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Memoria narrativa
e industria culturale
Jesús Martín-Barbero

Traduzione dallo spagnolo di Viviana Signorelli

(in La Ricerca Folklorica, No. 7: Cultura popolare


e cultura di massa. Aprile, 1983. pp. 9-17)

«(…) la lettura espressiva. È questo un tipo di lettura


che coinvolge i lettori in quanto soggetti che non hanno
ritegno a manifestare le emozioni che la lettura suscita
in loro, esaltazione o noia che sia. Per i cittadini della
cultura orale – non letterata – leggere vuol dire
ascoltare: ma questo ascolto è sonoro, come lo è quello
dei pubblico popolare a teatro o, anche oggi, nei cinema
di periferia, con i suoi applausi e i suoi fischi, i suoi
singhiozzi e le sue sghignazzate, che disgustano il
pubblico educato e culto, cosi attento a controllare-
nascondere le proprie emozioni. Diciamo una volta per
tutte che questa espressività rivela e rende manifesta
(…) il segno che più caratteristicamente di ogni altro
differenzia l’estetica popolare rispetto a quella culta,
alla serietà di quest’ultima, ai suo rifiuto dei
godimento, nel quale tutte le estetiche aristocratiche
hanno sempre visto qualcosa di sospetto. È soprattutto
per Adorno e per altri membri della Scuola di
Francoforte che la vera lettura comincia li dove termina
il godimento.»
2

Introduzione: dai popolare ai massivo

Per chiarire il senso di ciò che segue è necessario collocarlo,


sia pure in modo schematico, nella ricerca di cui fa parte. Si
tratta della ricerca su «popolare e massivo» alla quale sono
giunto spinto dalla necessità di due «messe a punto», che
segnalano sul terreno della teoria i mutamenti che viviamo
sul terreno della politica.
La prima: la cultura di massa non si identifica né può es-
sere ridotta a ciò che accade negli o per mezzo degli stru-
menti di comunicazione di massa. Come afferma Rositi1, la
cultura di massa non è soltanto un insieme di oggetti cultu-
rali, bensì un «principio di comprensione» di alcuni nuovi
modelli di comportamento: vale a dire che è un modello
culturale. Ciò comporta che quanto accade nei mezzi di
comunicazione di massa non può essere compreso al di
fuori della sua relazione con le mediazioni sociali, con i
«mediatori», nel senso in cui li definisce Martín Serrano2; né
al di fuori dei differenti contesti culturali – religioso, scola-
stico, familiare, ecc. – dall’interno dei quali, o in contrasto
con i quali, individui e gruppi vivono quella cultura.

1
F. Rositi, Historia y teoría de la cultura de masas, pp. 28 e ss.
2
M. Martin Serrano, La mediación social, Madrid 1977. E dello
stesso autore «Nuevos métodos para la investigación de la
estructura y la dinámica de la enculturización» in Revista de la
Opinion Publica, 37 (1974).
Memoria narrativa e industria culturale
3

La seconda: la maggior parte delle ricerche sulla cultura


di massa, la mettono a fuoco nell’ottica del modello culto,
non solo in quanto esso costituisce l’esperienza esistenziale
ed estetica da cui parte il ricercatore, ma soprattutto in
quanto in riferimento al modello culto si definisce la cultura
di massa, la si identifica con processi di volgarizzazione e di
svendita, di avvilimento e di decadenza della cultura culta.
Inoltre, in questa prospettiva, operazioni di produzione di
senso come in un racconto la predominanza dell’intreccio o
la rapidità o, in termini più generali, la ripetitività o la sche-
matizzazione, sono a priori squalificate come strumenti di
semplificazione, di facilismo, che in definitiva rinvierebbero
alle costrizioni della tecnologia e agli espedienti della com-
merciabilità.
Non si tratta di negare la realtà di queste costrizioni e di
questi espedienti. Si tratta del «luogo» dal quale vengono
considerati e del significato che acquistano di conseguenza.
È il problema che si pongono Mattelart e Piemme quando,
in un libro recente, si chiedono «in che misura la cultura di
massa non sia stata attaccata da Adorno e Horkheimer
perché il suo processo di fabbricazione attentava ad una cer-
ta sacralizzazione dell’arte»3. Vale a dire che, considerata
dal punto di vista del modello culto, la cultura di massa
tende ad esser vista unicamente come il prodotto dell’in-
dustrializzazione mercantile – nella sua versione economi-
cista o in quella tecnologista – precludendo così la possi-
bilità di comprendere o anche solo di porre in discussione
gli effetti strutturali del capitalismo sulla cultura.
Per dar conto di questi ultimi si rende necessaria la se-
conda messa a punto: indagare la cultura di massa a partire
dall’altro modello, quello popolare. Ciò non ha nulla a che
vedere con la nostalgia né con l’aspirazione a recuperare un

3
A. Mattelart e J.M. Piemme, La televisión alternativa, Barcelona
1981.
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4

modello di comunicazione interpersonale con il quale far


fronte, illusoriamente, alla complessità tecnologica e all’as-
trazione della comunicazione di massa. Ciò che si ottiene
con questa seconda messa a punto è un’analisi dei conflitti
che la cultura articola. Il fatto è che considerata dal punto di
vista del popolare, la cultura massiva rivela il suo carattere
di cultura di classe, ciò che precisamente per sua funzione
dovrebbe negare. E ciò per il fatto che la cultura popolare
non può essere definita in nessun senso, né come quella che
producono né come quella che consumano né come quella
di cui si alimentano le classi popolari, al di fuori dei proces-
si di dominazione e dei conflitti e contraddizioni che la
dominazione attiva. La cultura culta ha una raffinata voca-
zione a pensar si come la cultura. Per contro, la popolare
«non può essere nominata senza nominare contemporane-
amente quella che la nega e di fronte alla quale essa si affer-
ma per mezzo di una lotta disuguale e, spesso, ambigua»4.
A partire da qui si aprono tre piste, tre linee di ricerca sepa-
rabili solo per esigenze di lavoro, ma complementari.
1. Dal popolare al massivo: direzione di ricerca che non può
più essere seguita altro che storicamente dal momento che,
ad onta di tutte le nostalgie per «l’autenticamente popolare»,
il massivo non è qualcosa di completamente esterno, qual-
cosa che venga a invadere e corrompere il popolare dal di
fuori, bensì lo sviluppo di certe virtualità già inscritte nella
cultura popolare del XIX sécolo. La cultura di massa non
appare di colpo, con un taglio netto che permetta di con-
trapporla senz’altro alla cultura popolare. Il massivo ha
avuto una gestazione lenta, a partire dai popolare. Solo un
enorme strabismo storico, solo un profondo etnocentrismo
di classe (Bourdieu), che si rifiuta di chiamare il popolare
cultura, ha potuto condurre a non vedere nella cultura di

