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Donne anno zero dai '70 al sexgate piste di una mutazione

Autore: Dominijanni, Ida Data di pubblicazione: 07.03.2010 11:09

“La rappresentazione commercial-televisiva del gentil sesso nell'era berlusconiana coincide


davvero con la realtà delle donne?” Il manifesto, 7 marzo 2010

«La donna è l'altro rispetto all'uomo. L'uomo è l'altro rispetto alla donna. L'uguaglianza è un
tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli». «Liberarsi per la donna non vuol
dire accettare la stessa vita dell'uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso
dell'esistenza». «La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è
un'altra cosa». «Per uguaglianza delle donne si intende il suo diritto a partecipare alla gestione
del potere nella società mediante il riconoscimento che essa possiede capacità uguali a quelle
dell'uomo. Ma...ci siamo accorte che sul piano della gestione del potere non occorrono delle
capacità, ma una particolare forma di alienazione. Il porsi della donna non implica una
partecipazione al potere maschile, ma una messa in questione del concetto di potere. E' per
sventare questo possibile attentato della donna che oggi ci viene riconosciuto l'inserimento a
titolo di uguaglianza». Sono solo alcune citazioni delle molte possibili dal Manifesto di Rivolta
Femminile e da Sputiamo su Hegell, il testo forse più famoso di Carla Lonzi, entrambi datati
1970, ed entrambi al centro, con tutto il resto della sua opera, del partecipatissimo convegno
della Casa internazionale delle donne di Roma che in questi giorni (cfr. Maria Luisa Boccia sul
manifesto di giovedì scorso) ne ha ripercorso la figura di militante e teorica femminista nonché
critica d'arte. Non una commemorazione né una monumentalizzazione, ma una
riattualizzazione della radicalità della figura di Lonzi e della radicalità da lei impressa al
femminismo italiano degli anni Settanta e seguenti, sul piano del pensiero e della pratica, nel
modo di concepire la politica e la libertà femminile, la trasformazione di sé e del mondo, la
relazione con le altre e il conflitto con l'altro. Una riattualizzazione tanto più tempistica dopo
un anno come questo e in un momento come questo, in cui il discorso sulle donne sembra
sequestrato dall'immaginario berlusconiano (e non solo berlusconiano) al potere, e il discorso
delle donne rischia una risposta speculare e subalterna.

Quale? Quella, già in voga sui media nei mesi scorsi, che scambia la fiction berlusconiana per la
realtà («siamo un paese di veline»), vede passività dove c'è stata reattività (la reiterata
denuncia del «silenzio delle donne», che copre e svalorizza la parola delle donne che hanno
denudato il re), prescrive ricette del tutto inadatte alla malattia (quote rosa quando è chiaro
l'uso che ne fa Berlusconi e non solo lui, parità e diritti quando è chiaro che il conflitto è sulla
sessualità e sull'immaginario). Non ne è esente il quadro desolato e desolante delle donne
italiane che Caterina Soffici traccia nel suo Ma le donne no, sottotitolo (buono per le vendite in
libreria) «Come si vive nel paese più maschilista d'Europa» (Feltrinelli, 210 pagine, 14 Euro,
prefazione di Nadia Urbinati), un'inchiesta peraltro ricca di storie e testimonianze femminili
interessanti che si presterebbero a un'interpretazione più complessa di quella che l'autrice ne
trae: in sostanza, una generalizzata regressione, una generalizzata sottomissione a canoni

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etico-estetici imposti e lesivi della dignità femminile, una generalizzata incapacità di lottare e
di avvalersi dei diritti. E' davvero così? La rappresentazione commercial-televisiva del gentil
sesso nell'era berlusconiana coincide davvero con la realtà delle donne? L'eccellenza femminile
di cui parlano tutti i dati sulla scolarizzazione e sul mondo del lavoro è davvero annullata dalle
discriminazioni salariali e dal carico del lavoro familiare non condiviso con i mariti? Davvero
dopo gli anni 70 ci siamo tutte «ritirate ordinatamente e in silenzio», ciascuna per sé e il
mercato o l'uomo potente per tutte? E qual è la memoria - o meglio l'immaginario, o il
fantasma - degli anni 70 che sostiene questa catena interpretativa?

