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La Penisola Italica

nei primi anni dell'era geologica

Il Subercaseaux riporta le sue nozioni classiche a proposito delle notizie storiche e proto-storiche
relative alla nostra penisola italiana,in particolar modo dedicandosi all'approfondimento del mitico
passato della regione Lazio.

Ascoltiamo dalla sua "viva voce" quanto risultava agli inizi del nostro secolo circa la situazione
geologica del territorio italico e laziale:

" Gli attuali eruditi congetturano che la penisola italica nel suo complesso non sia stata altro che un
grande vasto mare durante i primi anni dell'era geologica: le loro congetture, basate sui dati forniti
dall'era secondaria, terziaria e quaternaria, si fermano dinanzi a quest'ultima barriera. E' questa
l'epoca delle eruzioni vulcaniche, i cui elementi e le cui vestigia sono ancora evidenti, soprattutto
nel territorio dell'attuale provincia di Roma. Vi fu, in un tempo molto remoto, un primo
sollevamento marino che disegnò sotto le acque la forma degli Appennini: queste cime vennero a
costituire ad ovest la linea di demarcazione del bacino del mar Tirreno.

Un secondo sollevamento della crosta marina, accaduto dopo parecchi secoli, mise in bella vista il
rilievo degli Appennini Centrali, tra cui figuravano le montagne della Sabina e di Preneste.

Il terzo movimento marino operò una sutura delle terre emerse che altro non erano che delle isole
formate dal le recenti emersioni. Si venne così a completare il sistema generale delle catene
montuose italiane.

A tutte queste evoluzioni e periodi geologici venne a succedere un altro periodo ben differente, cioè
quello delle piogge; fu senz'altro questo quel famoso e grande avvenimento detto del diluvio
universale.

In seguito vennero allo scoperto alcuni vulcani, molto probabilmente già in funzione negli abissi
marini. Le loro eruzioni di lava, di cenere e di pietra pomice, disegnarono i contorni dei crateri,
conformando sotto le acque tutte le piatteforme delle future terre fertili , molto adatte a recepire il
lavoro umano di dissodamento.

(Abbate, Guida alla provincia di Roma )

I colli del Lazio e le sue valli non erano ancora emersi dalle acque. Le forze e gli impulsi
progressivi di questo movimento tellurico così pro-fondo, agevolati peraltro dagli accumu li di terra
prodotti dalle eruzioni, cominciarono a quel punto a ridefinire quello che altro non era che un golfo
del mar Tirreno, in quel vasto anfiteatro del La zio e della Cam-pagna, così come li abbiamo davanti
completamente formati ".

Se ci fosse dato di supporre la presenza di alcuni uomini che, durante questo periodo geologico,
siano approdati nei nostri paraggi da altri lidi più ameni navigando su delle rozze barche, con un
poco di fantasia potremmo immaginarli e vederli navigare attraverso questo nostro splendido golfo,
quindi gettare l'ancora ed approdare su uno di quei sette colli che formeranno più tardi la Città
Eterna.
Le eruzioni vulcaniche, i sollevamenti sismici, lo zampillare delle sorgenti termali, nonché le altre
manifestazioni dell ' infuocata attività sismica degli abissi, durarono finanche dopo la fondazione di
Roma, precisa mente durarono fino al tempo dei re.

I vulcani del monte Pila avevano mantenuto al loro interno la loro espansione durante l'esistenza
della città di Alba( ndr Albalonga). Nella religione primitiva vi erano delle preghiere per
scongiurare questi terribili e spaventosi fenomeni. Si è quindi arrivati a congetturare che la stessa
fondazione di Roma non sia stata semplicemente determinata dai padri Albani costretti a sfuggire i
loro temibili vicini, i "vulcani". (Lanciani, Antica Roma)

Dopo queste lente spinte della crosta terrestre e dopo queste frequenti scosse sismiche, seguì un
periodo di inondazioni : esse vennero a modificare interamente la configurazione di questa regione.

Le terre di sedimentazione, le sabbie ed i detriti piano piano formarono dei terrapieni che
modellavano le asperità e le disuguaglianze della crosta terrestre elevatasi dalle acque.

Altri depositi di terra sedimentata, cadendo dalle cime montuose, ap-prestandosi a decomporre le
erbe acquatiche, produssero ancora una volta altre trasformazioni nella composizione del suolo, ad
esso servendo per la conservazione della sua fertilità e la sua propensione a recepire ogni tipo di
coltura. Le sabbie dei fiumi e dei ruscelli, insi-nuandosi tra le ondulazioni del terreno, dovevano
ancora colmare le parti più vicine alla costa, lasciando in ogni dove, sia di fianco che di dietro,
alcuni bassifondi e causando la formazione di insalubri paludi molto vicine ai litorali ".

L'apparizione dell'uomo

Stiamo arrivando alla narrazione della prima apparizione dell'uomo sul territorio laziale ed il
racconto inizia a prendere una certa forma storica, seppur velata da un mitico alone di mistero.

Così si esprime ancora il nostro autore:

" Si può ritenere che l'uomo abbia fatto la sua apparizione proprio in questo periodo, con il
completamento o il perfezionamento di molti di questi fenomeni e di queste perturbazioni da noi
precedentemente descritte. Senz'altro l'uomo avrà certamente provato paura di fronte ai fenomeni di
eruzione vulcanica, alle veramente spaventose scosse sismiche ed alle numerose inondazioni delle
acque turbolenti, che precipitavano a valle dalle alte cime dei monti. Forse in quel tempo non
c'erano che delle tribù di nomadi che si accontentano di percorrere e di esplorare gradualmente le
terre che così si erano formate, aspettando pazientemente che questo caos della natura si venisse a
placare. Ma ciò che le primitive leggende fanno supporre molto spesso è l'esistenza di abitatori
veramente selvaggi, senza Dio e senza legge: tale fu il bandito Caco, uomo gigantesco, feroce e
ripugnante, cui diede morte il famoso Ercole dentro una spelonca del colle Palatino. Sono di poi
insorte delle controversie circa le diverse origini da attribuire alle migrazioni che ebbero per
risultato la stabilizzazione delle prime tribù arrivate nel Lazio. Quanto al loro stato morale possiamo
farcene un'idea considerando che la loro attività principale furono i sacrifici umani: questi
costituivano per loro l'atto più solenne della propria vita sociale.