4
J. Martín-Barbero, «Prácticas de comunicación en la cultura
popular», in Comunicación alternativa y cambio social, México,
1981.
Memoria narrativa e industria culturale
5

massa niente altro che un processo di volgarizzazione, la


decadenza della cultura culta. E questo etnocentrismo non e
malattia esclusiva della destra, bensì la prospettiva all’in-
terno della quale lavorano anche molte analisi critiche. Ma
la storia e diversa: sul terreno culturale la massificazione
consiste nel processo di inversione di senso mediante il
quale, nel corso del XIX sécolo, passa ad esser chiamata
popolare precisamente la cultura prodotta industrialmente
per il consumo delle masse. Cosicché, nel momento storico
in cui la cultura popolare tenta –come ho dimostrato altro-
ve5– di costituirsi in cultura di classe, questa stessa cultura
viene minata dall’interno, resa impossibile, trasformata in
cultura di massa. Ma a sua volta questa inversione e resa
possibile dalla compattezza che nel XIX sécolo ancora con-
serva la massa «delle masse», di modo che la nuova cultura
popolar-massiva si costituisce attivando certi segni di identi-
tà della vecchia cultura e neutralizzandone o deformandone
altri.
2. Dal massivo al popolare: e il percorso che consente di in-
dagare in primo luogo la negazione, vale a dire la cultura di
massa in quanto negazione dei conflitti per mezzo dei quali
le classi popolari costruiscono la loro identità. Indagare
dunque sui dispositivi di massificazione, di depoliticizza-
zione e controllo, di demobilitazione. In secondo luogo
questo percorso consente di indagare la mediazione, vale a
dire le operazioni mediante le quali il massivo recupera il
popolare e ne fa la propria base. Indagare dunque sulla
presenza nella cultura di massa di codici popolari di perce-
zione e di riconoscimento, di elementi della sua memoria
narrativa e iconografica. Considerati da questo punto di vis-
ta la ripetizione o lo schematismo non segnalano più sem-
plificazione o degradazione, ma rinviano e parlano di un
modo di comunicazione altro, semplicemente differente da

5
J. Martín-Barbero, «Apuntes para una historia de las matrices
culturales de la massmediación», pp 16 y ss.
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6

quello della cultura letterata: modo di comunicazione che


non è solo delle masse contadine bensì anche delle masse
urbane che impararono a leggere ma non a «scrivere» e per
le quali un libro è sempre un’esperienza o una «storia» e
mai un «testo» o almeno un’informazione; per le quali una
fotografia o un film non parla mai di piani e di montaggio,
ma di ciò che rappresenta o ricorda; per le quali l’arte co-
munica sempre e senza mediazioni con la vita.
3. Gli usi popolari delta cultura di massa: e la direzione di ri-
cerca verso la quale si volgono le domande circa l’uso che le
classi popolari fanno di ciò che vedono, di ciò a cui credo-
no, di ciò che comprano o che leggono. Di contro alle sta-
tistiche sull’audience e alle inchieste di mercato che si esauri-
scono nell’analisi della reazione, della risposta allo stimolo;
e di contro all’ideologia dei consumo come ingestione e
passività, si tratta di indagare l’attività che si esercita negli
usi che i differenti gruppi – il popolare non è per nulla affat-
to omogeneo, è invece una pluralità – fanno di ciò che con-
sumano, le loro grammatiche di ricezione e di decodifica-
zione. Infatti se è vero che il prodotto o il modello di con-
sumo sono il punto di arrivo di un processo di produzione,
è vero pure che essi sono il punto di partenza e la materia
prima di un altro processo di produzione, silenzioso e di-
sperso, nascosto nel processo di utilizzazione. Ne è un
esempio l’utilizzazione che i gruppi indigeni e contadini
dell’America latina hanno fatto e fanno dei riti religiosi
imposti dai colonizzatori, utilizzazione nella quale i riti non
sono rifiutati, bensì convertiti a fini e in funzione di referen-
ze estranee al sistema dal quale hanno tratto origine.
Ancora, è esemplare la maniera in cui i primi abitanti inse-
diati a Guatavita – un villaggio costruito presso Bogotá per
alloggiare gli abitanti di un altro villaggio distrutto per la
costruzione di un bacino idrico – riorganizzarono il senso e
la funzione degli spazi della casa, degli apparecchi igienici,

Memoria narrativa e industria culturale


7

ecc. Infine si tratterà di indagare ciò che M. de Certeau6 ha


chiamato le «tattiche» che, in opposizione alle «strategie»
del forte, definiscono le astuzie, gli stratagemmi, gli espe-
dienti del debole. Si tratta di scoprire queste procedure,
nelle quali si incarna una logica altra dell’azione: quella de-
lla resistenza e della risposta al dominio.

I Il racconto popolare, un modo di accedere all’altra


cultura

Poniamo in chiaro, innanzi tutto, quanto segue: nello


studio dei racconti popolari ciò che stiamo studiando, o
meglio, il «luogo» all’interno del quale si articola il nostro
studio, non è la letteratura, bensì la cultura. Questa non è
un’opzione arbitraria dello studioso, bensì un’esigenza
dell’oggetto. La funzione popolare del racconto è specifica,
molto più vicina alla vita che all’arte, o se mai, vicina ad
un’arte transitiva, in continuità con la vita. In una continui-
tà puntuale, giacché si tratta del discorso che articola la
memoria del gruppo e nel quale si dicono le pratiche del
gruppo: un modo del dire che non solo parla di, ma anche
materializza alcuni modi del fare7.
Dobbiamo ora esaminare alcuni degli snodi fondamentali
dei modi del narrare nella cultura non letterata. E questa de-
nominazione in negativo, che in seguito chiariremo anche
nel suo senso positivo, segnala l’impossibilità di definire
questa cultura al di fuori dei conflitti entro i quali essa co-
struisce la sua identità. Questa affermazione non va confusa
con la posizione che nega identità culturale alle classi popo-
lari, ma, come avverte Bourdieu:
«la tentazione di prestare la coerenza di un’estetica sistema-
tica alle prese di posizione estetiche delle classi popolari

6
M. de Certeau, L'invention du quotidien, pp. 75 e sgg.
7
M. de Certeau, op cit. pp. 150 -167.
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8

non è meno pericolosa dell’inclinazione a lasciarsi imporre,


senza rendersene conto, la rappresentazione esclusivamente
negativa della visione popolare, che sta al fondo di ogni e-
stetica culta»8.

