oh, all'inferno! url quello alla guida
della moto, con un gesto iroso. Diede gas e la moto si allontan
rombando. Quelli furono i primi tedeschi che vidi. Qualche giorno dopo
sui muri furono affissi proclami bilingui, promulgati dal comandante
tedesco: si promettevano alla popolazione condizioni di lavoro sicure e
l'assistenza da parte dello Stato tedesco. C'era un paragrafo speciale
dedicato agli ebrei. Venivano loro garantiti tutti i diritti,
l'inviolabilit degli averi, e la piena sicurezza delle loro vite.


CAPITOLO 4.


Mio padre china il capo davanti ai tedeschi.

Tornammo in via Sliska. L trovammo il nostro appartamento
integro, sebbene ci aspettassimo il contrario.
Mancavano alcuni vetri alle finestre ma nient'altro. Le porte
erano state chiuse a chiave, e perfino gli oggetti pi piccoli erano al
loro solito posto all'interno dell'appartamento. Anche altre case del
quartiere erano rimaste intatte o avevano subito solo qualche danno di
scarso rilievo. Nei giorni successivi, quando cominciammo a uscire per
appurare che ne fosse dei nostri conoscenti, scoprimmo che, pur se
gravemente colpita, tutto sommato la citt stava ancora in piedi. I
danni non erano stati cos pesanti come avremmo potuto pensare in un
primo momento, aggirandoci tra le grandi aree coperte dalle rovine
ancora fumanti. Lo stesso valeva per le persone. All'inizio si era
parlato di centomila morti, una cifra che equivaleva a circa il dieci
per cento della popolazione della citt e aveva fatto inorridire tutti.
In seguito si scopr che erano morte all'incirca ventimila persone. Tra
queste, amici che avevamo visto vivi solo pochi giorni prima e che ora
giacevano sotto le rovine o maciullati dai proiettili. Due colleghe di
mia sorella Regina erano morte per il crollo di un caseggiato in via
Koszykova. Passando davanti all'edificio bisognava mettersi il
fazzoletto al naso: il puzzo nauseabondo di otto cadaveri in
putrefazione filtrava attraverso le finestre bloccate della
cantina, attraverso ogni passaggio e ogni fenditura, appestando
l'aria. Un proiettile aveva ucciso uno dei miei colleghi in via
Mazowiecka. Solo dopo che la sua testa fu ritrovata si riusc a
stabilire che quei resti sparpagliati appartenevano a un essere umano
che un tempo era stato un violinista di talento. Per quanto orribili,
queste notizie non riuscivano a turbare il nostro piacere animalesco di
essere ancora vivi e di sapere che essendo sfuggiti alla morte non
correvamo ora alcun pericolo immediato, anche se reprimevamo nel nostro
subconscio questi sentimenti perch ce ne vergognavamo. In questo
mondo
nuovo, dove tutto ci che aveva avuto un valore durevole un mese prima
era adesso distrutto, le cose pi semplici, cose cui prima quasi non si
badava, avevano assunto un significato di enorme importanza: una
comoda
e solida poltrona, l'aspetto rassicurante di una stufa rivestita di
piastrelle bianche sulla quale posare lo sguardo, lo scricchiolio del
legno dell'impiantito: un consolante preludio all'atmosfera di serenit
e di tranquillit della casa. Pap fu il primo a riprendere la sua
musica. Sfuggiva alla realt suonando il violino per ore e ore. Quando
qualcuno lo interrompeva portandogli una brutta notizia, ascoltava e si
accigliava, mostrava irritazione ma, di l a poco, si rischiarava in
viso di nuovo e diceva, portandosi il violino al mento: Oh, non
preoccupatevi! Gli alleati saranno sicuramente qui entro un mese.
Quella risposta fissa a tutte le domande e ai problemi di quel momento
era il suo modo di chiudersi la porta alle spalle e di tornare al suo
altro mondo, quello della musica, dove era del tutto felice. Purtroppo
le prime notizie passateci da persone che si erano procurate degli
accumulatori e avevano rimesso in funzione i loro apparecchi radio, non
confermavano l'ottimismo di mio padre. Niente di ci che avevamo sentito
era vero. I francesi non avevano alcuna intenzione di sfondare
la Linea Siegfried, non pi di quanto gli inglesi intendessero
bombardare Amburgo, e tanto meno sbarcare sulle coste tedesche. D'altra
parte, a Varsavia stavano cominciando le prime retate di ebrei.
Inizialmente eseguite con un certo impaccio, come se coloro che le
mettevano in atto si vergognassero di quel nuovo mezzo per torturare la
gente e non avessero comunque familiarit alcuna con pratiche del
genere. Piccole vetture private percorrevano le strade, fermandosi
inaspettatamente accosto al marciapiede quando un ebreo veniva
individuato; le portiere allora si aprivano, una mano si protendeva
uncinando un dito. Sali! Chi era reduce da una di quelle retate dava
notizia dei primi casi di maltrattamenti. Per il momento la cosa non era
grave, la violenza fisica si limitava a ceffoni, pugni e a volte calci.
Ma, poich era un'esperienza del tutto inusitata, chi ne era vittima la
viveva malissimo, essendo lo schiaffo subito da un tedesco sofferto come
ignominia. Non si rendevano ancora conto che tali percosse equivalevano
moralmente a una botta o a un calcio ricevuto da un animale. In quel
periodo iniziale, la collera contro il governo e il comando militare,
entrambi fuggiti abbandonando il Paese al proprio destino, era in genere
pi forte dell'odio verso i tedeschi. Ricordavamo con amarezza le parole
del feldmaresciallo, il quale aveva giurato che non avrebbe permesso al
nemico di strappargli anche un solo bottone dell'uniforme: promessa
mantenuta, infatti, ma solo perch i bottoni erano rimasti attaccati
all'uniforme che indossava quando aveva tagliato la corda per fuggire
all'estero. E secondo l'opinione di certuni ora saremmo stati
addirittura meglio, giacch i tedeschi avrebbero portato un po' di
ordine in quel caos che era la Polonia. Ma i tedeschi invece, che
avevano vinto la guerra guerreggiata contro di noi, cominciarono
ora a perdere la guerra politica. Un punto di svolta cruciale
fu la fucilazione dei primi cento innocenti cittadini di
Varsavia, nel dicembre del 1939. Nel giro di poche ore era stato eretto
un muro di odio fra tedeschi e polacchi, e n gli uni n gli altri da
quel momento riuscirono pi a scalarlo, anche se durante gli ultimi anni
dell'occupazione i tedeschi, mostrarono una certa disponibilit a farlo.
Furono affissi i primi decreti tedeschi che comminavano la pena di morte
per chi non ottemperasse alle disposizioni. Le pi importanti
riguardavano il commercio del pane: chiunque fosse stato colto nell'atto
di acquistare o vendere pane a prezzi pi alti di quelli d'anteguerra
sarebbe stato fucilato. Questo divieto fu per noi una rovina. Non
mangiammo pane per giorni e giorni, alimentandoci invece con patate e
altri farinacei. Tuttavia, Henryk poi scopr che di pane in giro ce
n'era sempre in vendita e che, acquistandolo, non toccava cader morti
stecchiti. Cos riprendemmo a comperare pane. Il decreto non fu mai
abolito e, dato che tutti mangiarono e acquistarono pane tutti i giorni
durante i cinque anni di occupazione, a milioni sono stati quelli che
hanno rischiato la condanna a morte per questa sola infrazione nel
territorio polacco del governatorato generale sottoposto a dominio
tedesco. Dovette per trascorrere molto tempo prima che ci persuadessimo
che i decreti tedeschi non avevano alcun peso, e che il pericolo reale
era costituito da ci che ti sarebbe potuto succedere del tutto
inaspettatamente, come un fulmine a ciel sereno: non preannunciato da
regole e regolamenti, per quanto inattendibili. Presto cominciarono a
essere pubblicati decreti concernenti esclusivamente gli ebrei. Una
famiglia ebrea non poteva tenere in casa pi di duemila zloty.
Altri risparmi e oggetti di valore dovevano essere depositati in
banca su un conto bloccato. Similmente, le propriet immobiliari degli
ebrei dovevano essere trasferite ai tedeschi. Ovviamente, era ben
difficile che qualcuno fosse tanto ingenuo da consegnare, di sua
spontanea volont, tutto quello che possedeva al nemico. Al pari degli
altri decidemmo di nascondere i nostri valori, bench si trattasse solo
dell'orologio e della catena d'oro di mio padre e della somma di
cinquemila zloty. Dibattemmo animatamente su quale fosse il modo
migliore per metterli al riparo. Mio padre sugger alcuni metodi
sperimentati durante la Prima guerra mondiale, come per esempio forare
la gamba del tavolo della sala da pranzo per occultare nel varco gli
oggetti di valore. E se dovessero portarsi via il tavolo? chiese
Henryk in tono sarcastico. Non dir sciocchezze, replic mio padre
irritato. Che vuoi che ci facciano con un tavolo come questo? Diede
un'occhiata spregiativa al tavolo. Il ripiano di noce lustro alla
perfezione era segnato da macchie di liquidi rovesciati, e in un punto
l'impiallacciatura si stava staccando. Per togliere anche l'ultimo
residuo di valore a quel mobile mio padre vi si avvicin, infil il dito
sotto l'impiallacciatura staccata e la fece saltar via, lasciando una
striscia di legno nudo. Ma che stai facendo? lo rimprover mia madre.
Henryk fece un'altra proposta. Secondo lui, avremmo dovuto usare metodi
psicologici e lasciare l'orologio e i soldi in piena vista. I tedeschi
avrebbero frugato dappertutto senza per notare gli oggetti di valore
lasciati sul ripiano del tavolo. Raggiungemmo un accordo amichevole:
l'orologio fu nascosto sotto la credenza; la catena sotto il manico del
violino di mio padre e il denaro fu ficcato nell'infisso di una
finestra. Bench allarmata per la durezza delle leggi tedesche,
la gente non si scoraggiava. Si consolava al pensiero che
forse i tedeschi avrebbero consegnato Varsavia alla Russia sovietica da
un momento all'altro e che zone occupate solo formalmente sarebbero
state restituite alla Polonia al pi presto. Non era stata stabilita
alcuna frontiera sull'ansa della Vistola e persone che arrivavano in
citt dalle due rive del fiume giuravano di aver visto con i propri
occhi i soldati dell'Armata rossa a Jablonna o a Garwolin. Ma subito
dopo venivano smentite da altre che giuravano d'aver visto con i loro
occhi i russi che si ritiravano da Vilna e da Leopoli, consegnandole ai
tedeschi. Era difficile decidere a quali di queste testimonianze oculari
si poteva dar credito. Molti ebrei non aspettarono l'arrivo dei russi in
citt, vendettero invece tutto ci che possedevano a Varsavia e si
trasferirono a est, nell'unica direzione che permettesse loro di
sfuggire ai tedeschi. Quasi tutti i miei colleghi musicisti partirono e
insistettero perch li seguissi; la mia famiglia invece decise di
restare. Dopo due giorni uno di quei colleghi torn, ammaccato e
furioso, senza pi il suo zaino e il suo denaro. Vicino alla frontiera
aveva visto cinque ebrei seminudi, appesi per le mani agli alberi
intorno e presi a frustate. Era stato anche testimone della morte del
dottor Haskielewicz, che aveva detto ai tedeschi di voler attraversare
l'ansa del fiume. Pistola alla tempia, gli avevano ordinato di entrare
nel fiume, costringendolo ad avanzare nell'acqua sempre pi alta, fino a
quando non aveva pi toccato il fondo ed era annegato. Il mio collega
aveva perso solo gli oggetti e i denari, poi era stato picchiato e
mandato indietro. Ma la maggior parte degli ebrei, pur se derubati e
maltrattati, riuscirono a raggiungere la Russia. Certo ci dispiacque per
quel poveretto, ma al tempo stesso provammo un senso di trionfo:
avrebbe fatto meglio a seguire il nostro consiglio e a rimanere.
La nostra decisione non era stata conseguenza di alcun
ragionamento logico. Avevamo semplicemente scelto di restare per via del
nostro attaccamento a Varsavia, anche se non saremmo stati in grado di
dare una spiegazione logica al riguardo. Quando io dico nostra decisione
mi riferisco a tutti i miei familiari, eccetto che a mio padre. Se non
aveva lasciato Varsavia era perch non voleva allontanarsi troppo da
Sosnowiec, da dove proveniva. A lui Varsavia non era mai piaciuta e
quanto pi le cose per noi a Varsavia peggioravano, tanto pi lui
sentiva nostalgia e idealizzava Sosnowiec. Sosnowiec era l'unico posto
in cui si viveva bene, dove la gente amava la musica ed era in grado di
apprezzare un bravo violinista. Era addirittura l'unico posto dove era
possibile bere un bicchiere di birra decente, perch a Varsavia si
trovava solo sciacquatura di piatti, disgustosa e imbevibile. Dopo cena
mio padre soleva incrociare le mani sul petto, appoggiarsi allo
schienale della sedia, chiudendo gli occhi con aria sognante e
tediandoci con il suo monotono soliloquio di una Sosnowiec esistente
solo nella sua nostalgica immaginazione. In quelle settimane di tardo
autunno, poco meno di due mesi dopo che i tedeschi avevano preso
Varsavia, la citt del tutto all'improvviso e inaspettatamente ritorn
al suo vecchio modo di vivere. Questo ribaltamento della congiuntura
materiale, sopravvenuto con tanta facilit, costitu per noi una
sorpresa in pi di quella guerra pi di ogni altra ricca di sorprese,
dove nulla andava come ci aspettavamo. L'enorme citt, capitale di un
Paese con una popolazione di molti milioni di abitanti, era in parte
distrutta, un esercito di impiegati statali erano senza lavoro e ondate
di profughi continuavano a riversarvisi, provenienti dalla Slesia,
dalla Posnania e dalla Pomerania. Di colpo, tutte queste persone,
gente rimasta senza un tetto sopra la testa, senza un lavoro,
con fosche prospettive di vita, si resero conto che si poteva
guadagnare moltissimo eludendo i decreti tedeschi. Pi decreti venivano
emanati pi aumentavano le possibilit di guadagno. Due modelli di vita
cominciarono a delinearsi di pari passo: una vita ufficiale e fasulla,
basata su regole che costringevano la gente a lavorare dall'alba al
tramonto, al limite della denutrizione; e una seconda vita non ufficiale
gremita di fiabesche opportunit, di lucro, con floridi traffici di
dollari, brillanti, farina, pelli o persino documenti falsi; una vita
sotto la minaccia costante della pena di morte, ma vissuta allegramente,
spensieratamente, in ristoranti di lusso dove i clienti si recavano in
risci. Non tutti, beninteso, se la godevano a quel modo. Ogni giorno,
quando rientravo la sera, vedevo una donna seduta sempre nella stessa
nicchia d'un muro in via Sienna: suonava una piccola fisarmonica e
cantava malinconiche canzoni russe. Non chiedeva mai la carit prima del
calar del crepuscolo, probabilmente per timore di esser riconosciuta.
Indossava un tailleur grigio, probabilmente l'ultimo capo residuo a
testimoniare l'eleganza di chi aveva certo conosciuto giorni migliori.
Il suo bel volto appariva inerte nel crepuscolo, gli occhi continuavano
a fissare lo stesso punto in alto, chiss dove, sopra le teste dei
passanti. Cantava con una voce profonda, affascinante e si accompagnava
bene con la sua piccola fisarmonica. Tutto il suo portamento, il modo in
cui si appoggiava al muro, dimostravano che era una signora della buona
societ, costretta dalla guerra a sostentarsi in quel modo. Ma persino
lei riusciva a guadagnare bene. C'era sempre una gran quantit di
monetine nel tamburello ornato di nastri che lei sicuramente considerava
il simbolo del mestiere di mendicante. Se lo era sistemato
ai piedi in modo che nessuno potesse aver dubbi sul fatto che stava
chiedendo l'elemosina. Oltre alle monetine c'era anche qualche banconota
di cinquanta zloty. Se mi era possibile, nemmeno io mi facevo vedere in
strada fino al calar della sera, ma per ragioni tutt'affatto diverse.
Tra i tanti fastidiosi divieti imposti agli ebrei ce n'era uno che,
bench non scritto, doveva essere osservato molto scrupolosamente: gli
uomini ebrei avevano l'obbligo di chinare il capo davanti a ogni soldato
tedesco. Quest'imposizione stupida e umiliante mandava su tutte le furie
me e Henryk. Cercavamo in ogni modo di eluderla. Facevamo lunghe
deviazioni per le strade, al solo fine di evitare incontri con i
tedeschi e se non ci riuscivamo, voltavamo la testa da un'altra parte
fingendo di non averli visti, pur rischiando cos d'essere malmenati.
Mio padre invece si comportava in modo tutt'affatto diverso. Per le sue
passeggiate sceglieva le strade pi lunghe e si inchinava ai tedeschi
con un garbo indescrivibilmente ironico, felice quando un soldato,
tratto in inganno dal suo volto serafico, ricambiava educatamente il
saluto, sorridendogli come a un buon amico. Tutte le sere, quando
rientrava, non riusciva a trattenersi dal far commenti con noncuranza
sulla vasta cerchia delle sue conoscenze: gli bastava metter piede in
strada, raccontava, e subito lo attorniavano a dozzine. Non riusciva
proprio a sottrarsi alla loro cordialit e a furia di cortesi
scappellate la mano finiva con l'irrigidirglisi. E a questo punto
sorrideva sempre come un monello e si strofinava allegro le mani. Ma la
malignit dei tedeschi non era da sottovalutarsi. Faceva parte di un
sistema mirante a tenerci in uno stato costante di tensione nervosa
riguardo al nostro futuro. Quasi ogni giorno venivano promulgati
nuovi decreti. All'apparenza di scarso rilievo, ci facevano
per capire che i tedeschi non ci avevano dimenticato, n avevano
intenzione alcuna di farlo. Poi agli ebrei fu proibito viaggiare in
treno. In seguito fummo obbligati a pagare i biglietti del tram quattro
volte di pi degli ariani. Avevano preso a circolare le prime voci
della costruzione di un ghetto. Imperversarono per due giorni,
sprofondandoci nella disperazione, poi di nuovo si sopirono.


CAPITOLO 5.

SIETE EBREI?

Verso la fine di novembre, quando le belle giornate di
quell'autunno insolitamente lungo si facevano pi rare, e freddi
acquazzoni si abbattevano sulla citt sempre pi di frequente, a mio
padre, a Henryk e a me tocc per la prima volta far conoscenza con la
disposizione a uccidere dei tedeschi. Una sera tutti e tre ci eravamo
recati a fare visita a un amico. Avevamo chiacchierato e, quando guardai
l'orologio, mi allarmai vedendo prossima l'ora del coprifuoco. Dovevamo
andarcene subito, pur essendo ormai impossibile arrivare a casa in
tempo. Ma un quarto d'ora di ritardo non era poi un grave crimine e
potevamo sperare di cavarcela. Prendemmo i cappotti, salutammo di fretta
e uscimmo. Le strade erano buie e gi completamente deserte. La pioggia
ci sferzava il volto, raffiche di vento scuotevano le insegne, nell'aria
echeggiava lo scrosciare del metallo. Sollevato il bavero dei cappotti,
cercammo di camminare quanto pi velocemente e pi silenziosamente
potessimo, tenendoci accosto ai muri dei caseggiati. Eravamo gi
arrivati a met di via Zielna e cominciavamo a sperare di giungere a
destinazione sani e salvi, quando d'un tratto una pattuglia di polizia
gir l'angolo. Non c'era tempo per ritirarsi o nascondersi. Restammo
immobili nella luce abbagliante delle loro torce, ciascuno sforzandosi
di pensare a una qualche scusa, quando uno degli uomini avanz deciso
fino a noi e ci punt la torcia in faccia. Siete ebrei?
Una domanda del tutto proforma, dato che non aspett la nostra
risposta. Bene, in questo caso... Avvertimmo in tale denuncia della
nostra origine razziale un che di trionfante. Era la soddisfazione per
aver scovato siffatta selvaggina, insieme con il dileggio e la minaccia.
Ancor prima di rendercene conto eravamo stati afferrati e messi con la
faccia contro il muro dell'edificio, mentre i poliziotti arretravano e
cominciavano a togliere la sicura dei fucili. Questo, dunque, il modo
della nostra morte! Ancora pochi secondi, e saremmo stati lunghi distesi
sul marciapiede e insanguinati del nostro stesso sangue, il cranio
fracassato, fino al giorno seguente. Solo allora la mamma e le mie
sorelle avrebbero appreso l'accaduto e sarebbero corse a cercarci in
preda alla disperazione. Gli amici ai quali eravamo andati a far visita
si sarebbero rammaricati per averci trattenuto troppo. Tutti quei
pensieri mi passarono per la testa in una successione straniata, quasi
fosse stato un altro a formularli. Udii qualcuno dire forte: Questa
la fine! Solo un attimo dopo mi resi conto che ero stato io a parlare.
Al tempo stesso sentii uno scoppio di pianto e di singhiozzi convulsi.
Girai il capo, e nella luce cruda della torcia elettrica vidi mio padre
che, inginocchiato sull'asfalto umido, singhiozzava e supplicava i
poliziotti di non ucciderci. Come poteva umiliarsi in quel modo? Henryk
era chino su di lui, gli bisbigliava qualcosa, cercava di farlo alzare.
Henryk, quel mio fratello cos riservato, Henryk con quel suo perenne
sorriso sarcastico, in quel momento palesava una sua interiore e
straordinaria dolcezza e tenerezza. Non gli avevo mai visto prima una
tal disposizione. Ma allora c'era anche un altro Henryk, che avrei
potuto intendere se solo lo avessi conosciuto, invece di trovarmici in
perpetuo contrasto. Mi girai di nuovo verso il muro. La situazione non
era cambiata. Pap continuava a piangere, Henryk cercava di
calmarlo, gli uomini della polizia continuavano a puntarci contro i
fucili. Non riuscivamo a vederli dietro la barriera di luce bianca. Poi,
all'improvviso, in una frazione di secondo, avvertii per istinto che la
morte non ci minacciava pi. Trascorsero alcuni istanti, e una voce
secca attravers la barriera di luce. Che mestiere fate? Rispose
Henryk per tutti. Appariva sorprendentemente padrone di s, la voce
tranquilla, come se nulla fosse successo. Siamo musicisti. Uno dei
poliziotti mi si piant davanti, mi afferr per il bavero e mi scroll
in un ultimo scoppio di collera, del tutto immotivato, dato che ora
aveva deciso di lasciarci vivere. Buon per voi che anch'io sono
musicista. Mi diede uno spintone, sicch arretrai barcollando contro il
muro. Via di qui! Ci mettemmo a correre nell'oscurit, ansiosi di
allontanarci dalla luce delle loro torce il pi velocemente possibile,
prima che cambiassero idea. Riuscivamo a sentire alle nostre spalle le
loro voci, sempre meno distinte, accese in una discussione violenta. In
due rimproveravano quello che ci aveva lasciato andare via. Secondo loro
non meritavamo alcuna comprensione, visto che eravamo stati noi a
scatenare questa guerra in cui i tedeschi morivano. Per il momento,
per, non morivano, e invece si arricchivano. Sempre pi spesso gruppi
di tedeschi irrompevano nelle case degli ebrei, le saccheggiavano e ne
asportavano i mobili caricandoli su autocarri. Capifamiglia disperati
vendevano gli averi pi preziosi, sostituendoli con roba priva di valore
che non avrebbe tentato nessuno. Anche noi vendemmo i nostri mobili, ma
pi per necessit che per paura: stavamo diventando sempre
pi poveri. Nessuno, in famiglia, aveva animo di speculare.
Regina ci prov, ma senza successo. In quanto avvocato, aveva un forte
senso dell'onest e della responsabilit e non le riusciva assolutamente
n di chiedere n di accettare il doppio dell'effettivo valore di
qualsiasi oggetto. Si volse allora alle ripetizioni private. Pap, mamma
e Halina davano lezioni di musica e Henryk insegnava inglese. Io ero
l'unico incapace di trovare un modo per guadagnarmi il pane. Sprofondato
nell'apatia, la sola cosa che riuscivo a fare era lavorare, di tanto in
tanto, all'orchestrazione del mio concertino. Nella seconda met di
novembre, inesplicabilmente, i tedeschi cominciarono a sbarrare con filo
spinato le strade che partivano dal lato settentrionale di via
Marszalkowska e, alla fine del mese, fu emesso un comunicato cui
nessuno
inizialmente riusc a credere. Nemmeno nei nostri pensieri pi riposti
avremmo mai sospettato che potesse accadere una cosa del genere: dal
primo al 5 dicembre, gli ebrei avrebbero dovuto munirsi di bracciali
bianchi contrassegnati da una stella azzurra di Davide. E ci toccava
d'essere pubblicamente marchiati come paria. Secoli di progresso
dell'umanit stavano per essere spazzati via ed eccoci tornati al Medio
Evo. Per settimane e settimane, l'intellighenzia ebraica si tenne
volontariamente agli arresti domiciliari. Nessuno si sarebbe avventurato
in strada con quel marchio sulla manica, e se proprio era indispensabile
uscire da casa, si cercava di passare inosservati, camminando con gli
occhi abbassati, l'animo colmo di vergogna e di angoscia.
Sopraggiunsero, senza preavviso, mesi di rigido clima invernale e il
freddo sembrava dare una mano ai tedeschi a uccidere la gente. Le gelate
duravano settimane, la temperatura scese a livelli senza
precedenti in Polonia. Quasi impossibile procurarsi carbone, per il
quale venivano richiesti prezzi assurdi. Ricordo che per lunghe file di
giorni ci tocc stare a letto perch la temperatura nell'appartamento
era troppo fredda da sopportare. Nel cuore pi crudo di quell'inverno,
arrivarono a Varsavia ebrei deportati, evacuati da ovest. Cio, solo
pochi di loro, di fatto, arrivarono: caricati su carri bestiame nei loro
luoghi di origine, sigillati i portelloni, le persone rinchiuse rimasero
senza cibo, senza acqua e senza alcuna possibilit di scaldarsi. Spesso
ci volevano parecchi giorni prima che quei trasporti spettrali
giungessero a Varsavia, e solo allora la gente veniva fatta scendere. Su
alcuni di quei convogli poco meno della met dei passeggeri riusc a
sopravvivere, e sempre in grave stato di congelamento. Gli altri,
ridotti ormai a cadaveri, che il rigore del gelo manteneva ritti in
mezzo ai compagni, subito cadevano a terra quando i vivi si spostavano.
Sembrava che le cose non potessero peggiorare ancora. Ma questo era solo
il punto di vista degli ebrei; diverso era quello dei tedeschi. Fedeli
al loro sistema di esercitare la pressione con gradualit crescente, nel
gennaio e nel febbraio del 1940 emanarono nuovi decreti repressivi. Il
primo annunciava che gli ebrei avrebbero dovuto lavorare per due anni in
campi di concentramento, dove avremmo ricevuto una educazione
sociale
appropriata, tale da emendare la nostra natura di parassiti inseriti
nell'organismo sano delle genti ariane. Ci sarebbero dovuti andare gli
uomini tra i dodici e i sessant'anni e le donne tra i quattordici e i
quarantacinque. Il secondo decreto stabiliva il metodo per registrarci
e portarci via. Per risparmiarsene il fastidio, i tedeschi stavano
trasferendone la responsabilit al Consiglio ebraico che gestiva
l'amministrazione della comunit. Avremmo dovuto assistere al
nostro sterminio, preparando la nostra rovina con le nostre
stesse mani, in una sorta di suicidio a norma di legge. I trasporti
sarebbero iniziati in primavera. Il Consiglio decise di agire in modo da
salvare la vita di gran parte dell'intellighenzia. Occorrevano mille
zloty a testa per sostituire con un membro della classe lavoratrice
ebraica la persona altrimenti da mettere in lista. Naturalmente non
tutto il denaro finiva proprio nelle mani di quelle povere vittime
sacrificali. I funzionari del Consiglio dovevano pur vivere, e vivevano
anche bene, con vodka e qualche altra piccola squisitezza. I trasporti,
per, non iniziarono in primavera. Ancora una volta gli editti ufficiali
tedeschi risultavano poco attendibili, anzi per alcuni mesi vi fu un
allentamento della tensione nei rapporti tra ebrei e tedeschi, sempre
pi tangibile via via che da entrambe le parti ci si preoccupava sempre
pi per quanto stava accadendo al fronte. Con l'arrivo della primavera
apparve chiaro che gli alleati, trascorso l'inverno a prepararsi
adeguatamente, non avrebbero tardato ad attaccare la Germania
contemporaneamente dalla Francia, dal Belgio e dall'Olanda, sfondando la
Linea Siegfried, e cos invadendo il territorio della Saar, della
Baviera e della Germania settentrionale, per conquistare quindi Berlino
e liberare poi Varsavia al pi tardi in estate. Tutta la citt era in
uno stato di febbrile ottimismo. Aspettavamo l'inizio dell'offensiva
nello stato d'animo di chi si prepari a una festa. Nel frattempo, per,
i tedeschi avevano invaso la Danimarca, ma a tale iniziativa non fu
attribuito significato alcuno nella valutazione che ne diedero i nostri
esperti di politica. Si trattava di unit destinate a essere tagliate
fuori e quindi isolate. E il 10 maggio, l'offensiva finalmente scatt,
da parte per dei tedeschi. L'Olanda e il Belgio caddero. I
tedeschi entrarono in Francia. Una ragione in pi, questa, per non
perdersi d'animo. Si stava ripetendo quanto gi accaduto nel 1914. Da
parte francese erano ancora al comando le stesse persone di allora:
Ptain, Weygand, uomini eccellenti della scuola di Foch. Era sicuro che
avrebbero difeso la Francia contro i tedeschi con la stessa capacit gi
a suo tempo dimostrata. Finalmente il 20 maggio un mio collega
violinista venne a trovarmi nel primo pomeriggio. Dovevamo suonare
insieme, ripassando una sonata di Beethoven che non eseguivamo pi da
qualche tempo e che entrambi amavamo molto. In casa c'erano anche altri
amici, e mia madre, desiderosa di festeggiarmi, aveva procurato del
caff. Era una bella giornata di sole. Gustammo il caff e i deliziosi
dolcetti preparati dalla mamma. Eravamo allegri. I tedeschi erano s
alle porte di Parigi, ma nessuno se ne preoccupava troppo. In fin dei
conti c'era la Marna: quella classica linea di difesa dove tutto si
sarebbe bloccato, come nel contrasto in cui si inverte l'andamento
dinamico nella seconda parte dello Scherzo in si minore di Chopin, un
crescendo tempestoso di crome, via via sempre pi travolgenti sino
all'accordo conclusivo, l dove i tedeschi si sarebbero ritirati entro
le proprie frontiere con lo stesso impeto della loro avanzata, avviando
cos la fine della guerra e la vittoria alleata. Dopo il caff, ci
accingemmo ad attaccare la nostra esecuzione. Sedetti al pianoforte,
intorno a me molti ascoltatori attenti, persone capaci di apprezzare il
godimento che avrei offerto tanto a loro quanto a me stesso. Il
violinista era in piedi alla mia destra, alla mia sinistra era seduta
una deliziosa giovane amica di Regina con il compito di voltarmi le
pagine. Che altro ancora avrei potuto desiderare in quel momento
per sentirmi del tutto felice? Aspettavamo per iniziare solo
Halina, che era scesa al negozio per fare una telefonata.
Quando rientr aveva un giornale in mano: una edizione straordinaria.
Due parole giganteggiavano in prima pagina, a caratteri cubitali,
certamente quelli pi grandi a disposizione dei tipografi: PARIGI CADE!
Appoggiai la testa sul pianoforte e, per la prima volta dall'inizio
della guerra, scoppiai in lacrime. Inebriati dalla vittoria, e obbligati
a un attimo di sosta per riprender fiato, i tedeschi avevano ora il
tempo per tornare a occuparsi di noi. Del resto nemmeno durante i
combattimenti sul fronte occidentale ci avevano del tutto dimenticati.
Le ruberie compiute a danno degli ebrei, la loro evacuazione forzata, le
deportazioni nei campi di lavoro in Germania, procedevano senza sosta,
ma ormai avevamo finito per abituarci. Adesso, per, c'era da aspettarsi
il peggio. In settembre vi furono i primi trasporti per i campi di
lavoro di Betzec e Hrubieszww. Con la scusa di dare agli ebrei
un'educazione sociale adeguata, i tedeschi li lasciavano per giorni e
giorni immersi nell'acqua sino alla cintola, perch mettessero in opera
pi efficienti sistemi fognari, provvedendo al loro sostentamento con
razioni giornaliere costituite da cento grammi di pane e da una ciotola
di acquosa brodaglia. In pratica quel lavoro non dur due anni, come
annunciato preliminarmente, ma solo tre mesi. Il tempo sufficiente,
tuttavia, per distruggere fisicamente la gente e per farla ammalare di
tubercolosi. Agli uomini rimasti a Varsavia toccava notificarsi per
andare a lavorarvi: ciascuno doveva adempiere l'obbligo di sei ore di
lavoro forzato al mese. Io feci di tutto per evitarlo. Temevo per le mie
dita. Mi sarebbe bastato un deficit del tono muscolare, un'infiammazione
articolare o pi semplicemente una brutta botta, ed ecco
bell'e finita la mia carriera di pianista. Henryk vedeva le cose in modo
diverso. Secondo lui, una persona intellettualmente creativa doveva
svolgere un certo lavoro materiale al fine di poter valutare nel modo
giusto le proprie capacit. E quindi prest la sua parte di lavoro,
anche se per questo dovette interrompere gli studi. Di l a poco, due
ulteriori eventi incisero profondamente sullo stato d'animo generale.
Innanzitutto l'inizio dell'offensiva aerea tedesca contro l'Inghilterra.
Quindi l'affissione di cartelli posti agli ingressi di certe strade,
quelle destinate a delimitare in seguito i limiti del ghetto ebraico,
affinch i passanti fossero informati della presenza del tifo in quelle
strade, e dovessero quindi evitarle. Poco dopo, sull'unico quotidiano
pubblicato a Varsavia dai tedeschi in lingua polacca, apparve un
commento ufficiale a questo proposito: non solo gli ebrei erano
parassiti sociali, ma anche propagatori di malattie infettive. Non
vivevano affatto rinchiusi nel ghetto, proseguiva la cronaca, e la
stessa parola ghetto era improponibile. Il giornale proseguiva
affermando che i tedeschi appartenevano a una razza troppo magnanima
per
confinare perfino parassiti come gli ebrei dentro un ghetto,
un'istituzione sopravvissuta al medioevo e indegna del nuovo ordine
europeo. Occorreva invece creare un quartiere a s stante per gli ebrei
della citt, destinato esclusivamente agli ebrei, dove questi avrebbero
goduto di una libert totale insieme con la possibilit di conservare la
propria cultura, le proprie usanze e le pratiche tradizionali proprie
della razza. Solo per esigenze igieniche quel quartiere sarebbe stato
cinto da un muro affinch il tifo e altre malattie ebraiche non si
diffondessero in altre parti della citt. Questa relazione umanitaria
era corredata da una piantina che definiva i limiti precisi del ghetto.
Noi, quanto meno, potevamo consolarci al pensiero che la nostra
strada si trovava gi nell'area del ghetto e non ci obbligava
quindi a cercarci un altro appartamento. Gli ebrei che vivevano fuori di
quell'area si trovarono in una situazione critica: nelle ultime
settimane di ottobre furono costretti a sborsare sottobanco somme
esorbitanti per trovarsi un tetto nuovo sopra la testa. I pi fortunati
trovarono locali disponibili in via Sienna, che sarebbe diventata gli
Champs-Elyses del ghetto, oppure si trasferirono nella zona adiacente.
Altri furono costretti a occupare squallidi tuguri nelle zone malfamate
delle vie Gesia, Smocza e Zamenhof, ormai da tempo immemorabile
ricetto
del proletariato ebraico. I cancelli del ghetto furono chiusi il 15
novembre. Quella sera io avevo da fare all'altro capo di via Sienna, non
lontano da via Zelazna. Piovigginava, ma faceva ancora insolitamente
caldo per quel periodo dell'anno. Le strade buie brulicavano di figure
che portavano la fascia bianca al braccio. Erano tutti in uno stato di
grande agitazione, correvano avanti e indietro come animali rinchiusi in
gabbia e non ancora abituati a tale condizione. Le donne si lamentavano,
i bambini atterriti piangevano accosciati accosto ai muri degli edifici,
sopra mucchi di coperte e materassi sempre pi umidi e sudici per la
sporcizia delle strade. Queste erano le famiglie ebraiche cacciate a
forza dietro le mura del ghetto all'ultimo momento, e senza alcuna
speranza di trovare riparo. Mezzo milione di persone doveva cercarsi un
posto qualsiasi dove posare la testa in una zona gi sovraffollata della
citt, dove lo spazio bastava appena per centomila persone. Guardando
avanti a me nella strada buia, vidi i fasci di luce che illuminavano la
nuova recinzione di legno: il cancello del ghetto, di l dal quale
viveva gente libera: non a domicilio coatto, con la disponibilit di uno
spazio adeguato, proprio qui nella citt di Varsavia. Nessun
ebreo, invece, avrebbe pi potuto varcare quel cancello. A un tratto
qualcuno mi prese la mano. Era un amico di mio padre, anche lui
musicista, e come mio padre, uomo di temperamento allegro e cordiale.
Be', che ne dici di questo, dunque? mi chiese con una risata nervosa,
descrivendo con la mano un arco che includeva quella massa di gente, i
muri sporchi delle case e quelli del ghetto, e il cancello, visibile
nella lontananza. Che ne dico? risposi. Che vogliono eliminarci. Ma
l'anziano signore non condivideva il mio parere, o forse non voleva
condividerlo. Fece un'altra risatina, un po' forzata, mi diede una pacca
sulla schiena ed esclam: Oh, non preoccuparti! Poi afferr un bottone
del mio cappotto, avvicin il volto rubizzo al mio, e aggiunse con
convinzione sincera o forse no: Presto ci lasceranno andare. Basta che
l'America ne sia informata.


CAPITOLO 6.


Ballando in via Chlodna.