Gli uomini più comunemente riconosciuti quali primi abitatori di que-sto territorio, sin dalla sua
origine, sono quelli che discesero dagli Ap-pennini del Nord per stabilirsi nella Sabina.

Costoro ci misero del tempo, in seguito, ad incontrarsi con altri popoli che veniva no dal Sud, i
Siculi, che vantavano un'origine comune a quella dei Greci. Alcuni autori denominano quei primi
abitatori della Sabina e della preistoria romana con il semplice appellativo di "Etruschi".
(a)

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( a ) : Volsci non Latini

E' opinione comunemente accolta, anche se non seguita da parecchi scrittori moderni, che i primi
abitatori dell'Agro Pontino siano stati i Volsci e ad essi pertanto si dovrebbero o potrebbero
attribuire alcuni grandiosi lavori di drenaggio rinvenuti nel territorio pontino. I Volsci in realtà
scesero nella pianura pontina in tempi relativamente recenti e quasi in epoca storica , circa agli inizi
del V secolo a.C..

Per concludere la discussione ricordiamo che pur esistendo persone che possono fornire delle
spiegazioni molto esaurienti su questa oscura questione esse però non apportano nulla di nuovo che
possa permetterci di giungere ad un convincimento più fermamente argomentato.

Che i primi abitatori siano stati questi o quelli è ancora un fatto dub-bioso ma la loro collocazione
risale assolutamente ad un periodo antico talmente distante nel tempo che, dopo essersi stabiliti
nelle regione, essi hanno dovuto, da un lato, modificare questo sito ed il suo aspetto attra-verso
un'assidua coltivazione e, d'altra parte, hanno avuto tempo e modo di ricevere, dal luogo che li
ospitava, le influenze che richiesero ugualmente un suolo ed un clima particolare, trattandosi
soprattutto di nuove razze che non avevano ancora avuto precedenti contatti e me-scolanze etniche.

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In tale periodo costoro, sboccando dalla grande valle dell'Amaseno, spinti dal bisogno dei pascoli
invernali e dalla sete di conquista dei ricchi territori dei Latini Pometii , si affacciarono alle nostre
distese pianeggianti, forse anche incalzati da altri popoli nomadi. Subito dopo la venuta dei Volsci
succede un periodo di guerre accanite tra loro e la lega romano-latina. Dopo circa un secolo e
mezzo di alterne vittorie e sconfitte la vittoria finale arride ai Romani che, tra l'altro, avevano
eliminati i Latini. I Romani dunque divennero da allora i padroni assoluti di tutta la regione.

E' illogico pensare che in tale periodo bellico dedicassero le loro energie a compiere la poderosa
impresa della costruzione dei cunicoli di drenaggio. I Volsci, in realtà, alla loro discesa nella pianura
pontina erano dediti principalmente alla pastorizia, come in origine i popoli montanari, e come
anche la maggior parte degli Italici.

La "Geografia"

della primitiva regione laziale

Siamo arrivati alla delimitazione "storica" della primitiva "regione" laziale, un territorio
predestinato ad accogliere grandiose vicende storiche di portata mondiale.

Tale parte dell'Ausonia, dell'Esperia, o meglio dell'Italia, racchiude in sé una porzione di territorio
in quel tempo non ancora delimitata con un nome appropriato, che circonda più da vicino la città di
Roma, l'Urbe per eccellenza.
Con il passare degli anni e degli avvenimenti storici tale territorio viene ad essere denominato
"Agro Romano" o "Campagna Romana".

Tale sito è geograficamente determinato da una vasta pianura che confina ad ovest con il mar
Tirreno e da un territorio collinare più variegato e ricco di vegetazione.

Ambedue le porzioni territoriali sono abbondantemente irrorate da ruscelli e fiumi vari su cui si
erge imperioso il Tevere che, dalla sua nascosta sorgente umbra, scorre qui con il suo murmure
respiro, attraversando Roma per sfociare nel mare.

In ogni caso non ha dovuto affatto cambiare d'aspetto questa regione d'Italia, che ha inizio dalle
montagne che formano l'ultima insenatura del Tevere e che arriva, addolcendo i suoi declivi, fino
alla vasta pianura che fiancheggia il mare: E' il territorio predestinato, è la campagna classica, è
l'Agro Romano.

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E' cosa troppo meravigliosa che essi, d'un colpo, potessero diventare esperti idraulici e grandiosi
bonificatori senza un lungo periodo di tirocinio e di un'assidua pratica.

Esclusi quindi, una volta per sempre, i Volsci, restano gli abitanti che prima di essi occupavano la
regione, cioè i Latini. Tale popolo, stabilitosi in epoca remotissima nella regione pontina, in genere
posero i loro villaggi su alture forti per la loro posizione e difese anzitutto con argini di terra e di
pietra. E' logico quindi supporre che i Latini abbiano intrapreso la grandiosa opera di costruzione di
cunicoli sia perché spinti dalla necessità di respingere gli abitatori dei monti ma anche dal bisogno
di organizzare l'opera idraulica nei terreni in cui vivevano.Resta il dubbio se i Latini siano stati gli
inventori del sistema di drenaggio sotterraneo o se lo abbiano appreso dai vicini Etruschi. Non è
neanche accertato se i Latini abbiano costruito i citati cunicoli di loro iniziativa e in regime di piena
libertà politica o se invece essi siano stati costretti a costruire tale opera

La verde fettuccia del fiume vi traccia le sue ultime curvature e si sco-prono , saldamente dislocati, i
sette colli, che si raggruppano in una strana forma per dominare, dalle loro alture, tutti i vicini
territori.Non si scorgono più boschi sulle vette dei monti o presso le insenature del litorale: la valle
non è più cosparsa di abitacoli messi in cerchio a guisa di piccoli villaggi compatti, tutti poveri e
primitivi. L'attenzione non è più attratta da borgate sparse o da piccoli isolati villaggi. Non si
vedono né le ampie distese di prato, brucate da greggi ed armenti, né i ridotti appezzamenti di varia
coltura, in cui, come in un mosaico, digradano, in cento sfumature, gli orti, le seminagioni, i frutteti,
le distese di fiori.