Non letterata significa quindi una cultura i cui messaggi


non vivono né nel libro né del libro, vivono nella canzone e
nel ritornello, nelle storie che passano di bocca in bocca, nei
racconti e nei motti, nelle sorti e nei proverbio. Di guisa
che, quand’anche questi messaggi sono messi per iscritto,
non godono mai dello status sociale del libro. I testi delle
canzoni dei cantastorie, le confezioni di pubblicazioni eco-
nomiche, i supplementi e i romanzi a puntate materializza-
no, tanto nella forma di stampa quanto in quella di circola-
zione e consumo, quest’altro modo di esistere dei messaggio
popolare; qualcosa stampato grossolanamente, a pubblica-
zione periodica, che non si compra nelle librerie ma per la
strada o ai mercato – come per secoli sono giunti nei villag-
gi gli almanacchi e i libretti di devozione e di ricette medi-
cinali, nella borsa dei merciaio ambulante, nella quale tro-
vavano posto anche i fili e gli aghi, gli unguenti e certi at-
trezzi da lavoro – e che una volta letto serve per altri usi
quotidiani. Ancora oggi quando i membri delle classi popo-
lari comprano libri, non lo fanno mai nelle librerie, ma nei
chioschi lungo la strada o nelle botteghe di quartiere. E il
modo di acquistare ha parecchio a che vedere con il modo
di usare.
Considerata secondo i suoi modi di narrare, la cultura
popolare continua ad essere quella di coloro che appena
sanno leggere, che leggono molto poco e che non sanno
scrivere. Se si fanno a un contadino domande riguardanti il
mondo in cui egli svolge la sua vita, si possono constatare
non solo la ricchezza e la precisione dei suo vocabolario,
ma anche l’espressività della sua tecnica di «racconto». Ma

8
P. Bourdieu, La distinction. Critique social du jugement, p. 33.
Memoria narrativa e industria culturale
9

se gli si chiede di scriverlo, egli diventa un muto. Questa


considerazione ci propone, in positivo, l’altra faccia della
questione, quella della persistenza dei dispositivi della cultu-
ra orale, in quanto dispositivi di enunciazione dei popolare,
e questo tanto nei modi di narrare come di leggere.
1. Un altro modo di narrare

Il non venire dalla tradizione orale (e il non andare verso di


essa) è ciò che distingue il romanzo da tutte le altre forme
di letteratura in prosa: favola, leggenda, racconti. Ma so-
prattutto lo distingue dalla narrazione. Il narratore prende
ciò che narra dall’esperienza, sua propria o che gli hanno
narrato. A sua volta la converte in esperienza per coloro
che ascoltano la sua narrazione. Il romanziere, ai contrario,
resta estraneo.
W. Benjamin

Esaminato secondo la critica culta, il messaggio popolare


si riduce alla sua «formula», ai suo esaurirsi nello schemati-
smo, nella ripetizione e nella trasparenza delle convenzioni.
D’altro canto gli studiosi di folklore ci tendono un’altra
trappola: la riscoperta dei primitivo, delle forme pure, il
popolare come il non ancora corrotto. Di fronte a queste
due posizioni, la mia è definita dalla convergenza di due
proposte molto diverse: quella di uno studioso di cultura di
massa degli anni cinquanta, R. Hoggart, il quale studiando
la canzone popolare definisce le convenzioni come «ciò che
rende possibile il rapporto dell’esperienza con gli archetipi»9
e que-lla di M. Bachtin, che scopre nella festa popolare tutti
i seg-ni di un altro modo di comunicare10. In base a questa
convergenza analizzare messaggi significa studiare processi
di comunicazione che non si esauriscono nei dispositivi

9
R. Hoggart, The Uses of Literacy, p. 161.
10
M. Bachtin, La cultura popular en la Edad Media y en el
Renacimiento, pp. 177 e sgg.
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10

tecnologici, perché proprio a partire da qui rimandano all’e-


conomia dell’immaginario collettivo.
La prima opposizione che permette di caratterizzare il
messaggio popolare è quella indicata da Benjamin nella ci-
tazione: di fronte ai romanzo e alla sua testualità intransiti-
va la narrazione popolare è sempre un «raccontare a». Re-
citato o letto a voce alta, il messaggio popolare si realizza
sempre in un atto di comunicazione, nella messa in comune
di una memoria che fonde insieme esperienza e modo di
raccontarla. Giacché non si tratta solo di una memoria dei
fatti; ma anche dei gesti, allo stesso modo in cui un motto
non è fatto solo di parole ma di toni e di gesti, di pause e di
complicità. La sua sola possibilità di essere fatto proprio
dall’uditorio e di restare, è che si lasci memorizzare. Ma
oggi la memoria è in ribasso, svalutata dai professori, il rin-
novarsi continuo delle notizie e degli oggetti la rende im-
possibile e la cibernetizzazione che ci perseguita sembra
renderla definitivamente inutile. Di conseguenza ci riesce
più difficile comprendere il paradosso dei funzionamento
della narrazione popolare, nella quale la qualità della co-
municazione è inversamente proporzionale alla quantità di
informazione. Il fatto è che la dialettica della memoria re-
siste a lasciarsi pensare con le categorie dell’informatica o
dell’analisi letteraria. In essa la ripetizione convive con l’in-
novazione, giacché quest’ultima la impone sempre la situa-
zione in cui si racconta la storia, di modo che il messaggio
vive delle sue trasformazioni e della sua fedeltà, non alle
parole sempre permeabili ai contesto, bensì ai senso e alla
sua morale.
L’altra opposizione fondamentale è quella che separa il
messaggio di «genere» da quello di «autore». È questa una
categoria fondamentale per studiare il popolare e ciò che di
popolare resta nella cultura di massa11. Non mi riferisco alla
11
Sul concetto di «genere» come unita d’analisi per la cultura di
massa, vedi: P. Fabbri, «Le comunicazioni di massa in Italia:
Memoria narrativa e industria culturale
11

categoria letteraria di genere, ma a un concetto proprio del-


l’antropologia o della sociologia della letteratura, vale a dire
ai funzionamento sociale dei messaggi, funzionamento dif-
ferenziale e differenziatore, culturalmente e socialmente dis-
criminante. E che attraversa tanto le condizioni di produ-
zione quanto quelle di consumo. I «generi» sono un dis-
positivo per eccellenza dei popolare, giacché non sono solo
modi della scrittura ma anche della lettura: un «luogo» dal
quale si legge e si guarda, si decifra e si comprende il senso
di un messaggio. Passa da qui una demarcazione culturale
importante, perché, mentre il discorso culto fa esplodere i
generi, è nel popolare-di-massa che essi continuano a vivere
e a compiere il loro ruolo: articolare la quotidianità con gli
archetipi. Dire messaggi «di genere» significa dar si come
oggetto preciso di studio la pluridimensionalità dei disposi-
tivi, vale a dire le mediazioni materiali ed espressive attra-
verso le quali i processi di riconoscimento si innestano in
quelli di produzione inscrivendo la propria orma nella strut-
tura stessa dei narrare. Cosi la rapidità dell’intreccio – la
quantità smisurata di avventure – in rapporto con il prevale-
re dell’azione sulla psicologia, cosi la ripetizione in rapporto
ai costituirsi della memoria dei gruppo, cosi lo schematismo
e il ritmo in rapporto agli archetipi e ai processi di identifi-
cazione.
2. Un altro modo di leggere
L’indagine sull’esistenza di differenti modi di leggere si
scontra ancora, oggi, con difficoltà di base. Si deve ancora
fare una storia sociale della lettura che comprenda storia
delle forme dei leggere e tipologia dei pubblici12. Abbiamo

