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Egli aveva il corpo color dell’arancia, formato da striature orizzontali che si
alternavano, una più densa, l’altra più leggera, così fino alla coda, al musetto, agli orecchi;
gli occhi, ecco, gli occhi erano una mistura di verde e azzurro, di bosco e mare, al buio
brillavano come piccole lucerne.
Così arrivò un ospite inatteso e non invitato, che divenne poi parte integrante della
famiglia di quell’arco della nostra vita, solo temporalmente distante, giacché, essendo i
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ricordi custoditi in qualche luogo del nostro essere, non sono vicini, ma, addirittura, sono
noi stessi, il nostro pensiero, il nostro modo di comportarsi, le nostre contraddizioni.
Si alternarono le stagioni, gli anni, i ricordi non percorrono il tempo delle ore.
Un mattino di maggio, le nostre rose orgogliose erano nate nel giardino sotto
l’albero di melograno, la colazione attendeva ansiosa, le uova appena raccolte, calde, e i
biscotti fatti in casa, posti al centro della tavola imbandita con cura dalla mamma,
bisognava far presto, la scuola ci attendeva.
Apparve mio padre col suo volto di pescatore color rame, aveva tra le braccia
Giacomino, amorevole visione di un istante – l’ho trovato fuori il cancello, c’e pericolo per
la via – disse.
Poi, cautamente, lo poggiò per terra, e si inoltrò nella terra rigogliosa.
Amava lì trascorrere i suoi giorni, a rincorrere lucertole farfalle e passeri, mentre noi
andavamo veloci contro il futuro.
L’estate andava e ritornava, tutto andava e ritornava, ma ogni nuovo ritorno ci
presentava un conto da pagare.
Il sole intiepidiva la terra e le mura della nostra casa, prudenti lucertole sbucavano
dalle crepe, ed egli rimaneva ore ad appostarsi, a meno che non apparivano gechi
aggrappati al muro desiderosi di sole.
Allora scappava via, la vista della grigiastra scorza e delle dita munite di lamelle di
questo innocuo abitante mediterraneo lo impauriva.
L’inverno, quando la pioggia bagnava la terra e si mescolava al mare, quando il
freddo pungente rabbrividiva l’aria, le riarse sterpaglie e le secche spoglie dei rami, egli,
simile ad affezionato impostore, ci teneva compagnia, accovacciato accanto al braciere.
Noi, fanciulli spesso pensierosi, eravamo elementi che completavano l’unico quadro
di quel tempo, seduti al vecchio tavolo di legno della cucina, intenti al rito quotidiano dei
compiti scolastici.
Spesso, alzava il suo capo, si guardava intorno, e veniva da noi, curiosando tra i
nostri libri ed i quaderni, camminandoci sopra, accovacciandovisi quasi a voler restar lì a
riposare, a cercare l’intima necessità di un nuovo tepore.
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Era un giorno d’estate quando un topo finì intrappolato nell’apposita gabbietta,
sapevamo come si comportava con le lucertole, le farfalle e i passeri, quelle sue piccole
battaglie quasi sempre perse.
Io lo presi in braccio, mentre mia sorella reggeva la gabbietta col malcapitato topo –
vediamo come si comporta, i gatti mangiano i topi – pensammo, o quantomeno li
spauriscono e li cacciano via.
Lo spavento di Giacomino fu raccapricciante, inatteso, fuggì via da me graffiandomi
le braccia e il petto.
Passammo alcuni giorni con la speranza di vederlo tornare, poi la vana attesa dei
mesi: capimmo che non l’avremmo più rivisto.
Intanto, il mio viaggio proseguiva, l’implacabile tempo, di nascosto, mi trasportava
lentamente verso un mondo più ampio.
Il mare sottostante mi teneva compagnia, lui non mi lasciò mai; spesso scendevo a
Salerno per andare a scuola, a piedi, ogni passo era un nuovo pensiero, una nuova
domanda a cui dare una risposta ancora da maturare.
Fu una di quelle mattine, poco prima di Palazzo Olivieri, tra la sovrastante Madonna
degli Angeli e il mare, che vidi Giacomino appostato tra l’erba alta della vegetazione
costiera, scappò via veloce appena mi scorse.
Aveva scelto, a suo modo, la sua libertà.
Continuavano le stagioni ad alternarsi, senza tregua. Quell’inverno ci regalò la
neve, inusuale per noi, quasi sconosciuta, così tanta.
La terra coperta di neve, gli alberi coperti di neve, il braccio del porto e le navi
coperti di neve. Tutto copriva la neve, uniformando gli elementi in un senso interiore di
pace, circondato dall’azzurro del mare.
Fu allora, ricordo, che trovammo un pettirosso, infreddolito e spaurito
nell’inconsueta nevicata, che custodimmo al caldo con la stessa cura d’un bambino che
non riuscì a sopravvivere: lo seppellimmo presso l’albero del fico dentro un salvadanaio di
legno color celeste, chiuso a chiave, mentre continuava la neve a scendere, a render
bianco anche quel piccolo sepolcro.
Poi ritornò la primavera, un pomeriggio tiepido, mia madre mi chiamò dall’agreste
viale, io corsi fuori, era ritornato, finalmente, Giacomino.
Lo riconoscemmo per istinto, era molto cambiato, gli mancava una zampina. Con gli
occhi tentava di parlarci, e noi cercammo di capirlo. Cosa voleva dirci con quegli occhi
appiccicosi e tristi?
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Forse – eccomi, ho voluto fare il temerario, ma sono ritornato, certo, non potrò più
saltare sugli alberi, appostarmi e lanciarmi sulle lucertole e sui passeri, tanto perdevo
quasi sempre l’attacco, ma sto cercando d’abituarmi a questa condizione e vedrete che di
balzi ne farò ancora! – Io pensavo da essere umano, che elemosina a se stesso una
illusione per sopravvivere, riprendendo il cammino.
Quanto tempo era passato da quel pomeriggio piovoso che lo trovai, tutto bagnato
e infreddolito!
Come allora, lo curammo, si riprese, ma non rincorse mai più le lucertole, le farfalle
e i passeri, se ne stava disteso, tranquillo, non voleva più lasciarci, voleva recuperare il
tempo buttato via, donarci la sua compagnia.
Un pomeriggio, come al solito, tornato dalla scuola, mi accorsi che Giacomino non
era lì, nel viale ad aspettarmi; – dov’è? – chiesi a mia nonna e a mia madre. Finsero di non
capire e – il pranzo è pronto sulla tavola, mangia – mi dissero.
Il mio rammarico, ancora oggi, è di non averlo più visto d’improvviso, perché nel
frattempo s’era già provveduto a seppellirlo in quella terra, dove per anni aveva giocato
con le lucertole, le farfalle e i passeri.
Forse la notte è un elfo benevolo che popola la natura del bosco.
ANTONIO RAGONE