Oggi, quando mi tornano alla mente ricordi ancora pi terribili,
le esperienze vissute nel ghetto di Varsavia dal novembre 1940
al luglio 1942, un periodo di quasi due anni, esse diventano
un'unica immagine quasi che fossero durate un unico giorno.
Per quanto mi sforzi non riesco a frazionarlo seguendo un
certo ordine cronologico, come si fa di solito quando si tiene
un diario. Naturalmente, all'epoca accaddero alcune cose, proprio
come erano gi accadute e come sarebbero accadute di nuovo, che erano
di
dominio pubblico o, quanto meno, facili da intuire. I tedeschi andavano
a caccia di selvaggina umana, da usare come bestie da soma, proprio come
facevano nel resto d'Europa. Forse con l'unica differenza che nel ghetto
di Varsavia quelle cacce cessarono all'improvviso nella primavera del
1942. Nel giro di pochi mesi, la preda ebraica sarebbe dovuta servire ad
altri scopi e, come per qualsiasi altra selvaggina, ci voleva una
stagione in cui la caccia e la pesca non venivano praticate, cos che le
grandi battute spettacolari risultassero molto pi fruttuose e non
deludessero. Al pari dei francesi, dei belgi, dei norvegesi e dei greci,
anche noi eravamo derubati, ma in modo pi sistematico e rigorosamente
ufficiale. I tedeschi che non facevano parte del sistema, non avevano
accesso al ghetto e nessun diritto di rubare. La polizia tedesca
era autorizzata a farlo in base a un decreto emesso dal
governatore generale in ottemperanza alla legge sul furto istituita
dal governo del Reich. Nel 1941 la Germania invase la Russia. Nel ghetto
noi seguivamo con il fiato sospeso il corso di quella nuova offensiva.
In un primo momento ci illudemmo che i tedeschi avrebbero finalmente
perso, in seguito provammo disperazione e dubbi crescenti riguardo al
destino del genere umano e di noi ebrei in particolare, man mano che le
truppe di Hitler continuavano ad avanzare in Russia. Poi, ancora, quando
i tedeschi ingiunsero agli ebrei di consegnare le pellicce, pena la
morte se non lo avessero fatto, ci rallegrammo al pensiero che, con
tutta probabilit, le cose non dovevano andare particolarmente bene
visto che la loro vittoria dipendeva da pellicce di volpe argentata e di
castoro. Il ghetto andava sempre pi restringendosi, i tedeschi ne
riducevano l'area, strada per strada, cos come in Europa spostavano i
confini dei Paesi che assoggettavano, impadronendosi di una regione
dopo l'altra. Pareva quasi che il ghetto di Varsavia fosse per loro
importante quanto la Francia, e l'esclusione di via Zlota e via Zielna
equivalesse, per l'espansione del Lebensraum tedesco, al distacco
dell'Abazia e della Lorena dal territorio francese. Tuttavia, questi
avvenimenti che si verificavano fuori dal nostro Paese erano del tutto
insignificanti se raffrontati a quel fatto totalizzante che teneva
occupata la nostra mente ogni ora e ogni minuto del tempo trascorso nel
ghetto: eravamo rinchiusi l dentro. Credo che sarebbe stato per noi
psicologicamente pi facile da sopportare se fossimo stati, ad esempio,
effettivamente rinchiusi in una cella. Questo genere di carcerazione
senza dubbio definisce nettamente il rapporto di un essere umano
con la realt. e' una situazione inequivocabile: la cella un
mondo a s dove sei rinchiuso senza alcun rapporto con il lontano mondo
della libert. Se hai il tempo e la propensione a farlo puoi sognare di
quel mondo, ma se non ci pensi non entrer di forza nella tua mente. Non
sempre davanti ai tuoi occhi, a torturarti con i ricordi della libert
che hai perso. La realt del ghetto era tanto peggiore proprio perch
aveva la parvenza della libert. Si poteva uscire in strada serbando
l'illusione di trovarsi in una citt assolutamente normale. Le fasce che
portavamo sul braccio e che ci marchiavano in quanto ebrei non ci
turbavano perch le portavamo tutti. E, dopo aver vissuto un po' di
tempo nel ghetto, mi resi conto che ci avevo fatto l'abitudine, al punto
che quando sognavo i miei amici ariani li vedevo con la fascia al
braccio, quasi che quella striscia di tessuto bianco fosse parte
integrante dell'abbigliamento umano, al pari di una cravatta. Tuttavia,
le strade del ghetto, e solo quelle strade, facevano sempre capo a dei
muri. Spesso io uscivo a camminare senza una meta precisa, seguendo il
mio istinto e quando meno me l'aspettavo mi ritrovavo di fronte a uno di
quei muri. Mi sbarravano la strada a impedirmi di proseguire senza che
vi fosse alcun motivo logico. Allora, la parte della strada dall'altro
lato del muro mi appariva a un tratto il luogo che pi amavo e che mi
era indispensabile pi di qualsiasi altra cosa al mondo. Un posto dove
le cose continuavano ad accadere e che avrei voluto vedere a qualsiasi
prezzo. Ma era inutile. Tornavo indietro distrutto e cos trascorrevo un
giorno dopo l'altro in preda allo stesso senso di disperazione. Perfino
nel ghetto si poteva andare al ristorante o al caff. L si incontravano
amici e sembrava che nulla ti impedisse di creare un'atmosfera
piacevole, come in un ristorante o in un caff di qualsiasi
altro luogo. Ma arrivava inevitabilmente il momento in cui un amico
buttava l che sarebbe stato simpatico, per quel nostro gruppetto
impegnato in una conversazione tanto piacevole, fare una gita in una
bella giornata domenicale, per esempio a Otwock. E' estate, magari
diceva, il tempo bello, e continuer a far caldo... e nulla avrebbe
potuto vietarti di attuare un progetto tanto semplice, neppure se ti
fosse venuta voglia di metterlo in atto l per l. Sarebbe bastato
pagare il conto del caff e delle paste, uscire, dirigersi verso la
stazione con i tuoi amici allegri e spensierati, acquistare i biglietti
e salire sul treno che portava fuori citt. Esistevano tutte le
condizioni per creare un'illusione perfetta. Ma poi, di colpo, ti si
parava davanti il muro. Il periodo di quasi due anni trascorsi nel
ghetto mi riporta alla mente, quando ci penso, un'esperienza infantile
molto pi limitata nel tempo. Dovevo essere operato di appendicite, un
intervento di routine che non destava preoccupazione alcuna. Tutto si
sarebbe risolto nel giro di una settimana. La data era gi stabilita con
i medici ed era stata riservata una stanza in ospedale. Spinti dal
desiderio di rendermi l'attesa meno pesante, i miei genitori, nella
settimana antecedente all'operazione, si erano dati un gran daffare a
viziarmi, facendomi tanti regali. Ogni giorno mi portavano a mangiare il
gelato, al cinema o a teatro, mi regalavano una gran quantit di libri e
di giocattoli e tutto ci che il mio cuore poteva desiderare. Sembrava
non mi servisse altro per completare la mia felicit. Ricordo per che
durante quella settimana, che fossi al cinema o a teatro o che mangiassi
il gelato, perfino nei momenti di gioco che richiedevano grande
concentrazione, io non riuscivo neppure per un istante a liberarmi
di quella sensazione di paura alla bocca dello stomaco, una
paura persistente e inconscia per ci che sarebbe successo quando
finalmente fosse arrivato il giorno dell'operazione. La medesima
istintiva paura non abbandon mai la gente del ghetto per quasi due
anni. Anche se in confronto al periodo che sarebbe seguito quelli furono
anni di relativa calma, trasformarono per la nostra vita in un incubo
senza fine, perch con tutto il nostro essere avvertivamo che in
qualsiasi momento sarebbe potuto accadere qualcosa di terribile, pur
ignorando quale fosse il pericolo che ci minacciava e da dove sarebbe
arrivato. Al mattino ero solito uscire di casa subito dopo la prima
colazione. Il mio rituale quotidiano includeva una lunga camminata per
via Mila fino a una buia e anonima stamberga dove viveva la famiglia del
custode Jehuda Zyskind, che abitava in via Mila non lontano da via
Karmelicka. Oltre al lavoro di custode, quando ve ne fosse necessit
faceva anche da corriere, autista, venditore e borsanerista al di l del
muro del ghetto. Grazie alla sua astuzia e alla forza fisica che gli
derivava dalla corporatura possente, si procacciava denaro dove gli
capitava per poter sfamare la sua famiglia, una famiglia cos numerosa
che non riuscivo nemmeno a capire di quanti membri fosse composta.
Tuttavia, a parte queste occupazioni quotidiane, Zyskind era un
socialista, un idealista. Si teneva in contatto con l'organizzazione
socialista, faceva entrare notizie di nascosto nel ghetto e cercava di
costituirvi delle cellule, bench questo gli riuscisse molto difficile.
Mi trattava con la benevola disistima che lui riteneva la giusta via
d'approccio da usare con gli artisti, gente del tutto negata ai fini
cospirativi. Tuttavia gli ero simpatico e mi permetteva di andare da lui
ogni mattina a leggere le comunicazioni segrete pervenute via
radio e appena stampate. Jehu-da sopravvisse fino all'inverno
del 1942, quando fu colto in flagrante, con pile di materiale
segreto sul tavolo che lui stava selezionando con l'aiuto
della moglie e dei figli. Furono fucilati tutti all'istante, perfino il
piccolo Symche, che aveva tre anni. Nelle condizioni del ghetto uscire
di casa, un'attivit perfettamente normale, assumeva il carattere di un
rituale, soprattutto durante i rastrellamenti per le strade. Prima
bisognava far visita ai vicini, ascoltarne i problemi e le lamentele, e
cos scoprire che cosa stava succedendo quel giorno in citt. C'erano
retate, blocchi? Via Chlodna era sorvegliata? Adempiuta quest'operazione
si usciva dall'edificio, ma bisognava ripetere le stesse domande per
strada, fermando i passanti che ti venivano incontro e poi continuando a
interrogare a ogni angolo di strada. Solo prendendo quelle precauzioni
si poteva avere la relativa certezza che non saresti stato beccato. Il
ghetto era diviso in un ghetto grande e in un ghetto piccolo. Di nuovo
ridimensionato, il ghetto piccolo, costituito dalle vie Wielka, Sienna,
Zelazna e Chlodna, aveva come unico collegamento con il ghetto grande il
tratto dall'angolo di via Zelazna fino a via Chlodna. Il ghetto grande
comprendeva tutta la parte settentrionale di Varsavia, dove si
articolava un gran numero di vie e vicoli angusti e maleodoranti,
gremiti di ebrei costretti a stiparsi nella miseria e nella sporcizia.
Anche il ghetto piccolo era affollato, ma non a tal punto. Tre o quattro
persone per stanza, e si poteva camminare per le strade senza scontrarsi
con altri passanti purch ci si scansasse e ci si destreggiasse
abilmente. N il contatto fisico comportava troppi rischi dato che nel
ghetto piccolo abitavano per lo pi persone appartenenti
all'intellighenzia e al ceto benestante. Gente relativamente indenne
da parassiti e pi che sollecita a togliersi di dosso quelli che tutti ci
beccavamo nel ghetto grande. Solo dopo aver lasciato via Chlodna aveva
inizio l'incubo. Occorrevano anzitutto fortuna e intuizione per
scegliere il momento giusto per raggiungere quel punto. Via Chlodna si
trovava nel quartiere ariano della citt, e c'era un continuo
andirivieni di veicoli, di tram e di pedoni. Per consentire agli ebrei
di percorrere via Zelazna dal ghetto piccolo a quello grande e
viceversa, era necessario bloccare il traffico quando la gente
attraversava via Chlodna. Poich questo disturbava i tedeschi, agli
ebrei l'attraversamento veniva permesso il pi raramente possibile.
Quando si percorreva via Zelazna si poteva vedere gi da una certa
distanza una moltitudine di persone sull'angolo di via Chlodna. Coloro
che avevano impegni urgenti di lavoro stavano in piedi appoggiandosi
nervosamente ora su un piede ora sull'altro, in attesa che i poliziotti
avessero la compiacenza di fermare il traffico. A costoro infatti,
spettava decidere quando via Chlodna fosse abbastanza vuota e via
Zelazna abbastanza affollata per lasciar passare gli ebrei. Quando
giungeva quel momento le guardie si scostavano liberando una folla
compatta di persone impazienti che si avventavano da entrambe le parti,
scontrandosi, scaraventandosi reciprocamente a terra e calpestando altri
ancora per sottrarsi il pi in fretta possibile alla pericolosa
prossimit con i tedeschi e rientrare tosto nei due ghetti. Poi il
cordone formato dai poliziotti si ricomponeva e l'attesa ricominciava.
Via via che la folla aumentava, aumentavano insieme l'agitazione, la
tensione e l'inquietudine perch le guardie tedesche, scocciate
di quella loro corve, cercavano di divertirsi come meglio
potevano. Uno dei loro divertimenti preferiti era il ballo.
Musicanti venivano reclutati nelle strade l attorno, e il numero di
queste orchestrine di strada cresceva al pari dell'infelicit generale.
Dalla folla in attesa i soldati sceglievano persone dall'aspetto
giudicato particolarmente buffo e ordinavano loro di ballare dei valzer.
I suonatori si sistemavano accosto al muro di un edificio, la strada
veniva sgombrata e uno dei soldati si metteva a dirigere picchiando i
suonatori se riteneva che suonassero troppo a rilento. Altri
controllavano che i balli fossero eseguiti a regola d'arte. Coppie di
sciancati, di vecchi, le persone molto grasse oppure magrissime, erano
costrette a volteggiare in tondo davanti a gente che li guardava
esterrefatta. Le persone basse di statura o i bambini dovevano
accompagnarsi a quelle molto alte. I tedeschi se ne stavano attorno a
quella pista da ballo, ridevano come matti e urlavano: Pi in fretta!
Avanti, pi in fretta! Devono ballare tutti! Se la scelta delle coppie
risultava particolarmente azzeccata e divertente, le danze si
protraevano. Il transito pedonale scorreva, si bloccava, riprendeva a
scorrere, ma gli sfortunati ballerini dovevano continuare a saltellare a
ritmo di valzer: ansimando, piangendo esausti, lottando per non crollare
nella vana speranza d'aver grazia. Solo dopo aver attraversato incolume
via Chlodna, vedevo il ghetto come realmente era. La sua gente non
possedeva grossi risparmi, non aveva preziosi nascosti, si guadagnava da
vivere con mille commerci. Pi ti inoltravi nel labirinto dei vicoli
stretti, pi questi commerci diventavano frenetici e pressanti. Donne
con bambini attaccati alle gonne avvicinavano i passanti, offrendo in
vendita qualche dolcetto su un pezzo di cartone. Questi dolci
rappresentavano tutto ci che quelle donne possedevano e
dalla loro vendita dipendeva se i figli quella sera avrebbero avuto da
mangiare un tozzo di pane nero. Vecchi ebrei, resi irriconoscibili dal
loro stato di deperimento organico, cercavano di attirare l'attenzione
su cenci d'ogni sorta dai quali speravano di ricavare qualche soldo.
Uomini giovani trafficavano in oro e valuta, scatenandosi in
contestazioni rabbiose e violente sul valore di certi malconci
cipolloni, di quel che restava delle relative catene oppure sulla dubbia
validit dei dollari offerti in banconote tanto sudicie e lacere da
esser rifiutate dopo verifica in controluce perch troppo acciaccate,
nonostante i calorosi sforzi del venditore a garantire la stampa
recente. I tram a cavalli, noti come konhellerki, si facevano strada per
le vie affollate sferragliando e scampanellando e i cavalli e le stanghe
fendevano la massa umana come una barca che avanzi nell'acqua. La
ragione sociale derivava dal nome dei due proprietari dei tram, Kon e
Heller, due ricchi ebrei che, al servizio della Gestapo, ne ricavavano
florido commercio. Il prezzo dei biglietti era elevato, sicch solo le
persone benestanti usavano questi tram, recandosi al centro del ghetto
unicamente per motivi di affari. Quando scendevano alla fermata,
cercavano di procedere il pi in fretta possibile per le strade fino al
negozio o all'ufficio dove avevano un appuntamento, concluso il quale
riprendevano immediatamente un altro tram per lasciare al pi presto
quell'orribile quartiere. Anche il semplice tragitto dalla fermata del
tram al negozio pi vicino era tutt'altro che facile. Dozzine di
mendicanti aspettavano solo quel fugace incontro con un concittadino
prosperoso per circondarlo, tirandolo per i vestiti, sbarrandogli la
strada, supplicando, piangendo, urlando e tirandolo per i vestiti,
sbarrandogli la strada, supplicando, piangendo, urlando e
minacciando. Ma era sconsigliabile provar pena e dar qualcosa
a un mendicante, perch in quel caso le urla sarebbero diventate
lamentosi ululati. Quel segnale avrebbe richiamato da ogni
parte un nuovo e crescente afflusso di spettrali figure, sicch
il buon samaritano si sarebbe trovato assediato, circondato da
apparizioni lacere e asperso dalle loro salive di tisici, da bambini
ricoperti di piaghe purulente sospinti contro le sue gambe per
bloccarlo, da un mulinare di moncherini gesticolanti, da occhi privi di
vista, da bocche sdentate, spalancate in grevi fiati, a implorare ognuno
la piet per questo ultimo, estremo momento della vita, come se la loro
fine potesse essere ritardata solo da un aiuto immediato. Per arrivare
al centro del ghetto bisognava scendere lungo via Karmelicka: era
l'unico tramite di accesso. Ed era matematicamente impossibile non
sfiorare altra gente l nella strada. La massa umana strabocchevole e
compatta pi che camminare avanzava spingendo e incalzando,
ingorgandosi
davanti a bancarelle e a sporgenze all'ingresso degli androni. Un odore
pungente di fradiciume emanava dalle coperte dei letti mai esposte
all'aria, da grassi rancidi, da immondizia putrescente nelle strade.
Alla minima provocazione, la folla cadeva in preda al panico e si
precipitava da un lato all'altro della via, pressandosi in un serra
serra soffocante, urlando e imprecando. Via Karmelicka era un luogo
particolarmente pericoloso: i furgoni cellulari la percorrevano varie
volte al giorno. Trasportavano prigionieri, invisibili dietro lamiere di
acciaio grigio e finestrini di vetro opaco, dal carcere di Pawiakgad
alla sede centrale della Gestapo in vicolo Szuch, e al ritorno
riportavano quel che ancora ne restava dopo l'interrogatorio: scampoli
sanguinolenti di umanit, ossa spaccate, reni spappolati, unghie
strappate. La scorta non permetteva ad alcuno di avvicinarsi,
anche se i veicoli erano blindati. Quando imboccavano via
Karmelicka, tanto affollata da non consentire in alcun modo alle persone
per strada di rifugiarsi nei portoni, gli uomini della Gestapo si
sporgevano e picchiavano in modo indiscriminato la gente con i
manganelli. Il che non sarebbe stato particolarmente pericoloso se si
fosse trattato di normali manganelli di gomma, ma quelli usati dagli
uomini della Gestapo erano rinforzati da chiodi e da lamette da barba.
Ogni volta che in via Mila mi congedavo da Jehuda Zyskind, provavo un
senso di conforto e di rassicurazione. Jehuda era un inguaribile
ottimista. Ancora oggi, nonostante siano trascorsi tanti anni
dall'orrore che contraddistingueva il tempo in cui lui era ancora vivo e
diffondeva il suo messaggio, non riesco, nel ricordo, a non provare
ammirazione per la sua incrollabile volont. Per quanto brutte fossero
le notizie trasmesse dalla radio lui riusciva sempre a darne
un'interpretazione positiva. Una volta, dopo aver letto le ultime
notizie, picchiai con gesto disperato il pugno sul giornale strapazzato
ed esclamai, con un sospiro: Be', deve ammettere che adesso tutto
finito! Sorridendo, Jehuda allung una mano a prendersi una sigaretta e
sistemandosi pi comodamente sulla sedia mi rispose: Oh, ma lei non
capisce, signor Szpilman! Dopo di che si lanci in una delle sue
lezioni di politica. Ancor meno capivo molte delle cose che lui diceva,
aveva per un modo rassicurante di parlare e una tal contagiosa fiducia
che tutto stesse andando nel migliore dei modi in questo mondo migliore
di tutti quelli possibili, da riuscire a trasmettermela fino a
convincermi a pensarla come lui senza che neppure me ne rendessi conto.
Era una sensazione, per, di breve durata. Bastava che tornassi a casa
e, disteso sul letto, riflettessi di nuovo sulle notizie politiche,
per giungere alla conclusione che le tesi di Zyskind erano
prive di senso. Ma il mattino successivo, quando tornavo a trovarlo, lui
riusciva a convincermi che mi sbagliavo, e io me ne andavo di l con una
carica di ottimismo che durava fino a sera consentendomi cos di tirare
avanti. Mi riusc difficile conservare ancora qualche speranza dopo che
Zyskind venne ucciso. Non c'era pi nessuno in grado di spiegarmi a
modo
quello che stava avvenendo. Soltanto adesso so che mi sbagliavo e che
sbagliate erano anche le notizie quotidiane, mentre Zyskind aveva
ragione. Per quanto inverosimile a quei tempi, tutto si svolse come lui
aveva previsto. Per tornare a casa percorrevo sempre la stessa strada:
le vie Karmelicka, Leszno e Zelazna. Durante il tragitto facevo una
breve capatina dagli amici per riferire di persona le notizie che avevo
raccolto da Zyskind. Quindi raggiungevo via Nowolipki per aiutare
Henryk
a portare a casa la sua cesta di libri. La vita di Henryk era dura. Era
lui che l'aveva scelta e non aveva alcuna intenzione di cambiarla,
convinto che sarebbe stato spregevole vivere in qualsiasi altro modo.
Gli amici che apprezzavano le sue risorse culturali gli avevano
consigliato di entrare nella polizia ebraica come faceva la maggior
parte dei giovani appartenenti all'intellighenzia. L si era al sicuro e
se ci sapevi fare potevi guadagnare dei bei soldi. Ma Henryk non volle
assolutamente saperne. Si arrabbi anzi moltissimo e lo prese come un
insulto. Ancora una volta diede mostra del suo rigore morale dichiarando
che non intendeva lavorare con dei banditi! La sensibilit dei nostri
amici ne fu urtata, ma Henryk cominci ad andare in via Nowolipki tutte
le mattine con una cesta piena di libri. Ne faceva commercio, standosene
l, madido di sudore d'estate e scosso da brividi durante le
gelate invernali, inflessibile, caparbiamente fedele alle proprie idee:
se, in quanto intellettuale, non gli era consentito di avere un diverso
contatto con i libri, allora, quanto meno, avrebbe avuto questo senza
mai scendere pi in basso. Quando Henryk e io rientravamo con quella sua
cesta, il resto della famiglia di solito era gi a casa, e aspettava
solo noi per dare inizio al pranzo di mezzogiorno. Alla mamma stava
molto a cuore che mangiassimo tutti riuniti: l era lei la sovrana e, a
suo modo, cercava di darci qualcosa a cui aggrapparci. Curava che la
tavola fosse apparecchiata bene e che la tovaglia e i tovaglioli fossero
puliti. Prima di venire a sedersi con noi, si passava un velo di cipria
sul volto, si sistemava i capelli e si guardava allo specchio per vedere
se appariva elegante. Si assettava l'abito con gesti nervosi, ma non le
riusciva pi di appianare le piccole rughe attorno agli occhi, con il
passar dei mesi si facevano sempre pi evidenti, o di impedire che i
capelli spruzzati di grigio cedessero alla canizie. Quando eravamo tutti
seduti attorno al tavolo, lei arrivava dalla cucina con la zuppiera
della minestra e, mentre la scodellava nei piatti, dava avvio alla
conversazione. Faceva in modo che nessuno accennasse ad argomenti
spiacevoli, ma se uno di noi commetteva un simile conviviale faux pas
interrompeva con dolce fermezza. Passer tutto, aspettate e vedrete,
usava dire e subito cambiava argomento. Mio padre non era portato alle
tristi riflessioni, tendeva invece a sommergerci di buone notizie. Se, a
esempio, c'era stato un rastrellamento di ebrei e successivamente una
dozzina di loro erano stati liberati in cambio di denaro, lui sosteneva,
con un radioso sorriso, di avere appreso da personaggi
molto autorevoli che tutti gli uomini, indipendentemente dall'et
o dal grado d'istruzione, erano stati liberati per una ragione o per
l'altra: comunque stessero le cose, queste parole erano sempre intese a
infonderci coraggio. Se risultava innegabile che le notizie dalla citt
erano cattive, sedeva a tavola con aria depressa ma, di l a poco, la
minestra ci rianimava. Alla seconda portata, che di solito consisteva in
verdure, si riprendeva d'animo e si lanciava in conversazioni
spensierate. Henryk e Regina erano quasi sempre profondamente assorti
nei loro pensieri. Regina si preparava mentalmente per il lavoro che
durante il pomeriggio svolgeva in uno studio legale. Guadagnava poco, ma
lavorava con lo stesso impegno che avrebbe dimostrato se fosse stata
pagata migliaia di zloty. Henryk invece si distoglieva dai suoi cupi
pensieri solo per attaccare una discussione con me. Mi fissava per un
po' con espressione attonita, poi si stringeva nelle spalle e
bofonchiava, dando finalmente sfogo ai propri sentimenti: Davvero! Solo
uno stupido nato porterebbe cravatte come quelle di Wladek! Stupido
sarai tu e anche idiota, gli rispondevo, e la nostra lite si accendeva
veemente. Lui non capiva perch io dovessi essere ben vestito quando
suonavo il pianoforte in pubblico. In realt non voleva capire n me n
quello che facevo. Ora che morto da tanto tempo mi rendo conto che, a
nostro modo, nonostante tutto, ci volevamo bene, anche se ci davamo
reciprocamente sui nervi. Con ogni probabilit perch avevamo caratteri
molto simili. Quella che capivo meno era Halina. Non sembrava nemmeno
far parte della nostra famiglia. Era riservata e non dava mai a vedere
quello che pensava e quello che sentiva, e nemmeno ci diceva che cosa
faceva quando usciva di casa. Rientrava, impassibile e indifferente
come al solito. Ogni giorno allo stesso modo si limitava a
stare seduta a tavola senza manifestare alcun interesse per quello che
sarebbe potuto accadere. Non saprei dire com'era in realt, e ora non mi
sar pi possibile scoprirlo. Il pasto di mezzogiorno era molto frugale.
Non c'era quasi mai carne e la mamma preparava piatti di altro genere in
grande economia. Tuttavia parevano addirittura sontuosi, se raffrontati
a quello che avevano in tavola la maggior parte delle persone che
stavano nel ghetto. Durante l'inverno, in un umido giorno di dicembre in
cui la neve sotto i piedi era diventata fanghiglia e un vento tagliente
sferzava le strade, mi capit di vedere un vecchio arraffone che stava
consumando il suo pasto di mezzogiorno. Arraffoni, cos venivano
chiamati nel ghetto quelli che erano piombati in uno stato di povert
tanto atroce da essere costretti a rubare per sopravvivere. Queste
persone si avventavano contro chiunque passasse con un pacco in mano,
glielo strappavano e scappavano via, nella speranza di trovarci dentro
qualcosa di commestibile. Stavo attraversando la piazza della Banca;
qualche passo davanti a me; una povera donna portava un barattolo
avvolto
in carta da giornale, e tra me e la donna un vecchio cencioso si
trascinava faticosamente. Le spalle incurvate, tremante per il freddo
avanzava nella fanghiglia, le scarpe bucate che mettevano a nudo i piedi
violacei. A un tratto il vecchio si tuff in avanti, afferr il
barattolo e cerc di strapparlo dalle mani della donna. O perch lui non
era abbastanza forte o perch lei lo stringeva con troppa fermezza, in
ogni caso, invece di finire nelle mani dell'uomo, il barattolo fin per
terra e la minestra densa e fumante si rovesci sulla strada sudicia.
Tutti e tre ci immobilizzammo di colpo. La donna era ammutolita
per l'orrore. L'uomo fiss prima il barattolo, poi la donna,
quindi emise un rantolo che pareva un gemito. All'improvviso si butt
lungo disteso nella fanghiglia e prese a leccare la minestra dal suolo,
tenendo le mani a coppa accosto alle labbra in modo da non farsene
sfuggire neanche una goccia, ignorando la reazione della donna, che
scalciava contro la sua testa urlando e strappandosi i capelli per la
disperazione.


CAPITOLO 7.


Un bel gesto della signora K.


All'inizio della primavera del 1942 la caccia all'uomo nel ghetto,
fino a quel momento condotta sistematicamente, all'improvviso
s'interruppe. Se questo fosse accaduto due anni prima, la gente
avrebbe provato sollievo, ritenendola una ragione per rallegrarsi:
avrebbe nutrito l'illusione che si trattava di un cambiamento
in meglio. Ma adesso, dopo due anni e mezzo di stretto contatto
con i tedeschi, nessuno poteva pi illudersi. Se avevano smesso
di darci la caccia era solo perch avevano escogitato un'idea migliore
per tormentarci. Il problema era: che genere d'idea? Le persone si
cimentavano nelle ipotesi pi fantasiose e, invece di sentirsi pi
calme, erano doppiamente angosciate. Per il momento, tuttavia, potevamo
quanto meno dormire a casa, e a Henryk e a me non toccava pi
ricoverarci per tutta la notte nell'ambulatorio medico al minimo
allarme. Era un ripiego quanto mai disagevole. Henryk dormiva sul tavolo
operatorio, io sul letto ginecologico e al mattino, quando mi svegliavo,
vedevo le radiografie appese sopra la mia testa ad asciugare, con le
immagini di cuori ammalati, polmoni tubercolotici, cistifellee piene di
calcoli biliari, ossa fratturate. Comunque, il nostro amico dottore che
dirigeva quest'ambulatorio aveva avuto ragione nel sostenere che anche
durante le pi feroci retate notturne, mai la Gestapo aveva messo piede
l dentro per perquisire l'ambulatorio, sicch quello era
l'unico posto in cui potevamo dormire al sicuro. Questa calma
pressoch totale dur sino a un venerd della seconda met del mese di
aprile quando inaspettatamente un'ondata di paura dilag per il ghetto.
Non sembrava esservi alcuna ragione a giustificarla, e se si chiedeva a
qualcuno il perch di tanto spavento e angoscia e che cosa pensava
stesse per accadere, nessuno sapeva dare una risposta concreta.
Tuttavia, subito dopo mezzogiorno tutti i negozi furono chiusi e la
gente si nascose in casa. Non sapevo che cosa sarebbe successo al caff.
Come al solito mi recai allo Sztuka, ma anche questo locale era chiuso.
Tornai a casa in uno stato di insolita agitazione, perch, nonostante
tutte le domande che avevo posto a miei conoscenti di solito bene
informati, non ero riuscito a scoprire che cosa stesse accadendo.
Nessuno lo sapeva. Restammo alzati, vestiti di tutto punto, fino alle
undici, quando decidemmo di andare a dormire visto che fuori tutto
pareva tranquillo. Eravamo ormai quasi convinti che la paura fosse stata
determinata solo da voci prive di fondamento. Al mattino fu mio padre a
uscire per primo. Rientr pochi minuti dopo, pallido, con un'espressione
allarmata sul volto. Durante la notte i tedeschi avevano fatto irruzione
in moltissimi caseggiati, avevano trascinato una settantina di uomini in
strada e li avevano fucilati. Fino a quel momento nessuno aveva rimosso
i cadaveri. Che cosa significava? Che avevano fatto queste persone ai
tedeschi? Provavamo orrore e indignazione. La risposta arriv solo nel
pomeriggio allorch nelle strade deserte furono affissi dei manifesti.
Le autorit tedesche ci informavano che si erano viste costrette a
ripulire la nostra parte della citt da elementi indesiderabili, ma
che questa loro azione non avrebbe avuto ripercussioni sulla parte leale
della cittadinanza: negozi e caff dovevano essere riaperti
subito e la popolazione doveva riprendere la vita normale, che non era
affatto in pericolo. Il mese seguente trascorse tranquillo. Era maggio e
i lill fiorivano qua e l, perfino nei rari piccoli giardini del
ghetto, mentre grappoli di fiori in boccio pendevano dalle acacie, di
giorno in giorno pi pallide. Proprio quando i fiori stavano per
sbocciare del tutto i tedeschi si ricordarono della nostra esistenza. Ma
questa volta in modo diverso: non intendevano occuparsi di noi
direttamente. Demandavano il compito della caccia all'uomo alla polizia
ebraica e al sindacato ebraico. Henryk aveva avuto ragione a rifiutare
di entrare nella polizia e a definirli banditi. Per lo pi, erano stati
reclutati tra giovani appartenenti alle classi pi abbienti e tra loro
c'era un gran numero di nostri conoscenti. Restammo tutti ancor pi
sconvolti quando ci rendemmo conto che uomini ai quali eravamo soliti
stringere la mano e considerare amici, uomini che fino a poco tempo
prima erano state persone oneste, ora si comportavano in modo cos
spregevole. Pareva quasi che avessero introiettato lo spirito della
Gestapo. Non appena avevano indossato la divisa, calzato i berretti
della polizia e impugnato i manganelli di gomma, la loro indole era
cambiata. Ora ambivano solo a essere a stretto contatto con gli
ufficiali della Gestapo, a rendersi loro utili, a sfilare al loro fianco
in parata per le strade, a ostentare la buona conoscenza della lingua
tedesca e a rivaleggiare con i loro padroni in crudelt nei confronti
della popolazione ebraica. Nonostante ci riuscirono a formare
all'interno del corpo di polizia un'orchestrina jazz, peraltro di ottimo
livello. Nel corso della caccia all'uomo che si svolse nel mese di
maggio circondarono le strade con la professionalit di vere e proprie
SS, di fautori della purezza della razza. Si aggiravano nelle
loro eleganti divise, urlando con voci tonanti e brutali,
simili a quelle dei tedeschi, e picchiavano la gente con i manganelli di
gomma. Mi trovavo ancora in casa quando mia madre arriv di corsa
recando notizie della caccia: avevano preso Henryk. Decisi di liberarlo
a ogni costo, bench sapessi di poter contare solo sulla mia popolarit
di pianista. Nemmeno i miei documenti erano in ordine. Mi feci strada
attraverso una serie di cordoni, venni fermato e poi di nuovo
rilasciato, fino a che raggiunsi l'edificio dove si trovava l'ufficio di
collocamento. Davanti alla porta d'ingresso un gruppo di uomini venivano
spinti da tutte le parti da poliziotti che si comportavano come cani da
pastore. Il gregge umano continuava ad aumentare mano mano che altra
gente veniva trascinata l dalle strade contigue. Con una certa
difficolt raggiunsi il vice direttore dell'ufficio e riuscii a
strappargli la promessa che Henryk sarebbe tornato a casa prima del
calar della sera. E cos avvenne, ma con mia grande sorpresa mio
fratello si mostr furibondo con me. Pensava che non avrei dovuto
umiliarmi a supplicare una tale sottospecie umana come i poliziotti e il
personale dell'ufficio. Avresti per caso preferito che ti portassero
via? Tu non c'entri, ringhi di rimando. Loro volevano me, non te.
Perch hai interferito in cose che non ti riguardano? Mi strinsi nelle
spalle. Che senso aveva litigare con un pazzo? Quella sera fu annunciato
che il coprifuoco sarebbe stato prolungato fino a mezzanotte in modo che
i famigliari di quanti sarebbero stati inviati nei campi di lavoro
avessero il tempo di portar loro coperte, un cambio di biancheria e cibo
per il viaggio. Un gesto di magnanimit davvero commovente da parte
dei tedeschi, che la polizia ebraica sottoline in tutti i
modi al fine di guadagnarsi la nostra fiducia. Solo dopo molto appresi
che mille uomini rastrellati nel ghetto erano stati portati direttamente
al campo di Treblinka, dato che i tedeschi volevano verificare
l'efficienza delle camere a gas e dei forni crematori appena costruiti.
Trascorse un altro mese di pace e di tranquillit poi, una sera di
giugno, nel ghetto vi fu un bagno di sangue. Eravamo ben lungi
dall'immaginare ci che sarebbe accaduto. Faceva caldo, dopo cena
sollevammo le tapparelle che riparavano dalla luce la nostra sala da
pranzo e spalancammo le finestre per lasciar entrare un po' d'aria
fresca della sera. Il furgone della Gestapo era passato davanti alla
casa di fronte alla nostra a tale velocit e gli spari di avvertimento
ci pervennero con tanta immediatezza che, prima di riuscire ad alzarci
da tavola e correre alla finestra, la porta di quell'edificio era gi
aperta. Dall'interno ci pervennero le urla delle SS. Anche le finestre
erano state aperte e, bench la luce fosse spenta, dietro di esse si
avvertiva una grande agitazione. Volti impauriti sbucarono dall'oscurit
e subito si ritrassero. Mano mano che un tedesco con gli stivali ai
piedi saliva le scale le luci si accendevano, un piano dopo l'altro.
Nell'appartamento dirimpetto al nostro viveva la famiglia di un uomo
d'affari. Li conoscevamo tutti di vista. Quando la luce si accese anche
in quell'appartamento e le SS irruppero nella stanza con gli elmetti in
testa e le pistole spianate vi trovarono persone sedute attorno al
tavolo, proprio come fino a un momento prima noi ce ne stavamo seduti
attorno al nostro. Erano paralizzate dall'orrore. Il sottufficiale
nazista a capo del distaccamento lo prese come un affronto personale.
Ammutolito per l'indignazione, rimase immobile in silenzio a fissare le
persone sedute al tavolo. Solo dopo un momento prese a urlare con furia
incontenibile: In piedi! Si alzarono tutti il pi in fretta
possibile, eccetto il capofamiglia, un uomo anziano e storpio.
A questo punto l'ufficiale era addirittura schiumante di rabbia. Si
avvicin al tavolo, vi si puntell con le braccia, guard fissamente il
paralitico e ringhi per la seconda volta: In piedi! Il vecchio si
afferr ai braccioli della sedia per sostenersi, facendo sforzi
disperati per alzarsi, ma inutilmente. Prima che ci potessimo rendere
conto di ci che stava accadendo, i tedeschi lo afferrarono con sedia e
tutto, quindi lo portarono sul balcone e lo gettarono in strada dal
terzo piano. Mia madre si mise a urlare e chiuse gli occhi. Mio padre si
allontan dalla finestra, arretrando nella stanza. Halina si precipit
verso di lui mentre Regina cingeva con un braccio le spalle di mia
madre, dicendo a voce molto alta e in tono molto chiaro e autoritario:
Zitta! Henryk e io non riuscivamo a staccarci dalla finestra. Vedemmo
il vecchio restare per qualche secondo sospeso in aria nella sua sedia e
poi venirne sbalzato fuori. Subito dopo udimmo il tonfo della sedia
sull'asfalto e il rimbalzo di un corpo umano sul selciato. Restammo
immobili e in silenzio, come inchiodati al suolo, non riuscivamo a
indietreggiare e nemmeno a distogliere lo sguardo dalla scena che
avevamo davanti ai nostri occhi. Nel frattempo le SS avevano gi preso
ventiquattro uomini dall'edificio e li avevano fatti scendere in strada.
Accesero i fari della loro macchina, costrinsero i prigionieri a restare
in piedi sotto il fascio di luce, avviarono il motore e poi intimarono
agli uomini di correre davanti al veicolo nel cono bianco di luce. Dalle
finestre della casa antistante ci pervennero urla convulse e, di rimando
dall'auto, part una raffica. Gli uomini che correvano caddero l'uno
dopo l'altro, sollevati in aria dai proiettili, descrivendo col corpo un
salto mortale quasi il passaggio dalla vita alla morte
consistesse unicamente in un balzo estremamente difficile e complicato.
Solo uno riusc a scansarsi e a proiettarsi fuori del fascio di luce.
Con tutte le sue forze prese a correre e per un attimo parve che sarebbe
riuscito a raggiungere la strada che intersecava la nostra. Ma sul
veicolo tedesco c'era un riflettore rotante montato sul tettuccio,
proprio per evenienze del genere. Si accese, a cercare il fuggiasco, si
ud un'altra raffica e quindi tocc a quel poveretto essere sbalzato in
aria. Con le braccia sollevate sopra la testa, inarc la schiena come a
spiccare un salto e ricadde supino. Le SS risalirono in macchina e si
allontanarono passando sopra i cadaveri. Il veicolo ondeggi leggermente
mentre li schiacciava, quasi sobbalzasse su buche poco profonde. Anche
se quella notte nel ghetto vennero fucilati circa cento uomini stavolta
l'operazione non suscit tanta impressione quanto quella precedente. Il
giorno seguente negozi e caff rimasero aperti come d'abitudine. In quel
momento c'era ben altro a cui pensare. Oltre agli svariati e abituali
passatempi quotidiani i tedeschi avevano cominciato a filmare. Ci
chiedevamo tutti a quale scopo lo facessero. Irrompevano in un
ristorante e ordinavano ai camerieri di apparecchiare i tavoli con il
cibo migliore e i vini pi pregiati. Quindi ingiungevano ai clienti di
ridere, di mangiare e di bere e li riprendevano mentre erano intenti a
spassarsela in quel modo. Ugualmente filmavano gli spettacoli di
operetta che avevano luogo al cinema Femina in via Leszno e i concerti
sinfonici diretti da Marian Neuteich che venivano dati settimanalmente
nel medesimo cinematografo. Avevano insistito con il presidente del
Consiglio ebraico per indurlo a dare un lussuoso ricevimento al quale
avevano partecipato tutte le persone importanti del ghetto. Ripresero
anche questo. Quindi un giorno raggrupparono un certo numero di donne e
di uomini nei bagni pubblici, ordinarono loro di spogliarsi, di fare il
bagno tutti insieme, e filmarono questa scena curiosa in ogni
particolare. Solo molto, molto pi tardi, scoprii che questi film
venivano realizzati per la popolazione tedesca che viveva nel Reich e
all'estero. I tedeschi giravano quei film prima di liquidare il ghetto
al fine di smentire tutte le voci imbarazzanti qualora al mondo esterno
fossero giunte notizie di questa operazione. Per mostrare, non solo
quanto fossero ricchi gli ebrei di Varsavia, ma anche quanto fossero
immorali e spregevoli, riprendevano scene in cui si vedevano donne e
uomini ebrei immersi nella stessa vasca da bagno mentre si denudavano
impudicamente gli uni davanti alle altre.
Pi o meno nello stesso periodo, nel ghetto presero a circolare sempre
pi di frequente voci allarmanti e a intervalli sempre pi ravvicinati,
bench come al solito si trattasse di voci prive di fondamento e non si
riuscisse mai a scoprire chi le faceva circolare, o chi fosse in grado
di dare la bench minima conferma che si basassero su fatti reali. Un
giorno, per esempio, la gente cominci a parlare delle orribili
condizioni nel ghetto di Ldz, dove gli ebrei erano stati costretti a
usare monete metalliche con le quali non si poteva comperare nulla, e
adesso morivano di fame a migliaia. Qualcuno prese la notizia molto
seriamente, a altri la cosa entr in un orecchio e usc dall'altro. Ben
presto la gente smise di parlare di Ldz, e cominci a occuparsi di
Lublino e di Tarnw, dove sembrava che gli ebrei venissero avvelenati
con il gas, bench nessuno riuscisse veramente a credere a questa
storia. Pi verosimile appariva la notizia che i ghetti ebraici, in
Polonia, sarebbero stati limitati a quattro: di Varsavia, di Lublino, di
Cracovia e di Radom. Poi, tanto per cambiare, presero a circolare
voci che gli abitanti del ghetto di Varsavia sarebbero stati di
nuovo deportati nella parte orientale e in numero di seimila al giorno.
Secondo alcuni questa azione avrebbe gi dovuto aver luogo da tempo, se
non fosse stato per quella misteriosa conferenza del Consiglio ebraico,
nella quale si era riusciti a convincere la Gestapo (senza dubbio in
cambio di denaro), a non dar luogo alla deportazione.
Il 18 luglio, un sabato, Goldfeder e io stavamo suonando al Caf Pod
Fontanne, in via Leszno, era un concerto di beneficenza per il famoso
pianista Leon Boruriski, che aveva vinto una volta il concorso Chopin.
Adesso era ammalato di tubercolosi e viveva in condizioni miserevoli nel
ghetto di Otwock. Il giardino del caff era gremito di gente. Erano
presenti circa quattrocento persone appartenenti alla buona societ,
oltre a quelli che aspiravano a entrare a farne parte. Ben pochi erano
in grado di ricordare l'ultima volta in cui si era tenuto un evento cos
importante, ma l'eccitazione che serpeggiava fra il pubblico era dovuta
a ragioni tutt'affatto diverse: le eleganti signore delle classi
abbienti e i piccoli parvenus fremevano nell'attesa di scoprire se quel
giorno la signora L avrebbe parlato con la signora K. Entrambe queste
signore erano impegnate nella beneficenza, avevano un ruolo importante
nelle attivit di quei comitati condominiali costituiti in molti degli
edifici pi ricchi in favore dei poveri. Venivano organizzati eventi
particolarmente piacevoli quali feste danzanti, dove la gente ballava,
si divertiva e beveva e il ricavo era destinato a scopi benefici.
Alla base del malanimo creatosi tra le due signore c'era un incidente
avvenuto al caff Sztuka qualche giorno prima. Le due donne erano belle,
sia pure in modo diverso, e si detestavano cordialmente, facendo di
tutto per soffiarsi i corteggiatori. La preda pi ambita tra questi era
Maurycy Kohn, proprietario di una ferrovia e agente della Gestapo, un
uomo dal volto attraente e espressivo come quello di un attore. Quella
sera entrambe le signore si divertivano al caff Sztuka dove, sedute al
bar attorniate da una piccola cerchia di ammiratori, facevano a gara
nell'ordinare le bevande pi recherches e chiedendo al fisarmonicista
dell'orchestrina di eseguire ai loro tavoli le melodie pi in voga. Fu
la signora L a uscire per prima dal locale. Non poteva immaginare che,
mentre si trovava al caff, una donna che si trascinava affamata per la
strada fosse caduta e stramazzata proprio davanti alla porta d'ingresso.
Ancora abbagliata dalle luci del caff la signora L, uscendo, era
inciampata nel cadavere della donna. Alla vista del corpo era stata
presa da una crisi isterica e non era stato possibile calmarla. Non cos
la signora K che a quel punto era stata informata di quanto era
accaduto. Uscita a sua volta dal locale aveva lanciato s un urlo di
orrore ma subito dopo, quasi sopraffatta dalla compassione, si era
chinata sulla morta, aveva estratto cinquecento zloty dalla borsetta e
aveva porto la banconota a Kohn, ritto alle sue spalle. Ti prego
occupatene tu per conto mio, lo aveva pregato. Fai in modo che abbia
una sepoltura decente!
A quelle parole una signora che faceva parte della sua cerchia di
amicizie aveva mormorato a voce sufficientemente alta per essere udita
da tutti: Un angelo come sempre!
Venuta a conoscenza dell'episodio la signora L aveva deciso di farla
pagare alla signora K. Il giorno dopo l'aveva descritta come una
sgualdrina da quattro soldi aggiungendo che non le avrebbe pi rivolto
la parola. Ora entrambe le signore si sarebbero ritrovate al Caf Pod
Fontanne e la jeunesse dore attendeva con curiosit di vedere
che cosa sarebbe successo quando si fossero incontrate. Quando la prima
parte del concerto si fu conclusa, Goldfeder e io uscimmo in strada per
fumarci tranquillamente una sigaretta. Eravamo diventati amici e da un
anno suonavamo in coppia. Ora morto, bench all'epoca sembrasse avere
maggiori possibilit di sopravvivenza di me. Era non solo un eccellente
pianista ma anche avvocato. Si era diplomato al conservatorio e al tempo
stesso laureato in Legge, ma dotato com'era di un forte senso di
autocritica, era giunto alla conclusione che non sarebbe mai diventato
un pianista di ottimo livello. Cos si era iscritto alla facolt di
Legge. Solo durante la guerra aveva ripreso la carriera concertistica.
Nella Varsavia d'anteguerra aveva raggiunto una popolarit straordinaria
grazie alla sua intelligenza, al suo fascino personale e alla sua
eleganza. In seguito riusc a fuggire dal ghetto e sopravvisse per due
anni a casa dello scrittore Gabriel Karski. Una settimana prima
dell'invasione sovietica fu fucilato dai tedeschi in una piccola citt
poco distante da Varsavia, ormai ridotta in macerie.
Quella sera fumavamo e chiacchieravamo e a ogni boccata ci ritornavano
un po' le forze. Era stata una bella giornata e il sole era gi
scomparso dietro le case, solo i tetti e le finestre dei piani alti
mandavano ancora bagliori purpurei. L'azzurro scuro del cielo stava
diventando pi pallido;
le rondini volteggiavano. I passanti per la strada andavano diradandosi
e la luce azzurra, rossa e oro opaco della sera, conferiva loro un
aspetto meno sporco e meno infelice.
Poco dopo vedemmo venirci incontro Kramsztyk. Fummo felici di
ritrovarci. Dovevamo riuscire a farlo entrare a sentire la seconda parte
del concerto. Aveva promesso di eseguire il mio ritratto e io volevo
discutere con lui dei particolari. Ma non voleva saperne di entrare.
Sembrava demoralizzato, immerso nei suoi cupi pensieri.
Aveva appena appreso da una fonte attendibile che l'evacuazione del
ghetto era data per certa e come imminente. Il commando tedesco delle SS
si teneva pronto ad agire dall'altra parte del muro e presto avrebbe
dato inizio alle operazioni.