sguardo semiotico e malocchio della sociologia», in Versus 5/2


(1973). Sui «generi» nelle culture popolari, vedi Poetique, 19
(1974).
12
Contributi su questa linea sono quelli di: N. Rubin, «La
lectura», in R. Escarpit e altri, Hacia una sociología del hecho
literario, pp. 221-242; J.J. Darmon, «Lecture rurale et lecture
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12

inoltre bisogno di rivedere completamente le teorie sul rice-


vente, tanto la funzionalista, quanto la critico-negativa, gia-
cché entrambe proseguono, ciascuna a suo modo, una lun-
ga e pertinace tradizione che deriva dalla concezione dei
processo educativo come «illuminazione» e secondo la qua-
le questo processo si instaura da un polo attivo, che detiene il
sapere, l’élite, l’intellettuale, verso un polo passivo e ignoran-
te, il popolo, la massa. Ne consegue una divisione netta e
irrevocabile tra la sfera della produzione, e cioè della creati-
vità e attività, da un lato; e quella dei consumo, cioè della
passività e dei conformismo, dall’altro. I cambiamenti che
hanno reso possibile il passaggio dalla vecchia scuola ai mo-
derni media non hanno tuttavia affatto messo in discussione
il postulato della passività dei consumo. Ancora una volta
per rompere con la logica di questa concezione è necessario
uscire dallo spazio teorico-politico in cui essa si radica.
Questo spostamento ci consente subito di intravvedere al-
meno tre caratteri differenziali della lettura popolare.
In primo luogo la lettura collettiva. Quando gli storici han-
no affrontato il tema della lettura popolare, sono rimasti
quasi sempre sconcertati di fronte ai primo interrogativo:
come è possibile parlare di lettori delle classi popolari dei
secoli XVII o XIX, se solo una ristrettissima minoranza sape-
va leggere o meglio firmare, e se il salario di una settimana
appena bastava per comprare una busta di pubblicazioni
economiche13? La domanda, però, evidenzia chiaramente i
pregiudizi da cui nasce: confondere scrittura con lettura e
soprattutto pensare alla lettura nei termini dell’individuo
chiuso nella sua stanza con il suo libro, ignorando che, a
cominciare dalle testimonianze dei Don Chisciotte («perché

urbaine in Le roman Feuilleton», in Revue Europe (1974).


13
Sulla necessita di rifondare questo interrogativo, vedi: N.
Salomón, «Algunos problemas de sociología de las literaturas de
lengua española», in Creación y público en la literatura española, pp.
15-40.
Memoria narrativa e industria culturale
13

quando è tempo di mietitura si raccolgono qui nei giorni di


festa molti mietitori e sempre c’è qualcuno che sa leggere
che prende in mano uno di questi libri, noi facciamo cerchio
intorno a lui, più di trenta e lo stiamo a sentire con tanto
gusto che niente ci dà più soddisfazione» dice l’oste a pro-
posito dei romanzi cavallereschi nel capitolo XXII della
prima parte), nonché dell’istituzione popolare per antono-
masia delle veglie nelle culture contadine, fino ai contadini
anarchici che nell’ Andalusia della metà del XIX sécolo
compravano il giornale anche senza saper leggere affinché
qualcuno lo leggesse alla loro famiglia, la lettura delle classi
popolari è sempre stata, prevalentemente, collettiva, vale a
dire ad alta voce e secondo i ritmi imposti dai gruppo. In
essa ciò che e letto non funziona come punto di arrivo e di
chiusura dei senso, bensì, ai contrario, come punto di par-
tenza, riconoscimento e messa in moto della memoria col-
lettiva che, riscrivendo il testo, reinventandolo, finisce con
utilizzarlo per parlare di e per celebrare cose assai differenti
da quelle di cui il testo parlava; o le stesse cose, ma intese
assai differentemente. E non sto facendo teoria, ma trascri-
vendo il ricordo di una esperienza, la lettura dei bollettini di
guerra durante le veglie invernali di un paesino della Casti-
glia.
In secondo luogo la lettura espressiva. È questo un tipo di
lettura che coinvolge i lettori in quanto soggetti che non
hanno ritegno a manifestare le emozioni che la lettura susci-
ta in loro, esaltazione o noia che sia. Per i cittadini della
cultura orale – non letterata – leggere vuol dire ascoltare:
ma questo ascolto è sonoro, come lo è quello dei pubblico
popolare a teatro o, anche oggi, nei cinema di periferia, con
i suoi applausi e i suoi fischi, i suoi singhiozzi e le sue sghi-
gnazzate, che disgustano il pubblico educato e culto, cosi
attento a controllare-nascondere le proprie emozioni. Di-
ciamo una volta per tutte che questa espressività rivela e
rende manifesta, fino al rischio dell’identificazione denun-
ciato da Brecht, il segno che più caratteristicamente di ogni
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14

altro differenzia l’estetica popolare rispetto a quella culta,


alla serietà di quest’ultima, ai suo rifiuto dei godimento, nel
quale tutte le estetiche aristocratiche hanno sempre visto
qualcosa di sospetto. È soprattutto per Adorno e per altri
membri della Scuola di Francoforte che la vera lettura co-
mincia li dove termina il godimento14. Ci si può chiedere se
questo atteggiamento di negazione non abbia parecchio a
che fare con il loro apocalittico pessimismo e con la loro
incapacità ad indagare le contraddizioni che attraversano la
cultura di massa.
In terzo luogo una lettura obliqua, deviata. Una lettura la
cui grammatica è sovente altra, differente dalla grammatica
di produzione. L’autonomia dei testo è un’illusione, se ci si
pone dai punto di vista delle condizioni di produzione dei
testo stesso; ma non lo è meno dai punto di vista delle con-
dizioni di lettura. Solo per pregiudizi di classe si può negare
ai codici percettivi popolari la capacità di appropriarsi di ciò
che leggono: come dimostra la lettura che le classi popolari
francesi fecero de I misteri di Parigi, trasformando il romanzo
d’appendice di Sue in un fattore di presa di coscienza, per
mezzo dell’attivazione dei segni di riconoscimento che in
esso erano contenuti15: o anche la lettura che i contadini an-
dalusi o siciliani fecero dei messaggio contenuto nelle azio-
ni dei banditi, lettura performativa che più di una volta
obbligò banditi ai soldo di padroni a mettersi a fianco dei
contadini poveri16; o ancora la lettura che le masse del Nor-