Scrive Soffici che la sua inchiesta parte da un disagio: «Eravamo cresciute in una bolla felice,
nella certezza di essere libere, di poter vivere la vita che volevamo. Ma era solo un'illusione.
Non era vero. Il cammino verso la parità dei diritti iniziato negli anni 70 si era interrotto». Una
osservazione analoga si ritrova in un altro libro-inchiesta appena uscito, Pensare l'impossibile di
Anais Ginori (Fandango, 160 pagine, 14 Euro, prefazione di Concita De Gregorio, vignette di
Pat CArra), che però esplicita nel sottotitolo, «Donne che non si arrendono», un'intenzione di
segno contrario, ed è esplicitamente attraversato in più d'una pagina dalla domanda su quale
sia, se c'è, il rapporto fra la generazione del femminismo storico e quella delle trentenni di oggi,
scosse dal torpore dai noti fatti di quest'ultimo anno che Ginori definisce «l'Anno Zero delle
donne italiane». Anche lei scrive: «Le ragazze che ho incontrato per scrivere questo libro non
sono tutte veline. Molte però provano un senso di disillusione. Sono cresciute pensando che i
diritti erano tutti già conquistati, che la parità fosse un dato acquisito. Hanno scoperto che non
è così». Viene da rispondere che se è così non tutti i mali, il sexgate berlusconiano compreso,
vengono per nuocere.

Ma forse è più chiaro a questo punto il senso delle citazioni di Carla Lonzi all'inizio di questo
articolo: servono a ricordare due cose. Primo, che non siamo all'Anno Zero. Secondo, che il
femminismo degli anni 70 ha messo al mondo una pratica di libertà che non si fida della parità e
non si affida ai diritti, che si conquista e si riconquista ogni giorno e in ogni contesto di vita
pubblica e personale, e che non si cristallizza in leggi e garanzie. Ricordarlo non serve, spero
che sia chiaro, a prescriverla ad altre donne e a un altro tempo, cui magari si addicono tutt'altre
pratiche. Serve però a smontare la riduzione - tutta costruita dalla vulgata mediatica di
trent'anni - del femminismo come lotta lineare e progressiva per la parità e i diritti. E a
ricordare che, come si evince da questi stessi due libri, «l'illusione» dei diritti può avere una
conseguenza spoliticizzante per chi ci si affida come a delle garanzie che rendono superflue le
battaglie di libertà.

Pensare l'impossibile ha comunque il merito di rendere evidente un'agenda di questioni su cui


«lo scontento delle più giovani» preme con maggiore urgenza. Si apre, intanto, con una
inchiesta sulla tratta delle nigeriane: meritoria, perché quello del mercato internazionale del
sesso, conseguenza tutt'altro che secondaria della globalizzazione, è uno dei tasselli che
mancano alla chiacchiera infinita sul sexgate di casa nostra e sull'immaginario sessuale dei
tempi nostri. E prosegue indagando sull'uso del corpo femminile nell'industria della pubblicità
e della televisione, rendendo evidenti due stacchi cruciali rispetto agli anni 70: lo spostamento
del fuoco dal corpo all'immagine del corpo, e lo spostamento della cornice dalla politica al

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mercato. Che cosa diventa o può diventare, la politica della libertà femminile, quando non si
tratta del corpo ma dell'immagine, e si combatte non dentro e contro un contesto segnato
dalla politica diffusa com'era nei 70, ma dentro e contro la dittatura del mercato, e quando la
politica diventa mero esercizio del potere?