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dal predominio degli Etruschi, nell'epoca in cui costoro possedevano, direttamente o meno, tutto il
Lazio. Comunque, per chiudere la questione, è chiaro che, quando si parla di fitte opere di
drenaggio ( che presuppongono in sito una densità di popolazione molto forte ed una intensa attività
umana ) bisogna escludere la zona paludosa e sabbiosa del territorio pontino in cui manca
completamente la fitta rete di cunicoli ed ogni altro segno che ci attesti l'esistenza degli antichi
centri abitati ricordatici dagli antichi scrittori.

La ricostruzione, seppure generica e parziale, della storia di questa parte del Lazio, prima che esso
cadesse sotto il dominio degli Etruschi e di quello successivo dei Volsci è possibile solo partendo da
qualche raro reperto preistorico ed archeologico ( sepolcreti di Caracupa, di Satrico.e di Velletri ).
Altri indizi storici si intravedono dalle notizie dei più antichi scrittori greci , attinte dai primi
navigatori delle coste laziali ( i Focesi ed i Calcidesi ). Infine un altro contributo di ricerca ci è stato
tramandato dalla tradizione di leggende antichissime elaborate prima del periodo greco.

Agli albori della storia ( inizio età neolitica ) il Lazio meridionale ci appare abitato da popoli
autoctoni del paese, ritenutisi tali perché stanziatisi da tempi remotissimi. Una tradizione, peraltro
non ritenuta molto antica dal De Sanctis, li faceva chiamare Aborigeni e ad essi, dal re Latino,
sarebbe derivato il nome di Latini.

Il popolo latino, già agli albori della storiografia greca, ci appare distinto da quello etrusco abitante
sulla riva destra del Tevere. Tutte queste vicende molto tempo prima che dal cuore dell'appennino
partissero le grandi emigrazioni dei popoli italici, che avrebbero occupato progressivamente tutta
l'Italia centrale e meridionale. I Latini, seppur dagli scarsi reperti archeologici, ci appaiono
nettamente distinti, per quanto ad essi affini, dai popoli umbri e sabini che si vennero ad impiantare
in tante zone delle pianure tirreniche.

L'opinione oggi più diffusa concorda nel ritenere che i Latini, gli Ausoni ( o meglio Aurunci ), gli
Opici, gli Enotri, gli Itali e i Sicani dello Stretto, facciano parte della prima ondata di popoli italici
che vennero ad abitare nei territori tirrenici. All'epoca dello storico greco Ecateo esisteva, sul
territorio circostante la sponda sinistra del Tevere, il popolo dei Prisci o Casci Latini, in perenne
lotta con quello abitante la riva destra dello stesso fiume.

Non si rinviene più un boscoso orticello, accanto alle ridenti cime, né si scorgono, accanto ai
piramidali ci pressi, i rustici casolari dei numerosi abitatori della Campagna.Inoltre non si distingue
neanche più quel pennacchio di fumi biancastri che da lontano tradisce sempre la presen-za del
rudimentale capanno del lavoratore, santuario della famiglia e del lavoro. Ciò nonostante la
panoramica vista, in generale, è oggi la stessa di quella dei tempi remoti perché, in realtà si tratta
pur sempre della regione romana, nobile fra tutte, rimarchevole nel suo insieme e meravi-
gliosamente originale nelle impressioni che essa riesce a produrre in chi la osserva.

Importa poco che tutti gli antichi dettagli siano andati perduti, quando ci si immerge in una
profonda contemplazione della vallata, un tempo vasta ma oggi pressoché deserta! Dai monti, dal
piano, da ogni dove in-somma, si sprigiona fortemente il concetto di natura grandiosa e forte, bella
ed eterna. Questo fu il primo scenario teatrale della storia: la sua stessa desolazione, il suo attuale
abbandono, sono motivi di più forti emozioni; tali fatti inoltre causano più grande attrattiva per la
persona contemplativa che rimane prigioniera di profonde speculazioni ideali e di ricordi,
pervenendo alla scoperta delle più grandi realtà che l'uomo possa concepire.

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I limiti del Lazio, verso l'ottavo secolo a.C., all'epoca della fondazione di Roma, erano così definiti:
a Nord il Tevere, a Nord-Est l'Aniene ( che forse , all'inizio, divideva i Sabini dai Latini ), a Sud e
Sud - Ovest , con limiti più indefiniti e sfumati, il territorio dei Latini che verso Est e Nord-Est
veniva a contatto con le terre degli Ernici , mentre a Sud confinava con gli Aurunci.
Ecco ciò che è bello, ecco ciò che si ammira, ecco ciò che qui si ama!

I luoghi della Campagna , dove i fiumi scorrono pigra mente per deli-neare i loro tortuosi meandri,
ed i riposanti bassifondi tra le piccole pianure al centro della valle, appaiono alla nostra vista
attraverso uno lussureggiante vegetazione di intensa colazione: sono questi i luoghi più umidi dove
ristagnano acque putride. Proprio qui però vediamo stiparsi cespuglio di canneti e piante
galleggianti che si posano sui paludosi stagni, mentre invece gli acanti importati dalla Grecia e le
piante di cactus blu crescono liberamente nelle zone incolte e vengono a formare, sotto l'attenta cura
dei braccianti e dei giardinieri, quelle grosse siepi che delimitano le proprietà fondiarie. I pini, che
crescono isolatamente o a piccoli gruppi, che si distaccano sulla cresta dei lontani monti, finiscono
con il dare la loro pittoresca impronta a questo spettacolo, la cui vasta semplicità è la prima causa
della nostra ammirazione. Se ci lasciassimo trasportare l'immaginazione fino all'epoca primitiva,
quando la città non era ancora stata fondata, cioè negli anni della tradizione, della poesia o della
favola, noi potremmo non trovare più i banchi di quella terra molle e nerastra che formava le rive
dei fiumi: essa offriva la pregnante materia che, a guisa di un fertile strato di terra, sempre accoglie
e dà nutrimento ad alberi dal fusto corposo, a piante poco elevate ed alle radici di svariate erbe . Il
letto fluviale, circondato da boschi verdeggianti e cedui, contiene interamente dentro di sé l'enorme
ed immutabile massa delle acque. Il Tevere inizia il suo corso in un sito nascosto dell'Etruria: le sue
sorgenti si trovano a più di mille metri d'altezza, protette da cime molto elevate e che si innalzano ai
suoi lati per difenderle. Esso attraversa quindi una ridente vallata, situata nel mezzo della larga di-
stesa pianeggiante dell'Umbria: il suo corso si snoda, dissimulandosi sotto una fitta vegetazione,
lasciando discretamente intendere il suo murmure respiro tra le pietre ed i tronchi d'albero. In tale
punto esso agita e fa brillare le sue pure e cristalline acque come si addice ad un principe delle cose
create ed al maggiore degli esseri naturali.