14
A questo proposito: H.R. Jauss, «Pequeña apología de la
experiencia estética», in Eco 224 (junio 1980), pp. 217-256. Vedi
anche M. Dufrenne, «L'art de masse existe-t-il?», in L'art de masse
n'existe pas, pp. 9-50.
15
Due studi che si valgono di questa chiave di lettura: U. Eco,
Socialismo y consolación, Barcelona 1974; J.L. Bory, Eugene Sue,
dandy mais socialiste, Paris, 1973.
16
Vedi in E.J. Hobsbawn, Rebeldes primitivos, il capitolo dedicato al
bandito sociale, p. 27-55.
Memoria narrativa e industria culturale
15

deste brasiliano fanno dei «rapporti di miracoli» partendo


dalla non-coincidenza di fatto e senso e risemantizzandoli
come irruzione dell’impossibile-possibile in opposizione ai
piatto realismo dei giornali17; o la lettura, infine, che le cla-
ssi popolari fanno di ciò che offrono loro radio e televisione,
lettura che dà luogo a una quantità di forme di re-sistenza e
di riappropriazione.

II Alcune chiavi per riconoscere il melodramma

Il gusto nazionale, vale a dire la cultura nazionale, è


il melodramma.
A. Gramsci

Il melodramma, questa chiave per la comprensione


familiare della realtà.
C. Monsiváis

Nessun altro genere popolare si è affermato in America


Latina come il melodramma.
Né il genere del terrore – e non è che ne manchino i mo-
tivi – né l’avventuroso né il comico hanno guadagnato nel
subcontinente uno spazio e un radicamento paragonabili a
quelli del melodramma, quasi che in questo «genere» si
trovasse la formula più adatta per esprimere il modo di
vedere e di sentire delle nostre popolazioni. Ma al di là di
tante letture ideologiche riduttive e anche al di là delle mo-
de intellettualistiche dei revivals, il melodramma e stato e
continua ad essere un terreno fondamentale per studiare la
contraddittoria realtà e la «non-contemporaneità tra i pro-
dotti culturali che si consumano e lo spazio sociale e cul-

17
Su questa lettura, vedi: M. de Certeau, «Un ‘art’ bresilien», in
op cit., pp. 56-60.
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16

turale nel quale questi prodotti sono consumati, visti o letti


dalle classi popolari dell’America Latina»18. Sotto forma di
tango19 o di teleromanzo, di «cine mexicano» o di «voce
amica» radiofonica, il melodramma tocca una corda pro-
fonda dell’immaginario collettivo; e non vi è accesso po-
ssibile alla memoria storica che non passi per questo imma-
ginario.
Oltre a questa ragione «familiare», l’importanza del me-
lodramma e altresì teorica, fondata sul fatto che forse in
nessun altro prodotto culturale e altrettanto visibile, vale a
dire osservabile e analizzabile, la «inversione di senso» che
sta all’origine della cultura di massa, del suo generarsi mi-
nando dall’interno i dispositivi di enunciazione della cultura
popolare. Storicamente nel melodramma – parlo di melo-
dramma-teatro del 1800 in Inghilterra e soprattutto in Fran-
cia, vera pista di decollo del melodramma spettacolo popo-
lare, che nasce per mezzo di un decreto della Rivoluzione
francese con il quale si aboliva il divieto che pesava contro i
teatri popolari e che trova il suo paradigma in un’opera di
Gilbert de Pixecourt Céline o il figlio dei mistero20 – si fondono
per la prima volta la memoria narrativa e quella gestuale, le
due grandi tradizioni popolari: quella dei racconti che deriva
dai «romances» e dalle canzoni dei cantastorie, dal feuille-
ton e dalle storie di terrore del romanzo gotico, da un lato; e
dall’altro quella degli spettacoli popolari che viene dalla pan-
tomima e dal circo, dal teatro da fiera e dai rituali festivi.
Tuttavia, se il melodramma è il punto di arrivo e di fusione
della memoria narrativa e scenica popolare, esso è anche

18
J. Martín-Barbero, «Apuntes para una historia de las matrices
culturales de la massmediación», p. 2.
19
Nome che si da, oltre che al celebre ballo, alle strofe cantate
sull'aria di un tango, strofe che narrano sempre vicende
melodrammatiche [N.d.T].
20
J. Goimard, «Le melodrame: le mot et la chose», in Les Cahiers
de la cinematheque, 28 (1980).
Memoria narrativa e industria culturale
17

già, nel melo-teatro del 1800, il luogo in cui emerge la cultu-


ra di massa. Di maniera che dal melo-teatro al romanzo
d’appendice al romanzo a puntate e da questo al cinema,
alla radio e poi alla televisione, una storia delle matrici
culturali, dei modelli narrativi e delle messe in scena della
cultura di massa e, in buona parte, una storia del melo-
dramma.
Attenzione, però. Se è vero che il melodramma è un ter-
reno particolarmente adatto allo studio della nascita e dello
sviluppo del «massivo», è altresì vero che questo studio è
possibile solo se il melodramma viene studiato nel suo fun-
zionamento sociale: che è poi la sua ostinata persistenza,
ben aldilà della «scomparsa» delle condizioni della sua
produzione; la sua capacità di trasformazione e adattamen-
to ai differenti supporti tecnologici; e la sua efficacia ideo-
logica. Un tale studio implica che si ponga in relazione il
linguaggio e la storia del melodramma con quella dei pro-
cessi culturali e dei movimenti sociali. Per evitare il mec-
canicismo, che ancora ci minaccia, la garanzia migliore è
proporsi lo studio delle mediazioni, quelle nel corso delle
quali i processi economici cessano di essere un involucro
esterno dei processi simbolici.
La traccia meglio utilizzabile nello studio del melodram-
ma, l’ho incontrata in un testo di C. Monsiváis21, nel quale
egli definisce il melodramma come «la chiave della com-
prensione familiare della realtà». Da qui hanno preso le
mosse le mie ipotesi di lavoro: nel melodramma perdurano
alcuni segni di identità della concezione popolare del mon-
do, di ciò che E.P. Thompson22 ha chiamato «la economia
morale dei poveri» e che consiste nel guardare e sentire la
21
C. Monsivais, «Cultura urbana y creación intelectual», in Casa
de las Américas, 116 (1979).
22
E.P. Thompson, «La economía “moral” de la multitud en la
Inglaterra del s. XVIII», in Tradición, revuelta y consciencia de clase,
pp. 62-135.
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18