Sono domande che varrebbe la pena di approfondire. Alain Touraine, nel libro che senza ombra
di dubbio si può considerare l'unico testo maschile che abbia afferrato e registrato la qualità
specifica della rivoluzione femminile novecentesca e il «cambiamento di prospettiva» sul
mutamento sociale da essa indotto (Il mondo è delle donne, il Saggiatore, già recensito su
queste pagine), aiuta a darsi alcune risposte. Interrogandosi sui cambiamenti generazionali
nella storia delle donne degli ultimi decenni, Touraine registra uno degli spostamenti che
questi libri segnalano, dalla capacità di lotta della generazione dei 70 all'idea oggi
predominante «che le donne siano completamente dominante e manipolate, private di parole
e di immagini proprie, e si trovino così ridotte a mera creazione del potere maschile»,
soprattutto il potere dei professionisti della comunicazione e della pubblicità. Una «immagine
caricaturale», scrive Touraine, che rischia di diventare un'ideologia al servizio dello stesso
potere maschile; per smontarla, aggiunge, è bene «cercare le attrici dietro le vittime», ovvero,
con un gioco di parole, non cadere vittime della (auto)vittimizzazione e aprire gli occhi sulle
strategie attive di vita, resistenza, creatività, costruzione di sé e trasformazione del mondo che
sono maggioritarie nelle vite femminili di oggi successive alla «grande rivoluzione» dei 70.

Occorre anche capire, scrive Touraine, che la sessualità è diventata, nelle società
contemporanee, il terreno su cui per le donne si gioca una aspra battaglia sul confine fra
costruzione consapevole di sé e mercificazione. La mappatura di questa battaglia comporta
strumenti fini, che non possono esaurirsi nella denuncia estemporanea della galleria degli
orrori che ci è passata davanti nell'ultimo anno. Sandra Puccini, nel suo prezioso Nude e crudi.
Femminile e maschile nell'Italia di oggi (Donzelli, 200 pagine, 18 Euro), si mette e ci mette sulle
tracce di un cambiamento dell'antropologia italiana che ruota attorno al cambiamento dei ruoli
sessuali, che oggi esplode ma che è cominciato nei primi anni 80 (con Drive In), e lo storicizza
proprio in rapporto alla rivoluzione femminista dei 70: «Contro le femministe sembravano
prendere corpo immagini femminili costruite pescando nelle più arcaiche fantasie maschili: con
l'antica scissione fra le donne tentatrici e peccaminose dell'immaginario erotico e le altre,
quelle da sposare e con cui mettere su famiglia». Da allora a oggi non ci sono state solo la tv
spazzatura e la pubblicità a fare la loro parte, ma un fascio di linguaggi che vanno dalla
letteratura alla fiction alla fotografia sui settimanali di moda. E non hanno operato
univocamente a svilire il corpo femminile, ma più sottilmente a costruire una «tirannia della
bellezza» basata su messaggi ambivalenti e su una «molteplicità di rappresentazioni» che dava
anche risposte, per quanto illusorie, a un desiderio di libertà e di autonomia, o dava corpo -
anoressico - ai nuovi sintomi del disagio, il narcisismo in primo luogo, di quella che altri
chiamano «società del godimento»: una società in cui erotismo, sessualità, pornografia
tendono a sovrapporsi, e «fare sesso» si sostituisce a «fare l'amore». Crucialmente, scrive
Puccini, non si è trattato solo di una manipolazione del femminile, bensì di una riscrittura del
femminile e del maschile, dominata per un verso dalla tendenza alla confusività e
all'omologazione androgina, per l'altro da un ripristino di maschere sessuali tradizionali -

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uomini violenti, donne docili - utili a placare l'ansia dovuta alla sparizione reali dei ruoli
tradizionali. Una ottima pista, che ha tra l'altro il merito di porci di fronte alla cruciale
domanda: e degli uomini, che ne è stato nel frattempo?

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