Il fiume avanza con un suo regolare corso ed ingrossandosi sempre più: la sua untuosa superficie
occupa e ricopre tutto lo spazio del letto che si è scavato a forza. Allo stesso modo la sua profondità
e la sua corrente molto placida permettono la navigazione fino all'interno delle terre, ancor più a
monte dei meandri delineati dalla configurazione delle colline romane.

Piccole imbarcazioni, di vela bianca o colorata, scivolano sull'acqua, lacerando il luccicante


rimescolio delle pacifiche acque, sotto la spinta della leggera brezza marina. Padrone della sua
poderosa massa d'acqua il Tevere attraversa ora, lentamente, un'ultima boscaglia dove gli uccelli,
abituati alle sue onde leggere e ad i suoi pacifici rivoli, cantano e volano nel mezzo del suo ramo
fluviale (Virgilio, Eneide - VII ).

Esso riversa infine le sue acque affannose e rese torbide da sabbie giallastre incessantemente
agitate, affidandole al seno del mare dove esse si riversano, si confondono ed alfine muoiono.

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Le cime del Nord e dell'Est, sempre ricoperte da boschi turchini e solcati da crepacci e spaccature di
basalto, dove nidificano le aquile, affondano, in certi punti, le loro larghe basi fino in prossimità del
fiume: queste alte cime e queste loro prominenti ramificazioni si alzano, mostrando in lontananza le
loro orgogliose vette, ricoperte da candide nevi che il sole, nella sua discendente corsa verso il
tramonto, colora di sfumature sempre più intense. Il pino, dal tronco rosato, spigoloso, che
arrotonda la sua frondosa chioma, dandogli la forma di un enorme ombrello, compare, a gruppi o
isolato, nei più pittoreschi ed assolati posti. Esso ha l'aria di distendersi sotto i raggi del sole: apre i
suoi rami per ricevere, per assaporare fino agli ultimi, i fremiti del calore e della luce.

La nera quercia, vigorosa e corpulenta, dal fusto compatto e dalle foglie dure, piccole e resistenti
come se fossero bronzee, si riavvicina al con-trario le sue foglie: per mezzo di questo accostamento
di fogliame essa procura freschezza e, nel mezzo della sua folta chioma, difende il suo tronco dai
raggi e dai forti colpi di sole. E' la quercia romana: come il Tevere essa ha l ' aria di essere l'eterna
padrona e signora del terreno che essa stessa ricopre. La si incontra talvolta sparsa qua e là : ma è
soprattutto in grosse ed oscure boscaglie che tale pianta si erge e la si può incontrare sulle stesse
cime dei monti dove cresce più frequentemente. In tali luoghi essa aumenta di numero soprattutto
nelle cavità delle incrinature di basalto, dove gli uccelli da preda cacciano la loro implume e
giovane covata.

In lontananza si scorgono lampi di luce sbiadita e dei tenui chiarori, propri dei laghi e dei serbatoi
d'acqua, o dei semplici sprazzi fluviali, s'attardano in un terreno spugnoso e si vaporizzano; o
meglio sono le acque che si infiltrano e si depositano nelle vallate ai piedi della montagna. Piccoli
ruscelli, scendendo ciascuno nel suo burrone, portano le loro acque impazienti verso strade a loro
ben note. Essi vanno dal loro padre, il Tevere, che li accoglie tanto paternamente. Sono stati essi a
far nascere, nel pensiero dell'artista fantasioso, la rappresentazione classica del vecchio barbuto che,
coricato a terra, si lascia circondare da bambini molto teneri, bricconcelli e dediti ai trastulli. Alcuni
di questi piccoli affluenti, più turbolenti e più gioiosi degli altri, precipitano a valle salterellando e
formando schiumose e vaporose cascatelle: vedendole si può pensare che forse rendono più gaio e
più bello questo luogo deli-zioso, molto vicino alla città, cioè a Tivoli, paese che domina molta
parte del territorio di Campagna. La linea generale dello scenario non è composta di grazia e di
dolcezza, come quella che dà stabilità e fermezza al grande bacino etrusco: essa per di più non offre
le maschie asprezze proprie delle Alpi, né i crepacci rigidi e colorati delle desolate montagne del
Sud della penisola.