realtà attraverso le relazioni familiari nel loro senso forte,


vale a dire come relazioni di parentela; attraverso queste,
melodrammatizzando tutto, le classi popolari si vendicano,
a loro modo, della astrazione imposta loro dalla mercanti-
lizzazione della vita e dei sogni.
1. Tempo familiare e immaginario mercantile
L’antropologia ha cominciato da poco a distaccarsi dai
«primitivi» e a interessarsi delle culture popolari contadine o
urbane. Ciò accade mentre la sociologia e la storia abban-
donano i grandi fatti, le astrazioni economiche e l’imme-
diatamente politico, per cominciare a interessarsi allo studio
del tessuto materiale e simbolico della quotidianità. La
storia orale e delle mentalità, la sociologia della cultura e
l’antropologia urbana cominciano a rendere possibile un
approccio più articolato e ricco alle culture altre, subalterne
e dominate, infrangendo quell’etnocentrismo particolar-
mente duro e resistente che è l’etnocentrismo di classe. Due
ricerche di questo tipo, l’una sulle trasformazioni sociocul-
turali di un borgo francese a partire dagli anni Cinquanta e
l’altra, già citata, sul mutamento del costume delle classi
popolari urbane nell’Inghilterra di quegli stessi anni, ci
permettono di stabilire il ruolo delle relazioni familiari nelle
culture popolari tradizionali e il significato che assumono i
cambiamenti che l’industrializzazione capitalistica e la in-
troduzione dei mass media producono in quelle relazioni.
Dice Zonabend: il tempo familiare «e quel tempo a parti-
re dal quale l’uomo si pensa sociale, un uomo che è anzi
tutto un parente. La parentela fonda la società [...] genera la
solidarietà. È da qui che il tempo familiare si innesta nel
tempo della collettività»23. Dice Hoggart: «Gli accadimenti
non sono percepiti altro che quando toccano la vita del gru-

23
F. Zonabend, La mémoire longue, p. 308. 24 R. Hoggart, op. cit.,
p. 76.
Memoria narrativa e industria culturale
19

ppo familiare»24. Figurativamente potremmo illustrare il


ruolo di mediazione della famiglia come segue: tra il tempo
della Storia – che è il tempo della nazione e dei mondo, il
tempo dei grandi avvenimenti che irrompono dall’esterno
nella comunità – e il tempo della vita, che è il tempo che va
dalla nascita alla morte di ciascun individuo, scandito dai
riti di iniziazione alle differenti età, il tempo familiare e
quello che media e rende possibile la loro comunicazione.
Di maniera che, ad esempio, una guerra è percepita come
«il tempo in cui mori lo zio» e la capitale come «il luogo in
cui vive mia cognata». In sintesi possiamo affermare che
nella cultura popolare la famiglia sembra essere la grande
mediazione per mezzo della quale si vive la socialità, vale a
dire la presenza ineludibile e costante della collettività nella
vita di ognuno. Di ciò tutto dà conferma, dalla organizza-
zione spaziale dell’habitat fino alle forme di interscambio di
beni e saperi, dalla maniera di iniziare un fidanzamento ai
significato e ai riti della morte.
In rapporto a questa concezione e a questo modo di vive-
re, le trasformazioni operate dai capitalismo nell’ambito del
lavoro e in quello della cultura, la mercantilizzazione dei
tempo e delle relazioni sociali, incluse le primarie, fanno
esplodere quella mediazione. Svuotata dei suo ruolo produt-
tivo e separata dallo spazio pubblico la famiglia si privatizza
riducendosi fino a «non avere altra funzione che l’asso-
ciazione sessuale di una coppia e l’educazione di una nidia-
ta di figli sempre meno numerosa, convertendosi in un
rifugio contro l’alienazione del mondo del lavoro»25. Così
segregata, la famiglia si restringe fino a coincidere con lo
spazio della casa, ora trasformata nello spazio in cui si
dispiega l’individualismo consumista. La famiglia non solo
non apparirà più come la mediatrice del sociale, ma anzi

24
R. Hoggart, op. cit., p. 76.
25
P. Laslett, «El rol de las mujeres en la historia de la familia
occidental», in El hecho femenino, p. 494.
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20

verrà percepita come il suo contrario: il privato contro il


pubblico. Nei suoi due versanti: il primo è quello in cui si
contrappongono spazio di lavoro e spazio del consumo e
dell’ozio. Schiavi nel lavoro ma liberi nel consumo. Giac-
ché, come ho scritto altrove26, se il lavoro spossessando
rende solidali, il consumo realizzando il possesso individua-
lizza, genera un movimento di ripiegamento sull’identità
dell’individuo. Il secondo versante è quello in cui si con-
trappongono lo spazio politico e quello della neutralità.
«Esente da connotazioni politiche e eretta a monumento
dell’intimità e delle private virtù, la famiglia si converte in
cellula di controllo politico, oltre che sociale e morale. La
relazione tra vita politica e vita familiare non è vista come
una relazione di continuità, bensì di contraddizione»27.
L’immaginario urbano verrà a consacrare definitivamente
questa separazione e questo ripiegamento: organizzazione
architettonica degli spazi e in particolare dell’habitat, rego-
lamentazione degli usi dei tempo di riposo, incombente
presenza della polizia, tutto contribuisce a frammentare le
relazioni sociali e a riattivare un‘imperiosa necessità di in-
timità, una ricerca compulsiva della sicurezza, che fanno si
che la famiglia ruoti ossessivamente intorno all’immagine
dei rifugio e della clausura. E ciò tanto nello scenario do-
menicale, quanto in quello della routine giornaliera. La do-
menica urbana si è trasformata nella giornata della massima
privatizzazione, della «fuga in famiglia», in opposizione a
ciò che è sempre stato il giorno di festa nelle culture popola-
ri e ancora continua ad essere nei piccoli paesi: il giorno
della massima socializzazione. L’altro aspetto è quello della
casa dove la televisione segna le due tappe del simulacro
che nasconde la negazione o, con le parole di Baudrillard28,