CAPITOLO 8.


Un formicaio minacciato.


In quel periodo, Goldfeder e io stavamo tentando di organizzare un
concerto pomeridiano in occasione dell'anniversario della formazione del
nostro duo. Avremmo dovuto tenerlo nel giardino del Caf Sztuka, sabato
25 luglio 1942. Eravamo fiduciosi. Tenevamo moltissimo a questo
concerto
al quale ci eravamo preparati con estrema cura. Ora, alla vigilia
dell'evento, non riuscivamo a capacitarci che non avrebbe avuto luogo.
Ci auguravamo semplicemente che, ancora una volta, le voci di
trasferimento risultassero infondate. Domenica 19 luglio suonai di nuovo
nel giardino di un caff di via Nowolipki, ben lungi dall'immaginare che
quella sarebbe stata la mia ultima esibizione davanti al pubblico del
ghetto. Il caff all'aperto era gremito ma lo stato d'animo della gente
era alquanto cupo.
Dopo il concerto feci una capatina allo Sztuka. Era tardi e nel locale
non era rimasto pi nessuno, all'infuori del personale ancora impegnato
nelle ultime pulizie della giornata. Mi sedetti per un momento a
scambiar due parole con il direttore. Era di cattivo umore, impartiva
ordini senza alcuna convinzione, quasi si trattasse di un mero atto
formale.
Ha gi cominciato i preparativi per il nostro concerto di sabato?
chiesi.
Mi fiss come se non sapesse di che cosa stessi parlando. Poi sul suo
volto si dipinse un'espressione di ironico compatimento di fronte
alla mia evidente ignoranza degli avvenimenti che avevano
determinato una svolta totalmente diversa nel futuro del ghetto.
Lei crede davvero che sabato saremo ancora vivi? ribatt, chinandosi
sul tavolo verso di me.
Sono convinto di s, gli risposi.
Quasi che la mia risposta non solo avesse aperto nuove prospettive di
salvezza, ma che tale salvezza dipendesse da me, mi afferr la mano e
disse con fervore: Be', bene, se davvero saremo ancora vivi, sabato lei
potr ordinare qualsiasi cosa desideri per cena, a mie spese, e... A
quel punto ebbe un attimo di esitazione, quindi decidendo di fare le
cose per bene, soggiunse: e potr ordinare il meglio che le cantine
dello Sztuka sono in grado di offrire... anche questo, a mie spese, e a
volont!
Secondo le voci che circolavano l'azione di trasferimento sarebbe
iniziata domenica sera. Tuttavia, la notte pass tranquillamente e il
luned mattina la gente parve rassicurata. Forse, ancora una volta, non
c'era niente di vero in quelle voci.
Nel tardo pomeriggio esplose di nuovo il panico. Secondo le ultimissime
notizie, l'azione sarebbe dovuta iniziare quella stessa sera, con il
trasferimento degli occupanti del ghetto piccolo e questa volta non
c'erano pi dubbi al riguardo. Folle di persone agitate, con involti e
grandi bauli e con bambini al fianco, iniziarono il trasferimento dal
ghetto piccolo a quello grande, attraversando il ponte che i tedeschi
avevano costruito sulla via Chiodna per toglierci anche l'ultima
possibilit di contatto con il quartiere ariano. Tutti speravano di
allontanarsi dall'area minacciata prima del coprifuoco. Fatalisti come
eravamo nella nostra famiglia, restammo tranquilli. A tarda sera i
vicini udirono dalla sede centrale della polizia polacca la notizia
che era stato dato l'allarme.
Dunque, qualcosa di veramente brutto stava per accadere. Io non riuscii
ad addormentarmi fino alle quattro del mattino e rimasi sveglio accanto
alla finestra aperta. Anche quella notte per trascorse tranquillamente.
Marted mattina, Goldfeder e io ci recammo all'ufficio amministrativo
del Consiglio ebraico. Non avevamo ancora perso la speranza che in
qualche modo tutto si sarebbe sistemato e volevamo chiedere notizie
ufficiali riguardo ai piani tedeschi per il ghetto per i giorni a
venire. Eravamo quasi arrivati davanti all'edificio quando un'auto
decappottabile ci pass davanti. A bordo, circondato dalla polizia,
pallido e a capo scoperto, il colonnello Kon, responsabile dell'ufficio
sanitario della comunit. Oltre a lui erano stati arrestati molti altri
funzionari ebrei; per le strade era cominciato un rastrellamento.
Nel pomeriggio dello stesso giorno accadde qualcosa che scosse Varsavia
da entrambe le parti del muro. Un noto chirurgo polacco, il dottor
Raszeja, vera e propria autorit nel suo campo, professore
all'Universit di Posnari, era stato convocato d'urgenza per effettuare
un difficile intervento. Il quartier generale della polizia tedesca di
Varsavia gli aveva concesso un lasciapassare per entrare nel ghetto, ma
non appena era arrivato e stava iniziando l'operazione, le SS avevano
fatto irruzione nell'appartamento dove si stava svolgendo l'intervento,
avevano fatto fuoco sul paziente gi sotto anestesia e disteso sul
tavolo operatorio, poi avevano sparato al chirurgo e a tutte le persone
presenti.
Mercoled 22 luglio, verso le dieci del mattino, mi recai in citt.
L'aria che si respirava nelle strade era un po' meno tesa di quella
della sera precedente. Circolava la voce rassicurante secondo la quale i
funzionari del Consiglio arrestati il giorno prima erano stati
di nuovo posti in libert. Dunque i tedeschi non intendevano
ancora trasferirci per il momento, perch in questi casi (come
avevamo sentito da voci riferite da fuori Varsavia dove comunit
ebraiche molto pi piccole erano state trasferite da parecchio tempo)
cominciavano con l'eliminare anzitutto i funzionari.
Erano le undici quando arrivai al ponte su via Chiodna. Camminavo
profondamente assorto nei miei pensieri e in un primo momento non mi
avvidi di un certo numero di persone immobili sul ponte, che indicavano
qualcosa. Subito dopo si dispersero in fretta, in preda all'agitazione.
Stavo per salire i gradini che portavano all'arcata di legno, quando un
amico che non vedevo da parecchio tempo mi afferr per un braccio.
Che cosa ci fai qui? Era agitatissimo. Mentre parlava il labbro
inferiore si contraeva in un modo buffo, rendendo il suo viso simile al
muso di un coniglio. Vattene subito a casa!
Che succede?
L'azione ha inizio entro un'ora.
E' impossibile!
Impossibile? Scoppi in una risata sarcastica e nervosa, poi mi fece
girare verso il parapetto e mi indic via Chiodna.
Guarda l!
Un distaccamento di soldati, in uniformi gialle mai viste, stavano
marciando lungo via Chiodna, guidati da un sottufficiale tedesco. Ogni
pochi passi si fermavano e uno dei soldati si appostava accosto al muro
di cinta del ghetto.
Ucraini. Siamo circondati! Pi che pronunciare quelle parole, il mio
amico parlava singhiozzando. Poi, senza salutarmi, si affrett a
scendere i gradini.
Era vero, verso mezzogiorno i soldati cominciarono effettivamente a
sgombrare le residenze degli anziani, gli ospizi dei veterani,
i rifugi per la notte. In quei rifugi cercavano riparo gli ebrei
delle campagne vicine a Varsavia che erano stati scaraventati
nel ghetto, nonch quelli espulsi dalla Germania, dalla
Cecoslovacchia, dalla Romania e dall'Ungheria. Nel pomeriggio erano gi
stati affissi manifesti in tutta la citt. Annunciavano l'inizio
dell'azione di trasferimento. Tutti gli ebrei abili al lavoro venivano
destinati all'Est. Ciascuno poteva portarsi venti chili di bagaglio,
provviste per due giorni e preziosi. Una volta arrivati a destinazione,
quanti erano in grado di lavorare sarebbero stati alloggiati in baracche
e si sarebbero visti assegnare lavori nelle industrie tedesche locali.
Solo i funzionari degli enti sociali ebraici e il Consiglio ebraico non
subivano lo stesso trattamento. Per la prima volta, un decreto non
portava la firma del presidente del Consiglio ebraico. Czerniakw si era
tolto la vita col cianuro.
Alla fine, dunque, il peggio era accaduto. La gente di un'intera zona
della citt, una popolazione di mezzo milione di persone sarebbe stata
deportata. Sembrava assurdo, tutti stentavano a crederci.
All'inizio i tedeschi ricorsero alla estrazione a sorte. Edifici
venivano circondati in modo casuale, ora in una parte, ora in un'altra
del ghetto. A un fischio tutti gli inquilini di una casa erano costretti
a uscire in cortile. Quindi, di qualsiasi et o sesso fossero, inclusi
vecchi e bambini, venivano caricati su carri tirati da cavalli, e
portati nella Umschlagplatz, il centro di raccolta e di transito. L le
vittime venivano stipate su camion e spedite verso l'ignoto,
Inizialmente l'azione era stata interamente condotta dalla polizia
ebraica, capeggiata da tre aiutanti dei carnefici tedeschi: il
colonnello Szeryriski, il capitano Lejkin e il capitano Ehriich.
Costoro, non solo non erano meno pericolosi e impietosi degli
stessi tedeschi, ma addirittura peggiori. Ogni qualvolta
trovavano delle persone che invece di presentarsi in cortile si
nascondevano da qualche parte, si lasciavano persuadere a chiudere un
occhio solo in cambio di denaro. Lacrime, suppliche, perfino gli strilli
disperati dei bambini, non smuovevano il loro animo.
Dato che i negozi erano stati chiusi e al ghetto non arrivavano
provviste di alcun genere, nel giro di due giorni la fame si fece
sentire e questa volta non risparmiava nessuno. Per la gente per quello
non era il problema pi urgente, ce n'era un altro pi pressante.
Riuscire a ottenere un documento di lavoro.
Se penso a com'era la nostra vita in quei giorni e in quelle ore
terribili mi viene solo un'immagine alla mente: quella di un formicaio
minacciato.
Quando il piede di un idiota comincia a distruggere sconsideratamente un
formicaio con il suo tallone chiodato, le formiche prendono ad agitarsi,
cercando sempre pi affannosamente scampo da ogni parte, un modo per
salvarsi. Ma, sia perch paralizzate dalla subitaneit dell'attacco sia
perch preoccupate del destino delle loro progenie e di riuscire a
mettere in salvo quanto pi possibile, invece di andare avanti e
mettersi al riparo, come sotto un influsso malefico tornano a
ripercorrere il cerchio mortale andando incontro alla morte. Proprio
come noi.
Se quello per noi fu un periodo orribile, i tedeschi conclusero ottimi
affari. Ditte tedesche spuntarono nel ghetto come funghi dopo la pioggia
e tutte prontissime a fornire libretti di lavoro. In cambio pretendevano
alcune migliaia di zloty, ma l'entit di quelle somme non era un
deterrente per gli ebrei. Davanti a quelle ditte si formavano
lunghissime file che assumevano dimensioni gigantesche, soprattutto
davanti a quelle pi grandi e pi importanti, come quelle di
Toebbens e di Schuitz.
Quei fortunati che riuscivano a ottenere i permessi di lavoro si
appuntavano dei bigliettini sui vestiti sui quali era riportato il nome
del luogo dove avrebbero prestato lavoro. Pensavano che questo li
avrebbe messi al riparo dalla deportazione.
Io avrei potuto ottenerlo facilmente, ma anche questa volta, come nel
caso della vaccinazione contro il tifo, avrei potuto usufruirne solo io.
Nessuno dei miei conoscenti, nemmeno coloro che potevano vantare
appoggi
autorevoli, avrebbe mai accettato di procurarmene anche per i miei
famigliari. Certo, aspettarsi di ottenere gratuitamente sei permessi era
sperare troppo ma io non ero in grado di pagare nemmeno il prezzo pi
basso per tutta la famiglia. Guadagnavo saltuariamente e tutto ci che
riuscivo a raggranellare veniva speso per mangiare. L'inizio dell'azione
nel ghetto mi aveva colto con appena poche centinaia di zloty in tasca.
Ero sconvolto perch non potevo ovviare in alcun modo a questa
situazione e dovevo invece osservare impotente i miei amici pi ricchi
che assicuravano la salvezza alle loro famiglie. Trasandato, con la
barba lunga e affamato, mi trascinavo da mattina a sera da un ufficio
all'altro scongiurando la gente di aver piet di noi. Dopo sei giorni
trascorsi in questo modo e grazie anche a tutte le conoscenze a cui
riuscii a ricorrere, in qualche modo ottenni questi documenti.
Probabilmente fu la settimana prima che iniziasse l'azione nel ghetto
che vidi per l'ultima volta Roman Kramsztyk. Era stremato e nervoso,
bench cercasse di nasconderlo. Fu contento di vedermi. Non andato
ancora in tourne? mi domand, tentando di fare una battuta scherzosa.
No, mi limitai a rispondere. Non avevo voglia di scherzare.
Poi gli chiesi quello che tutti allora continuavamo a chiederci.
Che cosa ne pensa? Ci deporteranno?
Invece di rispondere alla mia domanda la aggir dicendo:
Ha un aspetto orribile. Mi fiss con aria di compatimento. Prende
troppo a cuore questa storia.
Come potrei fare diversamente? ribattei stringendomi nelle spalle.
Lui sorrise, si accese una sigaretta, rimase un momento in silenzio poi
prosegu: Aspetti. Tutto prima o poi finir perch, gesticol con le
braccia, perch in realt tutto privo di senso.
Lo disse con un tono di convinzione buffa e piuttosto rassegnata, come
se tutta l'insensatezza di ci che stava accadendo fosse anche la
garanzia che avrebbe avuto fine.
Purtroppo non solo non and cos, ma le cose peggiorarono ulteriormente
nei giorni seguenti quando furono fatti arrivare lituani e ucraini.
Erano venali quanto la polizia ebraica, sia pure in modo diverso.
Accettavano denaro ma non appena l'avevano intascato uccidevano le
persone alle quali l'avevano estorto. A loro piaceva uccidere: uccidere
per puro divertimento o per facilitarsi il lavoro, per fare
esercitazioni di tiro al bersaglio o anche solo per passare il tempo.
Uccidevano i bambini davanti agli occhi delle madri e ridevano davanti
alla loro disperazione. Sparavano alle persone mirando al ventre solo
per vederle soffrire. A volte allineavano le vittime e lanciavano contro
di loro delle bombe a mano da una certa distanza per verificare chi
avesse la mira migliore. Ogni guerra fa emergere piccoli gruppi tra le
etnie: minoranze troppo codarde per battersi apertamente e troppo
insignificanti per svolgere un ruolo importante e indipendente in campo
politico. Tuttavia sufficientemente spregevoli per diventare mercenari
per conto di uno dei poteri in lotta.
Cos si comportarono in questa guerra i fascisti ucraini e lituani.
Roman Kramsztyk fu uno dei primi a morire quando costoro iniziarono le
operazioni di deportazione. Il caseggiato dove abitava venne circondato
ma lui rifiut di scendere in cortile quando ud il fischio. Prefer
farsi sparare in casa tra i suoi quadri. Fu all'incirca nello stesso
periodo che morirono gli agenti della Gestapo, Kon e Heller. Non avevano
consolidato con sufficiente astuzia la loro posizione e forse a causa
della loro avarizia. Avevano pagato solo uno dei due quartieri generali
della SS di Varsavia e per loro sfortuna finirono proprio nelle mani di
quelli che non avevano pagato. I permessi che esibirono erano stati
rilasciati dal comando SS rivale e questo fece infuriare ancor di pi i
loro aguzzini che non si accontentarono di fucilare Kon o Heller, ma
fecero arrivare dei camion della nettezza urbana e fu su quelli in mezzo
ai rifiuti e alla sporcizia che i due magnati compirono il loro ultimo
viaggio attraverso il ghetto per finire in una fossa comune.
Gli ucraini e i lituani non tenevano in alcun conto i permessi di
lavoro. I sei giorni che impiegai per cercare di ottenerli anche per la
mia famiglia si rivelarono solo tempo perso. Pensavo che bisognasse
lavorare davvero, ma il problema era come fare per riuscire a ottenere
un lavoro.
Ero disperato. Me ne stavo tutto il giorno a letto ad ascoltare i rumori
provenienti dalla strada. Ogni volta che mi perveniva alle orecchie il
fracasso di ruote sull'asfalto mi sentivo cogliere dal panico. Quei
veicoli portavano la gente alla Umschlagplatz. Ma non tutti
attraversavano il ghetto e uno di quei veicoli avrebbe potuto fermarsi
davanti alla nostra casa. In qualsiasi momento avremmo potuto sentire il
fischio nel cortile. Non facevo che saltare gi dal letto, andare alla
finestra, rimettermi sdraiato e rialzarmi.
Ero l'unico della famiglia a comportarmi con tanta vergognosa debolezza.
Forse perch solo io avrei potuto salvare la vita anche agli altri,
grazie alla mia fama di concertista mi sentivo responsabile nei loro
confronti.
I miei genitori, le mie sorelle e mio fratello sapevano di non poter far
nulla. Il loro unico sforzo consisteva nel mantenere l'autocontrollo e
fingere che la vita quotidiana continuasse in modo normale. Mio padre
suonava il violino tutto il giorno, Henryk studiava, Regina e Halina
leggevano e mia madre rammendava i nostri indumenti.
Poi i tedeschi si fecero venire un'ulteriore brillante idea per
agevolarsi il compito. Sui muri comparvero dei bandi nei quali si diceva
che tutte le famiglie che si fossero presentate volontariamente nella
Umschlagplatz per emigrare avrebbero ricevuto una forma di pane e un
chilo di marmellata a testa; inoltre queste famiglie di volontari non
sarebbero state separate. Vi fu una risposta in massa a quest'offerta.
Erano tutti ansiosi di accettarla, sia perch avevano fame, sia perch
erano mossi dalla speranza di compiere insieme ai loro cari il difficile
viaggio verso un destino ignoto.
Inaspettatamente Goldfeder venne in nostro aiuto. Aveva l'opportunit di
assumere un certo numero di persone presso il centro di raccolta che si
trovava nei pressi della Umschlagplatz dove venivano selezionati i
mobili e i beni provenienti dalle case degli ebrei che erano gi stati
deportati. Offr un posto a me, a mio padre e a Henryk, in seguito
riuscimmo a ottenere di essere raggiunti anche da mia madre e dalle mie
sorelle, bench loro non lavorassero al centro di raccolta ma
accudissero alla nostra nuova casa nell'edificio che era la nostra
caserma. Le razioni non erano granch: a ognuno di noi spettava mezza
forma di pane e un quarto di litro di minestra al giorno. Dovevamo
ripartire il tutto con molta oculatezza per cercare di placare
il pi possibile i morsi della fame.
Il primo lavoro che feci per conto dei tedeschi fu quello di trasportare
da mattina a sera mobili, specchi, tappeti, biancheria e indumenti.
Tutta roba appartenuta a qualcuno fino a pochi giorni prima e che
rivelava il gusto delle persone che l'avevano posseduta, se si trattava
di gente povera o ricca, di indole gentile o crudele. Ora tutto questo
non apparteneva a nessuno. Erano solo mucchi e cataste di oggetti
maneggiati con malagrazia e, ogni tanto mentre portavo una pila di
biancheria intima avvertivo la vaga fragranza di un profumo, lieve come
un ricordo, o mi capitava di scorgere un monogramma colorato che
spiccava su un tessuto bianco. Non potevo per permettermi di indugiare
su queste riflessioni. Bastava un momento di contemplazione o di
distrazione per ricevere un calcio sferrato da uno stivale dalla punta
metallica di un poliziotto o quello di un manganello di gomma. Potevi
rimetterci la vita, proprio come era successo ai giovani fucilati subito
dopo essersi lasciati sfuggire dalle mani lo specchio di una sala da
pranzo, mandandolo in frantumi.
Il 2 agosto di primo mattino giunse l'ordine per tutti gli ebrei di
lasciare il ghetto piccolo entro le sei del pomeriggio dello stesso
giorno. Io ebbi appena il tempo di prendere da via Sliska qualche
indumento e delle coperte, le mie partiture, una raccolta di recensioni
dei miei concerti, il mio lavoro creativo di compositore e il violino di
mio padre. Portai il tutto nella nostra baracca con una carriola...
un'impresa faticosa. Questo era tutto quanto possedevamo.
Un giorno, all'incirca il 5 di agosto, mi ero preso una pausa dal lavoro
e stavo percorrendo via Gesia, quando mi capit di vedere Janusz Korczak
che stava lasciando il ghetto con i suoi orfanelli.
L'evacuazione dell'orfanotrofio ebraico gestito da Janusz Korczak
era stata ordinata per quella mattina. Solo i ragazzi avrebbero
dovuto essere portati via mentre a Korszak era stata risparmiata
la vita. Molti avevano insistito con i tedeschi perch gli
permettessero di condividerne la sorte. Aveva trascorso molti anni della
sua vita con quei ragazzi, non intendeva abbandonarli proprio in
quell'ultimo viaggio. Voleva assisterli. Raccont loro che stavano
andando in campagna, e che dovevano rallegrarsi perch finalmente
avrebbero potuto abbandonare quelle orribili soffocanti mura cittadine
per i prati fioriti, nuotare in limpidi ruscelli, camminare nei boschi
pieni di bacche e di funghi. Disse loro di indossare i loro indumenti
migliori e cos i fanciulli uscirono nel cortile, a due a due, ben
vestiti e felici.
La piccola colonna era guidata da una SS che amava i bambini come solo
li sanno amare i tedeschi che amano perfino quando li stanno per mandare
all'altro mondo. Questi si prese di una particolare simpatia per un
ragazzo dodicenne, un violinista che teneva il proprio strumento sotto
il braccio. L'SS gli disse di mettersi in testa alla colonna di bambini
e di suonare... e cos si avviarono.
Quando li incontrai in via Gesia i ragazzi sorridevano, cantavano in
coro, il piccolo violinista suonava per loro e Korczak teneva in braccio
due dei pi piccoli pure sorridenti, ai quali raccontava una storiella
divertente.
Sono sicuro che perfino nella camera a gas, mentre il Cyclon B soffocava
quelle gole infantili e infondeva il terrore invece della speranza nel
cuore di quegli orfani, il vecchio dottore deve avere bisbigliato in un
ultimo disperato tentativo di far loro coraggio. Va tutto bene,
ragazzi, andr tutto bene, al fine di risparmiare ai piccoli affidati
alle sue cure, quanto meno la paura del trapasso dalla vita alla morte.
Infine, il 16 agosto 1942, venne il nostro turno. Al centro di raccolta
era stata fatta una selezione. Soltanto Henryk e Halina furono
dichiarati ancora abili al lavoro. Pap, Regina e io ricevemmo l'ordine
di ritornare alle baracche. Quando rientrammo l'edificio fu circondato e
sentimmo il fischio nel cortile.
Era inutile continuare a lottare. Avevo fatto quello che potevo per
salvare le persone che amavo e me stesso. Ma si era dimostrata
un'impresa impossibile fin dall'inizio. Mi auguravo che quanto meno
Halina e Henryk avrebbero avuto una sorte migliore.
Ci vestimmo in fretta mentre dal cortile provenivano urla e spari e
l'ordine di sbrigarci. Mia madre fece un piccolo involto con tutto ci
che le capit sotto mano, quindi scendemmo le scale.


CAPITOLO 9.

La Umschlagplatz.


La Umschlagplatz si trovava ai limiti del ghetto. Era un centro di
raccolta vicino ai binari della ferrovia, circondato da un reticolo di
strade, di vicoli e di cunicoli sudici. Nonostante l'aspetto poco
invitante, prima della guerra vi si trovavano oggetti di grande valore.
In uno dei depositi giungevano enormi quantitativi di beni provenienti
da ogni parte del mondo. Erano uomini d'affari ebrei che trattavano
l'acquisto di quella mercanzia di cui rifornivano i negozi di Varsavia,
prelevandola dai magazzeni di via Naiewki e di vicolo Simon. Un enorme
spazio ovale, in parte circondato da edifici e in parte recintato.
Parecchie strade vi convergevano come ruscelli che defluissero in un
lago, utili vie di raccordo con la citt. L'area era stata delimitata da
cancellate nel punto in cui vi convergevano le strade e ora poteva
contenere sino a ottomila persone.
Quando vi arrivammo era ancora praticamente deserta. La gente
camminava
avanti e indietro alla vana ricerca di acqua. Era una giornata bella e
calda di tarda estate. Il cielo grigio azzurro pareva si accingesse a
trasformarsi in cenere nel calore che saliva dal terreno calpestato e
dai muri abbacinanti degli edifici. La luce implacabile del sole
strizzava fuori dai corpi stremati le ultime gocce di sudore.
Ai margini del centro di raccolta, nel punto in cui arrivava una delle
strade, c'era uno spazio vuoto che tutti scansavano accuratamente. Non
vi si avvicinavano, ma si limitavano a lanciare occhiate
terrorizzate in quella direzione, verso i cadaveri delle persone
uccise il giorno prima per chiss qual crimine commesso, magari
solo per aver tentato di fuggire. Tra i corpi senza vita di uomini
c'erano anche quelli di una giovane donna e di due ragazze col
cranio fracassato. Il muro sotto il quale giacevano recava
chiare tracce di sangue e di tessuto cerebrale. I bambini erano stati
uccisi con il sistema preferito dai tedeschi: afferrati per le gambe, le
teste sbattute con violenza contro il muro. Grosse mosche nere si
muovevano su quei corpi inanimati e sulle pozze di sangue sul terreno, e
i cadaveri sempre pi gonfi erano in uno stato di putrefazione per il
calore. Ci eravamo sistemati alla bell'e meglio e aspettavamo l'arrivo
del treno. Mia madre stava seduta sull'involto che conteneva la nostra
roba, Regina era per terra accanto a lei e io in piedi, mentre mio padre
camminava nervosamente, le mani dietro la schiena, facendo quattro passi
avanti e quattro passi indietro. Solo in quel momento, nella luce
violenta del sole, quando ormai non aveva pi senso preoccuparsi di
escogitare inutili piani per salvarci, ebbi modo di osservare con
attenzione mia madre. Aveva un aspetto terribile, anche se all'apparenza
sembrava mantenere appieno il controllo di s. I suoi capelli, un tempo
belli e sempre ben curati, erano ingrigiti e ricadevano a ciocche sul
volto solcato da rughe e contratto dall'ansia. La luce nei suoi occhi di
un nero vivido sembrava essersi spenta. Un tic nervoso le storceva il
volto dalla tempia destra lungo la guancia, fino all'angolo della bocca.
Non me ne ero mai accorto prima e questo mi fece capire quanto mia
madre
fosse sconvolta per ci che ci stava succedendo. Regina piangeva, le
mani sul viso, le lacrime che scorrevano tra le dita.
I veicoli si fermavano a intervalli regolari davanti al cancello
dell'Umschlagplatz dove venivano raggruppate le persone destinate
al trasferimento. I nuovi arrivati non si peritavano di
celare la propria disperazione. Gli uomini parlavano a voce alta, le
donne alle quali erano stati portati via i figli gemevano e
singhiozzavano convulsamente. Presto la cappa di greve apatia che
opprimeva il centro di raccolta cal anche su di loro. Di colpo si
acquietarono e solo ogni tanto scoppiavano brevi crisi di panico quando
a un soldato delle SS veniva l'uzzolo di sparare a qualcuno che non gli
si era tolto di mezzo abbastanza rapidamente o la cui espressione del
viso non gli pareva abbastanza sottomessa.
Una giovane era seduta per terra poco distante da noi. Aveva il vestito
lacero e i capelli arruffati come se si fosse accapigliata con qualcuno.
Ora, per, se ne stava calma, il volto simile alla morte, gli occhi
fissi nel vuoto. Teneva le dita serrate attorno alla gola. Di tanto in
tanto chiedeva con monotona regolarit: Perch l'ho fatto? Perch l'ho
fatto?
Un uomo giovane in piedi al suo fianco, chiaramente il marito, cercava
di consolarla e di persuaderla di qualcosa, parlandole a bassa voce, ma
le sue parole non sembravano penetrarle nella mente.
Continuavamo a incontrare conoscenti tra la gente che veniva ammassata
nel centro di raccolta. Ci si avvicinavano, ci salutavano e, per mera
abitudine, cercavano di avviare una sorta di conversazione. Ma di l a
poco si interrompevano e si allontanavano, nel tentativo di
padroneggiare da soli la loro ansia.
Il sole si levava sempre pi alto, il suo calore si abbatteva su di noi
che soffrivamo la tortura sempre pi violenta della fame e della sete.
La sera prima avevamo mangiato l'ultimo tozzo di pane e un piatto di
minestra. Era difficile rimanere fermi e cos decisi di muovermi un po',
forse sarebbe stato meglio.
Via via che arrivavano persone, il posto diveniva sempre
pi affollato. Bisognava scansare gruppi di gente in piedi, distesa per
terra. Discutevano tutti dello stesso argomento: dove ci avrebbero
portato e se saremmo stati effettivamente mandati in un campo di lavoro,
che era quanto la polizia ebraica cercava di darci a intendere.
Alcuni anziani erano sdraiati in una parte della piazza, probabilmente
uomini e donne evacuati da un ricovero per vecchi. Erano di una magrezza
paurosa, stremati dalla fame e dal caldo, chiaramente esausti. Alcuni se
ne stavano con gli occhi chiusi: difficile capire se fossero gi morti o
moribondi. Se noi eravamo destinati a un campo di lavoro, che cosa ci
facevano qui quei vecchi? Donne con bambini in braccio si trascinavano
da un gruppo all'altro, supplicando per avere un goccio d'acqua. I
tedeschi ne avevano sospeso, a bella posta, l'erogazione
nell'Umschlagplatz. Gli occhi dei bambini erano spenti e le palpebre gi
abbassate: le loro testoline ondeggiavano sui colli magri e le labbra
aride erano dischiuse come le bocche di pesciolini abbandonati sulla
riva dai pescatori perch considerati di scarto.
Quando ritornai vicino ai miei familiari, non erano pi soli. Vicino a
mia madre stava seduta una sua amica, mentre il marito di lei, un tempo
proprietario di un grande negozio, si era sistemato accanto a mio padre
e un altro loro conoscente. L'uomo d'affari era abbastanza ottimista.
L'altro, un dentista, che aveva lo studio in via Sliska, poco
distante dal nostro appartamento, aveva una visione catastrofica
della situazione. Era nervoso e sconfortato.
E' un'infamia per tutti noi! sbott quasi urlando. Permettiamo che ci
portino a morire come pecore al macello! Se attaccassimo i tedeschi...
siamo mezzo milione di persone, potremmo fuggire dal ghetto, o per lo
meno morire con onore, invece di coprirci di vergogna di fronte alla
storia!
Mio padre ascoltava un po' imbarazzato ma con un sorriso mite. Si
strinse leggermente nelle spalle e chiese: Come puoi essere tanto
sicuro che ci stanno mandando a morire?
Il dentista si torse le mani. Be', naturalmente non lo so per certo.
Come potrei? Credi che lo diranno? Per certo al novanta per cento che
intendono eliminarci tutti!
Mio padre sorrise di nuovo, quasi che dopo quella risposta si sentisse
ancora pi sicuro di s. Guarda, disse, indicando la gente che
affollava la Umschlagplatz. Non siamo eroi! Siamo persone
assolutamente
normali, ed proprio per questo che preferiamo attaccarci a quel dieci
per cento di probabilit che abbiamo di vivere!
L'uomo d'affari si dichiar d'accordo con pap. Lui aveva un'opinione
diametralmente opposta a quella del dentista. I tedeschi, pensava, non
potevano essere cos stupidi da sprecare l'enorme potenziale di forza
lavoro rappresentata dagli ebrei. Secondo lui ci avrebbero trasferiti in
campi di lavoro, dove con tutta probabilit ci avrebbero fatti lavorare
duramente ma dove non ci avrebbero ammazzati.
Intanto sua moglie raccontava alla mamma e a Regina come era riuscita a
murare l'argenteria di casa in cantina. Dei begli oggetti d'argento di
valore, che sperava di ritrovare al ritorno dalla deportazione.
Era gi pomeriggio quando vedemmo un nuovo gruppo di ebrei venire
sospinto nel campo. Fu con orrore che scorgemmo tra questi anche Halina
e Henryk. Dunque avrebbero condiviso il nostro destino... E noi ci
eravamo cullati nella speranza che almeno loro due si sarebbero salvati!
Mi affrettai a raggiungere Henryk. Ero sicuro che doveva essere stato il
suo atteggiamento stupidamente rigido ad averlo condotto l con Halina.
Lo bombardai di domande e di rimproveri prima che riuscisse a spiccicare
una parola di spiegazione.
Ma, in ogni caso, non intendeva degnarsi di rispondermi.
Scroll le spalle, si tolse dalla tasca un'edizione tascabile di
Shakespeare, si scost da noi e cominci a leggere.
Fu Halina a dirci quello che era accaduto. Si trovavano al lavoro quando
avevano sentito che eravamo stati portati via. Cos avevano deciso di
offrirsi come volontari e di venire all'Umschlagplatz per stare insieme
con noi.
Che stupida reazione sentimentale! Decisi che dovevo allontanarli da l
a qualsiasi costo. Dopo tutto, non si trovavano sull'elenco di quanti
erano destinati alla deportazione. Potevano restare a Varsavia.
Il poliziotto ebreo che li aveva scortati mi conosceva per avermi
sentito suonare al Caf Sztuka e io contavo di riuscire facilmente a
muoverlo a compassione, visto che non c'era un motivo ufficiale per cui
i miei due fratelli fossero l. Purtroppo mi sbagliavo. Lui non volle
saperne di lasciarli andare. Come ogni poliziotto aveva l'obbligo di
consegnare ogni giorno, personalmente, cinque persone all'Umschlagplatz,
pena la propria deportazione se non avesse ottemperato all'ordine.
Halina e Henryk completavano la quota di cinque ebrei per quel giorno.
Era stanco, non aveva la minima intenzione di liberarli e di rimettersi
a dare la caccia ad altri due, e Dio solo sapeva dove. Il suo compito
era tutt'altro che facile. La gente non si presentava quando la polizia
la convocava, ma si nascondeva e, in ogni caso, lui non ne poteva pi di
tutta quella faccenda.
Tornai dai miei genitori, sconfitto. Anche quest'ultimo tentativo di
salvare almeno due di noi era fallito cos come erano falliti tutti i
miei tentativi precedenti. Mi sedetti vicino a mia madre, molto
abbattuto.
Erano gi le cinque del pomeriggio, ma faceva pi caldo che mai. Il
numero delle persone continuava ad aumentare di ora in ora.
La gente si perdeva in mezzo alla calca e continuava a chiamarsi
inutilmente. Si udirono spari e urla, il che significava che
nelle strade vicine erano in atto delle retate. L'agitazione cresceva
via via che si avvicinava il momento in cui si supponeva dovesse
arrivare il treno.
La donna accanto a noi continuava a chiedere: Perch l'ho fatto?
facendoci tendere i nervi fino allo spasimo. Ora sapevamo cosa
significasse quella domanda. Lo aveva scoperto il nostro amico, l'uomo
d'affari. Quando era stato ordinato a tutti di lasciare il caseggiato,
quella donna, suo marito e il loro bambino si erano nascosti in un posto
che avevano preparato tempo prima. Quando la polizia vi era passata
davanti, il bambino era scoppiato a piangere, e la madre terrorizzata lo
aveva soffocato con le sue stesse mani. Ma nemmeno questo era servito.
Il pianto del piccino e poi il suo rantolo di morte erano stati sentiti
e il nascondiglio era stato scoperto.
A un tratto un ragazzo si fece largo in mezzo alla folla e si avvicin a
noi. Portava appesa al collo con una cordicella una scatola di dolci. Li
vendeva a prezzi ridicoli anche se solo il Cielo sa che cosa pensava di
farsene del denaro. Mettendo insieme le ultime monetine che ci restavano
comperammo un'unica crme caramel. Pap la suddivise in sei parti con il
temperino. Quello fu l'ultimo pasto che consumammo insieme,
Verso le sei, il centro di raccolta fu pervaso da un clima di tensione
nervosa. Erano sopraggiunte alcune automobili tedesche e la polizia
stava passando in rassegna quelli che erano destinati a essere portati
via, scegliendo fra loro i pi giovani e forti.
Era ovvio che i fortunati sarebbero stati usati per altri scopi. Una
folla di molte migliaia di persone cominci a premere in quella
direzione: la gente urlava, cercava di travolgere gli altri per
arrivare in prima fila e ostentare le proprie doti fisiche.
La reazione dei tedeschi fu quella di sparare. Il dentista che era
ancora con il nostro gruppo riusc a stento a frenare la propria
indignazione. Sbott furiosamente contro mio padre, quasi che fosse
stata colpa sua. Adesso mi crederai quando dico che ci ammazzeranno
tutti! La gente abile al lavoro rester qui, la morte sta da quell'altra
parte!
La voce gli si spezz nel tentativo di urlare quelle parole al di sopra
del fragore della folla e degli spari, mentre indicava la direzione in
cui sarebbero andati i mezzi di trasporto.
Abbattuto e sconvolto, mio padre non rispose. L'uomo d'affari scroll le
spalle e sorrise ironicamente, continuava a essere ottimista. Secondo
lui, la scelta di un qualche centinaio di persone non significava nulla.
Dopo avere finalmente selezionato la loro forza lavoro i tedeschi si
allontanarono ma l'agitazione della folla non si plac. Subito dopo
udimmo il fischio di una locomotiva in lontananza e lo sferragliare di
vagoni sui binari farsi sempre pi vicino. Dopo qualche minuto il treno
comparve alla vista. Oltre una dozzina di carri bestiame e merci
avanzavano lentamente verso di noi. La brezza serotina soffiava nella
nostra direzione, recando con s una zaffata soffocante di cloro.
Nel frattempo il cordone di poliziotti ebrei e di SS che circondavano il
campo di raccolta serr ancora di pi le file e prese a farsi strada
verso il centro. Di nuovo udimmo spari che miravano a impaurirci. Dalla
folla stipata si levavano i gemiti strazianti delle donne e i pianti dei
bambini.
Ci apprestammo ad andarcene. Perch rinviare? Prima fossimo saliti sui
vagoni meglio sarebbe stato. Una fila di poliziotti si era disposta
a pochi passi dal treno e lasciava aperto un varco per far passare
la gente. Quel varco conduceva alle portiere dei vagoni cosparsi
di cloro.
Quando arrivammo davanti al binario i primi vagoni erano gi pieni: la
gente stava in piedi, ammassata fino all'inverosimile. Le SS
continuavano a spingere con i calci dei fucili bench dall'interno dei
carri si levassero grida disperate e lamenti per la mancanza d'aria.
L'odore del cloro rendeva difficile respirare perfino a una certa
distanza. Che cosa sarebbe successo l dentro se il fondo dei vagoni era
stato irrorato in quel modo di cloro? Ci eravamo spinti a circa met del
treno quando improvvisamente udii qualcuno gridare: Qui, qui,
Szpilman! Una mano mi afferr per il bavero e fui scaraventato
all'indietro, fuori del cordone della polizia.
Chi osava fare una cosa simile? Io non volevo essere separato dalla mia
famiglia, volevo stare con i miei.
Davanti a me vedevo i poliziotti che avevano serrato i ranghi. Mi
avventai contro di loro ma non mi fecero passare. Al di l delle loro
teste, riuscii a scorgere Halina e Henryk che aiutavano mia madre e
Regina a salire sui vagoni, mentre mio padre si guardava attorno a
cercarmi.
Pap! gridai!
Mi vide e fece per avvicinarmisi, poi esit e si blocc. Era pallido, con
le labbra che gli tremavano. Si sforzo di sorridere, un'espressione di
impotenza e di sofferenza sul viso, poi sollev una mano in un gesto di
addio, come se lui dall'oltretomba prendesse congedo da me, che partivo
verso la vita. Quindi si volt e si diresse verso i vagoni.
Mi avventai con tutta la forza che avevo in corpo contro le spalle dei
poliziotti.
Pap! Henryk! Halina!
Urlavo quasi fossi stato posseduto. Ero inorridito all'idea
che proprio in quell'ultimo istante cos decisivo in cui avrei potuto
unirmi a loro, saremmo stati separati per sempre. Un poliziotto si gir
e mi fiss con aria adirata. Che cosa diavolo pensi di fare? Vai via,
salvati! Salvarmi? Da che cosa? In un lampo mi resi conto quale sorte
aspettava la gente una volta salita sui carri bestiame. Mi si rizzarono
i capelli in testa. Mi guardai alle spalle e vidi il campo di raccolta,
i binari e le pensiline e, oltre a queste, le strade. Corsi in quella
direzione, spinto da una paura irrazionale, mi infilai in mezzo a una
colonna di persone che lavoravano per il Consiglio ebraico e che si
stavano allontanando di l e varcai il cancello.
Quando di nuovo riuscii a pensare lucidamente, mi trovai su un
marciapiede in mezzo a caseggiati. Una SS stava uscendo da uno di questi
edifici in compagnia di un poliziotto ebreo. Il viso della SS esprimeva
al contempo indifferenza e arroganza. Accanto a lui il poliziotto gli si
rivolgeva in modo servile, sorridendogli, facendogli salamelecchi.
Indicandogli il treno fermo nella Umschlagplatz disse al tedesco con
familiarit cameratesca in tono sarcastico: Eccoli diretti in
fonderia!
Guardai nella direzione della sua mano: le portiere dei vagoni erano
oramai chiuse e il treno si stava mettendo in moto a rilento.
Mi voltai e mi avviai barcollando lungo la via deserta, singhiozzando
convulsamente, inseguito dalle grida sempre pi flebili delle persone
rinchiuse in quei vagoni. Sembravano il frullo d'ali di uccelli in
gabbia ormai agonizzanti.