Questa intera regione infatti si distingue, l'abbiamo già visto, per la sua rara e superba maestà e per
la solenne armonia delle sue naturali dislocazioni geografiche. E' un anfiteatro, dallo splendido
sviluppo, le cui pa reti sono le montagne dalle svariate forme e colori. Il cielo è per esso la volta
infinita, tutta penetrata dal più bel blu eterno, o pomposamente decorato da nuvole bianche o rosa
che, alzandosi dal vicino mare, vengono a planare sulle alture. Il suolo è formato da verdi praterie,
mantenute fresche dalle piogge e dalle umide brezze; è inoltre intersecato da campi coltivati,
seminativi e da orti; si possono perfino incontrare delle piantagioni di odorosi limoni, menzionati
dal poeta, alcune piante di fico, dalla fredda e lobata foglia, ed aranci dalla chioma nera e lucente,
ove si nascondono i rotondi frutti dorati, nonché dei curiosi mandorli dalla delicata fioritura di
precoce primavera, ed infine dei peri che faranno schiudere, all'estremità dei loro rami, scintillanti
mazzetti di bianchi fiori. Un poco più in alto, sulle colline addossate al fianco della montagna, gli
oliveti si alternano con i vigneti: i primi abbondano, occupando grandi lotti di terreno e
distinguendosi da lontano come appezzamenti di verde sbiadito e trasparente, lasciando intravedere
i tronchi ed i rami. I vigneti, invece, dal verde colore e dal bizzarro fogliame, verdeggiano
gaiamente con i loro pampini e sprizzano in cielo teneri e delicati germogli. Tutta questa tinta si
cambierà ben presto in un rosso intenso, cremisi, vermiglio e giallo topazio, quando, alla fine
dell'estate, quelle piante offriranno ai tini dei vignaioli i grappoli di uva nerastra, bianca, rosata o
dorata. Supponiamo che tutto questo sia osservato sotto la luce del primo mattino. Il grigiore della
valle apparirà di una misteriosa uniformità : una tale colorazione si dileguerà ben pre-sto
all'avvicinarsi della pallida aurora, che a sua volta svanirà davanti ai primi raggi dorati del sole.
Quest'ultimo arrivato salirà al di sopra delle creste ondulate, che cer-cheranno poi di trattenere le
ultime e violacee oscurità. La sfera solare, proiettata orizzontalmente , risveglierà tutta la
campagna : i suoi laboriosi abitatori mentre vanno alle loro case ed ai loro rudi lavori; i vigorosi
cavalli, i buoi da lavoro, le greggi assonnate, ancora immobili ed ancora raggruppate tra loro in
mezzo al campo. l'astro nascente, in questa visione, dissiperà in breve tempo le brume biancastre,
fredde e tenui, planando poi sul fiume e distendendo il suo chiarore fino ai bassifondi più interni.
Esso dona la vita e l'anima a tutta questa regione, rivestendola di colori chiari e tenui che si
armonizzano con l'ora mat-tutina, gaia ed amabile, del giorno che viene. Qual è il nome di questa
zona privilegiata che non somiglia a nessun altra regione? E' il tutto o una porzione di un
organizzato paese o di qualche vasto regno ben go-vernato che abbia già il suo posto nel concerto
dei popoli e negli annali della Storia? Per la storia tale zona non ha ancora un nome. E' una parte
dell 'Ausonia o dell'Esperia, il cui centro d'attività e di potere è situato sulle alture che si innalzano
nella valle, ai piedi dello scenario delle montagne meridionali. Queste popolazioni formano una fila
di borghi, villaggi, case di campagna recintate da canneti, tutti sviluppandosi ad ornamento e
festone di un ricco mantello regale.

Il "Latium"

del re Latino e del mitico Enea

In questo grandioso territorio viene ad approdare il mitico valoroso eroe troiano Enea che ,
scappando con la sua gente dall'eccidio di Troia,perviene alle coste laziali, dove si imbatte con la
popolazione autoctona governata dal re Latino.

Riviviamo tali mitici avvenimenti proseguendo nella lettura del nostro autore, che cita il sommo
Virgilio e la sua opera dell'Eneide.Tale poeta infatti è stato il primo di quelli che hanno voluto
cantare le vicende del Lazio e dei suoi eccelsi protagonisti.

E' il classico approdo che il destino viene ad indica re ad Enea perché egli possa sbarcare con i suoi
coloni ed i suoi guerrieri scampati all'eccidio di Troia ed arrivati in questi paraggi dopo mille
pericoli ed insidie che incontrarono navigando.

Per meglio animare il quadro che abbiamo disegnato e per dargli quel-la vivacità che gli spetta,
delineeremo l'eroe troiano nell'atto in cui, in quel memorabile mattino, sta dando l'ordine ai suoi
compagni di volgere la prua delle imbarcazioni verso la foce del fiume.

" Già la le nascente luce cominciava a colorare di tenue porpora le imbarcazioni e l'aurora, dall'alto
del cielo, brillava sul suo carro, aggiogato a due cavalli dalle dorate criniere. Ecco spiravano i venti,
le loro folate si disperdevano in aria e solo i rami restavano a lottare contro l'immobile mare.

Enea per altro, dall'alto della poppa, scorse un bosco immenso:

Il bel corso fluviale del Tevere, scorrendo verso il mare, lo attraversava con i suoi rapidi flutti
perennemente colorati da una sabbia giallastra."

( Virgilio, Eneide, VII 25 - 32)

E' il re Latino che, in questo periodo, governa il territorio: il suo domi-nio abbraccia una gran parte
dei campi che noi abbiamo menzionato e le città le cui mura, le cui case ed i cui palazzi, si ergono
luccicanti di luce ai piedi del monte. Figli di Fauno e di una ninfa di Laurentum, essi di-scendono,
per via paterna, direttamente da Saturno. Scorrendo la lista dei loro antenati, le cui statue ornano i
palazzi, ci si imbatte in Italo e nel venerabile Sabino, che, per primo, si mise a coltivare un vigneto.
E' forse da questo re che deriva il nome del Lazio dato alla regione ? O forse deriva dal vocabolo
latino che significa " situato al proprio fianco " (confinante) ? O forse dal greco, da un vocabolo che
significa " paese pianeggiante" ? O, ancora, questa dicitura deriva dal verbo "Lateo"

( Nascondersi), come narra Ovidio nei Fasti? Secondo il mito di Saturno, costui stesso, fuggendo
dalla persecuzione di Giove, avrebbe trovato in questa regione un propizio rifugio per nascondersi.
Al centro del palazzo dalle cento colonne si erge un vecchio alloro: esso è stato religiosamente
conservato attraverso i secoli. E' quest'albero che dà nome al capoluogo del posto, "Laurentum".
Questo solenne albero, le cui foglie eleganti onorano degnamente la fronte degli eroi e
simboleggiano vittoria e dominio, questa pianta ha preferito questo sito, questo suolo, questo clima
per affondare le sue radici più vigorose e per spiegare al vento il suo fogliame così folto e lucente,
eterno simbolo di trionfo e di gloria. Enea, ispirato dalle rivelazioni di suo padre Anchise, è tutto
preso dalle forti emozioni che questo nuovo luogo gli fa provare, in mezzo a queste bellezze, a
questi deliziosi sensi ed a queste amenità egli esclama:

"Salve! O terra promessa dal destino! Salve! O Dei tutelari di Troia! Questo luogo è ora la mia
patria!"