26
J. Martín-Barbero, Comunicación masiva: discurso y poder, p. 205.
27
F. Colombo, Televisión: la realidad como espectáculo, p. 63.
28
J. Baudrillard, A la sombra de las mayorías silenciosas, pp. 65 e
sgg.
Memoria narrativa e industria culturale
21

la dissoluzione dei sociale. Dapprima l’apparecchio TV ha


riarticolato lo spazio e catalizzato il cambiamento: non è
più la tavola il centro intorno ai quale la famiglia si riunisce
a conversare, ma lo schermo TV, rivolti al quale tutti guar-
dano senza parole. E una TV che porta dentro casa tutto,
rendendo inutile uscire per divertirsi o assistere ai grandi
spettacoli, il cinema e il calcio «stanno» nel piccolo scher-
mo. In seguito la famiglia non si riunisce più nemmeno a
guardare, ciascun membro ha il suo televisore personale in
camera sua. Siamo giunti agli antipodi di ciò che le relazio-
ni familiari sono e significano nella cultura popolare. Solo
un gigantesco anacronismo può tener in vita ancora oggi il
melodramma.
2. Il melodramma: la memoria e la sua disattivazione
Per quanto oggi questa affermazione possa suonare para-
dossale, il melodramma è figlio della rivoluzione francese:
della trasformazione della canaglia, della plebe, in popolo, e
della scenografia che fece da sfondo a questo processo. Nel
doppio senso dei termine, fu l’entrata in scena del popolo.
Le passioni politiche e le terribili scene vissute nella realtà
hanno esaltato l’immaginazione e la sensibilità del popolo,
che infine acquisisce il gusto di mettere in scena le proprie
forti emozioni. Perché esse possano dispiegarsi, la scena
dovrà riempirsi di carceri, di cospirazioni e di esecuzioni
capitali, di disgrazie immense patite da vittime innocenti e
di traditori che alla fine pagheranno cari i loro tradimenti.
Non è forse questa la morale della rivoluzione? «Ancor
prima di essere un mezzo di propaganda, il melodramma
sarà uno specchio della coscienza collettiva»29. La panto-
mima che si giocava sulla scena aveva fatto le sue prove
all’aria libera per le strade e le piazze, nei mimi con cui si
metteva in ridicolo la nobiltà. Tutto il complesso macchina-
rio necessario per la messa in scena del melodramma –
29
P. Reboul, «Peuple Enfant, Peuple Roy, ou Nodier, mélodrame
et revolution», in Revue des Sciences Humaines, 162 (1976).
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22

Gilbert de Pixerecourt aveva bisogno di tre settimane per


scrivere il libretto ma di ben tre mesi per montare la scena –
è direttamente in relazione con il tipo di spazio che il popo-
lo esige per rendersi visibile: strade e piazze, mari e mon-
tagne con vulcani e terremoti. Il melodramma dei primi
venti anni dei XIX sécolo è lo spettacolo totale per un popo-
lo che può finalmente specchiarsi a figura intera «imponente
e triviale, sentenzioso e ingenuo, solenne e gaglioffo, men-
tre respira terrore, stravaganza, giocosità»30. È ovvio che la
partecipazione dei pubblico allo spettacolo è intessuta di
una particolare complicità. «Scrivo per quelli che non san
no leggere» afferma Pixerecourt. E chi non sa leggere trova
sulla scena ciò che cerca: non parole ma azione e passione.
E rappresentate a suo modo, secondo i suoi ritmi. In quegli
stessi anni un degno funzionario spagnolo, Jovellanos,
incaricato dai re di indagare sugli spettacoli e i divertimenti
popolari, denuncia questa complicità e propone che qua-
lunque riforma debba in primo luogo proibire questo modo
volgare di recitare,
[fatto di] grida e latrati scomposti, di violente contorsioni e
di attorcigliamenti, di gesti e di maniere sguaiate; e soprat-
tutto debba metter fine a quella mancanza di studio e di
memorizzazione, a quella insolenza impudente, e quelle
occhiate sfacciate, a quell’agitarsi indecente, a quella man-
canza di proprietà, di decoro, di pudore, di pulizia e di aria
nobile che si riscontra in tanti nostri comici, e che eccita
tanto la gente ribelle e insolente e causa tanto fastidio alle
persone riservate e bene educare31.
Non crediamo di ingannarci se affermiamo che ai di là
della grossolanità, ciò che Jovellanos denuncia e il simula-
cro della sommossa popolare, costituito da questa com-
plicità tra attori e pubblico.

30
Ch. Nodier nella Revue de Paris (luglio 1835).
31
G.M. de Jovellanos, Espectáculos y diversiones públicas en España,
pp. 121 e 122.
Memoria narrativa e industria culturale
23

L’altro canale attraverso il quale il melodramma era diret-


tamente in rapporto con la cultura popolare è la continuità
tra estetica ed etica. È un terreno da cui è assente la psicolo-
gia, la struttura psicologica dei personaggi, sostituita dalle
nude relazioni primarie e dai loro segni: Il Padre, la Figlia,
l’Obbedienza, il Dovere, il Tradimento, la Giustizia, la Pie-
tà; e da una articolazione precisa, elementare, tra conflitto e
drammaturgia, tra azione e linguaggio. Di conseguenza le
avventure, le peripezie e i colpi di scena non sono estranei
alle azioni che hanno un valore morale: gli effetti dramma-
tici sono l’espressione di un’esigenza morale32. Al fondo
dell’intreccio, come schema che contiene il segreto di tutte
le avventure e delle loro mille complicazioni, la struttura
familiare in quanto struttura delle fedeltà primordiali.
Ne consegue che tutto il peso del dramma deve fondarsi
sul fatto che precisamente queste fedeltà siano la causa e
l’origine del supplizio, vale a dire di quella trama che va dal
dis-conoscimento ai ri-conoscimento dell’identità della vittima.
Il momento del climax è appunto «quell’istante nel quale la
morale si impone e si fa riconoscere»33, Il melodramma
puro, afferma P. Brooks, non è altro che «il dramma del
riconoscimento». È perciò che tutte le azioni, e tutte le pas-
sioni si nutrono e alimentano un solo conflitto, la lotta
contro le apparenze, contro i malefici, contro tutto ciò che
occulta e maschera, una lotta per farsi riconoscere. E questa
lotta sulla scena non avrà niente a che vedere con quella che
in quegli stessi anni della prima metà del sec. XIX la vecchia
economia morale dei poveri scatenava contro la nuova
economia politica dei ricchi?
Si, ha non poco a che vedere. Anzi è precisamente su
questo terreno che si dà la possibilità del sequestro di quella
lotta, della sua disattivazione, della inversione del suo signi-
32
P. Brooks, «Une esthetique de l'étonnement: le melodrame», in
Poétique 19, p. 341.
33
P. Brooks, op. cit., p. 343.
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24