CAPITOLO 10.

Una probabilit di sopravvivenza.


Continuai a camminare. Non mi importava dove andavo. Alle mie spalle
avevo lasciato la Umschlagplatz e i vagoni che portavano via la mia
famiglia. Non udivo pi il rumore del treno ormai lontano dalla citt di
parecchi chilometri. Eppure mentre si allontanava continuavo a sentirlo
dentro di me. A ogni passo provavo un senso di solitudine sempre pi
profondo. Ero consapevole di essere stato strappato in modo definitivo
da tutto ci che fino a quel momento aveva costituito la mia vita.
Ignoravo quello che mi aspettava. Avevo solo la certezza che sarebbe
stato orribile come nei miei pensieri pi foschi. Non c'era per me alcun
modo di tornare nella casa in cui la nostra famiglia aveva abitato negli
ultimi tempi. Le SS mi avrebbero ucciso subito o riportato
all'Umschlagplatz considerandomi una persona che non era stata
deportata solo per errore. Non avevo idea di dove avrei passato la notte
ma in quel momento mi era del tutto indifferente, anche se la paura
dell'imminente crepuscolo covava nel mio subconscio.
Era come se tutte le strade fossero state ripulite; le porte delle case
erano state sbarrate o lasciate spalancate nei caseggiati dai quali gli
inquilini erano stati strappati. Un poliziotto ebreo mi si avvicin. Non
gli badai ma non gli avrei nemmeno prestato attenzione se non mi avesse
bloccato esclamando: Wladek! Mi fermai e lui soggiunse, stupito:
Che cosa ci fai qui a quest'ora?
Solo allora lo riconobbi. Era un conoscente dei miei, ma non godeva
della nostra simpatia. Lo ritenevamo un uomo di dubbia moralit e
cercavamo di evitarlo. Era abile nel togliersi dagli impicci e nel
cadere sempre in piedi usando metodi che altri avrebbero giudicato
severamente. La sua entrata nella polizia non aveva fatto che confermare
quella cattiva reputazione.
Non appena lo riconobbi con indosso l'uniforme tutti questi pensieri mi
tornarono alla mente. Subito per mi resi conto che lui era il mio
conoscente pi stretto, anzi il mio unico conoscente. E, in ogni caso,
l'unico che mi legava al ricordo della mia famiglia.
E' andata cos, cominciai a dire. Volevo raccontargli che i miei
genitori, mio fratello e le mie sorelle erano stati portati via ma le
parole non mi uscivano dalle labbra. Lui per comprese ugualmente, mi si
avvicin e mi afferr per un braccio.
Forse meglio, mormor con un gesto rassegnato. Prima , meglio .
E
quello che aspetta tutti noi. Dopo un momento di silenzio aggiunse:
Comunque vieni a stare a casa mia. Servir a tirarti un po' su di
morale.
Accettai e trascorsi la mia prima notte di solitudine con quei
conoscenti.
Il mattino seguente andai a trovare Mieczyslaw Lichtenbaum, il figlio
del nuovo presidente del Consiglio ebraico, che avevo conosciuto bene
quando suonavo ancora il pianoforte nei caff del ghetto.
Mi sugger di andare a suonare nel casin del comando del campo di
sterminio tedesco dove la Gestapo e gli ufficiali delle SS la sera si
riposavano dopo una giornata faticosa trascorsa a uccidere gli ebrei. L
erano serviti da ebrei che presto o tardi sarebbero stati uccisi a loro
volta. Naturalmente mi rifiutai di accettare quell'offerta anche
se Lichtenbaum non cap e si sent offeso per il mio rifiuto.
Senza discutere ulteriormente mi mand a lavorare con un gruppo
di operai adibiti alla demolizione delle mura di quello che un
tempo era stato il ghetto grande e che ora sarebbe stato
incorporato nella parte ariana della citt.
Il giorno seguente lasciai, per la prima volta dopo due anni, il
quartiere ebraico. Era una giornata bella e calda, intorno al 20 agosto.
Bella come lo era da molti giorni e bella come l'ultima passata con la
mia famiglia nell'Umschlagplatz. Camminavamo in file di quattro al
comando di guardie ebree e sorvegliati da due SS. Ci fermammo in piazza
Zelazna Brama. Dunque esistevano luoghi dove scorreva ancora la vita!
I venditori ambulanti con cesti pieni di mercanzie stavano fuori della
piazza del mercato che i tedeschi avevano chiuso e trasformato in una
sorta di deposito. La luce accecante del sole ravvivava i colori della
frutta e della verdura, rendeva scintillanti le scaglie dei pesci e
mandava riflessi abbacinanti sui coperchi di latta dei barattoli di
marmellata. Le donne camminavano, si aggiravano attorno agli ambulanti,
contrattando, spostandosi da un cesto all'altro, facendo i loro acquisti
per poi dirigersi verso il centro della citt. I trafficanti d'oro e di
valuta ripetevano con voce monotona:
Comperate oro, dollari, rubli!
A un certo punto, dal fondo di una via secondaria, giunse un suono di
clacson e la sagoma grigio verde di un furgone della polizia comparve
alla vista. Gli ambulanti furono colti dal panico. Raccolsero in fretta
le loro mercanzie nel tentativo disperato di fuggire. In tutta la piazza
si levarono urla e si diffuse la confusione. Dunque in realt nemmeno l
le cose andavano bene,
Decidemmo di procedere il pi lentamente possibile alla
demolizione del muro in modo che il lavoro durasse pi a lungo. I
capisquadra ebrei non ci facevano troppe pressioni e nemmeno le SS si
comportavano male come all'interno del ghetto. Se ne stavano un po'
discoste a chiacchierare fitto fitto, guardandosi attorno
distrattamente.
Il furgone della polizia attravers la piazza e scomparve. Gli ambulanti
tornarono ai loro posti e fu come se non fosse accaduto nulla. I miei
compagni lasciarono il nostro gruppo a uno a uno per andare alle
bancarelle a fare acquisti, che cacciavano nelle borse che si erano
portati appresso oppure nei calzoni e nelle giacche. Sfortunatamente io
non avevo denaro e non potevo fare altro che guardare bench mi sentissi
venir meno per la fame.
Una giovane coppia si avvicin al nostro gruppo. Proveniva da Ogrd
Saski. Erano entrambi molto eleganti. La donna era affascinante, non
riuscivo a distogliere lo sguardo da lei. Un sorriso aleggiava sulle sue
labbra dipinte. Camminava facendo ondeggiare leggermente i fianchi, i
biondi capelli illuminati dal sole sembravano oro e formavano un alone
scintillante attorno alla sua testa. Nel passarci davanti rallent il
passo ed esclam: Guarda, oh ti prego, guarda!
L'uomo non cap, la fiss con espressione interrogativa.
Lei ci indic. Ebrei!
Il suo compagno parve sorpreso. E allora? Scroll le spalle. Sono i
primi ebrei che vedi in vita tua?
La donna sorrise, un po' imbarazzata, gli si strinse addosso, poi
entrambi proseguirono in direzione del mercato.
Quel pomeriggio riuscii a farmi prestare da uno del gruppo cinquanta
zloty con i quali comperai pane e patate. Mangiai un pezzo di pane e
portai il resto e le patate nel ghetto. Quella sera conclusi il primo
affare della mia vita. Avevo pagato il pane venti zloty. Nel ghetto lo
vendetti per cinquanta.
Le patate erano costate tre zloty il chilo, le vendetti per diciotto.
Per la prima volta, dopo un'eternit, avevo abbastanza da mangiare e un
piccolo capitale liquido ancora nelle mani per fare acquisti il giorno
seguente.
Il lavoro di demolizione del muro era assai monotono. Lasciavamo il
ghetto il mattino di buon'ora per metterci attorno a un cumulo di
mattoni, fingendo di lavorare fino alle cinque del pomeriggio. I miei
compagni passavano il tempo impegnati in ogni sorta di transazioni,
acquistando merci e discutendo su che cosa comperare, su come
contrabbandare quella roba nel ghetto e su come venderla nel modo pi
proficuo. Io compravo le cose pi semplici, giusto il necessario al
sostentamento. Il mio unico pensiero era per la mia famiglia: dove si
trovavano, in quale campo erano stati portati e in quali condizioni
erano.
Un giorno, un mio vecchio amico pass davanti a noi. Si chiamava
Tadeusz
Blumenthal. Era ebreo ma i suoi lineamenti erano cos ariani che non
aveva bisogno di dichiarare le proprie origini e poteva benissimo vivere
fuori delle mura del ghetto. Fu felice di vedermi ma sconvolto nel
rendersi conto della mia situazione. Mi diede un po' di denaro e promise
che avrebbe cercato di aiutarmi. Mi disse che il giorno seguente sarebbe
venuta una donna la quale, se io fossi riuscito a sgattaiolare via senza
dare nell'occhio, mi avrebbe portato in un luogo dove avrei potuto
nascondermi. In effetti la donna venne, purtroppo, per, per recarmi la
notizia che le persone presso le quali avrei potuto stare non volevano
accettare di prendersi in casa un ebreo.
Un altro giorno il direttore della Filarmonica di Varsavia, Jan
Dworakowsky, mi vide mentre attraversava la piazza. Parve sinceramente
commosso, mi abbracci e cominci a chiedermi come stavamo io e la
mia
famiglia. Quando gli dissi che i miei erano stati portati via da
Varsavia mi fiss con una espressione che a me parve di profonda
pena, apr la bocca come a dire qualcosa, ma all'ultimo momento,
ci ripens.
Secondo te che cosa successo ai miei? gli chiesi in preda a una
profonda angoscia.
Wladyslaw... Mi prese le mani e le strinse calorosamente. Forse
meglio che tu sappia... in modo da poter stare in guardia. Esit per un
attimo. Mi strinse di nuovo la mano quindi soggiunse a bassa voce, quasi
in un bisbiglio. Non li vedrai mai pi.
Si gir di scatto e si allontan in fretta. Fece un paio di passi, si
volt e torn indietro ad abbracciarmi, ma io non avevo abbastanza forza
per ricambiare la sua cordialit. Nel mio subconscio avevo capito fin
dall'inizio che la favola raccontata dai tedeschi riguardo alle buone
condizioni di lavoro riservate agli ebrei era una menzogna e che da loro
ci saremmo solo dovuti aspettare la morte. Eppure, come gli altri ebrei
del ghetto, avevo carezzato fino a quel momento l'illusione che le cose
sarebbero potute essere diverse e che questa volta le promesse tedesche
avrebbero trovato riscontro nella realt. Quando pensavo ai miei
famigliari cercavo di immaginarmeli vivi, sia pure in condizioni
terribili, ma comunque vivi. Cos, un giorno, quando tutto fosse finito,
ci saremmo potuti rivedere. Dworakowsky aveva distrutto di colpo
l'impalcatura che avevo eretto con tanta fatica per illudermi. Solo
molto pi tardi mi convinsi che aveva avuto ragione a comportarsi in
quel modo: la certezza della morte dei miei mi diede l'energia per
salvarmi nel momento cruciale.
Trascorsi i giorni successivi immerso in una sorta di sogno, alzandomi
dal letto al mattino come un automa, aggirandomi come un automa,
distendendomi la sera come un automa per dormire su un tavolaccio,
nel magazzeno ebraico di mobili che era stato assegnato al Consiglio.
In qualche modo dovevo accertare quella che ormai sapevo essere
la verit: la morte certa della mamma, di pap, di Regina, di Halina
e di Henryk. Poi vi fu una incursione aerea sovietica su Varsavia.
Tutti si precipitarono nei rifugi. I tedeschi erano allarmati
e adirati, gli ebrei felici anche se non potevano darlo a vedere.
Ogni volta che sentivamo il rombo dei bombardieri il nostro
volto si illuminava. Per noi quello era il segno che di l a poco
sarebbero arrivati gli aiuti e ci sarebbe stata la sconfitta della
Germania, l'unica possibilit per noi di salvezza. Io non scendevo nel
rifugio. Per me era indifferente vivere o morire.
Nel frattempo le nostre condizioni di lavoro erano peggiorate. I lituani
messi ora a sorvegliarci ci proibivano di fare acquisti al mercato. Ci
perquisivano in modo sempre pi accurato al posto di guardia centrale e
al nostro rientro nel ghetto. Un pomeriggio, del tutto inaspettatamente,
nel nostro gruppo fu effettuata una selezione. Un poliziotto giovane si
dispose fuori del posto di guardia centrale, con le maniche rimboccate e
prese a suddividerci in modo casuale, come se si trattasse di una
estrazione a sorte, seguendo una sua logica. Quelli sulla sinistra
dovevano morire, quelli sulla destra vivere. A me ordin di passare
sulla destra. Fece distendere quelli sulla sinistra sul terreno, poi li
uccise a colpi di rivoltella.
Dopo circa una settimana sui muri del ghetto comparvero annunci che ci
sarebbe stata una nuova selezione degli ebrei rimasti ancora a Varsavia.
Dal momento che trecentomila erano gi stati trasferiti ne restavano
all'incirca ancora centomila, dei quali venticinquemila sarebbero
rimasti in citt, professionisti o lavoratori di cui i tedeschi avevano
bisogno.
I funzionari del Consiglio dovettero presentarsi nel cortile
dell'edificio del Consiglio ebraico il giorno stabilito, il resto
della popolazione nell'area del ghetto tra via Nowolipky e via
Gesia. Per rendere le cose doppiamente sicure, uno dei poliziotti ebrei,
un funzionario al quale avevano dato il soprannome di Blaupapier, se ne
stava fermo davanti all'edificio con una frusta in mano che usava senza
alcuna remora su chiunque tentasse di entrare.
A coloro ai quali era stato concesso di restare nel ghetto furono
distribuiti dei numeri stampati su foglietti di carta. Il Consiglio
aveva il diritto di tenersi cinquemila dei propri funzionari. Quel primo
giorno a me non venne dato alcun numero, cionondimeno dormii per tutta
la notte, rassegnato al mio destino, bench i miei compagni fossero
quasi impazziti per l'ansia. Il mattino seguente mi fu dato un numero.
Eravamo disposti in fila per quattro e dovemmo attendere fino a quando
la commissione di controllo delle SS comandata dall'Unterstururmfhrer
Brandt accondiscese a venire a contarci onde evitare che troppi di noi
potessero sfuggire alla morte.
Marciando a quattro per quattro, tenuti sotto stretta sorveglianza dalla
polizia, ci dirigemmo verso il cancello della sede del Consiglio per
raggiungere via Gesia dove saremmo dovuti essere alloggiati. Alle nostre
spalle le persone condannate a morte si sbattevano da tutte le parti,
urlando, gemendo e imprecando contro di noi che eravamo sfuggiti
miracolosamente a quella condanna, mentre i lituani, che sovrintendevano
al loro passaggio dalla vita alla morte, sparavano sulla folla per
ristabilire la calma in un modo che era diventato loro abituale.
Mi era stata data un'ulteriore possibilit di vivere. Ma per quanto
tempo ancora?



CAPITOLO 11.

Tiratori scelti, insorgete!


Avevo cambiato alloggio ancora una volta, l'ultimo di non so quanti
traslochi da quando abitavamo in via Sliska e da quando era scoppiata la
guerra. Questa volta ci furono assegnate stanze in coabitazione o
meglio, celle contenenti solo lo stretto necessario e dei tavolacci.
Dividevo la mia con tre membri della famiglia Przariski e con la
signora A., una persona silenziosa ed estremamente riservata, a dispetto
della coabitazione alla quale era stata costretta. Gi la prima notte
che trascorsi l feci un sogno che mand in fumo le mie ultime
illusioni, Sembrava la conferma definitiva di ci che presumevo fosse il
destino della mia famiglia. Sognai mio fratello Henryk che mi si
avvicinava e si chinava sul mio letto dicendo: Ora siamo morti.
Alle sei del mattino fummo svegliati da un continuo andirivieni nel
corridoio. Si sentiva parlare a voce alta, ferveva una grande attivit.
Erano gli operai privilegiati adibiti alla ristrutturazione del palazzo
del comandante delle SS di Varsavia in Aleje Ujazdowskie che stavano
andando al lavoro. La loro condizione privilegiata significava che,
prima di allontanarsi, ricevevano una zuppa sostanziosa con carne,
sufficiente a fornir loro energia per qualche ora. Noi uscimmo quasi
subito dopo, il ventre pressoch vuoto dopo una ciotola di brodaglia. Il
suo irrilevante valore nutritivo era pari all'importanza del nostro
lavoro: dovevamo ripulire il cortile dell'edificio del Consiglio
ebraico.
Il giorno seguente, mandarono me, Przariski e il figlio adolescente
nella struttura in cui si trovavano i magazzini del Consiglio e gli
appartamenti dei suoi funzionari. Erano le due del pomeriggio quando si
udirono l'ormai famigliare fischio e il solito urlo dei tedeschi che
chiamavano tutti a raccolta nel cortile. Bench avessimo gi sofferto
abbastanza per mano loro, ci si gel il sangue e ci immobilizzammo come
statue di sale. Solo due giorni prima c'erano stati assegnati dei numeri
che significavano la vita. Tutti in quell'edificio ne avevano uno,
quindi non poteva certamente trattarsi di un'altra selezione. E in
questo caso, di che cosa si trattava? Ci affrettammo a scendere. In
effetti era proprio una selezione. E, ancora una volta, vidi persone
disperarsi mentre gli uomini delle SS con urla colleriche separavano
brutalmente le famiglie e sceglievano quanti dovevano andare a destra e
quanti a sinistra, bestemmiando e picchiandoci. Invece, di nuovo il
nostro gruppo di lavoro era stato risparmiato, a parte qualche
eccezione. Come il figlio di Przariski, un ragazzo adorabile col quale
avevo stretto amicizia. Gli volevo gi molto bene, anche se
condividevamo la stessa stanza da appena due giorni. Non voglio
descrivere la disperazione dei suoi genitori. Nel corso di quei mesi
migliaia di altre madri e di altri padri avevano vissuto la stessa
disperazione. La selezione presentava poi anche un'altra peculiarit: le
famiglie pi in vista della comunit ebraica comperavano la propria
libert dai cosiddetti incorruttibili ufficiali della Gestapo. Per
raggiungere la quota stabilita, falegnami, camerieri, parrucchieri,
barbieri e altra manodopera qualificata che sarebbe realmente potuta
essere utile ai tedeschi, furono mandati al posto loro all'Umschlagplatz
e condotti alla morte. Tra parentesi, il giovane Przariski riusc
a fuggire e sopravvisse un po' pi a lungo.
Un giorno, di l a poco, il capo del nostro gruppo mi disse che era
riuscito a farmi assegnare a quello che lavorava nell'edificio della
caserma delle SS nel lontano quartiere di Mokotow. Mi assicur che l
avrei avuto cibo migliore e che in generale mi sarei trovato molto
meglio.
La realt si dimostr tutto affatto diversa. Dovevo alzarmi due ore
prima e percorrere una dozzina di chilometri per arrivare al lavoro in
tempo. Quando vi giungevo, stremato per la lunga camminata, dovevo
mettermi subito all'opera, una fatica molto superiore alle mie forze
perch ero costretto a portare mattoni, impilati l'uno sull'altro, su
un'asse appoggiata sulla schiena. Negli intervalli trasportavo secchi
pieni di calce e barre di ferro. Me la sarei potuta cavare bene se non
fosse stato per i sorveglianti delle SS, i futuri occupanti di quella
caserma, i quali ritenevano che noi lavorassimo troppo lentamente. Ci
ordinarono di trasportare le pile di mattoni e le barre di ferro di
corsa e se qualcuno si sentiva mancare le forze e si fermava lo
colpivano con fruste di cuoio su cui erano fissate delle palle di
piombo.
Di fatto non so come sarei riuscito a sopravvivere a questo immane
sforzo fisico se non fossi tornato dal capogruppo per scongiurarlo,
ottenendo da lui una risposta positiva, di essere trasferito al
complesso di edifici dove si trovava il palazzetto del comandante delle
SS, in Aleje Ujazdowskie. L le condizioni di lavoro erano pi
sopportabili e in qualche modo riuscivo a cavarmela. Sopportabili
soprattutto perch lavoravamo con capomastri tedeschi e artigiani
polacchi specializzati, alcuni dei quali erano ai lavori forzati, anche
se qualcuno tra loro era assunto a contratto. Di conseguenza non eravamo
troppo in evidenza e questo ci consentiva di fare ogni tanto
delle soste, tanto pi che il nostro gruppo non si limitava ad
annoverare solo ebrei. Inoltre i polacchi facevano causa
comune con noi contro i sorveglianti tedeschi e ci aiutavano. Un altro
elemento a nostro favore era costituito dal fatto che l'architetto
incaricato della ristrutturazione dell'edificio, un certo ingegner Blum,
era a sua volta ebreo e sotto di s aveva altri ingegneri ebrei, tutti
di eccezionale professionalit. I tedeschi per non riconoscevano
ufficialmente questa situazione e il capomastro Schuitke, un vero e
proprio sadico che, per salvare la forma, veniva fatto passare per
architetto responsabile dei lavori, aveva il diritto di picchiare gli
ingegneri tutte le volte che gli pareva.
In realt senza gli abili artigiani ebrei non si sarebbe conseguito un
bel nulla. Per questo venivamo trattati in modo abbastanza gentile, a
parte ovviamente le frustate cui ho accennato, ma questi dettagli
contavano ben poco nel clima di quei tempi.
Io lavoravo come manovale per un muratore di nome Bartczak, un
polacco,
tutto sommato una brava persona, anche se logicamente nascevano fra noi
anche dei contrasti. A volte i tedeschi ci stavano addosso e noi
dovevamo cercare di lavorare come loro volevano. Io facevo del mio
meglio ma era inevitabile che a volte rovesciassi la scala o la calce
dal secchio, oppure che facessi cadere i mattoni dalle impalcature; in
questi casi anche Bartczak veniva redarguito. Cos finiva per
prendersela con me, diventava paonazzo in volto e bofonchiava, ma non
appena i tedeschi si allontanavano scuoteva la testa quasi sconfortato
per la mia inettitudine e dava inizio alla sua tirata.
E osi anche dire che suonavi alla radio, Szpilman? mi chiedeva
stupito. Un musicista come te... non sa nemmeno maneggiare una vanga
e
raschiare la calce da un'asse...
scommetto che li facevi addormentare tutti! Poi si stringeva nelle
spalle, mi guardava con sospetto, sputava e, dando sfogo un'ultima volta
alla sua collera, urlava a pieni polmoni: Idiota!
Comunque, ogni volta che sprofondavo nelle mie cupe riflessioni e
smettevo di lavorare, dimenticandomi dove mi trovavo, lui non mancava
mai di avvertirmi in tempo se vedeva avvicinarsi un sorvegliante
tedesco.
Malta! tuonava e quella parola echeggiava nell'aria. Afferravo il
primo secchio che mi veniva a tiro, o una cazzuola e fingevo di lavorare
di buona lena.
La prospettiva dell'inverno ormai incombente su di noi mi rendeva
particolarmente ansioso. Non avevo indumenti pesanti e ovviamente
nemmeno guanti. Ero stato sempre piuttosto sensibile al freddo e temevo
che se le mie mani si fossero congelate mentre svolgevo quel genere di
lavoro cos pesante, avrei potuto dire addio a qualsiasi futura carriera
di pianista. Sempre pi incupito guardavo le foglie sugli alberi di
Aleje Ujazdowskie cambiare colore nel vento che sferzava di giorno in
giorno pi freddo.
A quel punto i numeri che erano stati assegnati a ciascuno di noi e che
ci avevano consentito provvisoriamente di aver risparmiata la vita ci
furono confermati ufficialmente. Al contempo io fui trasferito nei nuovi
alloggi del ghetto in via Kurza e ci venne cambiato anche posto di
lavoro, nella parte ariana della citt. La ristrutturazione del
palazzetto nella Aleje ormai stava per finire e servivano meno operai.
Alcuni di noi furono trasferiti al numero otto di via Narbutt, per
predisporre alloggi per un'unit di ufficiali delle SS.
Il freddo aumentava di giorno in giorno e le mie dita si intorpidivano
sempre di pi durante il lavoro. Non so come sarebbe finita se il caso
non mi fosse venuto in aiuto; un colpo fortunato di sfortuna, se
cos si pu dire. Un giorno inciampai mentre portavo il secchio
con la malta e mi slogai la caviglia. Ora non ero pi abile a
quel lavoro e l'ingegner Blum mi assegn ai magazzeni. Era la fine
di novembre, il termine utile entro il quale potevo sperare di
salvare le mie mani. In ogni caso nei magazzeni faceva pi caldo
che all'esterno.
Un numero crescente di operai, che avevano lavorato in Aleje
Ujazdowskie, vennero ora trasferiti da noi, mentre un numero crescente
delle SS che avevano l'incarico di sorvegliarci furono spostate in via
Narbutt. Un mattino comparve tra costoro l'uomo che sarebbe diventato la
rovina della nostra vita: un sadico di cui non conoscevo il cognome ma
che avevano battezzato Cric-Crac. Provava un piacere quasi erotico nel
torturare le persone in un certo modo. Ingiungeva al malcapitato di
turno di chinarsi, si spingeva la sua testa fra le cosce, schiacciava
forte e frustava il poveretto sui glutei con un kourbash. Livido di
furia, sibilava tra i denti: Cric crac! Non mollava la preda fino a
quando il poveretto non perdeva i sensi per il dolore.
Di nuovo presero a circolare nel ghetto voci di ulteriori trasferimenti.
Se quelle voci erano vere, significava che dopo tutto, i tedeschi non
avevano altro scopo se non quello di eliminarci. Infatti eravamo rimasti
in poco meno di sessantamila e per quale altro scopo, se non quello di
sterminarci, avrebbero preso la decisione di evacuare questo numero
esiguo di persone dalla citt? L'idea di opporre resistenza ai tedeschi
cominci a circolare con sempre maggior frequenza. Erano soprattutto gli
ebrei giovani a mostrarsi decisi a lottare. All'interno del ghetto
vennero preparati in gran segreto dei luoghi fortificati che avrebbero
consentito di difendersi dall'interno qualora fosse accaduto il peggio.
Evidentemente i tedeschi ne avevano avuto sentore perch sui muri del
ghetto comparvero proclami nei quali si assicurava in tutti i modi che
non esisteva alcun piano per procedere a ulteriori trasferimenti. Gli
uomini adibiti alla sorveglianza del nostro gruppo ci ammannivano
spontaneamente ogni giorno le stesse rassicurazioni e, per renderle
ancor pi convincenti, da quel giorno ci permisero di acquistare cinque
chili di patate e una pagnotta a testa nella parte ariana della citt e
di portarli nel ghetto. La benevolenza tedesca arriv al punto di
consentire a un rappresentante del nostro gruppo di girare liberamente
tutti i giorni per la citt e di procedere agli acquisti per conto
nostro. Scegliemmo un ragazzo giovane e coraggioso al quale decidemmo
di
dare il soprannome di Majorek, piccolo maggiore. I tedeschi ignoravano
del tutto che. seguendo le nostre istruzioni, Majorek sarebbe diventato
l'anello di collegamento tra il movimento di resistenza clandestina del
ghetto e analoghe organizzazioni polacche all'esterno.
L'autorizzazione ufficiale da parte dei tedeschi di far entrare un certo
quantitativo di cibo diede l'avvio a un commercio segreto molto attivo
nel nostro gruppo. Ogni giorno quando uscivamo dal ghetto c'era una
folla di borsaneristi ad attenderci. Barattavano ciuchy (abiti usati)
con i miei compagni in cambio di cibo. Io non ero tanto interessato a
questo commercio quanto ad avere notizie dai borsaneristi. Gli alleati
erano sbarcati in Africa. Stalingrado era ormai al terzo mese di
resistenza e c'era stata una cospirazione a Varsavia. Bombe a mano erano
state lanciate nel Circolo tedesco. Queste erano notizie che
risollevavano il nostro morale, rafforzando la nostra capacit di
resistenza e la nostra convinzione che la Germania sarebbe stata presto
sconfitta. Ben presto nel ghetto iniziarono le prime rappresaglie
armate.
Anzitutto contro i corrotti. Uno tra i pi crudeli elementi della
polizia ebraica fu ucciso: Lejkin, noto per la sua operosit nel
catturare la gente e consegnare la propria quota di vittime
all'Umschlagplatz- Subito dopo venne eliminato un altro individuo, un
certo First, che fungeva da intermediario tra la Gestapo e il Consiglio
ebraico. Mor per mano di ebrei. Per la prima volta le spie all'interno
del ghetto cominciarono ad avere paura.
A poco a poco recuperai forza d'animo e volont di sopravvivere. Un
giorno andai da Majorek e lo pregai di telefonare quando fosse andato in
citt a dei miei conoscenti per chiedere loro se fossero disposti a
farmi uscire in qualche modo dal ghetto e a tenermi nascosto. Quel
pomeriggio attesi con il cuore in gola il ritorno di Majorek. Lui arriv
recando per brutte notizie: i miei conoscenti gli avevano detto che non
se la sentivano di rischiare a nascondere un ebreo e si erano
addirittura indignati perch avevo anche solo osato proporre una cosa
simile, che era passibile di pena di morte! Capii che sarebbe stato
inutile insistere. Loro avevano rifiutato: forse altri si sarebbero
mostrati pi umani. Non dovevo assolutamente perdere le speranze.
Il nuovo anno era imminente. Il 31 dicembre 1942 giunse, del tutto
inaspettato, un imponente convoglio che trasportava carbone. Dovevamo
scaricarlo tutto in quello stesso giorno e sistemarlo nella cantina
dello stabile di via Narbutt. Era un lavoro duro e stremante e
impiegammo pi tempo del previsto. Invece di metterci in movimento per
raggiungere il ghetto alle sei di sera, ce ne andammo solo quando fu
quasi buio.
Facevamo sempre lo stesso percorso, camminando a gruppi di tre, da via
Polna a via Chalubiriski, proseguendo poi per via Zelazna fino al
ghetto. Avevamo gi raggiunto via Chalubiriski quando, in testa
alla colonna, si udirono delle urla tremende.
Ci fermammo. Un momento dopo ci rendemmo conto di quello che
era accaduto. Per puro caso ci eravamo imbattuti in due uomini delle SS,
sbronzi fradici. Uno di loro era Cric-Crac. Si avventarono contro di
noi, colpendoci con le fruste dalle quali non si separavano nemmeno
quando facevano baldoria e si ubriacavano. Colpirono sistematicamente
ogni gruppo di tre persone a turno, a cominciare dai primi. Quando
ebbero finito, si disposero a pochi passi di distanza l'uno dall'altro
sul marciapiede, estrassero le pistole e CricCrac url: Intellettuali,
rompete le righe!
Non c'era da illudersi riguardo alle loro intenzioni, ci avrebbero
ucciso subito. Mi riusc difficile decidere il da farsi. Se non avessimo
rotto le righe li avremmo solo fatti infuriare ulteriormente. Avrebbero
finito col trascinarci fuori della colonna per darci altre frustate
prima di ucciderci come punizione per non avere ubbidito. Il dottor
Zajczyk, storico e lettore all'universit, che mi stava a fianco,
tremava come una foglia, proprio come me e proprio come me non
riusciva
a decidere il da farsi. Ma al secondo ordine urlato uscimmo dalla
colonna. Eravamo complessivamente in sette. Mi ritrovai di nuovo, faccia
a faccia, con Cric-Crac che ora si era messo a inveire proprio contro di
me. Vi insegner io la disciplina! Perch ci avete messo tanto?
Agitava la pistola sotto il mio naso. Dovevate essere qui per le sei e
adesso sono le dieci!
Non dissi nulla, sicuro che comunque di l a un secondo mi avrebbe
sparato. Mi fiss con gli occhi annebbiati, barcoll sotto il lampione
stradale poi, del tutto inaspettatamente, annunci con voce ferma: Voi
sette siete personalmente responsabili di riportare la colonna nel
ghetto. Potete andare.
C'eravamo gi voltati quando, a un tratto, tuon: Tornate indietro!
Questa volta davanti a s aveva il dottor Zajczyk. Lo afferr per il
collo, lo scosse, e ringhi: Sapete perch vi pestiamo?
Il dottore non disse nulla.
Be', sapete perch? ripet.
Un uomo che stava un po' discosto, manifestamente allarmato, chiese con
voce tremula: Perch?
Per rammentarvi che l'anno nuovo.
Ci eravamo appena incolonnati quando udimmo un ulteriore ordine.
Cantate!
Fissammo Cric-Crac, attoniti. Lui barcoll di nuovo, rutt e aggiunse:
Cantate qualcosa di allegro.
Poi, ridendo della propria battuta, si gir e si allontan barcollando
per la via. Dopo qualche passo si blocc ed esclam in tono minaccioso:
Cantate bene e forte.
Non so chi sia stato il primo a intonare il canto o perch gli fosse
venuta alla mente quella particolare canzone militare. Ci unimmo a lui.
In fin dei conti quello che cantavamo non aveva alcuna importanza.
Solo oggi, ripensando a quell'incidente, mi rendo conto di quanto di
tragico vi fosse in quella pagliacciata. Quell'ultimo dell'anno un
gruppetto di ebrei esausti percorsero le vie di una citt in cui da anni
erano state vietate, pena la morte, manifestazioni di patriottismo
polacco, cantando a squarciagola e con la certezza di non subire
ritorsioni, la canzone patriottica Hey, strzelcy wraz! Ehi, tiratori
scelti, insorgete!



CAPITOLO 12.

Majorek.

1 gennaio 1943. L'anno in cui Roosevelt annunci che i tedeschi
sarebbero stati sconfitti. In effetti, sulle linee del fronte ora
risultava chiaro che le cose per loro andavano peggiorando. Se solo
quelle linee fossero state pi vicine a noi! Era giunta la notizia delle
sconfitta tedesca a Stalingrado, una notizia troppo importante perch
potesse venir messa a tacere o quanto meno minimizzata con la solita
dichiarazione stampa atta a sostenere che nemmeno questo era
significativo per l'andamento vittorioso della guerra. Stavolta i
tedeschi dovettero ammetterlo e proclamarono tre giorni di lutto. Fu il
primo momento di relativa tranquillit di cui godevamo da mesi. I pi
ottimisti tra noi si sfregavano le mani allegramente, del tutto persuasi
che la guerra sarebbe finita di l a poco. I pessimisti invece la
pensavano in modo diverso: ritenevano che la guerra sarebbe durata
ancora per un po'. Quanto meno, per, non potevano esserci pi dubbi
riguardo al risultato finale.
Di pari passo con le notizie politiche sempre pi positive, le
organizzazioni clandestine del ghetto intensificarono le loro attivit.
Anche il mio gruppo ne fu coinvolto. Majorek faceva quotidianamente la
spola dalla citt per consegnare al nostro gruppo sacchi di patate e
munizioni nascoste sul fondo. Ce le distribuivamo e le portavamo nel
ghetto occultandole nei pantaloni. In realt era rischioso e un giorno
per poco non fin tragicamente per tutti noi.
Come al solito Majorek aveva consegnato i sacchi al magazzeno in cui io
lavoravo. Avrei dovuto svuotarli, nascondere le munizioni e la sera
distribuirle tra i miei compagni. Ma Majorek aveva appena posato i
sacchi e lasciato il magazzeno, quando la porta venne spalancata e
l'Unterstururmfhrer Young irruppe all'interno. Si guard attorno, not
i sacchi e vi si avvicin a grandi passi. Mi sentii cedere le ginocchia.
Se avesse ispezionato il loro contenuto, per noi sarebbe finita e

10 sarei stato il primo a prendermi una pallottola in testa. Young si
ferm davanti ai sacchi e cerc di slegarne uno. Ma la corda si era
impigliata ed era difficile disfare il nodo. La SS bestemmi,
spazientita, e mi guard.

Slegalo tu! sbott.

Mi avvicinai cercando di restare calmo, disfeci il nodo con voluta
lentezza, all'apparenza assolutamente tranquillo.

11 tedesco osservava, le mani sui fianchi.