I Troiani sono sbarcati all'alba per percorrere il paese ed i suoi dintorni, il regno, le sue frontiere ed i
suoi lidi. Essi si informano ed apprendono che i Latini i suoi abitanti, sono un popolo forte e
generoso: "Qui abitano i valorosi Latini ". Allora il figlio d'Anchise invia i suoi ambasciatori che ha
deciso di spedire al re. Essi portano rami di ulivo e parole d'amicizia: offrono anche ricchi doni. Il
re, circondato dalla propria corte, li accoglie amichevolmente, rivolgendo loro il suo discorso di
benvenuto:

"Quali tempeste vi ha spinti fino alle foci del Te vere per cercare asilo nel nostro

lido ? No ! Voi non rifiuterete la nostra ospitalità ! E' bene che voi conosciate i Latini, popolo di
Saturno, di indole giusta e fedele al loro antico nume."

E' Ilioneo che gli risponde:

" O re, degno figlio del dio Fauno! Non è stata affatto una mareggiata che ci ha sbattuti sul vostro
litorale ! Non sono state neanche delle tempeste che ci hanno costretto ad invadere il vostro regno ,
non ci ha abbandonato la buona stella del cammino, e neanche siamo stati ingan-nati dalla
conformazione della costa. Noi veniamo infatti per una nostra propria volontà, dopo essere stati
scacciati dal più grande impero rischiarato dal sole che, sorgendo dalle più remote plaghe del cielo,
descrive la sua vasta corsa verso il tramonto. La nostra stirpe deriva da Giove, dal quale il nostro re
Enea discende direttamente.Scampati ai disastri , sballottati sui mari , noi ora vi domandiamo un
modesto ricovero per i nostri Dei Penati, un lembo di terra ospitale per stabilirvici sopra. Donateci
aria ed acqua , elementi molto comuni a tutti gli uomini. No! L'Ausonia non avrà da pentirsi per
aver accolto i figli di Troia. Ricevete, da parte di Enea, la coppa d'oro di Anchise con cui egli
celebrava le libagioni sugli altari. Eccovi anche lo scettro e la sacra tiara che indossava Priamo
quando emanava le sue leggi.

Queste ricche stoffe , infine, furono tessute da mani di donne troiane ".

Preoccupato il re Latino pensa alla predizione del vecchio Fauno molto di più che ai ricchi donativi
offertigli. Enea, questo straniero sconosciuto e venuto da lontani lidi, è certamente il genero
annunciatogli dagli ora-coli e destinato a succedergli al trono:

da lui nascerà una posterità feconda per valore e per virtù, destinata a sottomettere l'universo intero
al suo dominio.
" Riferite ad Enea, egli risponde, che io ho una figlia, Lavinia ; gli oracoli ed i prodigi mi hanno
predetto che lo sposo, promesso a lei ed a tutto il Lazio, deve venire da lontane regioni : è Enea,
senza alcun dubbio. La sua posterità vedrà la gloria del nostro nome innalzata fino alle stelle del
cielo. "

( Virgilio, Eneide, VII 213 - 248 )

E' questa una seconda Iliade, è l'epopea dei sopravvissuti Troiani nella quale, al nuovo scenario
delle gesta eroiche, corrisponde il nuovo genio di Virgilio, il grande poeta, erede e continuatore di
Omero. Ma ben pre-sto si svilupparono sanguinose lotte con del leinfinite complicazioni: Enea si
ritrovò lo stesso in pericolo di essere scacciato dal paese.

Un giorno, mentre egli dormiva, il venerabile Tevere, alzatosi dietro il fogliame dei pioppi
rivieraschi, avviluppato in un diafano tessuto blu, colloquiò con l'eroe e gli predisse la futura
fondazione delle mura e dei palazzi della più grande e della più nobile fra tutte le città. Allora Enea
si imbarca di nuovo e risa le il corso del fiume che trova placido ed addormentato come uno
stagno : si ferma infine alla vista di una piccola città, vicina al bosco sacro. E' il regno dell'
arcadiano Evandro, uomo anziano, giunto in tal luogo prima della guerra di Troia.

Il poeta lo definisce il fondatore della città di Roma. Evandro racconta ad Enea come egli ha trovato
questo paese abitato da uomini rudi, nati dai tronchi degli alberi ed impastati con la scorza di dura
quercia di montagna. Egli aveva visto con i propri occhi questi boschi popolati pa-cificamente dai
fauni e dalle ninfe. La favolosa storia di questi nobili fatti ci è stata tramandata da Virgilio , il caro
autore dell'Eneide , l'amante della natura, il conoscitore illuminato dei monumenti e delle arti
letterarie : la sua elegante poesia ha posto nel Lazio lo scenario di questa epopea sorta a seguito dei
tragici avvenimenti di Troia. Le leggende della mitologia, i racconti della tradizione, gli slanci della
fantasia creatrice e visionaria trovano qui più interesse dei mutili annali e dei rapporti privi di
autorità che formano ciò che potrebbe definirsi quale storia di quest'epoca, sulla quale al cuna seria
documentazione è fino a noi pervenuta. La sciamoci ingannare dai poeti ed inebriare dai loro riti e
dalle loro cadenze metriche : lasciamoci sedurre dalle loro svariate melodie prima di seguire le
dissertazioni e le ipotesi dei sapienti che continuamente contraddicono altri sapienti. I poeti e gli
artisti non hanno affatto bisogno in questa materia né della luce della documentazione né della base
dei fatti conosciuti e provati: essi scorgono più lontano, come i profeti ; essi penetrano le oscurità
con la sola luce misteriosa del loro genio.

La leggenda più generalmente ammessa vuole che Romolo, allevato da una lupa con suo fratello
Remo, regale di scendente del famoso Enea, sia stato il vero fondatore della Città. E' lui che ha
dovuto gettare le basi e le fondamenta di quella che si definisce la " Roma quadrata ", cioè la prima
cinta romana posta sul monte Pala tino: era una forte muraglia, costruita con blocchi di tufo, le cui
vestigia ci sono oggi indicate dagli archeologi.