ficato. Il melodramma-teatro del 1800-1820 e il primo gran-


de spettacolo fabbricato industrialmente per il consumo di
massa. Industrialmente qui non e affatto in senso metafori-
co: dagli effetti sonori alla rappresentazione dei passaggi di
terra e dei viaggi per mare, la messa in scena del melo-
dramma si servi di non poche invenzioni della rivoluzione
industriale. Qui era già all’opera la massificazione, al suo
stato nascente. Essa non è consistita nella volgarizzazione
della letteratura o del teatro culti, cosa che il melodramma
non è mai stato, giacché i suoi temi vennero dai racconti del
terrore, dal romanzo gotico inglese e la sua scenografia dal
circo e dalla fiera, bensì nella disattivazione di ciò che ri-
mane di memoria popolare, nella sua mistificazione. Fon-
damentalmente, per mezzo di due operazioni: la omoge-
neizzazione e la stilizzazione.
La omogeneizzazione si realizza cancellando le tracce della
differenza, della pluralità d’origine, della diversità nella de-
rivazione culturale delle narrazioni e delle forme sceniche,
ostruendo la loro permeabilità al contesto. Già dire «cultura
popolare» significa in un certo senso cadere nella trappola,
poiché ciò che storicamente è vero è l’esistenza di culture
popolari, di una pluralità che la centralizzazione politica e
religiosa e la gerarchizzazione assolutamente verticale delle
relazioni sociali resero impossibile già a partire dalla fine
del sécolo XVII34. Il grande spettacolo popolare urbano non
fu realizzabile che a prezzo della sua massificazione, e cioè
frammentando e concentrando, assorbendo e unificando.
La industrializzazione della cultura non è soltanto, né so-
prattutto, una questione di tecnica e di commercio; è prima
di tutto e in profondità l’azione corrosiva con la quale il
capitalismo disarticolò la resistenza delle culture tradiziona-
li a lasciarsi imporre una logica economica che distruggeva i
modi di vita, con le loro concezioni del tempo e le loro

34
R. Muchembled, Culture populaire et cultures des élites, Paris 1978.

Memoria narrativa e industria culturale


25

forme di lavoro, in una parola una morale e le espressioni


religiose ed estetiche di questa morale.
La stilizzazione è l’altra faccia del processo di omogeneiz-
zazione, quella che mira a trasformare il popolo in
pubblico. Essa funziona attraverso la costruzione di un
linguaggio e di un discorso nel quale possano riconoscersi
tutti, ossia l’uomo-medio; ossia ancora, la massa.
Ora, ciò che la censura cancella o vuole cancellare sono le
differenze sociali tra gli spettatori, quelle che il prezzo dei
biglietti testimonia ostinatamente. Stilizzare significa in
questo caso il progressivo avvilimento degli elementi più
chiaramente caratterizzanti del popolare, tanto nel lessico,
come nel gesto, come nei comportamenti; un’edulcorazione
dei sapori più forti e l’introduzione di temi e di forme deri-
vate dall’altra estetica, come il conflitto di caratteri, la
ricerca individuale della soluzione e la trasformazione
dell’eroico e del meraviglioso in direzione pseudorealistica.
La pressione dei dispositivi di massificazione che ho indi-
cato, e di altri nuovi, andrà facendosi via via più esplicita.
In questo processo emergono tre tappe particolarmente in-
teressanti da approfondire, nella prospettiva che ho indica-
to. La prima è la trasformazione del teatro melodram-
matico in melo-romanzo; cioè in romanzo d’appendice e
romanzo a puntate. Questa trasformazione si verifica a me-
tà del XIX sécolo, grazie sia allo sviluppo tecnologico ed
economico della stampa e all’allargamento del pubblico di
lettori ad una più ampia fascia sociale, che allo sfruttamento
di tutto ciò che di romanzesco già era contenuto nel teatro
melodrammatico. Il romanzo d’appendice nasce a mezza
strada tra la stampa periodica – che impone alla produzione
letteraria un modo industriale, allo scrittore un di lavoro
rapporto salariato e infine i circuiti commerciali di distribu-
zione e vendita della merce cultura – e la letteratura, che
con il romanzo d’appendice inaugura un nuovo rapporto tra
lettore e testi. Ciò significa non solo un nuovo pubblico di
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26

lettori, ma anche una nuova forma di lettura, che non è più


la popolare tradizionale ma non è nemmeno la culta; e
alcuni nuovi dispositivi di narrazione: gli episodi e le serie.
La seconda trasformazione é quella del romanzo d’appen-
dice in melodramma cinematografico e in romanzo radio-
fonico. Attraverso il romanzo d’appendice il cinema riceve
in eredita il melodramma, o meglio si costituisce come suo
erede «naturale». Reinventandolo, però; o meglio riconver-
tendolo nel grande spettacolo popolare che mobilita le
grandi masse e alimenta una intensa partecipazione dello
spettatore. C’è una convergenza profonda tra cinema e me-
lodramma: nel funzionamento narrativo è scenografico, ne-
lle esigenze morali e negli archetipi mitici, nell’efficacia
ideologica. Più che un genere filmico per molti anni il me-
lodramma e stato il cuore stesso del cinema, il suo orizzonte
estetico-politico. Da qui derivano, in gran parte, tanto il
carattere popolare del cinema, quel riconoscimento e quella
simpatia delle classi popolari per il cinematografo, quanto il
diffuso disprezzo delle élites, che hanno consacrato il senso
peggiorativo e dispregiativo della parola melodramma e
ancor più dell’aggettivo «melodrammatico» come sinonimo
di tutto quello che per l’uomo culto è caratteristico del-
l’estetica popolare: schematismo, sentimentalismo, effetti,
ecc. Terza tappa, la fusione di certi dispositivi di melodram-
matizzazione del cinema e della radio nel teleromanzo latino-
americano (la novela). Si è arrivati cosi a produrre un me-
lodramma profondamente «originale», che raggiunge le
masse, ma per singoli individui, nella loro casa, e a partire
dal l’immaginario urbano al quale lo salda una complicità
finora non consumata e al quale da il suo supporto più se-
greto con la sua capacita di decontemporaneizzare, di de-
temporalizzare tutto, inclusa la quotidianità più immediata.
Nel teleromanzo latinoamericano il melodramma tocca il
proprio fondo, il proprio totale anacronismo: giacche per
mezzo suo la piccola famiglia intimista e privata tenta di
riconoscersi nel tempo impossibile della famiglia-comunità.

Memoria narrativa e industria culturale


27

Anacronismo che in America latina non porta, come forse


in Europa o negli Stati Uniti, alla mera nostalgia. Poiché
qui il suo referente, nel quale pure alla spoliazione econo-
mica si somma lo sradicamento culturale, continuano ad
essere certi segni di identità della memoria popolare, che
persistono sia pure in mezzo al più aggressivo immaginario
di massa.

Giugno, 1982

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