Cosa c' dentro? chiese.
Patate. Ci stato concesso di portarne un po' nel ghetto tutti i
giorni.
Ora il sacco era aperto. Lui mi diede l'ordine successivo. Tirale fuori
e fammi vedere.
Infilai la mano nel sacco. Non c'erano patate. Per fortuna Majorek,
invece di patate aveva portato un piccolo quantitativo di avena e di
fagiolini, che aveva sistemato sopra le patate. Mostrai una manciata di
fagiolini gialli piuttosto lunghi.
Patate, eh? Young sbott in una risata sarcastica, poi ordin Prova
pi sotto!
Questa volta estrassi una manciata di avena. Da un momento all'altro il
tedesco mi avrebbe picchiato perch lo avevo ingannato. Di fatto speravo
che lo facesse. Forse cos non avrebbe pi pensato al resto del
contenuto del sacco. Invece non mi diede nemmeno un ceffone. Gir sui
tacchi e se ne and.
Di l a poco irruppe di nuovo nel locale, come a volermi
sorprendere nell'atto di commettere qualche nuovo reato. Io ero
immobile al centro del magazzeno e cercavo di riprendermi dallo
spavento. Dovevo calmarmi. Solo quando udii i passi di Young che si
allontanavano lungo il corridoio mi affrettai a svuotare i sacchi e a
nascondere le munizioni sotto un mucchio di calce che era stata
rovesciata in un angolo del magazzeno. Quella sera, quando ci
avvicinammo al ghetto, lanciammo come al solito al di l del muro i
nostri nuovi carichi di munizioni e di granate a mano. L'avevamo
scampata bella!
Il 14 gennaio, un venerd, furiosi per le sconfitte al fronte e per la
gioia che manifestamente ci suscitava nei polacchi, i tedeschi
ricominciarono la caccia all'uomo, questa volta in tutta Varsavia.
Andarono avanti cos ininterrottamente per tre giorni. Ogni giorno,
quando andavamo al lavoro e quando tornavamo, vedevamo persone
braccate
e catturate per la strada. Convogli di furgoni della polizia carichi di
prigionieri si allontanavano verso il carcere e ritornavano vuoti,
pronti a caricare altre infornate di nuovi reclusi da trasferire nei
campi di concentramento. Un certo numero di ariani venne a rifugiarsi
nel ghetto. In quei giorni difficili ci trovammo davanti a un altro
paradosso del periodo dell'occupazione: la fascia al braccio con la
stella di Davide, una volta uno dei simboli pi minacciosi, dalla sera
al mattino divenne una protezione, una forma di assicurazione poich gli
ebrei non costituivano pi la preda.
Dopo due giorni, per, venne il nostro turno. Quando luned mattina
uscimmo dall'edificio, in strada non trovai il nostro gruppo al
completo, ma solo alcuni operai chiaramente considerati indispensabili.
Io ero tra questi, in quanto responsabile del magazzeno. Ci mettemmo
in movimento,

scortati da due poliziotti e ci avviammo verso il cancello del ghetto.
Di solito era sorvegliato solo da funzionari della polizia ebraica, ma
quel giorno un'intera unit di polizia tedesca controllava con
attenzione i documenti di chiunque lasciava il ghetto per andare a
lavorare. Un ragazzo di una decina d'anni arriv di corsa lungo il
marciapiedi. Era pallidissimo e tanto spaventato da dimenticare di
togliersi il berretto davanti a un poliziotto tedesco che gli si stava
avvicinando. Il tedesco si ferm. Senza parlare estrasse una pistola, la
appoggi alla tempia del ragazzo e fece fuoco. Questi cadde a terra,
agitando le braccia, si irrigid e mor. Lentamente, il poliziotto
ripose l'arma nella fondina e prosegu. Lo guardai:
non aveva lineamenti particolarmente crudeli e nemmeno appariva adirato.
Era un uomo normale, tranquillo, che aveva eseguito uno dei suoi tanti
irrilevanti doveri quotidiani, per passare subito dopo ad altre pi
importanti faccende.
Il nostro gruppo era gi sul lato ariano quando udimmo alle nostre
spalle dei colpi d'arma da fuoco. Provenivano dagli altri gruppi di
lavoratori ebrei che trovatisi circondati nel ghetto rispondevano alla
ferocia tedesca sparando per la prima volta.
Proseguimmo per la nostra strada molto abbattuti, ci chiedevamo tutti
che cosa ora sarebbe accaduto nel ghetto. Non ci potevano essere dubbi
sul fatto che fosse iniziata una nuova fase della sua liquidazione. Il
piccolo Przariski che mi camminava al fianco era preoccupato per i suoi
genitori, rimasti nella nostra stanza. Si chiedeva se sarebbero riusciti
a nascondersi da qualche parte e a sfuggire alla deportazione. Per
quanto mi riguardava le mie preoccupazioni erano di altra natura, molto
particolare. Avevo lasciato sul tavolo della nostra stanza la mia
stilografica e il mio orologio, tutto quello che possedevo al mondo. Se
fossi riuscito a sopravvivere avevo progettato di trasformarli in
denaro contante per potere continuare a vivere ancora per qualche
giorno, il tempo sufficiente a trovare un nascondiglio con l'aiuto
dei miei amici.
Quella sera non rientrammo nel ghetto. Fummo provvisoriamente
alloggiati
in via Narbutt. Solo pi tardi venimmo a sapere quello che era successo
dietro le mura del ghetto dove la gente si era difesa come meglio aveva
potuto, prima di essere portata a morire. Si era nascosta in luoghi gi
predisposti. Le donne rovesciavano acqua sui gradini delle scale
affinch gelasse e rendesse pi difficoltoso ai tedeschi raggiungere i
piani superiori. In alcuni edifici erano state erette solo delle
barricate e gli abitanti avevano avuto scontri a fuoco con le SS. Erano
ormai decisi a morire combattendo, le armi in pugno, piuttosto che a
perire nelle camere a gas. I tedeschi avevano fatto evacuare i pazienti
dell'ospedale ebraico e li avevano caricati sui pianali di camion
scoperti, spedendoli tutti senza vestiti addosso, all'addiaccio verso
Treblinka. Grazie per a questa prima dimostrazione di resistenza
ebraica i tedeschi riuscirono a portare via solo circa cinquemila
persone nel corso di cinque giorni, invece delle diecimila che avevano
programmato.
La quinta sera Cric-Crac ci inform che l'azione scattata per ripulire
il ghetto da elementi inabili al lavoro si era ormai conclusa. Noi
potevamo farvi ritorno. Il cuore prese a batterci violentemente in petto
nel percorrere le strade del ghetto. Lo spettacolo era sconvolgente. I
marciapiedi erano coperti dai vetri infranti delle finestre. Le piume
dei cuscini squarciati ostruivano i canali di scolo: erano dappertutto e
a ogni folata di vento turbinavano in aria formando grandi nuvole.
Pareva una fitta nevicata alla rovescia, che salisse dalla terra al
cielo. Di continuo vedevamo cadaveri di gente assassinata. Il silenzio
attorno a noi era tale che i nostri passi riecheggiavano dai muri
degli edifici come se stessimo attraversando una gola rocciosa
tra le montagne. Anche se nella nostra stanza non era rimasto
pi nessuno, non era per stata razziata. Tutto era come lo
avevano lasciato; ma i genitori di Przariski, erano stati caricati sui
camion. I tavolacci erano ancora in disordine dalla notte precedente.
Sulla stufa spenta c'era un bricco di caff che non avevano finito di
bere. La mia stilografica e il mio orologio stavano sul tavolo dove li
avevo lasciati.
Dovevo agire con decisione e tempestivamente. Probabilmente al pi
presto sarebbe scattata un'altra operazione di trasferimento e forse
anch'io questa volta ero sulla lista di quanti sarebbero stati portati
via. Mi misi in contatto con degli amici, una giovane coppia di artisti,
attraverso Majorek. Andrzej Bogucki faceva l'attore, sua moglie, invece,
era una cantante e si esibiva con il nome da nubile, Janina Godlewska.
Un giorno Majorek mi disse che sarebbero venuti verso le sei del
pomeriggio. Nel momento in cui gli operai ariani tornavano alle loro
case, ne approfittai per sgattaiolare fuori dal cancello. Erano l
entrambi. Scambiammo solo poche parole. Porsi loro le mie composizioni,
la penna e l'orologio e tutto quello che volevo prendere con me. Avevo
gi portato queste cose fuori dal ghetto e le avevo nascoste in un
magazzeno. Ci accordammo in modo che Bogucki venisse a prendermi
alle
cinque del sabato pomeriggio nell'ora in cui un generale delle SS
sarebbe arrivato a compiere un'ispezione dell'edificio. Speravo che lo
scompiglio che questo avrebbe creato mi avrebbe facilitato la fuga.
Nel ghetto si respirava ormai un'aria di tensione, di nervosismo. Si
percepiva l'incombere di una tragedia. Il colonnello Szeryriski,
comandante della polizia ebraica, si tolse la vita. Doveva davvero aver
ricevuto notizie terribili se persino lui, che pi di chiunque
altro era vicino ai tedeschi, l'uomo di cui loro avevano
maggiormente bisogno e che sicuramente avrebbero deportato
per ultimo, non aveva visto altra soluzione per s se non quella di
darsi la morte. Quando ci recavamo ogni giorno al lavoro altri ebrei si
mescolavano a noi nel tentativo di riparare nella parte ariana del muro.
Non sempre vi riuscivano. L c'erano spie in attesa dei fuggiaschi,
agenti prezzolati e volontari disponibili che aspettavano al varco,
disposti in qualche strada secondaria, l'ebreo di turno di cui
osservavano le mosse per costringerlo a consegnare a loro denaro e
gioielli che si portavano addosso, minacciando di denunciarlo ai
tedeschi se non l'avesse fatto.
Il pi delle volte, poi, consegnavano comunque ai tedeschi le persone
che avevano derubato.
Quel sabato, sin dal mattino, avevo i nervi a fior di pelle. La cosa
avrebbe funzionato? Qualsiasi passo falso significava la morte
immediata. Nel pomeriggio il generale arriv puntualmente per compiere
l'ispezione.
Per il momento le SS, molto impegnate per quella visita, non si
occuparono di noi. Verso le cinque gli operai ariani smisero di
lavorare. Mi infilai il cappotto, per la prima volta da tre anni a
quella parte mi tolsi dal braccio la fascia con la stella azzurra e
sgattaiolai con loro fuori del cancello.
Bogucki era in attesa all'angolo di via Visniowa, il che stava a
significare che tutto fino a quel momento procedeva secondo il piano
stabilito. Non appena mi vide prese ad allontanarsi in fretta. Lo seguii
a qualche passo di distanza con il bavero del cappotto rialzato,
cercando di non perderlo di vista nell'oscurit. Le strade erano deserte
e solo fiocamente illuminate in ottemperanza ai regolamenti in vigore
dall'inizio della guerra. Dovevo solo fare attenzione a non trovarmi
davanti a un tedesco sotto la luce di un lampione dove costui
avrebbe potuto facilmente vedere la mia faccia. Prendemmo la strada pi
breve, camminando molto di fretta, ciononostante il tragitto sembrava
non finire mai. Finalmente arrivammo al termine del nostro viaggio, al
numero 10 di via Noakowski, dove mi sarei dovuto nascondere nello
studio
di un artista al quinto piano. Il locale era a disposizione di Piotr
Perkowski, all'epoca uno dei musicisti che cospiravano contro i
tedeschi. Salimmo in fretta le scale facendo tre gradini alla volta.
Janina Godlewska ci aspettava nello studio. Appariva nervosa e
preoccupata. Nel vederci trasse un sospiro di sollievo.
Oh, eccovi, finalmente! Intrecci le mani sopra la testa, poi rivolta
a me soggiunse: Solo dopo che Andrzej uscito per venirti a prendere
mi sono resa conto che oggi il tredici febbraio e il tredici porta
sfortuna!


CAPITOLO 13.

Guai e litigi alla porta accanto.

Lo studio dell'artista dove ora mi trovavo, e dove sarei dovuto rimanere
per qualche tempo, era molto spazioso: una stanza ampia con il soffitto
a lucernario. Nascoste da porte c'erano nicchie prive di finestre su
ambedue i lati. I Bogucki mi avevano procurato una branda che, in
confronto ai tavolacci sui quali per tanto tempo avevo dormito, mi
sembrava incredibilmente confortevole. Mi sentivo al settimo cielo per
il solo fatto di non vedere tedeschi. Ora non dovevo pi sentire le loro
urla, temere di essere picchiato o ucciso in qualunque momento da una
SS. In quei giorni cercai di non pensare a quello che mi aspettava prima
che finisse la guerra, sempre che fossi riuscito a sopravvivere fino ad
allora. Un giorno la signora Bogucka mi port una notizia che mi
rallegr. Le truppe sovietiche avevano riconquistato Kharkow. Tuttavia,
che ne sarebbe stato di me? Mi rendevo conto che non sarei potuto
restare l per molto.
Nei giorni successivi Perkowski avrebbe dovuto trovare un inquilino se
non altro perch i tedeschi avevano preannunciato un censimento che
avrebbe comportato una perquisizione della polizia in tutte le case, per
verificare che tutti gli occupanti fossero stati registrati regolarmente
e avessero diritto di risiedervi. Aspiranti inquilini si presentavano
quasi ogni giorno per vedere il locale e, quando venivano, io dovevo
nascondermi in una delle due nicchie e chiudere la porta dall'interno.
Dopo due settimane Bogucki si accord con Edmund Rudnicki, l'ex
direttore del settore musicale della Radio polacca, che prima della
guerra era stato il mio capo. Questi si present una sera in compagnia
di un ingegnere, un tale Gebezyriski. Io mi sarei dovuto trasferire in
casa sua e di sua moglie al pianoterra dello stesso caseggiato. Quella
sera per la prima volta dopo sette mesi, misi di nuovo le dita sulla
tastiera di un pianoforte. Sette mesi durante i quali avevo perso tutti
i miei cari, ero sopravvissuto alla liquidazione del ghetto, avevo
aiutato a demolirne le mura, trasportato calce e pile di mattoni. Per un
po' opposi resistenza alle insistenze della signora Gebezyriska, ma alla
fine mi arresi. Le mie dita irrigidite si muovevano con riluttanza sui
tasti ricavandone un suono strano e irritante. La stessa sera appresi
un'altra notizia allarmante. Gebezyriski aveva ricevuto una telefonata
da un amico in genere ben informato, il quale gli aveva detto che il
giorno seguente avrebbe avuto luogo una caccia all'uomo in tutta la
citt. Eravamo tutti terribilmente inquieti. Tuttavia, la notizia
risult essere un falso allarme. Di quei tempi capitava spesso. Il
giorno seguente si fece vivo un ex collega della radio, il direttore
d'orchestra Czeslaw Lewicki che in seguito sarebbe diventato un mio
amico intimo. Aveva a sua disposizione un appartamento da scapolo al
numero 83 di via Pulawska, ma non vi abitava ed era disposto a lasciare
che lo occupassi io.
Erano le sette di sera di sabato 27 febbraio quando lasciammo
l'appartamento dei Gebezyriski. Grazie al cielo l'oscurit era totale.
Prendemmo un risci in Plac Unii, raggiungemmo abbastanza
agevolmente
via Pulawska e salimmo al quarto piano, sperando di non incontrare
nessuno per le scale.
L'appartamento risult confortevole e arredato con una certa eleganza.
Per andare al bagno si attraversava un ingresso dove su un lato c'era
un grande armadio a muro e sull'altro un fornello a gas.
La stanza, invece, era ammobiliata con un comodo divano,
un armadio, una piccola libreria, un tavolino e delle poltrone
confortevoli. Sulla piccola libreria c'erano fogli di musica, spartiti e
testi universitari. Avevo l'impressione di essere in paradiso. Quella
prima notte non dormii molto: volevo assaporare il piacere di star
disteso su un letto vero e ben molleggiato.
Il giorno dopo Lewicki venne con un'amica, la moglie di un medico, la
signora Malczewska, a portare la mia roba. Parlammo del modo in cui
sarebbero riusciti a procurarmi cibo e di quello che avrei dovuto fare
il giorno seguente quando avrebbe avuto luogo il censimento: cio
trascorrere tutta la giornata in bagno, con la porta chiusa dall'interno
esattamente come avevo chiuso a chiave le porte delle nicchie nello
studio. Arrivammo alla conclusione che, anche se i tedeschi avessero
fatto irruzione nell'appartamento nel corso del censimento, non
avrebbero notato la porticina dietro la quale io stavo nascosto. Tutt'al
pi l'avrebbero scambiata per il pannello di un armadio a muro.
Mi attenni scrupolosamente a questo piano strategico. Al mattino mi
chiusi in bagno con tanti libri e vi restai in paziente attesa fino a
sera. Rimanere l per tante ore non era oltremodo agevole e a quel punto
l'unica cosa che sognavo di fare era di poter distendere le gambe. Tutte
quelle manovre risultarono per inutili perch non arriv nessuno,
all'infuori di Lewicki che comparve verso sera, curioso e al contempo
preoccupato di appurare come stessi. Mi port vodka, salame, pane, burro
e facemmo una cena da re. Il censimento mirava a permettere ai tedeschi
di stanare definitivamente tutti gli ebrei che si nascondevano a
Varsavia. Non mi avevano trovato e io ora provavo un rinnovato
senso di fiducia. Con Lewicki che abitava poco distante restammo
d'accordo che sarebbe venuto a trovarmi solo due volte la
settimana per portarmi da mangiare. Nell'intervallo di tempo
che passava da una sua visita attesa con impazienza all'altra
dovevo tenermi occupato e imparai a cucinare dei piatti deliziosi,
seguendo i consigli culinari della moglie del dottore. Costretto a non
fare il minimo rumore, mi muovevo al rallentatore nella stanza,
camminando in punta di piedi nella malaugurata eventualit che andassi a
sbattere contro qualcosa con una mano o con un piede. Le pareti erano
sottili e qualsiasi movimento incauto avrebbe potuto rivelare la mia
presenza ai vicini. Riuscivo a sentire fin troppo chiaramente quello che
facevano, in particolar modo le persone che abitavano nell'appartamento
a sinistra. A giudicare dalle loro voci, si trattava di una giovane
coppia di sposi che di solito iniziava la conversazione tutte le sere
chiamandosi con vezzeggiativi come Gattin e Cagnolino. Ma di l a
un quarto d'ora la pace domestica veniva turbata, il tono delle voci si
alzava e gli epiteti che uscivano dalle loro labbra, ora attinti a tutte
le specie degli animali domestici, si concludevano con Maiale. A quel
punto avveniva presumibilmente una riconciliazione; le voci si
azzittivano per un po' e si poteva sentire una terza voce: le note di un
pianoforte che la donna suonava con trasporto, anche se spesso steccava.
Tuttavia nemmeno quel suo strimpellare era di lunga durata. La musica
cessava e una voce femminile e irritata riprendeva a litigare. Oh,
bene, allora. Non suoner pi! Quando mi metto a suonare, te ne vai!
Dopodich ricominciavano a volare epiteti che si riferivano al regno
animale. Mentre ascoltavo pensavo spesso con tristezza a quanto avrei
dato e a quanto sarei stato felice di poter anche solo posare le mani su
quel vecchio pianoforte scordato dal suono metallico, fonte di
tanti guai e di tante liti per i miei vicini.
I giorni passavano. La signora Malczewska o alternativamente Lewicki
venivano a trovarmi regolarmente due volte la settimana. Mi portavano
cibo e notizie degli ultimi sviluppi politici, che non erano affatto
incoraggianti. Le truppe sovietiche si erano di nuovo ritirate da
Kharkow e gli alleati si stavano ritirando dall'Africa. Condannato
all'inattivit, costretto a passare la maggior parte dei giorni da solo,
immerso nei miei cupi pensieri, continuavo a rimuginare sulla terribile
sorte toccata alla mia famiglia, mi rendevo conto che i miei dubbi e la
mia depressione non facevano che aumentare. Quando guardavo fuori
della
finestra, vedevo il traffico stradale sempre eguale e i tedeschi che
giravano tranquilli come al solito per la via, avevo l'impressione che
quello stato di cose sarebbe continuato in eterno. E, in tal caso, che
ne sarebbe stato di me? Dopo anni di inutili sofferenze un giorno sarei
stato scoperto e ucciso. Il massimo che potevo sperare era di riuscire a
togliermi la vita per non cadere vivo in mano tedesca.
Il mio umore cominci a migliorare solo quando ebbe inizio la grande
offensiva degli alleati in Africa, coronata da continui successi. In un
caldo giorno di maggio, mentre mi stavo preparando un piatto di minestra
per il pranzo, comparve Lewicki. Ansimante per aver fatto di corsa
quattro piani di scale, rimase in silenzio per alcuni minuti per
riprendere fiato, quindi con voce strozzata mi diede la notizia tanto
attesa: la resistenza tedesco-italiana in Africa era finalmente
crollata.
Se solo tutto questo fosse iniziato prima! Se gli eserciti alleati
avessero riportato la vittoria in Europa, piuttosto che in Africa, forse
a questo punto, sarei riuscito a ritrovare dentro di me un po'
di entusiasmo. Forse la rivolta tramata e organizzata da quei
pochi ebrei rimasti nel ghetto di Varsavia avrebbe avuto quanto meno una
piccola possibilit di riuscita.
Insieme con le notizie sempre pi positive che Lewicki mi portava a lui
erano pervenute anche voci sempre pi terrificanti riguardanti le azioni
eroiche compiute dai miei confratelli, da quel pugno di ebrei che aveva
deciso di opporre per lo meno una qualche resistenza attiva ai tedeschi
in quell'ultimo stadio disperato. Dai giornali clandestini che ricevevo
appresi della loro insurrezione, dei combattimenti ingaggiati edificio
per edificio a ogni tratto di strada e delle gravi perdite subite dai
tedeschi. Bench l'artiglieria, i carri armati e l'aviazione fossero
stati mobilitati durante gli scontri che avvenivano nel ghetto,
passarono settimane prima che i tedeschi riuscissero a eliminare i
ribelli che erano tanto pi deboli di loro. Nessun ebreo era pi
disposto a lasciarsi catturare vivo. Una volta, dopo che i tedeschi
avevano preso possesso di un edificio, le donne che ancora si trovavano
all'interno erano salite con i bambini all'ultimo piano e da l si erano
gettate insieme ai figli nella strada sottostante. La sera quando
sopraggiungeva l'ora di andare a dormire se mi sporgevo dalla finestra,
vedevo, a nord di Varsavia, la notte rischiarata a giorno dagli incendi
e spesse volute di fumo che salivano nel cielo limpido e stellato.
Un giorno, all'inizio di giugno, Lewicki si present inaspettatamente,
non alla solita ora, bens a mezzogiorno. Questa volta non portava buone
notizie. Aveva la barba lunga, cerchi scuri sotto gli occhi, come se
avesse passato una notte insonne e appariva manifestamente angosciato.
Vestiti, mi bisbigli.
Che cosa successo?
Ieri sera la Gestapo ha sigillato la mia stanza presso i signori
Malczewski. Potrebbero arrivare qui da un momento all'altro.
Dobbiamo andarcene immediatamente.
Andarcene? In piena luce del giorno, a mezzogiorno? Equivaleva a un
suicidio. Quanto meno per quanto mi riguardava. Lewicki si stava
spazientendo.
Andiamo, andiamo! mi sollecit, mentre io me ne stavo l immobile,
invece di fare quello che lui si aspettava e di preparare una sacca.
Decise che bisognava darmi coraggio e tirarmi su di morale. Non
preoccuparti, prese a dire, innervosito. E' stato predisposto tutto.
Poco lontano di qui c' qualcuno che ti aspetta per portarti in un luogo
sicuro.
Io per continuavo a non muovermi. Pensavo: sar quel che sar! Lewicki
sarebbe riuscito in ogni caso a fuggire e la Gestapo non l'avrebbe
trovato. Se si fosse arrivati al peggio preferivo porre fine alla mia
vita piuttosto di rischiare andando di nuovo in giro per la citt. Non
avevo assolutamente pi la forza per farlo. Spiegai tutto questo in
qualche modo al mio amico, quindi ci abbracciammo nella certezza che
non
si saremmo mai pi rivisti. Poi Lewicki se ne and.
Cominciai a camminare avanti e indietro per quella stanza che a me era
parsa uno dei luoghi pi sicuri sulla terra e che ora era diventata una
gabbia. Ero intrappolato l come un animale, era solo questione di
tempo, ma prima o poi i miei carnefici sarebbero venuti a cercarmi e a
uccidermi. Sarebbero stati entusiasti all'idea della preda che erano
riusciti a catturare. Io non avevo mai fumato in vita mia ma quel
giorno, mentre aspettavo la morte, consumai l'intera stecca di cento
sigarette che Lewicki mi aveva lasciato.
La morte, per, rinviava di ora in ora il proprio arrivo. Sapevo che in
genere la Gestapo giungeva la sera o al mattino presto. Non mi spogliai,
non accesi la luce, ma rimasi a guardare il parapetto del balcone
attraverso i vetri, in attesa di sentire se dalle scale o dalla strada
pervenisse anche il minimo rumore. Le parole pronunciate da
Lewicki, prima di congedarsi mi continuavano a echeggiare nelle
orecchie. Con la mano posata sulla maniglia della porta si era
girato ancora una volta, mi si era avvicinato, mi aveva abbracciato
e aveva detto: Se arrivano e irrompono nell'appartamento gettati
dal balcone, non farti prendere vivo! Poi aveva aggiunto, per
rendermi pi accettabile l'idea del suicidio: Io mi porto sempre
addosso del veleno. Non prenderanno vivo nemmeno me.
Ormai era tardi. Nelle strade non c'era pi traffico e dietro le
finestre del caseggiato di fronte le luci si erano spente. E ancora i
tedeschi non arrivavano. Avevo i nervi tesi fino allo spasimo. Mi
ritrovai ad augurarmi che, se dovevano venire, lo facessero al pi
presto. Non volevo pi sopportare le torture di quell'attesa. Durante la
notte cambiai idea riguardo al modo in cui mi sarei tolto la vita.
All'improvviso avevo pensato che, invece di buttarmi dal balcone, avrei
potuto impiccarmi e, pur non sapendo spiegare perch, questo tipo di
morte mi sembrava pi accettabile, un modo silenzioso per andarmene.
Continuando a restare al buio presi a cercare nella stanza qualcosa che
potesse fungere da corda finch ne trovai un pezzo abbastanza lungo e
robusto dietro i libri sugli scaffali.
Tolsi il quadro appeso sopra la libreria, controllai che il gancio fosse
ben fissato nella parete, approntai il nodo e mi misi di nuovo in
attesa. Ma la Gestapo non arriv.
Non arriv nemmeno il mattino dopo e nei giorni successivi. Alle undici
del venerd mattina, per, mentre me ne stavo disteso sul divano dopo
una notte quasi insonne, udii degli spari in strada. Mi precipitai alla
finestra. Un cordone di poliziotti era disposto lungo tutta la via,
inclusi i marciapiedi e sparava all'impazzata sulla gente in fuga. Di l
a un po' sopraggiunsero alcuni camion delle SS, un gran tratto
di strada fu circondato, proprio quello in cui si trovava il mio
caseggiato. Gruppi di ufficiali della Gestapo entrarono in tutti
gli edifici su quel lato, trascinando fuori gli uomini che si
trovavano all'interno, poi entrarono anche nel mio.
Era indubbio che ora avrebbero trovato il mio nascondiglio. Spinsi una
sedia vicino allo scaffale per poter arrivare pi facilmente al gancio
che reggeva il quadro, preparai il cappio e mi avvicinai alla porta,
mettendomi in ascolto. Sentivo i tedeschi urlare per le scale. Ma erano
un paio di piani sotto di me. Mezz'ora dopo cal di nuovo il silenzio.
Guardai fuori della finestra. Il blocco era stato rimosso, i camion
delle SS se ne erano andati.
Non erano venuti.


CAPITOLO 14.


Il tradimento di Szala.


Dalla fuga di Lewicki era trascorsa una settimana e ancora la Gestapo
non era arrivata; a poco a poco i miei nervi si distesero. Incombeva
per un'altra minaccia: le mie scorte di cibo andavano esaurendosi. Mi
erano rimasti solo un po' di fagioli e della farina d'avena. Ridussi i
pasti a due al giorno e, quando mi cucinavo la minestra, usavo solo
dieci fagioli e un cucchiaio di avena, ma anche con quel razionamento le
provviste sarebbero finite di l a breve. Un mattino un'altra macchina
della Gestapo si ferm davanti alla casa in cui stavo nascosto. Due SS
scesero con un foglio in mano ed entrarono nel portone. Convinto che
stessero cercando me, mi preparai a morire. Ma ancora una volta non ero
io la loro preda.
A questo punto non avevo pi nulla da mangiare. Mi restava solo una
riserva d'acqua per due giorni. Le alternative erano due: o morire di
fame o correre il rischio di uscire a comperare una forma di pane dal
fornaio pi vicino. Optai per la seconda. Mi rasai con cura, mi vestii e
uscii di casa alle otto del mattino, cercando di camminare in modo
disinvolto. Nessuno parve notarmi, nonostante i miei lineamenti
chiaramente non ariani. Comperai il pane e tornai a casa. Questo
avveniva il 18 luglio del 1943. Grazie a quell'unica pagnotta - non
avevo altro denaro, sopravvissi per dieci interi giorni, fino al 28
luglio.
Il 29 luglio, nelle prime ore del pomeriggio, udii bussare
leggermente. Non mi mossi. Di l a un po' una chiave fu girata con molta
cautela nella serratura, la porta si apr ed entr un giovane che non
conoscevo. Si affrett a chiudersi la porta alle spalle e bisbigli:
C' pericolo?
No.
Solo allora rivolse la propria attenzione a me, fissandomi dalla testa
ai piedi con un'espressione attonita negli occhi. Dunque sei vivo!
Scrollai le spalle. Ritenevo di esserlo a sufficienza per non dovere
rispondere. Lo sconosciuto sorrise e, con un po' di ritardo, si
present: era il fratello di Lewicki ed era venuto a dirmi che il giorno
seguente mi sarebbe stato portato del cibo. Di l a qualche giorno sarei
stato condotto altrove, perch la Gestapo stava ancora ricercando
Lewicki e avrebbe potuto tornare nel mio nascondiglio.
Infatti, il giorno successivo, l'ingegner Gebezyriski arriv in
compagnia di un'altra persona, che mi present come un radiotecnico di
nome Szala, un attivista del movimento clandestino, persona del tutto
degna di fiducia. Gebezyriski mi si butt tra le braccia; aveva fino a
quel momento dato per certo che io ormai dovessi essere morto di fame e
per deperimento organico. Mi spieg che tutti i nostri comuni amici
erano preoccupati per me, ma che non potevano azzardarsi ad avvicinarsi
al caseggiato in quanto era costantemente sorvegliato da agenti segreti.
Gli era stato detto che, non appena questi se ne fossero andati, lui si
sarebbe dovuto occupare delle mie spoglie mortali e accertarsi che
avessi una sepoltura decente.
Da quel momento Szala si sarebbe occupato di me in modo continuativo,
un
compito che gli era stato assegnato dalla nostra organizzazione
clandestina.
In realt lui si dimostr un protettore molto ambiguo:
compariva ogni dieci giorni con una esigua quantit di provviste
spiegando che non era riuscito a raggranellare il denaro sufficiente per
acquistarne di pi. Io gli diedi da vendere alcuni degli oggetti che
ancora mi restavano, ma quasi sempre saltava fuori che gli erano stati
rubati, e lui tornava a ripresentarsi con provviste appena sufficienti
per due o tre giorni, anche se a volte ero costretto a farle durare per
due settimane. E, quando ormai giacevo sul letto totalmente stremato
dalla fame, convinto di essere in punto di morte, Szala si ripresentava
con cibo che bastava a stento a mantenermi in vita e a darmi la forza
per continuare a soffrire. Con espressione raggiante e aria chiaramente
distratta era solito chiedere:
Allora sei ancora vivo, eh?
Io ero ancora vivo, sebbene lo stato di denutrizione abbinato allo
sconforto mi avessero provocato l'itterizia. Szala non prese la cosa
troppo seriamente e, per consolarmi, mi raccont la storia di suo nonno
che, piantato dalla sua donna, si era di colpo ammalato dello stesso
male.
Secondo Szala non era assolutamente una malattia grave. Per tirarmi su
di morale poi mi disse che gli alleati erano sbarcati in Sicilia, quindi
mi salut e se ne and. Fu l'ultima volta che ci vedemmo perch non
ricomparve nemmeno dopo dieci giorni, poi dodici e quindici.
Non mangiavo nulla e non avevo nemmeno la forza sufficiente per
trascinarmi fino al rubinetto dell'acqua. Se quelli della Gestapo
fossero arrivati non ce l'avrei fatta a impiccarmi. Per quasi l'intera
giornata ero in preda al torpore, quando mi svegliavo ero subito colto
da insostenibili crampi causati dalla fame. Le braccia, le gambe e la
faccia avevano gi cominciato a gonfiarsi quando insperatamente si
present la signora Malczewska. Sapevo che lei, suo marito e Lewicki
erano stati costretti a lasciare Varsavia e a nascondersi.
Lei aveva seriamente creduto che io stessi benissimo ed era
venuta l solo per fare due chiacchiere e a bere una tazza di t.
Appresi cos che Szala era andato in giro per tutta Varsavia a
raccogliere denaro. E, dato che nessuno glielo aveva lesinato visto che
c'era da salvare la vita di una persona, era riuscito a racimolare una
grossa cifra di denaro. Aveva assicurato i miei amici che veniva a
trovarmi quasi tutti i giorni e che non mi mancava nulla.
La moglie del dottore lasci di nuovo Varsavia qualche giorno pi tardi,
ma prima di andarsene, mi port una ricca provvista di cibo, promettendo
che mi avrebbe mandato persone pi affidabili. Purtroppo quella manna
non dur a lungo.
A mezzogiorno del dodici agosto, proprio mentre mi stavo preparando
come
al solito la minestra, udii qualcuno che cercava di introdursi
nell'appartamento. Quello non era il modo in cui gli amici bussavano
quando venivano a trovarmi. Era un martellamento sulla porta. Allora
erano i tedeschi! Di l a poco, mi resi conto che le voci che
accompagnavano quei colpi erano femminili. Una donna gridava: Aprite
subito questa porta o chiamiamo la polizia!
Il martellamento si faceva sempre pi insistente. Non potevano esserci
dubbi al riguardo. Le altre persone del caseggiato avevano scoperto che
ero nascosto l e avevano deciso di consegnarmi a evitare il rischio di
essere accusati di proteggere un ebreo.
Mi vestii in fretta e furia, buttai in una sacca le mie composizioni e
altre poche cose. I colpi si interruppero per un momento. Sicuramente
quelle donne arrabbiate e irritate per il mio silenzio avevano deciso di
mettere in atto la loro minaccia e con tutta probabilit in quello
stesso istante stavano raggiungendo il posto di polizia pi vicino.
Aprii silenziosamente la porta, scivolai fuori e raggiunsi la scala.
Subito mi ritrovai faccia faccia con una delle donne. Era chiaro che si
era appostata l fuori per assicurarsi che io non fuggissi. Mi sbarr la
strada.
Lei sta in quell'appartamento? Mi indic la porta. Non registrato.
Risposi che l'inquilino dell'appartamento in realt era un mio collega e
che, quando ero arrivato, lui era gi uscito. Era una spiegazione priva
di senso e naturalmente non convinse affatto quella donna aggressiva.
Mi faccia vedere il suo permesso, per favore! Subito il suo permesso,
ripet con voce ancora pi forte. Alcuni inquilini del caseggiato,
sporsero la testa fuori della porta dei loro appartamenti, allarmati da
quei rumori.
Scostai di forza la donna e mi precipitai gi per le scale. La udii
urlare alle mie spalle. Chiudete il portone! Non fatelo uscire!
Al pianoterra passai di corsa davanti alla custode. Per fortuna non era
riuscita a sentire quello che l'altra donna urlava dalle scale.
Raggiunsi l'androne e corsi fuori.
Ancora una volta ero sfuggito alla morte che, per, era sempre in
agguato. Era l'una del pomeriggio e me ne stavo in strada, la barba
incolta, i capelli che da molti mesi non avevo pi tagliato, con addosso
un vestito stazzonato e logoro. Anche se non avessi avuto tratti semiti,
fatalmente avrei attirato l'attenzione. Svoltai in una via laterale e
continuai a camminare con passo affrettato. Dove andare? Gli unici
conoscenti che avevo nei pressi erano i Boldok, che abitavano in via
Narbutt. Ma ero cos nervoso che non riuscivo a trovare la strada bench
conoscessi bene il quartiere. Vagai per quasi un'ora attraverso stradine
fino a quando, finalmente, arrivai a destinazione. Esitai a lungo prima
di decidermi a suonare il campanello nella speranza di trovare
riparo dietro quella porta:
sapevo fin troppo bene quanto la mia presenza sarebbe stata pericolosa
per i miei amici. Se mi avessero trovato l anche loro sarebbero stati
uccisi. Tuttavia non avevo alternative. Non appena ebbero aperto mi
affrettai ad assicurarli che non mi sarei trattenuto a lungo: volevo
solo fare qualche telefonata per vedere se sarei riuscito a trovare un
nuovo e duraturo nascondiglio. Ma le mie telefonate non ebbero successo.
Alcuni miei amici risposero che non potevano accogliermi, altri che non
potevano lasciare la loro casa perch quel giorno le nostre
organizzazioni clandestine avevano assalito con successo una delle
banche pi importanti di Varsavia e tutto il centro della citt era
sorvegliato dalla polizia. Visto come stavano le cose, i Boldok, lui era
ingegnere, per quella notte decisero di mettermi a disposizione un
appartamento al piano sottostante del quale possedevano le chiavi. Il
mattino seguente si present il mio ex collega della radio, Zbigniew
Jaworski. Mi avrebbe fatto stare con lui per qualche giorno.
Dunque per un po' potevo considerarmi al sicuro in casa di gente di buon
cuore che mi voleva bene. Quella prima sera feci un bagno e poi
consumammo una cena deliziosa che innaffiammo con degli schnaps i
quali
purtroppo non fecero affatto bene al mio fegato. Tuttavia, malgrado
l'atmosfera piacevole e, soprattutto, la possibilit di parlare quanto
volevo dopo mesi di silenzio forzato, ero determinato a lasciare al pi
presto i miei ospiti per il timore di metterli in pericolo bench Zofia
Jaworska e la sua coraggiosa madre, la signora Bobrownicka, una signora
di settant'anni, insistessero perch restassi da loro fintanto che
fosse stato necessario.
Frattanto tutti i miei ripetuti tentativi per trovare un nuovo
nascondiglio fallivano miseramente. Ricevevo rifiuti da
tutte le parti. La gente aveva paura di accogliere in casa un ebreo.
Dopo tutto, quello era considerato un reato punibile con la pena di
morte. Ero pi depresso che mai allorch la Provvidenza venne di nuovo
in mio aiuto all'ultimo momento e questa volta nelle sembianze di Helena
Lewicka, la cognata della signora Jaworska. Non ci eravamo mai
conosciuti, quella era la prima volta che ci incontravamo, ma quando fu
messa al corrente delle mie precedenti esperienze, accett
immediatamente di accogliermi. Si commosse per la mia situazione
bench
la sua stessa vita non fosse facile e a sua volta avesse una quantit di
motivi per piangere il destino toccato a molti suoi amici e conoscenti.
Il 21 agosto, dopo avere passato l'ultima notte in casa Jaworski, mentre
la Gestapo che si aggirava nei dintorni teneva tutti sulle spine e in
preda alla preoccupazione e all'ansia, io mi trasferii in un grande
edificio adibito ad appartamenti in Aleja Niepodleglosci. Quello sarebbe
stato il mio ultimo nascondiglio prima della rivolta polacca e della
totale distruzione di Varsavia: uno spazioso appartamento da scapolo al
quarto piano, al quale si accedeva direttamente dalla scala. C'erano
luce elettrica, gas, ma niente acqua. L'acqua veniva attinta a un
rubinetto comune sul pianerottolo dove si trovava anche un gabinetto
comune. I miei vicini erano intellettuali, di una classe sociale pi
elevata di quanto non fossero gli inquilini di via Pulawska. Quelli
dell'appartamento attiguo erano una coppia sposata attiva nel movimento
clandestino. Non dormivano mai in casa, perch erano ricercati. Il che
comportava rischi anche per me. In ogni caso preferivo aver loro come
vicini piuttosto che dei rozzi polacchi servi dei loro padroni e che per
paura avrebbero potuto denunciarmi. Gli altri caseggiati adiacenti erano
per lo pi occupati da tedeschi e ospitavano diverse autorit militari.
Un grande edificio, destinato a diventare ospedale ma non ultimato,
con una specie di magazzeno, era situato di fronte alle mie finestre.
Ogni giorno vedevo prigionieri di guerra bolscevichi che portavano
all'interno e all'esterno pesanti casse. Questa volta ero capitato in
uno dei quartieri di Varsavia dove si trovava il maggior numero di
tedeschi, proprio nella tana del leone, il che forse avrebbe potuto
renderlo un nascondiglio migliore e pi sicuro.
Mi sarei anche trovato discretamente in quel nuovo rifugio se la mia
salute non fosse peggiorata molto rapidamente. Avevo gravi problemi al
fegato tanto che, ai primi di dicembre, ebbi un attacco cos violento
che riuscii a stento a non urlare. La crisi dur per tutta la notte.
Helena Lewicka mand a chiamare un medico che diagnostic
un'infiammazione acuta alla vescica e mi raccomand di seguire una dieta
ferrea. Per fortuna questa volta non era una persona come Szala a
occuparsi di me ma Helena, la migliore e la pi generosa delle donne.
Grazie al suo aiuto recuperai a poco a poco la salute.
Poi giunse il 1944.
Io facevo di tutto per condurre una vita il pi regolare possibile,
studiavo inglese al mattino dalle nove alle undici, leggevo dalle undici
all'una, poi pranzavo e riprendevo a studiare l'inglese e a leggere
dalle tre alle sette del pomeriggio.
Nel frattempo i tedeschi stavano subendo una sconfitta dopo l'altra.
Ormai non si parlava pi di contrattacchi da parte loro, che invece
effettuavano ritirate strategiche da tutti i fronti, un'operazione che
veniva descritta sui giornali come abbandono di zone di scarso rilievo
al fine di ridurre la linea del fronte a vantaggio tedesco. Tuttavia, a
dispetto delle sconfitte che subivano al fronte, il terrore che
riuscivano a seminare nei Paesi da loro occupati non faceva che
aumentare. Le esecuzioni pubbliche iniziate in autunno nelle strade
di Varsavia ora avevano luogo quasi ogni giorno. Col loro solito
sistematico approccio a ogni cosa, avevano ancora il tempo di demolire
le murature del ghetto, ora ripulito dai suoi abitanti. Distruggevano
un edificio dopo l'altro, una strada dopo l'altra e facevano portare i
detriti fuori della citt su treni a scartamento ridotto. I padroni del
mondo il cui orgoglio era stato offeso dalla sollevazione ebraica,
erano decisi a non lasciare in piedi nemmeno una pietra.
All'inizio dell'anno un avvenimento del tutto inaspettato sconvolse la
monotonia delle mie giornate. Un giorno qualcuno decise di introdursi
nella mia abitazione armeggiando sulla porta accuratamente e con
determinazione. Ogni tanto faceva delle pause. In un primo momento non
capii di che cosa potesse trattarsi. Solo dopo lunga riflessione mi resi
conto che doveva essere un ladro. Questo mi pose un problema: agli occhi
della legge eravamo entrambi dei criminali. Io per il semplice fatto
biologico di essere ebreo, e lui in quanto ladro. Avrei dovuto
minacciarlo di denunciarlo alla polizia, se fosse riuscito a entrare? O
non avrebbe piuttosto essere lui a fare a me la stessa minaccia? Ci
saremmo dovuti consegnare reciprocamente alla polizia o non avremmo
dovuto piuttosto stringere un patto di non aggressione tra criminali?
Alla fine non fece alcuna effrazione, perch un inquilino della casa lo
spavent mettendolo in fuga.
Il 6 giugno 1944 Helena Lewicka venne a trovarmi nel pomeriggio. Era
raggiante e mi portava la notizia che americani e inglesi erano sbarcati
in Normandia, avevano spezzato la resistenza tedesca e stavano
avanzando. Ora notizie sensazionali si susseguivano con frequenza sempre
maggiore; la Francia era stata liberata, l'Italia si era arresa,
l'Armata rossa era ai confini della Polonia, Lublino era stata liberata.
Le incursioni aeree dei russi erano sempre pi ravvicinate. Riuscivo a
vedere gli incendi dalla finestra della mia stanza. Da est proveniva un
rumore sordo, in un primo momento quasi inavvertibile, poi sempre pi
forte. Era l'artiglieria sovietica. I tedeschi evacuarono Varsavia
portandosi appresso anche quanto conteneva l'ospedale non ultimato.
Osservavo speranzoso, con la certezza crescente che sarei sopravvissuto
e sarei stato libero. Il 29 luglio Lewicki irruppe nell'appartamento
a portarmi la notizia che la rivolta sarebbe scattata a Varsavia
da un giorno all'altro. Le nostre organizzazioni compravano
affannosamente armi dai tedeschi in rotta e demoralizzati.
L'acquisto di una partita di mitragliatrici era stato affidato al
mio indimenticabile padrone di casa di via Falat, Zbgniew Jaworski.
Purtroppo lui ebbe la sventura di incappare in ucraini che si rivelarono
anche peggio dei tedeschi. Con il pretesto di consegnare le armi che
aveva acquistato, lo portarono nel cortile della facolt di Agraria e
gli spararono.
Il 1 di agosto Helena Lewicka comparve alle quattro del pomeriggio
trattenendosi solo per un momento. Voleva portarmi in cantina perch la
rivolta sarebbe iniziata di l a un'ora. Guidato da un istinto che gi
molte volte mi aveva salvato la vita decisi di restare in casa. La mia
protettrice si conged da me con le lacrime agli occhi, quasi fossi
stato suo figlio. Con voce rotta chiese: Ci rivedremo ancora, Wladek?


CAPITOLO 15.

In un edificio in fiamme.