Non è sicuro che il nome della città derivi la sua origine da quello di Romolo : è stata fatta l'ipotesi
che "Romolo" è al contrario un diminutivo di "Roma" che ebbe così dato il suo nome invece di
riceverlo dal suo fondatore. Secondo altri studiosi, la città si chiamerebbe Roma a motivo del fiume
che l'attraversa ; infatti un corso d'acqua, a quei tempi, era generica mente denominato "Rumon".
Altre ipotesi risalgono fino alle eti-mologie più antiche dello stesso greco: esse hanno riscontrato
che Roma vuole dire "forza" in dialetto etrusco.Qualunque sia la sua origine, Roma, nome
magnifico, suggerirà potentemente, da allora, l'idea di potenza, di dominio, di grandezza, e produrrà
un'attrazione irresistibile.
La misteriosa stessa oscurità delle sue origini, da una parte, e , dall'altra, la meravigliosa influenza
del suo passato, la manifesta vitalità del suo presente, fatto che si può prevedere per il futuro,
contribuisco no a creare per essa questo nuovo epiteto, il più particolare di tutti, quello cioè di
"Eterna".

Tale denominazione le era stata peraltro già attribuita nell'antichità classica:

" His ego nec metas rerum nec tempore pono mperium sine fine dedi "

( Virgilio, Eneide , I - 278/79 )

" Ad essi io non pongo limiti né di tempo né di imprese valorose perché ad essi ho concesso un
impero senza fine " .

"Finché Roma, la vittoriosa figlia di Marte, osserverà dall'alto delle sue colline l'universo prono ed
incatenato ai suoi piedi, io stesso avrò dei lettori che leggeranno le mie opere"

( Ovidio, Tristia III, Eleg 7 )

E Tito Livio, da parte sua, quando narra i fatti e le gesta di Romolo, esclama :

" Ma bisognava che intervenisse il fato nella stessa fondazione di una città tanto importante e nella
inaugurazione di un impero che doveva essere il primo dopo quello del cielo ".

( Tito Livio , Ab Urbe Condita )

Più di venti... secoli della vita di questa città sono già trascorsi, secoli di storia scritta, ben
conosciuta e dettagliatamente nota. Ma ecco che gli archeologi che, basandosi su recenti scoperte
fatte nel sottosuolo del foro, ai piedi delle secolari rovine del Palatino, vengono a sostenere una
nuova teoria. Secondo costoro Roma era già stata fondata in epoca ben anteriore e perciò essa
sarebbe giusta mente vecchia di almeno trenta-quattro secoli! Ma seguiamo ancora l'ispirazione del
canto dei primi fatti eroici di questo paese e gettiamo uno sguardo sulla bella e ridente Laurento che
domina il corso del Tevere con i suoi palazzi sopraelevati e le sue mura ben fortificate: le sue vicine,
la città di Lavinia ( è il nome della figlia del re ), e quella di Alba, fondata da Ascanio, il figlio di
Enea, non le fanno ancora alcuna ombra. I giovani cittadini , gli adolescenti, gli stessi fanciulli si
dedicano a dei virili esercizi ginnici: essi domano i focosi cavalli allevati nei campi circostanti;
gareggiano nel tendere faticosamente i duri archi di guerra ; si esercitano a lanciare in lungo dei
pesanti giavellotti ed, infine, ristretti in campi recintati, essi si allenano a lottare di forza e di agilità.
Come abbigliamento essi indossano, annodata sulle spalle, la leggera clamide agitata dal vento.

Non sarebbe affatto fuori luogo immaginare, ugualmente, le vergini la-tine, vestite del modesto
peplo ricamato con una semplice frangia, con le braccia ed i piedi nudi, i capelli fronzuti, neri,
castani o biondi raccolti in ciocche all'estremità del capo. più umili di queste figlie portano, con
graziosa andatura, delle anfore che hanno riempito alla fonte: altre an-cora sono intente a cucire e a
ricamare, mentre le più esperte tessono le corone destinate ai vincitori dei vari giochi; e così
laboriose esse ridono e ciarla no in una lingua che somiglia al greco. Altre donne ancora, più pesanti
a causa dell'avanzata età, delineano già il tipo classico di donna da cui deriverà la matrona romana.
Noi possiamo ancora vederne alcune che vengono dal vicino bosco: esse spezzano dai rami il sacro
fogliame d'alloro recando con loro ceste ricolme in cui si notano fitti mazzetti di mirto, di rami di
bussolo, radici odorose di menta e gli sgargianti ritagli di gialle ginestre, di un odore intenso, soave
e delizio so.

Mentre le fanciulle lavorano e chiacchierano sotto le querce, vicino ai fiori ed al fogliame


accatastato, un giovanotto, che da qualche tempo si faceva notare per il suo inusitato silenzio, si
accosta al gruppo dominato dalla presenza della bella Laura, imponente per la sua giovanile voce e
per la brillante gioiosità. Egli si avvicina semplicemente per ammirarla ancora di più e con la
segreta speranza di ricevere, possibilmente, alcune frasi che contraccambino il suo sentimento
amoroso. Egli la trova mentre intreccia una corona che egli crede destinata a sé stesso: perché,
infatti non dubita di riuscire vincitore nei prossimi giochi. La sua aspettativa resta disattesa, perché
egli si accorge di nascosto, di un'altra corona che Laura non ha avuto il tempo di nascondere tra i
rami del bosso in mezzo ai quali essa stessa si trova quasi soffocata. Essa continua a lavorare, tutta
distratta, scuotendo la sua graziosa testolina in cui brillano degli occhi chiari, accostando ed
allontanando alternativamente dei fiori per meglio scegliere quelli più adatti ad essere posti in
corona. Il giovanotto ha capito tutto. Il giorno seguente egli risulta vincitore in tutti i giochi : ma la
festa è interrotta da un sanguinoso combattimento in cui un contendente è steso a terra, colpito a
morte da una mano che la gelosia ha reso implacabile.

** ** **

Le caratteristiche somatiche

e psico -fisiche dei "Latini"

Gusteremo ora, con ricchezza di particolari, la descrizione somatica e psico-fisica dei primi Latini,
la cui origine è alquanto dibattuta, che furono i primi abitatori del territorio laziale posto nelle
immediate vicinanze di Roma.

Tale popolazione fu la prima, in Italia, ad incontrare la stirpe di Enea. Da questo incontro venne
fuori un fecondo incrocio etnico tra due popoli sanguigni e bellicosi.