Nonostante le assicurazioni di Helena Lewicka che la rivolta sarebbe
iniziata alle cinque, ovvero nel giro di pochi minuti, io non riuscivo
assolutamente a crederci. Negli anni dell'occupazione erano di continuo
circolate voci di eventi politici che non si erano mai verificati. Negli
ultimi giorni l'evacuazione di Varsavia da parte dei tedeschi, cosa che
io stesso avevo visto dalla mia finestra, e la fuga verso ovest di tutti
quei soldati in preda al panico su camion e veicoli privati
sovraccarichi, aveva subito una battuta d'arresto. E il rombo
dell'artiglieria sovietica, che solo poche notti prima sembrava tanto
vicina, ora si era fatto pi indistinto e distante.
Mi avvicinai alla finestra: nella strada regnava la calma. Il viavai
pedonale era normale, anzi persino un po' meno frenetico del solito. Del
resto in quella parte di Aleja Niepodleglosci non era mai stata molto
convulso. In strada, un tram proveniente dal Politecnico si arrest alla
fermata. Era pressoch vuoto. Ne scesero poche persone, alcune donne, un
vecchio con un bastone da passeggio, tre uomini giovani che tenevano in
mano degli oggetti oblunghi avvolti in fogli di giornale. Si fermarono
accanto alla prima vettura del tram. Uno di loro diede un'occhiata
all'orologio poi si guard attorno, a un tratto si mise in ginocchio
nella strada e appoggi l'involto che teneva sulla spalla, una serie di
colpi d'arma di fuoco si susseguirono veloci. Il foglio di giornale
all'estremit dell'involto prese fuoco, mettendo a nudo la canna di una
mitragliatrice. Al contempo gli altri due uomini imbracciarono con gesto
nervoso le proprie armi.
I colpi sparati dal primo erano un segnale convenuto dato al quartiere.
Subito dopo si udirono spari dappertutto. Quando le esplosioni nelle
immediate vicinanze si acquietarono vi furono altri colpi provenienti
dal centro della citt. Si ripetevano senza sosta, parevano acqua che
ribolle in un grande bricco. Era come se la strada fosse stata
sgombrata. Solo il signore anziano arrancava faticosamente appoggiato al
bastone e ansimava nello sforzo di affrettarsi. Gli era difficile
correre. Finalmente riusc anche lui a riparare nell'androne di un
edificio e scomparve all'interno. Mi avvicinai alla porta e vi appoggiai
l'orecchio. Sul pianerottolo e dalle scale si udiva il rumore di
movimenti confusi. Porte venivano spalancate e richiuse con forza, la
gente fuggiva in tutte le direzioni. Una donna gridava: Ges, Maria!
Un'altra implorava in direzione delle scale: Fai attenzione, Jerzy.
Dai piani sottostanti giunse una risposta, s, d'accordo. Si levarono
urla di donne che piangevano. Una di queste evidentemente incapace di
controllarsi prese a singhiozzare istericamente. Una voce profonda di
basso cerc di calmarla in tono sommesso: Non durer molto. In fin dei
conti quello che ognuno di noi si augurava succedesse.
Questa volta Helena Lewicka aveva visto giusto: la rivolta era iniziata.
Stavo disteso sul divano a riflettere sul da farsi. Quando lei se ne era
andata aveva chiuso come al solito la porta dall'esterno, con la chiave
e con il lucchetto. Tornai alla finestra. Davanti ai portoni
stazionavano gruppi di tedeschi. Altri sopraggiunsero da Fole
Mokotowskie e si unirono a loro. Avevano tutti armi semiautomatiche,
portavano elmetti e granate a mano infilate nelle cinture.
In quella parte della strada dove noi ci trovavamo non avvenivano
scontri. Ogni tanto i tedeschi sparavano ma solo in direzione
delle finestre dove c'era gente che li osservava.
Nessuno per rispondeva al fuoco. Solo quando raggiunsero l'angolo di
via Sei Agosto i tedeschi presero a sparare sia in direzione del
Politecnico sia in direzione opposta, verso i depuratori dell'acqua.
Forse se fossi uscito dal retro dell'edificio sarei riuscito a trovare
la strada per raggiungere il centro della citt e a dirigermi verso
l'acquedotto. Ma non possedevo armi e, in ogni caso, ero chiuso dentro.
Se avessi picchiato sulla porta i vicini se ne sarebbero accorti,
preoccupati com'erano per i loro problemi? In quel caso avrei dovuto
chieder loro di scendere a cercare l'amica di Helena Lewicka, la sola
persona in tutto il caseggiato al corrente del fatto che io ero nascosto
in quella stanza. Era lei che aveva le chiavi, quindi se fosse accaduto
il peggio avrebbe potuto aprire la porta e farmi uscire. Pensai di
attendere fino al mattino prima di decidere il da farsi, sulla base di
quello che fosse accaduto nel frattempo.
A questo punto la sparatoria si faceva sempre pi fitta. I colpi di
fucile erano inframmezzati dalle esplosioni pi violente delle granate a
mano. O forse, quello che io stavo sentendo, erano proiettili, se
l'artiglieria era stata messa in azione. La sera, con l'oscurit, vidi i
primi bagliori degli incendi. Le fiamme si riflettevano ancora in modo
discontinuo e parziale nel cielo illuminandolo di bagliori violenti che
subito si spegnevano. A poco a poco gli spari si acquietarono. Si
udivano solo alcune esplosioni isolate e il secco crepitio delle
mitragliatrici. Anche l'agitazione sulle scale ormai si era placata, era
chiaro che gli inquilini si erano barricati nei loro appartamenti al
fine di poter riflettere in privato su quel primo giorno di
insurrezione. Era tardi quando mi addormentai di colpo, ancora
vestito, sprofondando in un sonno pesante causato dalla
spossante tensione nervosa.
Mi svegliai al mattino, di soprassalto. Era molto presto. Era appena
sorta l'alba. Il primo rumore che udii fu quello di un veicolo tirato da
un cavallo sul selciato. Andai alla finestra. La carrozza pass a un
trotto tranquillo, il soffietto abbassato come se non fosse successo
nulla. La strada era pressoch deserta. Solo un uomo e una donna
camminavano sul marciapiede sotto le mie finestre, le mani in alto. Da
dove mi trovavo non riuscivo a vedere i tedeschi che li scortavano.
All'improvviso entrambi fecero un balzo in avanti e cominciarono a
correre. La donna url: A sinistra! Gira a sinistra!
L'uomo fu il primo a scostarsi e poi scomparve alla vista. In quel
momento part una raffica di colpi di arma da fuoco. La donna si ferm,
si compresse il ventre, quindi stramazz silenziosamente, come un sacco,
le gambe ripiegate sotto il corpo. Non fu tanto una caduta quanto un
cedimento delle ginocchia. La guancia destra si pos sull'asfalto e lei
rimase in quella assurda posizione acrobatica. Pi la luce del giorno
aumentava, pi sentivo sparare. Quando il sole comparve nel cielo, un
cielo tersissimo in quei giorni, in tutta la citt riecheggiarono spari
inframmezzati con sempre maggiore frequenza dal rombo dell'artiglieria
pesante.
Verso mezzogiorno l'amica della signora Lewicka sal a portarmi cibo e
notizie. Le notizie riguardanti il nostro quartiere non erano buone:
quasi fin dall'inizio era stato nelle mani dei tedeschi e quando era
iniziata la rivolta i giovani appartenenti alle organizzazioni della
Resistenza avevano appena avuto il tempo di attraversare il centro della
citt. Adesso era impensabile cercare di uscire in strada. Avremmo
dovuto attendere fino a quando i distaccamenti provenienti dal centro
della citt ci avessero liberato.
Ma io potrei tentare di sgattaiolare all'esterno, protestai.
Lei mi lanci un'occhiata di compatimento. Ma se non esci di casa da un
anno e mezzo! Ti cederebbero le gambe ancor prima di arrivare a met
strada. Scosse la testa, mi strinse la mano e aggiunse, a mo' di
consolazione: Sar meglio che resti qui. In qualche modo ce la
caveremo.
Nonostante tutto, il suo morale era alto. Mi condusse alla finestra
sulle scale e questo mi diede modo di vedere il lato del caseggiato di
fronte alla mia finestra. Tutto il complesso residenziale di villette
che sorgevano sulla propriet Staszic, fino all'acquedotto, era in
fiamme. Si poteva udire il sibilo di travi che bruciavano, il rumore dei
soffitti che crollavano, le urla della gente e i colpi d'arma da fuoco.
Una coltre rossastra di fumo ricopriva il cielo. Quando, per qualche
minuto il vento la sospingeva, si distinguevano all'orizzonte le
bandiere bianche e rosse.
I giorni passavano. Dal centro non giungeva pi alcun soccorso. Ormai da
anni mi ero abituato a nascondermi da tutti, tranne che da un gruppo di
amici che sapeva che ero vivo e dove mi trovavo Non riuscivo a decidermi
a lasciare la mia stanza, rendendo nota la presenza alle altre persone
che abitavano l. Sarei stato costretto a prendere parte alla loro vita
comunitaria nei nostri appartamenti assediati. Essere informati della
mia presenza li avrebbe fatti sentire ancor peggio. Se i tedeschi, oltre
a tutto il resto, avessero anche scoperto che loro tenevano nascosto
nell'edificio un non ariano, li avrebbero puniti ancor pi
severamente. Decisi di continuare a stare confinato l dentro,
origliando attraverso la porta le conversazioni che avevano luogo sulle
scale. Le notizie non miglioravano: in centro si svolgevano aspri
combattimenti. Da fuori Varsavia non arrivava alcun sostegno e nella
nostra zona della citt il terrore seminato dai tedeschi
non faceva che aumentare. In via Langiewicz gli ucraini avevano lasciato
bruciare e morire tra le fiamme gli inquilini di un edificio e avevano
sparato a quelli che occupavano un altro caseggiato. Il famoso attore
Mariusz Mszyriski era stato assassinato poco lontano dal nostro
quartiere.
L'inquilina che abitava sotto di me smise di venirmi a trovare.
Forse qualche tragedia familiare le aveva fatto dimenticare che
esistevo. Le mie provviste di cibo si erano esaurite. Mi erano rimaste
solo poche fette di pane biscottato.
L'11 agosto la tensione nervosa nell'edificio aument in modo palpabile.
L'orecchio teso alla porta, non riuscivo a capire che cosa stesse
accadendo. Tutti gli inquilini che si trovavano ai piani sottostanti,
parlavano a voce alta e poi l'abbassavano di colpo. Dalla finestra
vedevo gruppetti di persone che uscivano di tanto in tanto dagli edifici
vicini e furtivamente si facevano strada fino al nostro caseggiato, poi
se ne allontanavano. Verso sera gli inquilini dei piani sottostanti
salirono inaspettatamente di corsa le scale. Alcuni erano sul mio
pianerottolo. Dai loro bisbigli impauriti mi resi conto che
nell'edificio erano entrati gli ucraini. In quell'occasione, per, non
erano venuti per ucciderci. Trafficarono per un po' nello scantinato e
portarono via le provviste che erano state nascoste, poi scomparvero di
nuovo. Quella sera udii la chiave girare nella serratura della mia
porta, poi lo scatto del lucchetto. Qualcuno lo aveva aperto ma non era
entrato. Chiunque fosse stato, subito dopo si avvent all'impazzata gi
per le scale. Che cosa significava? Quel giorno le strade erano piene di
volantini. Qualcuno li aveva buttati, ma chi?
Il 12 agosto, verso mezzogiorno, il panico si diffuse di nuovo per le
scale. Gente stravolta continuava a correre su e gi. Da frasi colte al
volo capii che la casa era stata circondata da tedeschi e doveva
essere sgombrata al pi presto perch l'artiglieria si accingeva
a raderla al suolo. Come prima reazione ebbi l'impulso di vestirmi,
ma subito dopo mi resi conto che non potevo uscire in strada data
la presenza delle SS, a meno che non volessi essere ucciso sul
colpo. Sentii sparare, poi una voce dura, in tono innaturalmente
stridulo, grid: Tutti fuori, subito! Lasciate i vostri
appartamenti.
Diedi un'occhiata alle scale. C'era silenzio e non vidi nessuno. Scesi
qualche gradino e mi avvicinai alla finestra per guardar fuori, su via
Sedziowska. Un carro armato stava puntando la mitragliatrice sulla
nostra casa. Subito dopo segu una fiammata, la mitragliatrice rimbalz
all'indietro, si ud un rumore e un muro croll. Soldati con maniche
rimboccate, con delle lattine in mano correvano avanti e indietro.
Nuvole di fumo nero cominciarono a salire su per il muro esterno
dell'edificio e sulla scala, dal pianoterra fino al quarto piano dove io
mi trovavo. Alcuni uomini delle SS irruppero nell'edificio
precipitandosi su per le scale. Mi chiusi a chiave nella stanza,
rovesciai sul palmo il contenuto del tubetto contenente i potenti
sonniferi che avevo preso quando avevo sofferto di attacchi di fegato e
sistemai a portata di mano la boccetta di oppio. Intendevo inghiottire
le pastiglie e bere l'oppio nel momento stesso in cui i tedeschi
avessero cercato di sfondare la porta. Subito dopo, per, guidato da un
istinto che riuscivo a stento a razionalizzare in quel momento, cambiai
idea. Uscii dalla stanza, corsi su per la scaletta che portava al
solaio, mi ci arrampicai, la tolsi e chiusi la botola alle mie spalle.
Nel frattempo i tedeschi stavano gi martellando con i calci dei fucili
le porte degli appartamenti del terzo piano, Uno di loro sal al quarto
piano ed entr nella mia stanza. I suoi compagni, pensando che fosse
pericoloso indugiare nell'edificio cominciarono a chiamarlo. Muoviti,
Fischke!
Quando i passi precipitosi per le scale si allontanarono strisciai fuori
della soffitta dove il fumo che saliva dal condotto di aerazione
dell'appartamento sottostante mi aveva quasi soffocato e tornai nella
mia stanza. Mi cullavo nella speranza che solo gli appartamenti al
pianoterra ai quali era stato appiccato il fuoco sarebbero bruciati e
che gli occupanti vi avrebbero fatto ritorno non appena i loro documenti
fossero stati controllati. Presi un libro, mi distesi comodamente sul
divano e cominciai a leggere, ma non riuscivo a capire neanche una
parola. Posai di nuovo il libro, chiusi gli occhi e decisi di aspettare
fino a che non avessi udito delle voci per le scale. Avevo deciso di
avventurarmi sul pianerottolo solo quando fosse calato il crepuscolo.
Ora la mia stanza era invasa da vapori e dal fumo e dalle finestre
filtrava il bagliore rossastro degli incendi. Il fumo sulle scale era
cos spesso che non si riusciva a scorgere la balaustra. Il forte e
secco crepitio delle fiamme si levava con sempre maggior violenza dai
piani sottostanti e a questo si accompagnava il rumore di legno che si
spaccava e il tonfo di mobili che cadevano. Usare le scale ormai era
impossibile. Andai alla finestra. L'edificio era circondato da un
cordone di SS disposto a una certa distanza. Non si vedevano civili.
Evidentemente tutto il caseggiato adesso era in fiamme e i tedeschi si
limitavano ad attendere che il fuoco raggiungesse i piani superiori e i
travi del tetto.
Dunque alla fin fine questa sarebbe stata la mia morte, quella cui ero
riuscito fino a quel momento a sfuggire giorno dopo giorno fino a quando
finalmente mi aveva raggiunto. Avevo tentato spesso di immaginarmi
come
sarebbe stato, mi aspettavo di esser catturato e torturato, poi fucilato
o soffocato nella camera a gas. Mai avevo pensato che sarei bruciato
vivo.
Avevo voglia di ridere dell'ingegnosit del fato. Mi sentivo
perfettamente calmo, di una calma che nasceva dalla persuasione
che ormai non potevo far pi nulla per cambiare il corso degli
eventi. Mi guardai attorno nella stanza: i suoi contorni erano divenuti
sempre pi sfocati mano mano che il fumo la invadeva. Nel crepuscolo
calante appariva quasi irreale. Mi riusciva sempre pi difficile
respirare. La testa mi girava e il cervello mi scoppiava. Erano quelli i
primi effetti di avvelenamento da ossido di carbonio.
Mi distesi di nuovo sul divano. Perch lasciarmi bruciar vivo quando
potevo evitarlo prendendo dei sonniferi? Quanto sarebbe stata pi facile
la mia morte in rapporto a quella dei miei genitori, delle mie sorelle e
di mio fratello, morti nella camera a gas a Treblinka! In quegli ultimi
istanti cercavo di pensare soltanto a loro.
Presi il tubetto di sonnifero, ne vuotai il contenuto in bocca e
l'ingoiai. Mi accinsi a bere l'oppio, pur di avere la certezza di
morire. Ma non ne ebbi il tempo. Il sonnifero aveva agito immediatamente
sul mio stomaco vuoto.
Mi addormentai.


CAPITOLO 16.

Morte di una citt.


Non morii. Evidentemente le pastiglie non avevano avuto un effetto
letale. Mi svegliai alle sette del mattino in preda alla nausea.
Avvertivo un rombo nelle orecchie, le tempie mi pulsavano in modo
martellante e doloroso, avevo l'impressione che gli occhi schizzassero
fuori delle orbite, sentivo le braccia e le gambe intorpidite. Di fatto,
ero stato svegliato da una sensazione di solletico sul collo. Una mosca
vi si stava arrampicando, anche lei intontita come me da quanto era
accaduto quella notte e come me mezza morta. Dovetti concentrarmi e
chiamare a raccolta tutte le mie forze per muovere la mano e scacciarla.
La prima sensazione che provai non fu di delusione per non essere
sfuggito alla morte, ma di gioia perch ero ancora vivo. Una brama
illimitata e animalesca di vivere a qualsiasi prezzo. Ero sopravvissuto
per una notte in un edificio in fiamme. Ora la cosa essenziale era
riuscire a salvarmi in qualche modo.
Rimasi disteso dove mi trovavo ancora per un po' per riprendere meglio i
sensi, poi mi lasciai scivolare gi dal divano e strisciai fino alla
porta. La stanza era ancora avvolta nel fumo e, quando alzai la mano ad
afferrare la maniglia, era cos rovente che dovetti lasciarla andare di
colpo. Al secondo tentativo mi sforzai di padroneggiare il dolore e
aprii la porta. Sulle scale c'era meno fumo di quanto ve ne fosse nella
mia stanza perch poteva uscire dagli infissi carbonizzati dei
finestroni sul pianerottolo. Riuscivo a vedere le scale, ora mi sarebbe
stato possibile scenderle.
Chiamando a raccolta tutta la mia forza di volont mi costrinsi ad
alzarmi, afferrai la balaustra e cominciai a scendere. Il piano
sottostante era gi bruciato tutto e l le fiamme si erano spente. Gli
stipiti delle porte ardevano ancora e l'aria nelle stanze luccicava per
il calore. Resti di mobili e di altri oggetti continuavano a
bruciacchiare sui pavimenti, lasciando mucchi bianchi di cenere mano
mano che le braci si spegnevano.
Mentre scendevo al primo piano trovai disteso sulle scale il cadavere
bruciato di un uomo, privo dei vestiti che gli si erano carbonizzati
addosso. Era color marrone e orribilmente gonfio. Per proseguire fui
costretto a scavalcarlo. Temevo di non riuscire a sollevare le gambe
quel tanto che bastava per farlo ma, come mosse da un forza autonoma,
loro mi trascinavano in avanti. Al primo tentativo il mio piede colp lo
stomaco del cadavere e inciampai. Persi l'equilibrio, caddi e rotolai
gi per met scala insieme con il corpo carbonizzato. Lasciato
finalmente il cadavere alle mie spalle, riuscii a risollevarmi e scesi
al piano terra. Uscii nel cortile che era cinto da un muretto ricoperto
da rampicanti. Strisciai fin l e mi nascosi in una nicchia nell'angolo
a due metri dall'edificio che bruciava, mimetizzandomi tra i viticci
dell'edera e le foglie e gli steli di alcune piantine di pomodoro che
crescevano in una aiuola tra il muro e la casa.
Gli spari non erano cessati. Proiettili mi volavano sopra la testa.
Udivo voci di tedeschi vicinissimi a me dall'altra parte del muro e li
sentivo camminare sul marciapiedi. Verso sera nel muro del caseggiato in
fiamme comparvero delle crepe. Se fosse crollato per me sarebbe stata la
fine. Tuttavia attesi a muovermi finch non fu del tutto buio e
fino a quando non mi fui un po' ripreso dall'avvelenamento della
notte. Ritornai al buio alle scale, ma non mi azzardai a risalirle.
L'interno degli appartamenti continuava a bruciare proprio come
al mattino, e il fuoco avrebbe potuto raggiungere il mio
appartamento in qualsiasi momento. Riflettei a lungo e ideai un
piano diverso: l'enorme edificio non ultimato dell'ospedale
dove la Wehrmacht teneva i suoi depositi di provviste era situato
sull'altro lato di Aleja Niepodleglosci. Decisi che avrei tentato di
arrivarvi.
Uscii in strada dall'altro ingresso di casa mia. Bench fosse sera non
era ancora del tutto buio. L'ampia strada era illuminata dai bagliori
rossi delle fiamme. Era coperta di cadaveri e tra questi c'era la donna
uccisa il secondo giorno della rivolta. Mi distesi e presi a strisciare
sul ventre verso l'ospedale. I tedeschi continuavano a passare, da soli
o in gruppi, e in quei momenti io smettevo di muovermi e fingevo di
essere anch'io morto. Dai corpi senza vita si levava un fetore di carne
in putrefazione che si mischiava con l'odore di bruciato aleggiante
nell'aria. Cercavo di strisciare il pi in fretta possibile ma la strada
era cos larga che mi pareva non finisse mai. Impiegai un'eternit, ma
finalmente raggiunsi il buio edificio dell'ospedale. Superai barcollando
il primo ingresso che vidi poi crollai a terra e mi addormentai di
colpo.
Il mattino seguente decisi di esplorare il posto. Con mia grande
costernazione scoprii che era pieno di divani, di materassi, di pentole,
di padelle, di vasellame, di oggetti di uso quotidiano. Ci stava a
significare che i tedeschi si sarebbero fatti vivi spesso per venire a
prenderseli. Non trovai provviste, ma solo un ripostiglio in un angolo
lontano, zeppo di ferri vecchi, di tubi e di stufe. Mi distesi per terra
e l trascorsi i due giorni successivi.
Il 15 agosto, secondo il calendario tascabile che mi portavo sempre
appresso, e sul quale cancellavo via via i giorni che passavano, gli
spasmi per la fame erano cos insopportabili che decisi di andare a
cercare qualcosa da mangiare a qualunque costo. Fu tutto vano. Mi
arrampicai sul davanzale della finestra sbarrata da assi e mi misi a
osservare la strada attraverso una piccola fenditura. Le mosche
sciamavano sui cadaveri stesi nella via. Poco distante, all'angolo di
via Filtrowa, sorgeva una villa dalla quale gli abitanti non erano
ancora stati cacciati. Conducevano una vita straordinariamente normale,
standosene seduti sulla terrazza a bere il t. Un distaccamento di
soldati di Wlassov, comandati dalle SS, venivano avanti da via Sei
Agosto. Raccoglievano i cadaveri dalla strada, li ammucchiavano, vi
versavano sopra petrolio e li bruciavano. D'un tratto lungo il corridoio
dell'ospedale, udii dei passi avvicinarsi. Scesi dal davanzale della
finestra e mi nascosi dietro una cassa. Una SS entr nella stanza in cui
io mi trovavo, si guard attorno e usc di nuovo. Corsi per il
corridoio, raggiunsi le scale, le salii velocemente fino in cima e mi
nascosi nel ripostiglio. Poco dopo un intero distaccamento entr
nell'edificio dell'ospedale per perquisire tutte le stanze l'una dopo
l'altra. Non trovarono il mio nascondiglio bench io li sentissi ridere,
canticchiare e fischiettare, mi pervenne alle orecchie anche la domanda
di importanza vitale:
Allora, abbiamo guardato dappertutto?
Due giorni pi tardi, cinque da quando avevo mangiato per l'ultima
volta, mi misi nuovamente alla ricerca di cibo e di acqua. Nell'edificio
non c'era acqua corrente, ma c'erano solo secchi disposti qua e l nel
caso fossero scoppiati incendi. Erano riempiti di un'acqua ricoperta da
uno strato iridescente, piena di mosche, di moscerini e di ragni morti.
Ciononostante bevvi avidamente, ma fui costretto subito a smettere
perch l'acqua puzzava e non riuscivo a non ingoiare insetti morti.
Poi, nell'officina di un falegname trovai dei tozzi di pane. Erano
ammuffiti, coperti di polvere e di deiezioni di topi. Ma per me
rappresentavano un bene prezioso. Un qualche falegname sdentato non
avrebbe mai immaginato che lasciando quegli avanzi mi avrebbe salvato la
vita.
Il 19 agosto, i tedeschi buttarono fuori la gente che abitava nella
villa sull'angolo di via Filtrowa, in mezzo a urla e a colpi di arma da
fuoco. Adesso ero solo in quel quartiere della citt. Le SS facevano
sempre pi spesso ispezioni nell'edificio dove mi nascondevo. Quanto
sarei riuscito a sopravvivere in quelle condizioni? Una settimana? Due?
Dopo di che, di nuovo il suicidio sarebbe stata la mia unica via di
scampo e questa volta non avrei avuto altro modo di togliermi la vita se
non con una lametta di rasoio. Mi sarei dovuto tagliare le vene. In una
delle stanze trovai un po' di orzo e lo feci cuocere sulla stufa nel
locale del falegname. L'accendevo di notte e questo mi permise di
nutrirmi ancora per qualche giorno.
Il 30 agosto decisi di tornare alle rovine dell'edificio di fronte, dato
che sembrava essere andato completamente distrutto dalle fiamme. Portai
con me una brocca d'acqua dall'ospedale e, all'una di notte, attraversai
furtivamente la strada, In un primo momento pensai di scendere in
cantina, ma l il combustibile, coke o carbone, non aveva ancora smesso
di bruciare perch i tedeschi avevano continuato ad alimentarlo e cos
mi nascosi tra le macerie di un appartamento al terzo piano. La vasca da
bagno era piena di acqua fino all'orlo. Sporca, ma pur sempre acqua. Le
fiamme avevano risparmiato la dispensa dove trovai un sacchetto con
delle fette biscottate.
Di l a una settimana, colto da una terribile premonizione,
lasciai di nuovo il mio nascondiglio e salii in solaio, o piuttosto
a quello che era rimasto delle nude assi, perch il tetto sovrastante
era crollato. Quello stesso giorno gli ucraini entrarono nell'edificio
per tre volte a razziare quegli appartamenti rimasti solo parzialmente
danneggiati. Non appena se ne furono andati io scesi di nuovo
nell'appartamento dove ero rimasto nascosto nell'ultima settimana. Le
fiamme avevano divorato tutto a eccezione della stufa di maiolica che
gli ucraini avevano spaccato mattonella per mattonella probabilmente
alla ricerca di oggetti d'oro.
Il mattino successivo tutta l'Aleja Niepodleglosci fu circondata da
soldati. La gente con involti sulle spalle, madri che stringevano a s i
bambini, tutti furono spinti entro il cordone dei militari. Le SS e gli
ucraini fecero venire avanti molti degli uomini e li uccisero senza
alcun motivo, esattamente come avevano fatto nel ghetto prima della sua
distruzione. Questo significava forse che la rivolta si era conclusa con
la nostra sconfitta?
No. Giorno dopo giorno il pesante fuoco di artiglieria lacerava l'aria
con un sibilo simile a quello di tafani in volo, ma per me, da pi
vicino, era come il rumore di vecchie pendole che venivano caricate. Dal
centro della citt arrivavano esplosioni forti e continue a intervalli
regolari.
Poi, il 18 settembre, squadriglie aeree sorvolarono Varsavia
paracadutando rifornimenti ai rivoltosi. Ignoro se si trattasse di
uomini o di materiale bellico. Poi gli aerei bombardarono quella parte
ancora in mano ai tedeschi e lanciarono paracadutisti di notte nel
centro. Contemporaneamente il fuoco di artiglieria dalla parte orientale
si faceva sempre pi violento.
Il 5 di ottobre distaccamenti di rivoltosi furono fatti marciare fuori
della citt, tenuti sotto tiro dagli uomini della Wehrmacht.
Alcuni erano in uniforme altri avevano solo fasce bianche e
rosse sulla manica. Costituivano un contrasto curioso rispetto ai
tedeschi che li scortavano e che, oltre a indossare uniformi
impeccabili, apparivano ben nutriti, sicuri di s e beffardi nel
prendersi gioco di quei nuovi prigionieri per il fallimento della
rivolta. Li filmavano e li fotografavano. I rivoltosi, per parte loro,
erano magri, sporchi e spesso laceri. Riuscivano a malapena a reggersi
in piedi. Non prestavano alcuna attenzione ai tedeschi, li ignoravano
completamente, come se avessero scelto di loro spontanea volont di
marciare lungo l'Aleja Niepodleglosci. Mantenevano la disciplina nelle
loro file aiutando quanti avevano difficolt a camminare, non degnando
di un'occhiata le macerie circostanti, ma continuando a camminare, gli
occhi fissi davanti a s. Bench costituissero uno spettacolo miserevole
rispetto ai loro conquistatori, si aveva la sensazione che non fossero
loro gli sconfitti.
Dopo questo episodio l'esodo dei civili che erano ancora rimasti si
svolse in gruppi sempre pi esigui e si prolung per altri otto giorni.
Era come vedere il corpo di un uomo che stesse morendo dissanguato, col
sangue che sgorgava dapprima a fiotti poi fuoriusciva sempre pi
lentamente.
Gli ultimi civili lasciarono la citt il 14 ottobre. Il crepuscolo era
calato da molto tempo quando un manipolo di straccioni, scortato dalle
SS che intimava loro di affrettarsi, pass davanti al caseggiato dove io
mi tenevo nascosto. Mi sporsi dalla finestra bruciata dalle fiamme e
rimasi l a guardare le figure che procedevano incurvate dal peso dei
loro fagotti fino che l'oscurit non le ebbe inghiottite.
Adesso ero rimasto solo con una esigua quantit di fette
biscottate sul fondo del sacchetto e con parecchie vasche di acqua
sporca come mio unico sostentamento. Per quanto tempo avrei ancora
potuto resistere in quelle condizioni, visto che l'autunno era
imminente, le giornate si facevano sempre pi corte e la minaccia
dell'inverno incombeva?



CAPITOLO 17.


La vita in cambio di alcol.


Ero solo, non soltanto nell'edificio in cui mi trovavo o in una zona
della citt, ma solo in un'intera citt che appena due mesi prima
contava una popolazione di un milione e mezzo di abitanti ed era una
delle pi ricche d'Europa. Degli edifici bruciati erano rimasti solo i
comignoli che si stagliavano contro il cielo e quelle poche mura che i
bombardamenti avevano risparmiato. Una citt di macerie e di ceneri
sotto le quali erano sepolte la cultura secolare del mio popolo e
centinaia di migliaia di cadaveri di vittime assassinate, i cui corpi
andavano putrefacendosi nel calore di quegli ultimi giorni di un autunno
tardivo, ammorbando l'aria.
La gente veniva a vedere le macerie solo di giorno, gentaglia che
arrivava da fuori citt e che si aggirava furtivamente con pale sulle
spalle, sparpagliandosi nelle cantine alla ricerca di qualcosa da
rubare. Uno di costoro scelse la mia casa distrutta. Bisognava che non
mi trovasse. Nessuno doveva sapere della mia presenza tra quelle mura.
Quando prese a salire le scale, ormai solo due piani ci separavano,
tuonai con un tono di voce di minacciosa violenza: Che cosa succede?
Fuori! Rrraus!
Schizz via come un topo in fuga spaventato dalla voce dell'ultimo
povero diavolo rimasto l ancora in vita.
Verso la fine di ottobre dal solaio vidi i tedeschi che arrestavano uno
di questi branchi di iene. I ladri cercavano di contrattare la
loro libert in cambio di denaro. Li sentivo ripetere di
continuo: Da Pruszkw! Da Pruszkw! mentre indicavano in direzione
ovest. I soldati ne costrinsero quattro al muro pi vicino e fecero
fuoco, ignorando le loro suppliche di aver salva la vita. Ordinarono
agli altri di scavare una fossa nel giardino di una delle ville, di
seppellire i cadaveri e di andarsene. Dopo questo episodio anche i ladri
si tennero alla larga da questa parte della citt. Adesso ero rimasto io
l'unica creatura ancora viva.
Il primo di novembre si stava avvicinando e cominciava a far freddo,
soprattutto di notte. Per non impazzire in quel mio isolamento decisi di
condurre una vita il pi regolata possibile. Avevo sempre il mio
orologio, l'Omega d'anteguerra che per me era un bene prezioso come la
pupilla dei miei occhi e la penna stilografica. Erano gli unici averi
che mi fossero rimasti. Davo coscienziosamente la carica all'orologio e
basandomi su questo avevo tracciato una sorta di orario. Stavo disteso
immobile tutto il giorno per conservare quel poco di forze che mi erano
rimaste. Protendevo la mano solo verso mezzogiorno per sostenermi con
una fetta biscottata e con un bicchiere d'acqua che cercavo di far
durare il pi a lungo possibile. Dal mattino presto fino a quando
consumavo questo pasto me ne stavo sdraiato a occhi chiusi, continuando
a riandare con la mente a tutte le composizioni che avevo suonato,
battuta dopo battuta. In seguito questo esercizio mentale mi torn
utile. Quando ricominciai a lavorare ricordavo ancora il mio repertorio,
l'avevo quasi del tutto nella testa come se durante tutto il periodo
della guerra avessi continuato a esercitarmi. Poi, dal pasto di
mezzogiorno fino al crepuscolo, andavo sistematicamente con la mente a
tutti i libri che avevo letto, ripetendo tutti i vocaboli inglesi che
conoscevo. Davo a me stesso lezioni di inglese, rispondevo alle
domande che mi ponevo cercando di farlo in modo corretto e preciso.
Quando calava l'oscurit mi addormentavo. Mi svegliavo verso l'una di
notte, accendevo un fiammifero e partivo alla ricerca di cibo. Avevo
trovato una piccola scorta di fiammiferi in un appartamento del
caseggiato che non era andato del tutto distrutto. Scendevo nelle
cantine e tra le rovine bruciate degli appartamenti trovavo da una parte
un po' di farina di avena, dall'altra qualche tozzo di pane, da un'altra
ancora farina umida, acqua nelle vasche, nei secchi e nei barattoli. Non
so quante volte durante queste mie spedizioni mi capit di scavalcare il
cadavere annerito dalle fiamme sulle scale. Era l'unico compagno della
cui presenza non avessi paura. Una volta in una cantina rinvenni un
tesoro inatteso:
mezzo litro di alcol. Decisi che lo avrei conservato fino alla fine
della guerra.
Di giorno, mentre me ne stavo disteso per terra, tedeschi e ucraini
entravano spesso nell'edificio in cerca di bottino. Ciascuna di queste
visite mi faceva tendere i nervi fino allo spasimo. Avevo una paura
terribile che potessero scoprirmi e uccidermi. Ma, in un modo o
nell'altro, non salivano mai in solaio, bench avessi contato che
avevano fatto pi di trenta fugaci incursioni nella casa.
Poi con il 15 novembre cadde la prima neve. Il freddo mi riusciva sempre
pi insopportabile sotto il mucchio di stracci che avevo messo insieme
per ripararmi. Al mattino, quando mi svegliavo li trovavo coperti da uno
spesso strato di soffice neve bianca. Avevo sistemato il letto in un
angolo sotto una parte ancora intatta del tetto che per il resto era
andato distrutto al punto che una gran quantit di neve entrava da ogni
parte. Un giorno applicai un pezzo di tessuto che avevo trovato dietro
il vetro rotto di una finestra e mi guardai in quello specchio
improvvisato. In un primo momento stentai a capacitarmi
che l'immagine orrenda che vi vedevo riflessa fosse la mia. I capelli
non erano pi stati tagliati da mesi ed erano arruffati e sudici. La
barba incolta, sporca e folta nascondeva quasi completamente il volto e,
nel punto in cui lo lasciava scoperto, la pelle appariva quasi nera. Le
palpebre erano arrossate e il cuoio capelluto era coperto di croste.
Ma ci che pi mi angosciava era ignorare che cosa stesse accadendo, sia
al fronte sia tra i rivoltosi. A Varsavia la rivolta era stata sedata.
Non potevo farmi illusioni. Ma forse in citt c'erano ancora sacche di
resistenza, a Praga sull'altra riva della Vistola.
Ogni tanto udivo il fuoco dell'artiglieria e l'esplosione delle granate
tra le macerie. Spesso molto vicino a me, echeggiavano con violenza nel
silenzio tra gli edifici distrutti dalle fiamme. Che ne era della
resistenza nel resto della Polonia? Dove erano le truppe sovietiche?
Come progrediva nella parte occidentale l'offensiva alleata? La mia vita
o la mia morte dipendevano dalle risposte a questi interrogativi e,
anche se i tedeschi non avessero scoperto il mio nascondiglio, io sarei
morto presto di freddo, se non di fame.
Dopo essermi visto allo specchio della finestra decisi di usare una
parte della mia scarsa riserva d'acqua per darmi una lavata e al tempo
stesso di accendere il fuoco di uno dei pochi fornelli ancora integri
per cucinarmi il resto della farina di avena. Da quasi quattro mesi non
mangiavo nulla di caldo e, mano mano che il freddo autunnale avanzava,
pativo sempre pi per la mancanza di cibo caldo. Se volevo lavarmi e
cucinarmi qualcosa, dovevo uscire di giorno dal mio nascondiglio. Solo
quando fui gi sulle scale, fuori dell'ospedale militare di fronte a me,
scorsi un manipolo di tedeschi che stava riparando lo steccato di legno.
Ero per cos bramoso di mangiare un po' di avena calda che non
tornai indietro. Mi rendevo conto che mi sarei ammalato se non
avessi messo nello stomaco qualcosa di caldo.
Stavo gi armeggiando davanti al fornello quando udii delle SS salire a
grandi passi le scale. Lasciai l'appartamento il pi in fretta possibile
e corsi in soffitta. Ce l'avevo fatta! Ancora una volta i tedeschi si
limitarono a fiutare un po' attorno e poi se ne andarono. Ridiscesi in
cucina. Per accendere il fuoco, dovetti raschiare schegge da una porta
di legno con un coltello arrugginito che avevo trovato. Nel farlo una
scheggia lunga un centimetro si infil sotto l'unghia del pollice
destro. Si era conficcata in modo tale e cos in profondit che non
riuscii a estrada. Quel piccolo incidente avrebbe potuto avere
conseguenze gravi, non avevo disinfettanti, vivevo nella sporcizia e mi
sarebbe facilmente potuta venire una setticemia. Anche se cercavo di
rassicurarmi dicendomi che l'infezione si sarebbe limitata al pollice,
tuttavia avrebbe potuto restare deforme mettendo a rischio la mia
carriera di pianista, sempre che fossi sopravvissuto sino alla fine
della guerra. Decisi di aspettare fino al giorno successivo, poi avrei
tagliato l'unghia con la lametta del rasoio.
Me ne stavo l in piedi a guardare con aria mesta il mio pollice quando
di nuovo udii dei passi. Mi apprestai a salire rapidamente in solaio
ancora una volta, ma ormai era troppo tardi. Mi ritrovai davanti a un
soldato con l'elmetto e un fucile tra le mani. Il suo volto aveva
un'espressione vacua e un po' ottusa.
Si allarm quanto me per quell'incontro imprevedibile in mezzo alle
macerie, ma cerc di assumere un'espressione minacciosa. In uno stentato
polacco mi chiese che cosa io facessi l. Gli risposi che ora vivevo
fuori Varsavia e che ero tornato a prendere alcune delle mie cose.
Considerato il mio aspetto, quella era una spiegazione
assolutamente ridicola.
Il tedesco mi punt addosso il fucile e mi ordin di seguirlo. Gli dissi
che lo avrei fatto, ma che la mia morte gli sarebbe pesata sulla
coscienza e che se mi avesse lasciato andare, gli avrei dato in cambio
mezzo litro di alcol. Si dichiar d'accordo su quella forma di
pagamento, ma mi fece chiaramente capire che sarebbe tornato e che avrei
dovuto dargli dell'altro alcol. Non appena se ne fu andato ritornai
velocemente in soffitta, ritirai la scaletta e chiusi la botola. Come
prevedibile, di l a un quarto d'ora torn, questa volta accompagnato da
diversi altri soldati e da un sottufficiale. Quando udii i passi e le
voci cercai riparo sul pezzo di tetto ancora integro, che era molto
inclinato. Mi distesi appiattendomi sul ventre, appoggiando i piedi
contro la grondaia. Se si fosse piegata o avesse ceduto, sarei scivolato
sulla lamiera del tetto e sarei caduto dall'altezza di cinque piani
nella strada sottostante. La grondaia fortunatamente resse e ancora una
volta grazie a questo insolito e disperato espediente riuscii a sfuggire
alla morte. I tedeschi perquisirono tutto l'edificio, impilando tavole e
sedie a mo' di scala, salendo persino in soffitta, tralasciando per di
guardare sul tetto. Probabilmente ritenevano impossibile che qualcuno
potesse nascondervisi. Se ne andarono a mani vuote, bestemmiando e
coprendomi di insulti.
Quell'incontro con i tedeschi mi sconvolse cos profondamente che decisi
che da allora in poi di giorno sarei rimasto disteso sul tetto, solo al
calare della notte sarei sceso in solaio. La lamiera di metallo mi
faceva gelare. Avevo gambe e braccia irrigidite, il corpo intorpidito
per quella posizione scomoda e contratta, ma avevo gi patito tanto che
valeva la pena di soffrire ancora un po' anche se trascorse una
settimana prima che i soldati tedeschi, i quali sapevano che mi
nascondevo l, finissero i lavori all'ospedale e abbandonassero di nuovo
questa parte della citt.
Poi un giorno le SS portarono un gruppo di civili a lavorare
all'ospedale. Erano quasi le dieci del mattino e io ero appiattito sul
tetto rigido quando, all'improvviso, udii una raffica di colpi
vicinissimi a me, sparati da un fucile o un mitra. Era un rumore che
stava tra il sibilo e il cinguettio, come se uno stormo di passeri
stesse volando sopra la mia testa e i colpi mi cingevano d'assedio
d'ogni lato. Mi guardai attorno.
Due tedeschi, in piedi sul tetto dell'ospedale, mi stavano sparando
addosso. Scivolai di nuovo in soffitta e mi precipitai verso la botola,
tenendomi chino per non essere colpito. Quei due urlavano alle mie
spalle: Fermo! Fermo! mentre i proiettili mi passavano sopra la testa.
Riuscii per ad arrivare alla scala sano e salvo.
Non c'era tempo per fermarsi a pensare: il mio ultimo nascondiglio in
quell'edificio era stato scoperto e dovevo abbandonarlo al pi presto.
Mi avventai gi per le scale, raggiunsi via Sedziowska, feci di corsa
tutta la strada e mi buttai fra le rovine delle villette che un tempo
erano state la propriet Staszic.
Ancora una volta la mia situazione era disperata. Vagavo tra i muri di
edifici rasi al suolo dalle fiamme, dove non ci poteva essere acqua,
avanzi di cibo e tanto meno un nascondiglio. Tuttavia, di l a un po'
scorsi in lontananza un edificio alto di fronte ad Aleje Niepodleglosci
dietro via Sedziowska, l'unico edificio a pi piani di quel quartiere.
Mi avvicinai. Guardando pi attentamente vidi che il centro dello
stabile era stato bruciato ma che le pareti laterali erano pressoch
intatte. Negli appartamenti c'erano ancora mobili, nelle vasche ancora
l'acqua dai giorni della rivolta; nelle dispense i saccheggiatori
avevano lasciato qualche provvista.
Secondo la mia abitudine mi sistemai in solaio. Il tetto era
praticamente integro, c'era solo qualche buco causato dalle schegge
degli shrapnel. Vi faceva molto pi caldo che nel mio nascondiglio
precedente, anche se di l sarebbe stato impossibile fuggire. Non avrei
nemmeno potuto trovare la morte saltando gi dal tetto. All'ultimo piano
del caseggiato c'era una finestrella di vetro piombato dalla quale
potevo osservare il vicinato. Per quanto confortevole fosse il mio nuovo
rifugio non mi sentivo a mio agio, perch mi ero abituato ormai a quello
precedente. Ma non avevo scelta, dovevo restarvi.
Scesi all'ammezzato e guardai fuori della finestra. Sotto di me c'erano
centinaia di ville bruciate, un'intera parte della citt ormai morta.
Nei giardinetti vidi cumuli di innumerevoli fosse. Un gruppo di operai
in abiti civili, con vanghe e piccozze sulle spalle, percorrevano via
Sedziowska, marciando in fila per quattro. Con loro non c'era nemmeno
un
tedesco in uniforme. Ancora nervoso e agitato per la mia precipitosa
fuga, fui colto dal desiderio improvviso di ascoltare una voce umana e
di sentirmi rispondere. Qualsiasi cosa potesse succedere avrei quanto
meno scambiato qualche parola.
Scesi di corsa le scale e uscii in strada. Ma ormai il gruppetto degli
uomini aveva proseguito. Mi affrettai a raggiungerli,
Siete polacchi?
Si fermarono e mi fissarono sbalorditi. Il loro capo rispose di s.
Che cosa ci fate qui? Mi riusciva difficile parlare dopo quattro mesi
di silenzio totale, fatta eccezione per le frasi scambiate con il
tedesco al quale avevo pagato con l'alcol il mio riscatto e adesso ero
profondamente commosso.
Stiamo scavando fortificazioni. Tu che ci fai qui?
Mi nascondo.
Il capo mi guard con quella che mi parve una punta di compassione.
Vieni con noi, disse. Sei in grado di lavorare e potrai avere un po'
di minestra.
Minestra! La sola idea di un piatto di minestra veramente calda mi fece
provare dei crampi allo stomaco cos forti che per un momento quasi
decisi di andar con loro, anche se questo poteva mettere a rischio la
mia vita. Volevo quella minestra. Una volta tanto volevo solo mangiare a
sufficienza. Il buon senso per, alla fine prevalse.
No, io non vado dai tedeschi.
Il capo sorrise, un sorriso in parte cinico, in parte sarcastico. Oh,
non saprei, protest. I tedeschi non sono poi tanto malvagi.
Solo in quel momento mi resi conto di quello che in certo qual modo non
avevo notato prima; il capo era stato l'unico a rivolgermi la parola,
tutti gli altri erano rimasti in silenzio. Sulla manica portava una
fascia colorata sulla quale era impresso un marchio. Sul suo volto c'era
un'espressione sgradevole, sfuggente e abietta. Mentre parlava non
guardava me negli occhi, ma al di sopra della mia spalla destra.
No, ripetei. Grazie, ma no.
Come vuoi, borbott.
Mi voltai per andarmene. Quando il gruppetto si rimise in marcia, salutai.
Colto da un presentimento, o forse guidato dall'istinto di
autoconservazione che si era affinato negli anni di clandestinit, non
tornai nel solaio dell'edificio che avevo scelto come rifugio. Scelsi la
villa attigua, come a significare che l mi tenevo nascosto in cantina.
Quando raggiunsi la porta carbonizzata mi voltai: il manipolo di uomini
proseguiva, ma il loro capo continuava a girarsi per vedere dove mi
fossi diretto.
Solo dopo che furono scomparsi alla vista tornai nel mio
solaio, o meglio al piano del mezzanino per guardar fuori della
finestra. Di l a dieci minuti l'uomo in borghese con la fascia al
braccio era di ritorno con due poliziotti. Indic la villa in cui mi
aveva visto entrare. La perquisirono e cos le altre case vicine, ma non
entrarono nell'edificio in cui stavo io. Forse temevano di trovarsi
davanti un folto gruppo di ribelli ancora appostati in agguato a
Varsavia. Un certo numero di persone, durante la guerra, ebbe salva la
vita per la codardia dei tedeschi, che amavano mostrarsi coraggiosi solo
quando la loro superiorit numerica sopravanzava quella dell'avversario.
Dopo due giorni andai a cercare cibo. Questa volta intendevo fare una
discreta provvista per non dover lasciare troppo spesso il mio
nascondiglio. Dovevo andare a cercare di giorno, dato che non conoscevo
abbastanza bene quell'edificio per ritrovare la strada di notte.
Trovai una cucina, quindi una dispensa contenente diverse scatolette,
dei sacchetti e delle scatole. Dovevo controllare con cura il loro
contenuto. Disfeci cordicelle e sollevai coperchi. Ero cos assorto in
quella mia ricerca da non badare assolutamente ad altro, fino a che mi
pervenne una voce alle spalle: Che diavolo ci fai qui?
Un ufficiale tedesco, alto ed elegante, era appoggiato alla credenza
della cucina, le braccia conserte.
Che cosa ci fai qui? ripet. Non lo sai che l'Unit di comando della
piazzaforte di Varsavia si insedier in questo edificio da un momento
all'altro?



CAPITOLO 18.


Notturno in do diesis minore.


Mi accasciai sulla sedia vicino alla porta della dispensa. Con la
certezza di un sonnambulo avvertii all'improvviso che se avessi cercato
di sfuggire a quella nuova trappola, le forze mi sarebbero venute meno.
Me ne stavo seduto l, a gemere, e guardavo con occhi spenti
l'ufficiale. Solo dopo un bel po' riuscii a balbettare a stento: Faccia
di me quello che vuole. Di qui non mi muovo!
Non ho intenzione di farti niente. L'ufficiale si strinse nelle
spalle. Che cosa fai per vivere? Il pianista.
Mi osserv pi attentamente con evidente sospetto. Poi il suo sguardo si
pos sulla porta che dalla cucina conduceva alle altre stanze. Parve
colpito da un'idea. Vieni con me, su.
Andammo nella stanza adiacente che chiaramente doveva essere stata la
sala da pranzo e poi nell'altra successiva dove, accosto alla parete,
c'era un pianoforte. Mi indic lo strumento.
Suona qualcosa!
Possibile che non gli fosse venuto in mente che il suono del pianoforte
avrebbe attirato immediatamente l'attenzione delle SS che si trovavano
nelle immediate vicinanze? Lo guardai con aria interrogativa e non mi
mossi. Lui avvert i miei timori dato che aggiunse, in tono
rassicurante: Stai tranquillo. Puoi suonare. Se arriva qualcuno
nasconditi nella dispensa.
Dir che lo stavo provando io, il pianoforte.
Quando posai le dita sulla tastiera, tremavano. Dunque questa volta
avrei dovuto pagare un prezzo per la mia vita suonando il pianoforte!
Non mi esercitavo pi da due anni e mezzo, avevo le dita irrigidite e
coperte da uno spesso strato di sporcizia. Non mi ero pi tagliato le
unghie da quando il caseggiato in cui mi nascondevo era andato in
fiamme. Non solo, ma la stanza in cui si trovava il pianoforte era priva
di vetri alle finestre, cosicch i meccanismi si erano gonfiati per
l'umidit e resistevano alla pressione dei tasti.
Eseguii il Notturno in do diesis minore di Chopin. Il suono duro e
metallico delle corde scordate echeggiava attraverso l'appartamento
vuoto, per le scale, fluttuava sulle macerie della villa sull'altro lato
della strada e tornava indietro in un'eco sommessa e malinconica. Quando
ebbi finito, il silenzio parve ancora pi cupo e pi sovrannaturale di
prima. Da qualche parte in strada un gatto miagolava. Fuori si ud uno
sparo. Un colpo secco, violento, tedesco.
L'ufficiale mi guard in silenzio. Poi trasse un sospiro e bofonchi:
Comunque faresti bene ad andartene! Ti porter fuori citt, in un paese
dove potrai stare pi al sicuro.
Scossi la testa. Non posso lasciare questo posto, risposi in tono
fermo.
Solo in quel momento parve capire la vera ragione per cui mi nascondevo
tra le macerie. Sobbalz, innervosito. Sei ebreo? chiese.
S.
Se fino a quel momento se ne era stato con le braccia conserte sul
petto, adesso le abbass e si sedette sulla poltrona accanto al
pianoforte, quasi che quella scoperta richiedesse un'accurata
riflessione.
S, be', mormor, adesso capisco perch non puoi andartene.
Di nuovo per un po' parve assorto in pensieri profondi, poi si gir
verso di me per pormi un'altra domanda. Dove stai nascosto? In
soffitta. Fammi vedere com' lass.
Salimmo. Lui ispezion il solaio con occhi attenti ed esperti. Nel farlo
scopr qualcosa che a me era sfuggito. Un sottotetto di assi, sotto la
conversa e direttamente sopra l'ingresso del solaio stesso. A una prima
occhiata era quasi impossibile notarlo: la luce in quel punto era molto
fioca. L'ufficiale mi convinse a nascondermi l e mi aiut a cercare una
scala negli appartamenti sottostanti. Dopo che me ne fossi servito per
salire avrei dovuto ritirarla, aggiunse.
Finimmo di mettere a punto il piano quindi mi chiese se avevo provviste.
No, gli risposi. In fin dei conti mi aveva colto alla sprovvista
proprio mentre stavo cercando del cibo.
Be', non preoccuparti! si affrett ad aggiungere, quasi vergognandosi
di essere entrato di sorpresa. Ti porter io da mangiare.
Solo allora mi arrischiai a fargli una domanda. Non riuscivo
assolutamente pi a trattenermi. Lei tedesco?
Avvamp. E, in preda all'agitazione, quasi urlando, mi rispose come se
lo avessi insultato.
S, e me ne vergogno dopo tutto quello che successo!
Con un movimento brusco si alz, mi strinse la mano e se ne and.
Passarono tre giorni prima che ricomparisse. Arriv che era sera.
L'oscurit era totale quando dal basso udii un bisbiglio. Ehi, sei l?
S, sono qui, risposi.
Subito dopo mi venne lanciato qualcosa di pesante e fin accanto a me.
Tastai la carta e mi resi conto che l'involto conteneva alcune forme di
pane e qualcosa di morbido che in seguito risult essere marmellata
avvolta in carta oleata. Misi subito da parte il pacchetto e dissi:
Aspetti un momento!
La voce nell'oscurit sembrava spazientita. Che cosa c'? Sbrigati! Le
guardie mi hanno visto entrare e non posso trattenermi.
Dove sono le truppe sovietiche?
Sono gi a Varsavia. Nel sobborgo Praga. Sull'altra riva della Vistola.
Cerca di resistere ancora per qualche settimana. La guerra finir al
massimo entro la primavera.
La voce si azzitt. Non sapevo se l'ufficiale fosse ancora l o se ne
fosse andato, ma a un tratto parl di nuovo: Devi resistere. Mi hai
sentito? Il tono era duro, come se stesse dandomi un ordine a
persuadermi che lui aveva assolutamente ragione e la guerra sarebbe
finita bene per noi. Solo dopo che ebbe pronunciato quelle parole udii
la porta del solaio chiudersi silenziosamente.
Trascorsero settimane monotone e disperate. Il fuoco d'artiglieria
proveniente dalla direzione della Vistola aveva perso di intensit.
Passavano giorni in cui il silenzio non era infranto neppure da un
singolo sparo. Forse questa volta avrei finito davvero per arrendermi e
togliermi la vita, come avevo programmato tante altre volte prima di
allora, se non fosse stato per i giornali in cui il tedesco aveva
avvolto il pane che mi aveva portato. Erano recentissimi e li lessi pi
e pi volte traendo speranza dalle notizie delle sconfitte riportate dai
tedeschi su tutti i fronti. Fronti che si addentravano sempre pi
rapidamente nel Reich.
Gli uomini dell'unit tedesca continuavano il loro lavoro nelle ali
laterali dell'edificio. Soldati salivano e scendevano le
scale portando spesso grossi involti in soffitta e trasportandone altri
in basso. Ma il mio nascondiglio era stato ben scelto. A nessuno pass
mai per la mente di perquisire il sottotetto. Fuori dell'edificio, lungo
la strada, c'erano sentinelle che marciavano di continuo avanti e
indietro. Udivo sempre i loro passi di giorno e di notte, li udivo
pestare i piedi gelati. Quando avevo bisogno di acqua, sgattaiolavo di
notte negli appartamenti distratti, dove le vasche erano colme fino
all'orlo.
L'ufficiale venne per l'ultima volta il 12 dicembre. Mi aveva portato
una provvista di pane ancora pi generosa della volta precedente e una
coperta pesante. Mi disse che stava per lasciare Varsavia con il suo
distaccamento e che non dovevo assolutamente perdermi d'animo perch
l'offensiva sovietica era attesa ormai da un momento all'altro. A
Varsavia? S.
Ma riuscir a sopravvivere ai combattimenti in strada? chiesi
preoccupato.
Se siamo riusciti a sopravvivere pi di cinque anni a questo inferno,
rispose, evidente che Dio vuole che noi continuiamo a vivere. In ogni
caso non possiamo far altro che crederci.
Ci eravamo gi salutati e lui stava per andarsene, quando all'ultimo
momento mi venne un'idea. Era un po' che mi stavo lambiccando il
cervello per trovare il modo di mostrargli la mia riconoscenza e lui
aveva gi rifiutato di accettare l'unico bene che mi era rimasto,
l'orologio.
Mi stia a sentire, gli presi la mano e cominciai a parlare in tono
pressante. Non le ho mai detto come mi chiamo... non me lo ha mai
chiesto, ma voglio che se lo tenga bene in mente. Non si sa mai cosa
potrebbe succedere. Lei deve fare un lungo viaggio per tornare a casa.
Se sopravviver lavorer sicuramente di nuovo per la Radio polacca.
Era l che lavoravo prima che scoppiasse la guerra. Se le
accadesse qualcosa e io potessi in qualche modo aiutarla, si
ricordi il mio nome: Szpilman, Radio polacca.
Lui mi rivolse il suo solito sorriso, in parte di disapprovazione e in
parte timido e imbarazzato. Ma io capii che in quel momento gli avevo
fatto un gran piacere a manifestargli il mio desiderio di essergli
d'aiuto.
A met dicembre giunse il primo gelo. Quando la notte del 13 dicembre
uscii a far provviste di acqua trovai che era ghiacciata dappertutto.
Andai a cercare un bricco e una pentola in un appartamento vicino
all'ingresso di servizio, sul retro dell'edificio che era stato
risparmiato dalle fiamme poi tornai nel mio sottotetto. Raschiai un po'
del ghiaccio contenuto nella pentola e me lo ficcai in bocca, ma non mi
fece passare la sete. Allora mi venne un'altra idea. Mi cacciai sotto la
coperta e mi appoggiai la pentola del ghiaccio sul ventre nudo. Di l a
un po' il ghiaccio prese a sciogliersi e io riuscii ad avere l'acqua.
Nei giorni seguenti feci la stessa cosa, dato che la temperatura
continuava a restar sotto zero.
Venne Natale e poi il nuovo anno del 1945: il sesto Natale, il sesto
Capodanno dall'inizio della guerra, i peggiori che avessi mai vissuto.
Non ero in condizione di celebrarli. Me ne stavo disteso nell'oscurit
ad ascoltare il vento che sferzava sulla lamiera del tetto e sulle
grondaie malconce che penzolavano lungo le mura degli edifici,
rovesciando mobili in quegli appartamenti solo parzialmente distrutti.
Negli intervalli fra una raffica e l'altra tra le macerie sentivo lo
squittio e il fruscio di topi che scorrazzavano per il solaio. A volte
zampettavano addirittura sopra la mia coperta e quando dormivo mi
correvano sul volto graffiandomi con le unghie. Ricordavo tutti i Natali
trascorsi prima e durante la guerra.
All'inizio avevo una famiglia, genitori, due sorelle e un fratello, poi
non avevamo pi avuto una casa nostra, ma avevamo continuato a vivere
insieme. In seguito ero rimasto solo, ma circondato da altre persone.
Ora mi sentivo pi solo che chiunque altro al mondo. Perfino il
personaggio creato da Defoe, Robinson Crusoe, il prototipo dell'uomo
solitario, poteva sperare di incontrare un altro essere umano. Crusoe si
dava coraggio pensando che un giorno o l'altro ci potesse accadere, un
pensiero che lo aiutava a tirare avanti. Ma se ora qualcuno che mi stava
attorno mi si fosse avvicinato, sarei dovuto fuggire e nascondermi in
preda a un terrore mortale. Se volevo vivere, dovevo star solo,
totalmente solo,
Il 14 gennaio fui svegliato da rumori insoliti in strada e
nell'edificio. Automobili si fermavano poi si allontanavano, soldati
correvano su e gi per le scale, sentivo voci concitate e nervose. Si
continuavano a portare fuori dell'edificio oggetti, probabilmente per
caricarli su veicoli. All'alba del 15 gennaio si ud il rombo
dell'artiglieria provenire dal fronte sulla Vistola, fino ad allora
silenzioso. I proiettili non colpivano quella parte della citt in cui
mi tenevo nascosto. In ogni caso il terreno e i muri della casa
tremavano sotto i colpi sordi e continui, le lamiere metalliche del
tetto vibravano e dalle pareti interne si staccava l'intonaco. Quel
rumore doveva essere causato dai famosi razzi Katiuscia sovietici che ci
avevano tanto magnificato gi prima della rivolta. Travolto
dall'eccitazione e dall'entusiasmo commisi quello che nelle circostanze
in cui mi trovavo si rivel un'imperdonabile follia: bevvi un'intera
pentola d'acqua.
Tre ore dopo il pesante fuoco dell'artiglieria cess nuovamente ma io
ero pi nervoso che mai. Non riuscii a chiudere occhio per tutta la
notte. Se i tedeschi avessero continuato a difendere le rovine di
Varsavia gli scontri nelle strade sarebbero potuti iniziare da
un momento all'altro e io sarei stato ucciso a conclusione di tutte
le mie precedenti tribolazioni.
Invece la notte pass tranquillamente. Verso l'una i tedeschi ancora
rimasti nell'edificio se ne andarono. Segu il silenzio. Un silenzio
cos totale che neppure Varsavia, una citt ormai morta da tre mesi,
aveva mai conosciuto. Non sentivo pi i passi delle sentinelle fuori
dell'edificio. Non capivo cosa stesse accadendo. C'erano in atto
combattimenti?
Solo alle prime ore del giorno seguente il silenzio fu infranto da un
rumore forte e risonante. L'ultima cosa che mi sarei aspettato di
sentire. Gli altoparlanti della radio, collocati poco lontano, stavano
diffondendo annunci in lingua polacca, annunci della disfatta della
Germania e della liberazione di Varsavia.
I tedeschi si erano ritirati senza combattere. Non appena cominci ad
albeggiare mi preparai febbrilmente per avventurarmi per la prima volta
fuori. Il mio ufficiale mi aveva lasciato un pastrano militare tedesco
che doveva ripararmi dal gelo quando andavo a cercare l'acqua. Lo
indossai e, in quel momento, all'improvviso udii i passi ritmati dei
soldati di guardia ancora in strada. Ma allora i polacchi e i sovietici
si erano ritirati? Mi lasciai cadere sul materasso, mortalmente
sconfortato, e rimasi cos finch qualcosa di nuovo non mi giunse alle
orecchie. Voci di donne e di bambini che non sentivo da mesi. Donne e
bambini che parlavano in tono calmo come se nulla fosse successo. Come
ai vecchi tempi quando le madri potevano camminare tranquillamente per
strada con i loro figli. Dovevo assolutamente ottenere informazioni.
Quello stato di incertezza mi stava diventando insopportabile. Mi
precipitai gi per le scale, sporsi la testa fuori dell'androne
dell'edificio abbandonato e guardai in Aleje Niepodleglosci.
Era un mattino grigio e nebbioso. Non molto lontano, alla mia
sinistra, scorsi una donna.
Indossava un'uniforme che per a quella distanza mi fu difficile
identificare. Un'altra donna con un fagotto sulle spalle alla mia destra
mi si stava avvicinando. Quando mi fu accanto mi arrischiai a rivolgerle
la parola. Salve, mi scusi, dissi con voce sommessa facendole un
cenno.
Lei mi fiss, lasci cadere il fagotto e si mise a correre urlando: Un
tedesco! Subito la donna soldato si gir, mi vide, alz la mitraglietta
e spar. I proiettili colpirono il muro e mi fecero piombare addosso dei
calcinacci. Senza riflettere mi avventai su per le scale e corsi a
rifugiarmi in solaio.
Quando qualche minuto pi tardi guardai fuori dalla finestrella vidi che
l'intero edificio era gi stato circondato. Udii i soldati chiamarsi
l'un l'altro mentre scendevano nelle cantine e, subito dopo, degli spari
ed esplosioni di granate a mano.
La mia situazione era veramente assurda. Stavo per essere ucciso da
soldati polacchi in una Varsavia liberata per un equivoco. Cominciai a
chiedermi febbrilmente come far capire loro senza ulteriori indugi che
ero polacco prima che mi mandassero all'altro mondo ritenendo che fossi
un tedesco in fuga. Nel frattempo un altro distaccamento di militari in
uniforme blu era arrivato fuori dell'edificio. In seguito appresi che si
trattava di militi della polizia ferroviaria che stavano passando di l
per caso, che eran stati reclutati per dare una mano ai soldati. Quindi
ora due unit armate mi stavano dando la caccia.
Presi a scendere lentamente le scale urlando con tutta la forza che
avevo in corpo: Non sparate, sono polacco!
Subito dopo udii dei passi precipitosi su per le scale. Mi
sporsi dalla balaustra e scorsi un giovane ufficiale con l'uniforme
polacca e un'aquila sul berretto. Mi punt la pistola contro e grid:
Mani in alto!
Ripetei la mia invocazione disperata: Non sparate! Sono polacco!
Il tenente avvamp d'ira: E perch in nome di Dio non scendi? tuon.
Che cosa ci fai con addosso un pastrano tedesco?
Solo dopo che i soldati mi ebbero esaminato pi da vicino e considerato
la situazione si convinsero finalmente che non ero tedesco.
Decisero quindi di portarmi al loro quartiere generale affinch potessi
lavarmi e mangiare bench io non fossi ancora sicuro di quello che
intendessero fare di me.
In ogni caso non potevo andare con loro in quello stato:
prima dovevo mantenere la promessa che avevo fatto a me stesso: baciare
il primo polacco che avrei incontrato dopo la fine dell'occupazione
nazista. Ma adempiere a quel voto fu tutt'altro che facile. Il tenente
oppose molta resistenza alla mia richiesta adducendo ogni sorta di
pretesto, all'infuori di quello che non voleva dirmi per cortesia. Solo
dopo che finalmente lo ebbi baciato lui estrasse uno specchietto e me lo
accost al volto dicendo con un sorriso: Vedi che buon patriota sono!
Due settimane pi tardi, assistito nel modo migliore dai militari,
pulito e riposato, passeggiavo tranquillamente per le strade di
Varsavia. Un uomo libero, per la prima volta, dopo quasi sei anni. Ero
diretto a est, verso la Vistola, volevo raggiungere Praga, un tempo un
sobborgo povero di Varsavia, ma che ora era tutto quello che restava in
piedi della citt dato che i tedeschi non lo avevano completamente
distrutto.
Stavo percorrendo la larga strada principale, in passato affollata di
gente e intasata dal traffico e ora completamente deserta. A perdita
d'occhio non c'era un solo edificio ancora intero. Continuavo a
camminare attorno a montagne di macerie, costretto a volte ad
arrampicarmici neanche fossero stati pendii sassosi di montagna. I miei
piedi restavano impigliati in un intricato groviglio di cavi divelti del
telefono e di binari del tram e di brandelli di tessuti che un tempo
avevano abbellito appartamenti o vestito esseri umani morti ormai da
tempo.
Uno scheletro giaceva vicino al muro di un edificio sotto una barricata
eretta dai rivoltosi. Non era di grandi dimensioni e la struttura ossea
appariva delicata. Doveva essere lo scheletro di una ragazza dato che
sul cranio erano ancora attaccati lunghi capelli biondi. Il tempo di
decomposizione dei capelli pi lungo rispetto a quello delle altre
parti del corpo. Accanto, una carabina arrugginita e attorno alle ossa
del braccio destro quanto restava di un vestito con una fascia bianca e
rossa dalla quale un proiettile aveva strappato via le lettere AK.
Non sono rimasti neppure questi resti delle mie sorelle, la bella Regina
e la seria Halina nel fiore degli anni e non mi sar mai possibile
trovare una tomba dove andare a pregare per le loro anime.
Mi fermai un po' per riposare, per tirare il fiato. Guardai nella
direzione nord della citt, dove un tempo esisteva il ghetto e dove
erano stati trucidati mezzo milione di ebrei. Non restava pi nulla. I
tedeschi avevano spianato persino i muri degli edifici bruciati.
Il giorno seguente sarebbe cominciata per me una nuova vita. Come avrei
fatto a riaffrontarla, avendo alle spalle soltanto morte? Quale energia
vitale potevo trarre dalla morte?
Ripresi a camminare. Un vento violento faceva sbattere i rottami di
ferro in mezzo alle macerie, fischiando e ululando attraverso le cavit
annerite delle finestre. Scese il crepuscolo. La neve prese a cadere da
un cielo plumbeo, sempre pi buio.



CAPITOLO 19.

Poscritto.


Circa due settimane pi tardi uno dei miei colleghi della Radio polacca,
il violinista Zygmunt Lednicki, che aveva partecipato alla rivolta, dopo
tanto errare torn a Varsavia. Come molti altri era venuto a piedi,
desideroso di ritrovarsi al pi presto possibile nella sua citt.
Durante il viaggio di ritorno era passato davanti a un campo di
internamento provvisorio per prigionieri di guerra tedeschi. Quando in
seguito me lo raccont, si affrett ad aggiungere che non approvava il
proprio comportamento ma che non era assolutamente riuscito a
trattenersi: si era avvicinato a un intrico di filo spinato e aveva
detto ai tedeschi: Avete sempre sostenuto di essere un popolo colto,
invece avete portato via a me, musicista, tutto quello che avevo, il
mio violino! Un ufficiale si era alzato faticosamente dal punto in cui
giaceva e si era avvicinato, barcollando, al fino spinato. Aveva un
aspetto malconcio, la barba lunga e le sue vesti erano lacere. Fissando
il mio collega con occhi disperati gli aveva chiesto: Conosce per caso
un certo signor Szpilman?
S, certo.
Io sono tedesco aveva bisbigliato febbrilmente l'uomo. Ho aiutato
Szpilman quando si teneva nascosto nel solaio dell'unit di commando
della piazzaforte di Varsavia. Gli dica che sono qui, che cerchi di
tirarmi fuori, la supplico...
In quel momento era sopravvenuta una delle sentinelle.
Non consentito parlare con i prigionieri. Per favore, se ne vada.
Lednicki se ne era andato ma, un attimo dopo, si era reso conto che non
conosceva il nome di quel tedesco. Allora si era voltato, ma ormai la
guardia aveva allontanato l'ufficiale dal reticolato.
Come ti chiami? aveva gridato.
Il tedesco si era girato e aveva urlato qualcosa, ma Lednicki non era
riuscito a capire.
Quanto a me, non conoscevo il nome di quell'ufficiale. Avevo di
proposito preferito ignorarlo in modo che se mi avessero catturato,
interrogato e la polizia tedesca mi avesse chiesto chi mi aveva
rifornito di pane, preso dai depositi militari, io non avrei potuto
rivelare il suo nome nemmeno sotto tortura.
Feci tutto quanto era in mio potere per rintracciare il prigioniero
tedesco, ma non riuscii mai a trovarlo. Il campo dei prigionieri di
guerra era stato evacuato e il luogo dove ora si trovava era un segreto
militare. Ma forse quel tedesco, l'unico essere umano con indosso
l'uniforme tedesca che io abbia mai conosciuto, era riuscito a tornare a
casa sano e salvo.
Qualche volta do concerti nell'edificio n. 8 di via Narbutt, a Varsavia,
dove avevo trasportato mattoni e malta, e dove lavorava la brigata
ebraica: uomini ai quali i tedeschi avevano sparato non appena i lavori
degli appartamenti degli ufficiali erano stati ultimati. Questi ultimi,
per, non hanno potuto godersi a lungo le loro belle case nuove.
Nell'edificio rimasto ancora in piedi ora ha sede una scuola.
Io suono per i bambini polacchi che ignorano quante sofferenze umane e
quale mortale paura un tempo siano passate in quelle loro aule assolate.
Prego perch possano non apprendere mai cosa significhino queste paure e
queste sofferenze.



CAPITOLO 20.

Estratti dal diario del capitano Wilm Hosenfeld.

18 gennaio 1942

La Rivoluzione nazionalsocialista appare bifronte sotto tutti gli
aspetti. La storia ci racconta di fatti orrendi e di atroci barbarie
durante la Rivoluzione francese. E anche la Rivoluzione bolscevica ha
consentito che terribili atrocit fossero perpetrate sulla classe
dominante per mano di esseri di una razza inferiore, dagli istinti
animaleschi, esseri pieni di odio. Per quanto si possano esplorare e
condannare simili azioni, da un punto di vista umano dobbiamo pur
riconoscerne la natura incondizionata determinata, impietosa e
irriducibile. Non furono fatti accordi, non vi furono finzioni, e
nemmeno concessioni. Ci che quei rivoluzionari hanno fatto, l'hanno
fatto con generosit, risolutezza, incuranti della coscienza, della
morale e delle usanze. Tanto i giacobini quanto i bolscevichi hanno
massacrato le classi superiori dominanti e giustiziato le loro famiglie
reali. Hanno tagliato i ponti con il cristianesimo e l'hanno combattuto,
decisi a cancellarlo dalla faccia della terra. Sono riusciti a
coinvolgere i loro compatrioti nelle guerre rivoluzionarie combattute
con energia e con entusiasmo: le guerre rivoluzionarie del passato, la
guerra odierna contro la Germania, Le loro teorie e le loro idee
rivoluzionarie hanno avuto un'influenza enorme oltre le frontiere dei
loro stessi Paesi.
I metodi dei nazionalsocialisti, per quanto diversi, anch'essi
fondamentalmente perseguono uno stesso scopo: lo sterminio e
l'annientamento di persone che non la pensano come loro. Cos, ogni
tanto un certo numero di tedeschi viene ucciso, ma la notizia taciuta
e tenuta segreta al pubblico. Gente viene imprigionata in campi di
concentramento e lasciata l a deperire e morire.
Il popolo non ne sa nulla. Se si ha intenzione di arrestare nemici dello
Stato bisognerebbe avere il coraggio di farlo pubblicamente e di
consegnarli alla giustizia pubblica.
Da un lato si alleano con le classi dominanti capitalistiche e
industriali e sostengono il principio capitalista, dall'altro predicano
il Socialismo. A parole si dichiarano favorevoli al diritto alla libert
personale e religiosa, ma in realt distruggono le chiese cristiane e
conducono contro di esse una battaglia segreta, clandestina. Parlano dei
princpi del Fhrer, del diritto di sviluppare liberamente i propri
talenti, ma fanno dipendere tutto dall'appartenenza al partito. Anche le
persone pi capaci e pi brillanti vengono ignorate se ne restano fuori.
Hitler sostiene che sta offrendo la pace mondiale, ma al tempo stesso
arma la nazione in modo preoccupante. Racconta al mondo di non avere
intenzione di inglobare altre nazioni entro gli Stati tedeschi ma nega
loro il diritto alla propria sovranit. Ma allora i cechi? Allora i
polacchi e i serbi? Soprattutto in Polonia non pu esservi stata la
necessit di derubare una nazione della propria sovranit entro la
propria area autonoma di insediamento.
E guardate gli stessi nazionalsocialisti, osservate quanto vivono
lontani dai princpi del Nazionalsocialismo: lontani, per esempio,
dall'idea che il bene comune venga prima del bene individuale. Chiedono
alla gente di osservare questo principio ma, quanto a loro, non hanno
alcuna intenzione di farlo.
Chi affronta il nemico? La gente, non il partito. Ora stanno
richiamando al servizio militare gli invalidi, mentre si vedono giovani
sani e vigorosi, che lavorano negli uffici del partito, nella polizia
lontano dal fronte. Perch sono esentati?
Si impadroniscono dei beni dei polacchi e degli ebrei per goderseli
loro. Ora polacchi e ebrei non hanno nulla da mangiare, vivono in
miseria, soffrendo il gelo, senza che i nazionalsocialisti vedano
alcunch di male nel portarsi via tutto.

Varsavia, 17 aprile 1942
Ho trascorso alcuni giorni sereni, qui alla facolt di Educazione
fisica. Quasi non mi avvedo che c' la guerra, ma non posso sentirmi
felice. Di tanto in tanto ci arrivano notizie di vario genere. Ma sono
soprattutto gli eventi che accadono nella zona dietro le linee del
fronte a fare notizia: le sparatorie, gli incidenti e cos via. In
Lieszmannstadt (Ldz) sono stati uccise un centinaio di persone,
giustiziate anche se innocenti, si potrebbe dire, perch dei banditi
hanno fatto fuoco su tre ufficiali della polizia. Lo stesso avvenuto a
Varsavia. Il risultato non tanto quello di suscitare paura e terrore,
ma aspra determinazione, ira e fanatismo crescenti. Sul ponte di Praga
due appartenenti alla Giovent hitleriana stavano molestando un polacco.
E, quando lui si difeso, hanno chiamato in loro aiuto un poliziotto
tedesco. Dopo di che il polacco ha sparato uccidendoli tutti e tre. Un
grosso veicolo militare ha travolto nella piazza dell'ufficio postale un
risci con tre persone a bordo. Il portatore del risci stato ucciso
sul colpo. Il veicolo militare ha continuato a procedere trascinandosi
appresso il risci sul quale stava ancora seduto un passeggero che
scivolato fuori e ne stato travolto.
Si radunata una gran folla, ma la macchina ha continuato a
proseguire. Un tedesco ha cercato inutilmente di fermarla, poi il risci
si incastrato nelle ruote dell'auto che stata costretta a fermarsi.
Gli uomini sono scesi, hanno spostato il risci poi sono ripartiti.
Alcuni polacchi di Zakopane si sono rifiutati di consegnare i loro sci.
Le loro case sono state perquisite e duecentoquaranta uomini sono stati
mandati ad Auschwitz, il tanto paventato campo di concentramento a est.
L la Gestapo tortura a morte le persone. Trascinano i disgraziati nelle
celle e li eliminano in tutta fretta gasandoli. Nel corso degli
interrogatori, le persone vengono picchiate selvaggiamente. Vi sono
speciali celle di tortura. Ad esempio, una in cui le mani e le braccia
delle vittime sono legate a un palo, che viene sollevato e al quale la
vittima viene lasciata appesa fino a quando non perde i sensi. Oppure
viene messa in una cassa dove riesce a stare solo accovacciata e l
viene abbandonata fino a che non perde conoscenza.
Quali altre diavolerie hanno escogitato? Quante persone del tutto
innocenti sono chiuse nelle loro prigioni? Il cibo scarseggia sempre pi
di giorno in giorno, la carestia a Varsavia aumenta.

Tomaszwow, 26 giugno 1942.
Dalla chiesa cattolica mi perviene un suono di musica d'organo e canti.
Entro. Ragazzini con i vestiti bianchi della prima comunione sono in
piedi davanti all'altare. La chiesa affollata. Tutti cantano il Tantum
ergo. Viene impartita la benedizione. Lascio che il prete benedica anche
me. Bambinetti innocenti, qui in una citt polacca, l in una citt
tedesca o in qualche altro Paese, pregano tutti Dio. E, tra pochi anni,
combatteranno e si uccideranno con odio cieco. Persino ai vecchi tempi
quando le nazioni erano pi sensibili alla religione e chiamavano i loro
governanti maest cristiane, la situazione era identica a oggi, anche
ora la gente si allontana dal cristianesimo. L'umanit sembra condannata
a fare pi male che bene. Il pi grande ideale sulla terra l'amore fra
gli esseri umani.

Varsavia, 23 luglio 1942.
Se si leggono i giornali e se si ascoltano i notiziari alla radio, si
potrebbe pensare che tutto sta andando benissimo, che la pace sicura,
la guerra gi vinta e il futuro del popolo tedesco roseo e luminoso. Ma
io proprio non riesco a crederci, sia per il semplice fatto che
l'ingiustizia alle lunghe non pu prevalere, sia per il modo in cui i
tedeschi dominano i Paesi che hanno conquistato e che prima o poi
scatener, per reazione, la Resistenza. Mi basta guardare quali sono le
condizioni qui in Polonia, per rendermene conto anche se nemmeno qui si
capisce granch da qual poco che ci viene detto. Tuttavia ci possiamo
fare ugualmente un quadro chiaro della situazione in base a tutte le
osservazioni, le conversazioni e le informazioni che ascoltiamo
quotidianamente. Se qui i metodi per amministrare e governare, opprimere
la popolazione e l'operato della Gestapo sono particolarmente brutali,
suppongo avvenga pi o meno lo stesso negli altri Paesi conquistati.
Dappertutto ci sono paura e terrore, uso della forza, arresti. Ogni
giorno la gente viene portata via e uccisa. La vita di un essere umano,
per non parlare della sua libert personale, priva di valore.
Ma l'amore per la libert innato in ogni essere umano e in
ogni nazione e alle lunghe non pu essere soppresso.
La storia ci insegna che la tirannide ha sempre avuto vita breve. E ora
noi abbiamo sulla coscienza sanguinosi crimini causa delle orribili
ingiustizie commesse nell'assassinare i cittadini ebrei. C' in atto
un'azione per sterminare gli ebrei. Questo l'obiettivo
dell'amministrazione civile tedesca da quando sono state occupate le
regioni orientali, con l'aiuto della polizia e della Gestapo ma
evidentemente ora deve essere attuato su vasta scala e in modo radicale.
Ci vengono riferite voci incredibili da fonti tutt'affatto diverse fra
loro, secondo le quali il ghetto di Lublino stato sgombrato, gli ebrei
portati via e sterminati en masse, o ricacciati nelle foreste, alcuni di
loro sono stati internati in campi di concentramento. A quanto dicono
persone di Lietzmannstadt e di Kutno, gli ebrei, donne, uomini e
bambini, vengono avvelenati a bordo di veicoli in cui immesso del
gas, i morti vengono denudati, gettati in fosse comuni e i loro
indumenti mandati a industrie tessili per essere rigenerati. Si dice che
avvengano scene spaventose. Ora, a quanto riferiscono i rapporti, stanno
svuotando allo stesso modo il ghetto di Varsavia, dove si trovano circa
quattrocentomila persone, e allo scopo vengono usati battaglioni di
poliziotti ucraini e lituani al posto della polizia polacca. Si stenta a
credere a cose simili e io mi sforzo di non crederci. Non tanto per la
preoccupazione in vista del futuro del nostro Paese, che un giorno dovr
pagare per questi crimini mostruosi, ma perch non riesco a convincermi
che Hitler voglia una cosa simile e che esistano tedeschi che diano tali
ordini. Se vero, ci pu essere una sola spiegazione: sono persone
malate, anormali o pazze.

25 luglio 1942.
Se quello che si dice in citt vero, lo riferiscono fonti affidabili,
allora non assolutamente un onore essere un ufficiale tedesco e
nessuno potrebbe accettare quello che sta accadendo. Io per non posso
crederci.
Corre voce che questa settimana trentamila ebrei saranno portati via dal
ghetto e mandati da qualche parte a est. Nonostante si cerchi di
mantenere la segretezza c' chi sostiene di sapere quello che succeder
dopo: nei dintorni di Lublino sono state costruite strutture con stanze
che possono essere riscaldate elettricamente con alta corrente elettrica
come si procede nei crematori. I poveretti vengono spinti in quelle
stanze surriscaldate e bruciati vivi. Cos in un giorno se ne possono
eliminare a migliaia risparmiandosi il disturbo di scavare fosse comuni
che poi dovranno essere riempite. Neppure la ghigliottina dei tempi
della Rivoluzione francese pu competere con simili orrori e nemmeno
nelle celle della polizia segreta russa sono stati escogitati metodi
cos perfezionati di massacri di massa.
Ma questa certamente follia. Non pu essere possibile. Vien da
chiedersi perch gli ebrei non si difendano. Il fatto che molti,
sicuramente la maggior parte di loro, sono cos debilitati dalla fame e
dalle sofferenze, da non essere in grado di opporre alcuna resistenza.

Varsavia, 13 agosto 1942.
Un negoziante polacco espulso da Posen all'inizio della guerra, esercita
la sua attivit qui a Varsavia. Mi vende spesso frutta e verdura,
eccetera. Durante la Prima guerra mondiale, ha combattuto per quattro
anni sul fronte occidentale come soldato tedesco. Mi ha mostrato
il suo libro paga. Quest'uomo nutre forti simpatie per i tedeschi
ma un polacco e lo sar sempre.
E' disperato per le orribili crudelt, per la brutalit animalesca,
per quello che i tedeschi stanno compiendo nel ghetto.
Non si pu fare a meno di continuare a stupirsi di come sia possibile
che tra la nostra gente esistano tante canaglie. Criminali e pazzi sono
stati forse lasciati uscire dalle prigioni e dai manicomi e mandati qui
a comportarsi come cani sanguinari? No. Sono persone di una certa
rilevanza, che fan parte dello Stato che hanno insegnato ai loro
compatrioti, peraltro innocui, a comportarsi in siffatta maniera.
Nell'animo umano si annidano malvagit e brutalit. Se si consente a
questi sentimenti di svilupparsi liberamente essi fioriscono, mettono
orribili germogli, quel genere di idee atte a convincere la gente che
ebrei e polacchi debbano essere assassinati in questo modo.
Il negoziante polacco cui ho accennato ha conoscenze ebree nel ghetto,
dove spesso si reca. Dice che l si verificano scene intollerabili, che
ormai ha paura perfino di tornarci. Una volta, mentre viaggiava su un
risci, ha visto un agente della Gestapo costringere un gruppo di ebrei,
uomini e donne, a entrare nell'androne di un edificio quindi sparare a
caso su di loro. Dieci persone sono rimaste uccise o ferite. Un uomo
riuscito a sfuggire e l'agente della Gestapo ha puntato l'arma contro di
lui ma non aveva pi proiettili in canna. I feriti sono morti, nessuno
venuto in loro soccorso. I medici erano gi stati deportati o uccisi e
comunque erano condannati a morire. Una donna ha raccontato al mio
conoscente polacco che parecchi uomini della Gestapo hanno fatto
irruzione nel reparto maternit di un ospedale ebraico, hanno portato
via i neonati, li hanno ficcati in un sacco, se ne sono andati e li
hanno gettati su un carro funebre. Questi malvagi non si sono
fatti impietosire neppure dai pianti dei bambini e dai gemiti
strazianti delle loro madri. Si stenta a credere che sia possibile ma
la verit. Due simili bestie viaggiavano ieri con me sul tram. Avevano
in mano delle fruste e provenivano dal ghetto. Avrei voluto gettarli
sotto le ruote del tram.
Come siamo codardi a pensare innanzitutto a noi stessi e a permettere
che ci accada. Dovremmo esser puniti per questo. Come lo saranno i
nostri figli innocenti perch noi permettiamo che vengano commessi
simili crimini, rendendocene complici.


Dopo il 21 agosto 1942.

La menzogna il peggiore di tutti i mali. Tutto ci che diabolico
deriva dalla menzogna. E a noi hanno mentito: l'opinione pubblica viene
costantemente ingannata. Non esiste una sola pagina di giornale scevra
da menzogne, sia che si parli di politica, di economia, di storia, di
eventi sociali e culturali. La verit ovunque sotto pressione. I fatti
vengono distorti, stravolti e capovolti. Questo pu dare buoni
risultati? No, non si pu andare avanti cos, per il bene della natura
umana e per la libert di spirito dell'uomo. I bugiardi e quanti
distorcono la verit devono perire ed essere privati del loro potere di
governare con la forza. Solo allora potr esservi spazio per un genere
umano pi libero e pi nobile.

1 settembre 1942.
Perch dovuta scoppiare questa guerra? Perch bisognava mostrare
all'umanit dove la stava conducendo la sua mancanza di fede.
Innanzitutto il Bolscevismo ha ucciso milioni di uomini col
pretesto di introdurre un nuovo ordine mondiale. Ma i
bolscevichi potevano agire in questo modo solo perch si erano
allontanati da Dio e dall'insegnamento cristiano. Ora il
Nazionalsocialismo sta facendo lo stesso in Germania. Vieta alla gente
di praticare la propria religione. I giovani vengono cresciuti senza
fede, la Chiesa viene combattuta, espropriata dei propri beni. Tutti
coloro che la pensano in modo diverso sono perseguitati. Lo spirito
libero del popolo tedesco viene avvilito, uomini e donne sono ridotti a
schiavi terrorizzati. La verit bandita. Nessuno conta pi
nulla nel destino del proprio Paese.
L'omicidio, il furto e la menzogna non sono pi passibili di pena,
neppure quando vanno contro lo stesso interesse del popolo. E questa
negazione dei comandamenti divini che porta a tutte queste
manifestazioni immorali di avidit, di arricchimento illecito, di odio,
di frode, di libertinaggio, causa di infertilit e di degrado del popolo
tedesco. Dio permette che tutto ci avvenga, lascia che queste forze
abbiano il sopravvento e che periscano tanti innocenti per dimostrare al
genere umano che senza di lui siamo solo animali feroci convinti di
doversi reciprocamente distruggere. Non vogliamo ascoltare il
comandamento divino Ama il prossimo tuo come te stesso. Bene, dice
allora Dio, prova a seguire il comandamento del diavolo Odia il
prossimo tuo. Noi conosciamo la storia del Diluvio universale dalle
Sacre scritture. Perch i primi esseri umani hanno fatto una fine tanto
tragica? Perch avevano abbandonato Dio e dovevano morire, innocenti o
colpevoli che fossero. E della loro punizione dovevano incolpare solo se
stessi. Ed quanto avviene anche oggi.


6 settembre 1942.
Un ufficiale dell'Unit di comando speciale che partecipava al torneo di
scherma mi ha raccontato le cose orribili che questa Unit ha fatto
nella citt di Sielce, un centro amministrativo. Era tanto sconvolto e
indignato da scordarsi totalmente che ci trovavamo in una compagnia
molto numerosa che comprendeva perfino un pezzo grosso della Gestapo.
Un
giorno gli ebrei furono spinti fuori del ghetto e trascinati per le
strade: uomini, donne, bambini. Parecchi di loro vennero poi uccisi
pubblicamente davanti ai tedeschi e alla popolazione polacca. Le donne
vennero lasciate a contorcersi nel loro sangue, abbandonate nel calore
estivo, senza che venisse dato loro alcun aiuto. I bambini che avevano
cercato di nascondersi furono scaraventati fuori delle finestre. Poi,
tutte quelle migliaia di persone furono portate in un posto vicino alla
stazione ferroviaria, dove dei treni avrebbero dovuto tenersi pronti per
caricarli. Per tre giorni quei poveretti rimasero l in attesa, nell'afa
estiva, senza cibo e senza acqua. Se qualcuno osava alzarsi veniva
immediatamente ucciso e anche questo sotto gli occhi di tutti. Infine
furono portate via duecento persone, stipate in un carro bestiame,
appena sufficiente a contenerne quarantadue. Che ne stato di loro?
Nessuno ammetter mai che lo sapeva, ma la verit non pu pi essere
tenuta nascosta. Aumenta sempre pi il numero di persone che riescono a
fuggire e che rendono note queste cose terribili. Quel luogo si chiama
Treblinka e si trova nella parte orientale del territorio polacco
occupato dai tedeschi. E' l che vengono scaricati i carri bestiame;
molte persone sono gi morte. L'intero luogo circondato da muri e i
camion vengono fatti entrare per poi essere subito scaricati. I cadaveri
sono accatastati accanto ai binari ferroviari. Gli uomini
in buone condizioni fisiche vengono costretti a sgombrare montagne di
cadaveri, a scavare nuove fosse e a coprirle quando sono piene. Subito
dopo vengono uccisi a loro volta. Quindi arrivano altri carichi, e altri
uomini dovranno occuparsi di chi li ha preceduti. Migliaia di donne e di
bambini prima vengono costretti a spogliarsi, quindi fatti salire su un
autocarro per essere gasati. Il veicolo viene portato davanti a un
pozzo, un congegno spalanca la fiancata laterale e solleva il fondo,
rovesciando i cadaveri in quella che diventa la loro fossa. E questo
avviene da molto tempo. Poveri disgraziati vengono rastrellati in tutta
la Polonia. Alcuni vengono uccisi sul posto perch sul veicolo non c'
spazio sufficiente a contenerli, ma, se sono troppi per essere uccisi,
vengono portati via. Tutta la zona di Treblinka invasa dall'orribile
fetore dei cadaveri. Questo quanto mi ha raccontato un mio buon amico
che a sua volta l'ha saputo da un ebreo riuscito a sfuggire a questo
destino. Con lui altri sette sono riusciti a scappare, e ora quest'uomo
vive a Varsavia. In citt pare che ce ne siano parecchi. Ha mostrato al
mio amico una banconota da venti zloty che aveva preso dalla tasca di un
morto, l'ha avvolta con molta cura in modo che l'odore di cadavere vi
restasse impregnato. Questo al fine di ricordarsi perennemente di
vendicare i suoi fratelli.


Domenica 14 febbraio 1943.

La domenica, quando puoi dare libero corso ai tuoi pensieri, e
dimenticare l'esercito e gli obblighi che ti richiede, tutte le idee che
di solito nascondi nel tuo subconscio, riaffiorano. Il pensiero del
futuro mi riempie di sgomento, se poi ripenso a questo periodo bellico,
non riesco assolutamente a capacitarmi di come abbiamo potuto
commettere crimini del genere contro civili indifesi, contro gli
ebrei. Continuo a chiedermi come possibile? Pu esservi solo
una spiegazione: coloro che lo hanno fatto, che hanno impartito
gli ordini e hanno permesso che tutto ci accadesse, hanno perso
ogni senso di decenza e di responsabilit. Sono esseri
estremamente malvagi, volgari, egoisti, spregevoli materialisti. Quando
l'estate scorsa vennero compiuti i terribili eccidi di massa degli
ebrei, e tante donne e bambini furono massacrati, ho capito con assoluta
certezza che avremmo perso la guerra perch ormai una guerra simile non
aveva pi senso, come avrebbe potuto averlo un tempo nella
giustificazione della ricerca di un'esistenza libera e di uno spazio
vitale: degenerata in un'enorme, disumana carneficina di massa
negatrice di tutti i valori culturali e priva di alcuna giustificazione
agli occhi del popolo tedesco. Una guerra totalmente condannata
dall'intera nazione. Cos come non potranno mai trovare alcuna
giustificazione le torture inflitte ai polacchi arrestati, l'uccisione
di prigionieri di guerra e il trattamento bestiale loro inflitto.


16 giugno 1943.

Questa mattina venuto a trovarmi un giovanotto. Avevo conosciuto suo
padre a Obersig. Lui lavora qui in un ospedale da campo ed stato
testimone oculare dell'uccisione di un civile compiuta da parte di
ufficiali di polizia tedeschi. Costoro gli hanno chiesto i documenti e
hanno scoperto che era ebreo, al che l'hanno condotto in un androne e
gli hanno sparato. Si sono portati via il suo cappotto lasciando a terra
il cadavere.
Questa un'altra testimonianza oculare, da parte di un ebreo: Ci
trovavamo in un edificio del ghetto. Ci hanno rinchiuso in cantina per
sette giorni. L'edificio era in fiamme, sopra di noi, le donne
scappavano all'esterno e cos anche noi uomini, ad alcuni di noi hanno
sparato. Poi ci hanno portati nella Umschlagplatz e rinchiuso nei carri
bestiame. Mio fratello si avvelenato, le nostre mogli sono state
condotte a Treblinka e l sono state gasate. Io sono stato mandato in un
campo di lavoro. Eravamo trattati in un modo spaventoso, non ci davano
quasi niente da mangiare e dovevamo lavorare come bestie. Ha scritto ai
suoi amici: Mandatemi del veleno. Non posso sopportare tutto questo.
Qui muoiono tante persone.
La signora Jait ha lavorato per un anno come domestica per il Servizio
segreto. Vedeva spesso l'orribile modo in cui venivano trattati gli
ebrei che lavoravano l. Erano picchiati selvaggiamente, un ebreo
stato costretto a stare in piedi per una mezza giornata su un cumulo di
carbone, con un freddo spaventoso, senza indumenti addosso. Uno del
Servizio segreto, che passava di l, gli ha sparato. Tantissimi ebrei
sono stati uccisi in questo modo, senza alcuna ragione, insensatamente.
Tutto questo al di l della comprensione umana. Ora gli ultimi
abitanti ebrei del ghetto stanno per essere sterminati. Uno Sturmfuhrer
delle SS si vantato del modo in cui sparavano agli ebrei, in fuga
dagli edifici in fiamme. Tutto il ghetto stato raso al suolo dal
fuoco.
Questi bruti pensano che in tal modo vinceremo la guerra. Invece
l'abbiamo persa con questo spaventoso eccidio di massa degli ebrei. Ci
siamo coperti di onta, di un'onta che non potr mai essere cancellata,
una maledizione dalla quale non ci libereremo mai. Non meritiamo alcuna
piet. Siamo tutti colpevoli.
Provo vergogna ad andare in citt. Qualsiasi polacco ha il diritto di
sputarci addosso. Tutti i giorni soldati tedeschi vengono uccisi, la
situazione non far che peggiorare e non abbiamo alcun diritto di
lamentarci perch solo il giusto castigo per le nostre colpe. Ogni
giorno che passa mi sento peggio.


6 luglio 1943.
Perch Dio permette questa guerra terribile che esige tanti spaventosi
sacrifici umani? Pensiamo alle spaventose incursioni aeree, alla
micidiale paura dell'innocente popolazione civile, al trattamento
disumano riservato ai prigionieri nei campi di concentramento,
all'assassinio di centinaia di migliaia di ebrei per mano tedesca. E
forse colpa di Dio? Perch non interviene? Perch lascia che questo
accada? Sono domande inutili alle quali non possibile avere risposta.
Siamo pronti a dare la colpa agli altri ma non a noi stessi. Dio
consente che il male si abbatta sull'umanit perch l'umanit ha
abbracciato il male. E ora stiamo cominciando ad avvertire il peso della
nostra stessa malvagit e delle nostre imperfezioni. Quando i nazisti
sono saliti al potere non abbiamo fatto nulla per fermarli. Abbiamo
tradito i nostri ideali, gli ideali di libert personale, democratica,
religiosa.
La classe lavoratrice ha sposato la causa nazista, la Chiesa stata
impassibile a guardare, il ceto medio era troppo vile per reagire e lo
eravamo anche noi, gli intellettuali di maggior spicco. Abbiamo
consentito che si abolissero i sindacati, che venissero soppresse le
diverse confessioni religiose, e introdotta la censura nella stampa o
alla radio. Da ultimo, ci siamo lasciati trascinare in guerra. Abbiamo
accettato che la Germania non avesse una rappresentanza democratica
e abbiamo affidato la pseudo rappresentanza a gente che non
poteva realmente avere alcun peso.
Non si possono tradire impunemente gli ideali e ora noi tutti dobbiamo
accettarne le conseguenze.

Dicembre 1943.
L'anno scorso abbiano subito uno scacco dopo l'altro. Ora stiamo
combattendo sul Dnieper. Tutta l'Ucraina andata perduta. Anche se
riuscissimo a conservare quello che ancora abbiamo in quella zona, non
ne trarremmo sicuramente alcun guadagno economico. I Russi sono cos
forti che riusciranno sempre a scacciarci dai loro territori. In Italia
iniziata l'offensiva inglese e anche l cediamo posizioni su
posizioni. Una dopo l'altra, le citt tedesche vengono distrutte:
ora la volta di Berlino, e dal 2 settembre sono iniziate le incursioni
anche su Lipsia. La guerra degli U-boat un fallimento totale. Che cosa
pensano di potersi aspettare coloro che ancora parlano di vittoria? Non
abbiamo conquistato alla nostra causa un solo Paese di quelli che
abbiamo occupati. I nostri alleati, la Bulgaria, la Romania e l'Ungheria
possono fornire solo aiuto locale. Si possono ritenere soddisfatti anche
solo se riescono a gestire i loro problemi interni e si aspettano che le
potenze nemiche attacchino i loro confini. L'unico aiuto che possono
darci un sostegno economico, come, ad esempio, forniture di petrolio
romeno. Dal punto di vista militare il loro aiuto praticamente nullo.
Da quando in Italia stato rovesciato il governo fascista, il Paese
diventato per noi teatro di guerra solo fuori dei confini del Reich dove
al momento la guerra continua.
La superiorit numerica dei nostri avversari ci toglie un'arma dalle
mani. Chiunque cerchi di reggersi in piedi viene abbattuto. Questo lo
stato attuale delle cose, quindi come possiamo illuderci di riuscire a
far s che la guerra valga a nostro favore?
Nessuno in Germania crede pi che la vinceremo. Ma qual la via
d'uscita che abbiamo? In patria non ci sar alcuna rivoluzione
perch nessuno ha il coraggio di rischiare la propria vita
opponendosi alla Gestapo. E poi, a che cosa servirebbe provarcisi? In
maggioranza la gente potrebbe anche essere d'accordo ma questa
maggioranza impossibilitata a farlo. Negli ultimi dieci anni i singoli
individui non hanno avuto alcuna opportunit, tanto meno il popolo in
generale, di esprimere la propria volont in modo libero. Immediatamente
la Gestapo reagirebbe. E non possiamo sperare nemmeno in una rivolta
dell'esercito. L'esercito disposto a lasciarsi condurre alla morte e
qualsiasi idea di opposizione che potrebbe scatenare un movimento di
massa viene subito soppressa. Siamo cos costretti a bere fino in fondo
l'amaro calice. Tutta la nostra nazione dovr pagare per tutte le
ingiustizie e l'infelicit, per tutti i crimini che abbiamo commesso.
Molte persone dovranno essere sacrificate prima che i nostri misfatti
possano essere cancellati. Questa una legge inesorabile insita sia
nelle cose piccole sia in quelle grandi.


1 gennaio 1944.

I giornali tedeschi riportano in tono indignato la confisca e il
trafugamento di opere d'arte fatta dagli americani nell'Italia
meridionale. Tanto scalpore per crimini commessi da un altro popolo mi
sembra davvero assurdo, quasi che il nemico non sapesse che noi
ci siamo appropriati di tesori artistici portandoli fuori della
Polonia, o di quelli che abbiamo distrutto in Russia. Anche
se adottiamo il punto di vista che il mio Paese qualsiasi cosa faccia
ha sempre ragione e giustifichiamo quanto abbiamo fatto, una simile
ipocrisia fuori luogo e ci pu solo far apparire ridicoli.


11 agosto 1944.
Il Fhrer sta per promulgare un decreto in base al quale Varsavia dovr
essere rasa al suolo. Gi si sta cominciando a farlo. Tutte le strade
liberate durante la rivolta sono state distrutte dalle fiamme. Le
persone che vi abitavano sono state costrette a lasciare la citt e
parecchie migliaia di loro inviate a est. Se questa notizia vera
allora mi chiaro che abbiamo perso Varsavia e con Varsavia, la Polonia
e la guerra stessa. Stiamo rinunciando a un luogo che abbiamo tenuto per
cinque anni, lo abbiamo espanso dicendo al mondo che si trattava di
confisca di guerra.
Qui abbiamo usato metodi mostruosi. Ora non possiamo fare a meno di
renderci conto che tutto andato perduto. Stiamo distruggendo con le
nostre mani il nostro stesso lavoro, tutto quello di cui
l'amministrazione civile andava cos orgogliosa: riteneva che l'essere
qui fosse un grande compito culturale della cui necessit voleva darne
prova al mondo. La nostra politica a est allo sbando e con la
distruzione di Varsavia le stiamo erigendo un monumento funebre.



CAPITOLO 21.

Un ponte tra Wladyslaw Szpilman e Wilm Hosenfeld
di Wolf Biermann.

A questo libro non necessitano prefazioni o postfazioni, e di fatto,
nemmeno commenti. Tuttavia l'autore, Wladyslaw Szpilman,
cinquant'anni
dopo gli eventi da lui descritti, mi ha chiesto alcune annotazioni per i
lettori.
La storia, come qui riportata, stata da lui scritta a Varsavia subito
dopo la guerra, a botta calda quando quello per cui era passato era
ancora vivo nella sua mente, o meglio quando era ancora in stato di
terribile shock. Sono moltissimi i libri in cui le persone hanno fissato
il loro ricordo della storia. Molti resoconti di sopravvivenza per sono
stati scritti parecchi anni o decenni dagli avvenimenti. Credo che le
ragioni di questo silenzio siano evidenti a tutti.
Cos come credo che i lettori si rendano conto di quanto il linguaggio e
lo stile di questo libro, scritto quando le ceneri della Seconda guerra
mondiale erano ancora incandescenti, siano incredibilmente distaccati.
Wladyslaw Szpilman, infatti, descrive le sue sofferenze ancora brucianti
con una presa di distanza quasi malinconica. Si ha come l'impressione
che non sia ancora riemerso dal viaggio in cui ha attraversato
i diversi gironi dell'inferno, quasi stesse scrivendo con una
sorta di stupore, quasi si trattasse di un'altra persona. Della
persona che lui diventata dopo l'invasione tedesca della Polonia. Il
suo libro stato pubblicato per la prima volta in Polonia nel 1946 con
il titolo di uno dei capitoli, Morte di una citt, e subito stato
tolto dalla circolazione dai tirapiedi polacchi di Stalin. Da allora non
pi stato ristampato, n in Polonia n altrove. Mano mano che i Paesi
conquistati dall'Armata rossa venivano sempre pi stretti nella morsa
dei loro liberatori, la nomenclatura dei Paesi dell'Est non poteva
assolutamente tollerare testimonianze oculari autentiche come quelle
contenute in questo libro. Vi si elencavano troppe verit dolorose
riguardanti la collaborazione degli sconfitti russi, polacchi, ucraini,
lettoni ed ebrei con i nazisti.
Persino in Israele la gente non voleva sentir parlare di queste cose.
Per quanto strano possa apparire, per comprensibile. L'argomento era
intollerabile per tutti coloro che erano stati protagonisti di quella
tragedia, sia vittime sia carnefici, bench ovviamente per ragioni
diverse.

Colui che contava le nostre ore continuava a contare. Ditemi, che cosa
sta contando? Continua a contare...

Paul Celan.

Numeri. Ancora numeri. Dei tre milioni e mezzo di ebrei che una volta
vivevano in Polonia solo duecentoquarantamila sono sopravvissuti al
nazismo. L'antisemitismo era gi diffuso molto prima dell'invasione
tedesca. Tuttavia circa trequattrocentomila polacchi hanno messo a
rischio la propria vita per salvare gli ebrei. Dei sedicimila
ariani ricordati a Yad Vashem, il luogo delle rimembranze per
antonomasia a Gerusalemme, un terzo erano polacchi.
Perch tanta precisione nell'elencarli? Perch tutti sanno quanto si
fosse propagato tra i polacchi il virus dell'antisemitismo ma pochi al
tempo stesso sanno che nessun'altra nazione ha aiutato tanti ebrei a
sfuggire ai nazisti come i polacchi. In Francia nascondere un ebreo
significava il carcere o il campo di concentramento, in Germania
equivaleva alla propria morte, in Polonia perfino a quella di tutta la
famiglia.
Una cosa mi colpisce: nel registro emotivo di Szpilman non traspare
alcun desiderio di vendetta. Una volta a Varsavia abbiamo avuto una
conversazione: lui era reduce dal giro del mondo per una tourne di
concerti e se ne stava seduto spossato al suo vecchio pianoforte a coda
che aveva bisogno di essere accordato. Fece un'osservazione quasi
infantile, per met ironica per met molto seria: Quando ero molto
giovane ho studiato per due anni musica a Berlino. Non riesco a capire i
tedeschi... Erano tanto amanti della musica.

Questo libro d un'immagine della vita nel ghetto di Varsavia, un
grande affresco. Wladyslaw Szpilman la descrive in modo tale da offrirci
la possibilit di vedere pi in profondit qualcosa che gi
sospettavamo: carcere, ghetti, campi di concentramento con i loro
veicoli mobili per gasare la gente, le torri di controllo, le camere a
gas non sono intesi a nobilitare il carattere. La fame non irradia una
luce interiore.
Per dirla schiettamente: un farabutto resta farabutto anche dietro il
filo spinato ma non sempre questa esemplificazione corrisponde a verit.
Certi squallidi truffatori e molti rei confessi si sono comportati in
modo pi coraggioso e solidale nei ghetti o nei campi di
concentramento di altre persone istruite e rispettabili della media
borghesia.
A volte Wladyslaw Szpilman descrive la Shoah in una prosa semplice, ma
con la medesima intensit della poesia. Penso alla scena nella
Umschlagplatz quando Szpilman era gi condannato a morire, destinato a
un futuro incerto che tutti sospettavano sarebbe stata la morte sicura.
I genitori dell'autore, lui stesso, il fratello le due sorelle, dividono
una crme caramel tagliata in sei parti, il loro ultimo pasto insieme e
ricordano l'impazienza del dentista, mentre aspettavano l'arrivo del
treno della morte.
E' un'infamia per tutti noi! Permettiamo loro che ci portino alla morte
come pecore al macello! Se noi attaccassimo i tedeschi, siamo mezzo
milione di persone, potremmo fuggire dal ghetto, o, per lo meno, morire
con onore invece di coprirci di onta di fronte alla storia. E la
risposta data dal padre di Szpilman: Guarda, non siamo eroi, siamo
persone assolutamente normali.
Come pu accadere in una vera tragedia, tanto il dentista quanto il
padre di Szpilman avevano ragione. Gli ebrei hanno dibattuto questa
questione irrisolta sulla Resistenza migliaia e migliaia di volte. E lo
faranno ancora per generazioni e generazioni. Mi viene alla mente una
considerazione ancora pi concreta: come avrebbero potuto queste
persone, tutte civili, come avrebbero potuto donne, bambini e vecchi
abbandonati da Dio e dal mondo, come avrebbero potuto uomini affamati
e
ammalati, di fatto difendersi contro una macchina di sterminio
tanto perfetta?
La Resistenza era impossibile. Ciononostante fu una Resistenza ebraica.
La lotta armata nel ghetto di Varsavia e migliaia di atti coraggiosi
compiuti dai partigiani ebrei, mostrano che si trattato di una
Resistenza molto efficace. Vi sono state le sollevazioni a Sobibr
e persino a Treblinka.
La storia di Wladyslaw Szpilman ci mostra la parte attiva da lui avuta
in quella eroica Resistenza. Era tra quelli che, incolonnati, venivano
condotti ogni giorno a lavorare nel lato ariano della citt e che
contrabbandavano, non soltanto pane e patate, ma munizioni destinate
alla Resistenza ebraica, facendole entrare nel ghetto. Lui accenna a
questo atto coraggioso con modestia e solo fugacemente.
In appendice vengono pubblicati per la prima volta brani dal diario di
Wilm Hosenfeld, un ufficiale della Wehrmacht senza il cui aiuto,
Szpilman, ebreo polacco, non sarebbe sopravvissuto. Hosenfeld era un
insegnante e aveva gi combattuto col grado di tenente durante la Prima
guerra mondiale. E forse per questa ragione era stato ritenuto troppo
vecchio per essere inviato al fronte all'inizio della seconda. Questo
potrebbe forse essere il motivo per cui era stato nominato ufficiale
responsabile di tutti gli impianti sportivi di cui la Wehrmacht si era
impadronita al fine di garantire ai soldati tedeschi la possibilit di
mantenersi in forma con attivit sportive e agonistiche.
Il capitano Hosenfeld fu catturato dall'esercito sovietico negli ultimi
giorni della guerra e mor sette anni dopo ancora in stato di prigionia.
All'inizio delle peregrinazioni di Szpilman, un odiato membro della
polizia ebraica lo aveva salvato. E, alla fine, era stato il capitano
Hosenfeld a trovarlo, mezzo morto, tra le macerie della citt di
Varsavia, svuotata dei suoi abitanti, e non lo aveva ucciso. Il capitano
Hosenfeld gli aveva addirittura portato nel nascondiglio, cibo, una
coperta e un pastrano. Questa sembra una sorta di favola
hollywoodiana, eppure la verit. In questa terribile storia, un
individuo appartenente alla odiata razza padrona ha svolto il
ruolo di angelo custode.
Poich la Germania di Hitler, con tutta evidenza aveva comunque perso la
guerra, il fuggiasco previdentemente diede al suo anonimo soccorritore
un'informazione utile: Se dovesse accaderle qualcosa e se mi sar
possibile aiutarla in qualsiasi modo, si ricordi del mio nome: Szpilman
della Radio polacca. So da Szpilman che lui cominci a cercare subito
il suo salvatore, dal 1945, ma senza successo e quando si rec nel luogo
dove il suo amico violinista aveva visto Hosenfeld, il campo di
internamento era stato trasferito altrove.
Hosenfeld mor prigioniero in un campo di prigionia a Stalingrado, un
anno prima della morte di Stalin. In cattivit era stato torturato
perch gli ufficiali sovietici pensavano che la sua affermazione di
avere salvato un ebreo fosse una menzogna particolarmente vergognosa.
Dopodich Wilm Hosenfeld fu colpito da diversi ictus in seguito ai quali
si ritrov in uno stato di confusione mentale, come un bambino che viene
picchiato e che non capisce perch. Al momento della morte, la sua forza
morale era totalmente distrutta.
Hosenfeld riusc per a mandare i suoi diari in Germania. Aveva avuto
un'ultima licenza durante la Pentecoste del 1944, esiste una bella foto
dell'ufficiale tornato a casa dalla sporca guerra nella sua splendente
uniforme bianca attorniato dalla moglie e dagli amati figli. Sembra
l'immagine idilliaca della pace eterna. La famiglia Hosenfeld ha
conservato i due blocchi di appunti fitti fitti che costituiscono il
diario. L'ultima annotazione sul diario reca la data dell'11 agosto
1944, il che significa che Hosenfeld mand i suoi commenti
cos esplosivi per normale posta militare. E se quei due quaderni
fossero caduti nelle mani dei tanto paventati gentiluomini dai giubbotti
di cuoio? E' quasi insopportabile pensarlo. Costoro avrebbero annientato
quest'uomo!
Il figlio di Hosenfeld mi ha fatto un resoconto che offre un'immagine
vivida del padre:
Mio padre era un insegnante pieno di entusiasmo e di generosit. Nel
periodo successivo alla Prima guerra mondiale, quando picchiare i
bambini era ancora il metodo disciplinare usato nelle scuole, la
gentilezza nei confronti dei suoi allievi non era affatto formale. Nella
scuola del villaggio di Spessart era solito prendere i bambini delle
elementari che avevano difficolt con l'alfabeto e metterseli sulle
ginocchia. Teneva sempre due fazzoletti nella tasca dei pantaloni: uno
per s e uno per i nasi colanti dei bambini pi piccoli.
Nell'inverno tra il 1939 e il 1940 l'Unit di mio padre, che aveva
lasciato Fulda per la Polonia nell'autunno del 1939, si trovava di
stanza nella citt di Wegrow, a est di Varsavia. Un po' prima il
commissariato tedesco aveva requisito provviste di fieno che
appartenevano all'esercito polacco. In una fredda giornata invernale mio
padre si imbatt in una SS che stava portando via un alunno. Il
ragazzino era stato colto a rubare in un granaio un po' del fieno
requisito, probabilmente solo quel tanto che potevano contenere le sue
braccia. Era chiaro che il piccolo sarebbe stato fucilato e che la sua
morte sarebbe stata usata come deterrente per gli altri.
Mio padre mi ha raccontato che si avventato sulla SS urlando: "Non
puoi ammazzare questo bambino!" L'altro ha estratto la pistola, l'ha
puntata contro mio padre e ha detto in tono minaccioso: "Se non sparisci
subito ammazziamo anche te!"
Mio padre ci impieg molto per riprendersi da quell'esperienza. Me ne
parl una sola volta, due o tre anni pi tardi, quando venne in congedo.
Io sono stato l'unico membro della famiglia che ha sentito questa
storia.
Wladyslaw Szpilman riprese a lavorare subito come pianista per Radio
Varsavia. Alla fine della guerra apr la trasmissione con lo stesso
brano di Chopin che stava eseguendo dal vivo alla radio quell'ultimo
giorno, sotto una grandine di proiettili e di bombe tedesche. Era come
se la trasmissione del Notturno di Chopin in do diesis minore fosse
stata interrotta solo brevemente per dar modo nei sei anni successivi a
Herr Hitler di recitare la propria parte sul palcoscenico del mondo.
Wladyslaw Szpilman non ebbe pi notizie del suo salvatore fino all'anno
1949. Ma nel 1950 vi fu un ulteriore sviluppo. Un ebreo polacco, un
certo Leon Warm, emigr dalla Polonia e strada facendo and a far visita
agli Hosenfeld nella Germania Occidentale. Uno dei figli di Hosenfeld
scrive di Leon Warm:
Nei primi anni del dopoguerra mia madre viveva con mio fratello e mia
sorella minori in una parte della nostra precedente residenza nella
scuola di Thalau, una piccola localit nella Rhn. Il 14 Novembre 1950
si present da noi un simpatico giovane polacco che chiese notizie di
mio padre conosciuto a Varsavia durante la guerra.
Durante il viaggio verso il campo di sterminio di Treblinka quest'uomo
era riuscito ad aprire il portello, chiuso con del filo spinato, del
carro bestiame in cui era rinchiuso con i suoi compagni di sventura. Poi
saltato gi dal treno in corsa. Ha incontrato nostro padre tramite una
famiglia di conoscenti di Varsavia. Mio padre gli ha fatto avere un
lasciapassare con un falso nome e lo ha assunto come operaio al centro
sportivo.
Da allora lui aveva lavorato come chimico in Polonia e ora intendeva
impiantare una sua ditta in Australia.
Quest'uomo, Leon Warm, apprese durante la sua visita resa a Frau
Hosenfeld che suo marito era ancora vivo e che aveva ricevuto alcune
lettere e cartoline da lui. Frau Hosenfeld gli mostr persino un elenco
di ebrei e di polacchi salvati dal marito e scritto su una cartolina
postale datata 15 luglio 1946. Pregava sua moglie di mettersi in
contatto con queste persone per chiedere aiuto. Il quarto nome sulla
lista pot essere decifrato come Wladyslaw Szpilman, pianista alla Radio
di Varsavia. Cos Leon aveva cercato e trovato l'indirizzo del pianista
e si era presentato a casa della sua famiglia.
Tre membri di una famiglia di nome Cieciora hanno una loro storia da
raccontare su Hosenfeld. Nei primi giorni del Blitzkrieg tedesco, si
verific la scena seguente. La moglie di un polacco, Stanislaw Cieciora,
si rec in un campo di prigionieri di guerra a Pabianice, dove si diceva
fosse rinchiuso il marito ferito, un soldato dell'esercito sconfitto.
Probabilmente l'uomo temeva di essere ucciso dai vincitori. Durante il
tragitto la donna incontr un ufficiale tedesco in sella a una
bicicletta. Questi le chiese dove stesse andando. Paralizzata dalla
paura lei balbett: Mio marito un militare. Si trova ammalato in quel
campo. Presto avr un figlio... temo per lui. Il tedesco si annot il
nome dell'uomo e mand indietro la donna promettendole: Suo marito
torner a casa entro tre giorni. E cos infatti fu.
In seguito Hosenfeld and a visitare, qualche volta, la famiglia
Cieciora e strinse amicizia con loro. Questo tedesco straordinario
cominci a studiare il polacco. Poich era un devoto cattolico a volte
Hosenfeld andava addirittura in chiesa con i suoi nuovi amici, con
indosso la divisa della Wehrmacht e assisteva alla funzione
religiosa polacca. Che spettacolo!
Un tedesco, correttissimo nella divisa degli assassini, si inginocchia
davanti a un prete polacco, questo schiavo appartenente a una razza
inferiore che posa sulla lingua di un tedesco l'ostia che rappresenta
il corpo di Cristo.
Una cosa tira l'altra. La famiglia Cieciora era in ansia per il fratello
del marito, un prete del movimento clandestino ricercato dai tedeschi.
Hosenfeld riusc a salvare anche lui. E cos pure salv un conoscente
dei Cieciora tirandolo fuori da un camion militare. Io ho scoperto come
si erano svolti questi due salvataggi in un racconto fattomi da una
delle figlie del capitano Hosenfeld.
Nella primavera del 1973 ricevemmo la visita di Maciej Cieciora di
Posnari. Suo zio, un prete cattolico, era stato costretto a mettersi in
salvo dalla Gestapo dopo l'invasione tedesca nell'autunno del 1939. Mio
padre, allora ufficiale incaricato agli impianti sportivi della citt di
Varsavia, di cui si era appropriata la Wehrmacht, lo salv facendolo
lavorare nel proprio ufficio sotto il falso nome di "Cichocki". Fu
proprio padre Cieciora di cui egli presto divenne amico intimo, a far
fare a mio padre conoscenza di Koschel, il cognato del religioso.
Maciej Cieciora ci ha raccontato che probabilmente nel 1943 i rivoltosi
polacchi avevano ucciso dei soldati tedeschi nella parte di Varsavia in
cui abitava la famiglia Koschel. Per questo motivo un'unit delle SS di
stanza in quel quartiere aveva arrestato diversi uomini, incluso il
signor Koschel, e li aveva caricati su un camion. Quei poveretti
dovevano essere uccisi appena fuori della citt in rivolta.
Per puro caso mio padre vide quel veicolo a un incrocio mentre stava
attraversando il centro della citt. Il signor Koschel riconobbe un
ufficiale che lui conosceva sul marciapiede e gli fece cenni
scomposti e disperati. Mio padre cap subito la situazione e
con grande presenza di spirito si avvicin e ordin all'autista
di fermarsi. Questi obbed. "Mi serve un uomo", disse mio
padre in tono perentorio al capo del gruppo di SS. Si avvicin al
camion, pass in rassegna i prigionieri e scelse, come a caso, Koschel.
Questi fu lasciato scendere e cos ebbe salva la vita.
Il mondo piccolo. Oggi, otto anni dopo il crollo del blocco orientale,
il figlio di Stanislaw Cieciora console polacco ad Amburgo. Mi ha
raccontato un aneddoto commovente. I suoi genitori, che vivevano a
Samter-Karolin, avevano inviato come segno di riconoscenza ai figli di
Hosenfeld, rimasti orfani di padre, pacchi dono contenenti burro e
salame, dalla Polonia affamata alla Germania di Hitler, anche durante la
guerra. E' proprio uno strano mondo!
Leon Warm si mise in contatto con Szpilman a Varsavia, attraverso la
Radio polacca, dandogli l'elenco dei nomi e delle persone salvate da
Hosenfeld e trasmettendogli la sua pressante richiesta di aiuto. Questo
accadeva circa mezzo secolo fa.
Nel 1957 Wladyslaw Szpilman fece una tourne nella Germania
Occidentale insieme con l'illustre violinista Gimpel. I due
musicisti si recarono a trovare a Thaiau la famiglia di Wilm Hosenfeld,
la moglie Anne Marie e i due figli Helmut e Detlef. La signora diede a
Szpilman una fotografia del marito, pubblicata in questo volume.
L'estate scorsa, quando fu deciso che questo libro ormai quasi
dimenticato sarebbe stato ristampato in tedesco, io domandai all'anziano
signore di darmi qualche particolare sulla vicenda Hosenfeld.
Sa, non mi va di parlarne, non ne ho mai parlato con nessuno,
nemmeno con mia moglie e con i miei due figli. Vuol sapere
perch? mi chiese. Perch provavo vergogna. Vede, quando finalmente
nel 1950 sono venuto a sapere qual era il nome dell'ufficiale tedesco,
ho combattuto le mie paure, e ho superato il disgusto e sono andato come
un umile questuante da un criminale con il quale nessuna persona
decente in Polonia avrebbe voluto avere a che fare: Jakub Berman.
Berman era l'uomo pi potente della Polonia a capo della NKWD
polacca
e, come tutti sapevano, un vero bastardo. Aveva poteri anche maggiori
del ministro degli Interni. Ma io ero deciso a tentare e cos mi sono
presentato e gli ho raccontato tutto, aggiungendo che io non ero l'unico
cui Hosenfeld aveva salvato la vita. Aveva salvato anche bambini ebrei
all'inizio della guerra, comperato scarpe per i bambini polacchi e dato
loro cibo. Gli ho anche parlato di Leon Warm e della famiglia Cieciora
ponendo l'accento sul fatto che moltissime persone dovevano la vita a
questo tedesco.
Berman si mostrato disponibile e ha promesso di occuparsene. Dopo
qualche giorno ha addirittura telefonato a casa nostra. Ha detto di
essere dispiaciuto, ma di non poter far nulla. "Se il suo amico tedesco
fosse ancora in Polonia potremmo tirarlo fuori, ma i nostri compagni
dell'Unione Sovietica non lo vogliono liberare. Sostengono che il suo
ufficiale apparteneva a un distaccamento che aveva a che fare con lo
spionaggio. Quindi noi, in quanto polacchi, non possiamo far niente e io
non ho alcun potere", ha concluso quest'uomo onnipotente grazie a
Stalin.
Quindi io avevo avvicinato il peggior farabutto di tutta quella
gentaglia, ma inutilmente.
Subito dopo la guerra in Polonia era impossibile pubblicare un
libro che rappresentasse un ufficiale tedesco come un uomo
coraggioso e generoso. Forse per i lettori pu essere di qualche
interesse sapere che nell'edizione polacca Wladyslaw Szpilman si era
visto costretto a far passare per austriaco il suo salvatore tedesco
Wilm Hosenfeld. Per quanto oggi la cosa possa apparire assurda,
all'epoca evidentemente un angelo austriaco non era cos malvagio.
Negli anni della Guerra fredda l'Austria e la Germania dell'Est erano
legate da un patto di tacita ipocrisia. Ambedue sostenevano di essere
state occupate con la forza dalla Germania hitleriana nella Seconda
guerra mondiale. Nello Yad Vashem c' un viale dei Giusti dove sono
stati piantati degli alberi, uno per ogni gentile che ha salvato gli
ebrei dall'Olocausto. Sulle targhette dei giovani alberi che crescono
nel terreno sassoso riportato il nome di queste persone coraggiose.
Chiunque visiti questo grande memoriale passa davanti a migliaia di
questi nomi. Spero di riuscire a far piantare presto nel viale dei
Giusti un albero alla memoria del capitano Wilm Hosenfeld, un albero che
ricever l'acqua dal Giordano. Quanto a chi lo pianter, chi se non
Wladyslaw Szpilman con l'aiuto di suo figlio Andrzej?

(Nota:
Wolf Biermann E uno dei pi famosi poeti, autori di canzoni e
saggisti tedeschi. E' nato ad Amburgo nel 1936, figlio di genitori
comunisti. Suo padre, un ebreo che lavorava nei cantieri navali,
combattente nella Resistenza, fu ucciso ad Auschwitz nel 1945.
Adolescente, Biermann fugg all'Est, diversamente da quanti si
rifugiarono nella Germania Occidentale. Nel 1965 le sue opere
furono vietate nella Germania Orientale perch attaccavano il
governo, e nel 1976, le autorit costrinsero Biermann a riparare
nella Germania Occidentale. Ora vive ad Amburgo.

FINE.

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