Tali sono i Latini indigeni, che popolano la fertile piana che si estende dai monti fino al litorale del
mar Tirreno:

tale è il primitivo temperamento degli abitanti della capitale, Laurento, regina consacrata di tutta la
regione, misteriosa madre di mille altre città che, in seguito, riempiranno continuamente il mondo di
sempre nuovi splendori. Gli uomini sono belli, grandi, ben proporzionati :

la loro testa piccola e fiera è avvolta da una capigliatura folta ed ondulata. La fisionomia è
rischiarata da occhi vivaci ed intelligenti, la fronte è di dolci lineamenti e di classica dimensione e
tutto l'insieme indica l'energia della volontà e la franca serenità del modo di pensare. Gli altri tratti
concorrono a formare una felice armonia di forme, di colorito e di proporzioni. Le donne sono
ugualmente nobili per prestanza fisica: il loro viso è espressivo. Esse si fanno notare per la ma-
estosa calma della propria andatura; piacciono per l'elegante flessuosità delle loro ondulate membra.
Esse sono brune o slavate come quelle greche; altre volte sono bionde e di roseo colorito, dagli
occhi chiari, come le donne etrusche.

Il sangue della razza è misto per tutte le migrazioni dei Pelasgi e le invasioni dei Tirreni: altri
popoli, giungendo dalle vicinanze o da miste-riose regioni che iniziano negli alti monti e nei pressi
dei laghi del Nord della penisola, hanno contribuito ugualmente alla formazione del temperamento
latino. I popoli si trovano evidentemente influenzati dagli elementi della natura che li circonda: essi
devo no portare il marchio della regione che abitano. Le montagne del Lazio che, per la maggior
parte sono vulcani spenti, si mostrano tanto severi quanto possenti nella loro bella ordinata
disposizione. I loro contrafforti si ramificano, digradano verso il piano e spari no svanendo nelle
vicinanze del Tevere e del mare. E' una terra generosa che dà nutrimento tanto ai boschi secolari
posti sulle cime dei monti, quanto ai boschi cedui, i frutteti, le verdi praterie ed i vari campi
seminativi della pianura. I taglienti venti del mare, che resta tanto vicino, si alternano con la serena
cal ma di un aere temperato o con le brezze vivificanti le infiorate pianure. Aggiun-giamo infine che
l'aspetto del paesaggio è sempre nobile e solenne: noi avremmo così enumerato gli elementi che
hanno concorso alla costituzione dell'ottimo clima e le condizioni speciali che hanno im-presso, in
modo indelebile, un originale e particolare carattere alla razza latina. Grazie a quest'ambiente il
popolo, fortificato da queste terre laziali, si svilupperà a seguito delle sue prime vittorie,
mescolandosi ai popoli vicini che andava a sottomettere, agli austeri e bellicosi Sabini, ai religiosi
Etruschi, forti e molto colti: tale popolo dunque arriverà in seguito a dominare, con la sua forza e la
sua intelligenza, immense regioni della terra nell'interminabile svolgersi dei secoli. Razza piena di
forza tanto per conquistare che per resistere al nemico, è essa stessa che andrà ad aprire le vie alla
scienza naturale universale, ad offrire esemplari unici di volontà, ed a illuminare con fuochi
eternamente vibranti, quasi divini, sia l'arte che la poesia. La schietta genealogia dei primi latini si
trova fondata, secondo la tradizione, sulla fusione degli aborigeni, già citati, con i Siculi o Pelasgi ,
razza di noma di che ugual-mente popolarono la Grecia. Si sa che, molto tempo prima della
fondazione di Alba, esisteva già un'antica confederazione di trenta città o municipi la tini: ai loro
abitanti è stato dato il nome di "Prischi Latini". Secondo i poeti, in accordo su ciò con le leggende
più universalmente riconosciute, Alba, costruita dai Troiani, si conquistò l'egemonia e si eresse a
metropoli di quelle numerose e importanti colonie tra le quali si annoverava la presenza tutta nuova
di Roma . Costei, divenuta potente a partire dal regno di Tarquinio Prisco e di Servio Tullio, non fu
pertanto accolta in questa confederazione: così si sarebbe decisa a vi vere orgo-gliosamente e
risolutamente per proprio conto. I Latini stessi si trovarono ben presto coinvolti nei formidabili
orditi giochi della politica e dell'or-ganizzazione romana, ma per farne parte integrante e per
acquistarvi fi-nalmente i pieni diritti di liberi cittadini. I Romani, dalla loro parte, hanno
opportunamente scelto dei coloni nelle città del Lazio: essi sono stati inviati in gran numero nei
differenti siti dell'Italia. Il loro scopo era quello di costituire quelle che sono state dette le Colonie
Latine, "Coloniae Latinae"; esse furono dei centri colonizzati che contribuirono efficacemente a
fissare l'unità di razza e di lingua nello Stato Romano, tramite la partecipazione ai privilegi ed alle
immunità speciali, tanto civili che politiche.

( LUBKER, Lessico dell'antichità classica ).

Roma dalla mitologia alla storia

Dai racconti mitologici delle vicende di Enea ha inizio la fusione tra i discendenti dei Latini e dei
Troiani. Dall'incontro tra queste due razze forti e bellicose nasce una varietà nuova e cioè l'etnia del
popolo romano , la stirpe dei Romani, destinati a grandi imprese politico - militari.La città di
Roma , uscendo da così nobili origini, è chiamata a sottomettere gran parte del mondo allora
conosciuto e a soppiantare la città di Gerusalemme sia come guida politica che come centro
spirituale.

Attraverso le vicende dello sviluppo del Cristianesimo Roma si avvia a diventare imperitura ed
eterna attraverso i secoli.

La razza latina , facente capo a Roma , si espande in ogni dove e la matrice etnica latina imprime il
proprio stampo nel forgiare uomini e donne di grande fama mondiale , ad iniziare dai primi santi
martiri cristiani fino a tutti i geni del rinascimento.

Tutto questo avviene anche ed anzitutto grazie alla lingua latina che, soppiantando il greco, diventa
l'idioma cristiano, universale, immutabile ed eterno.

Il figlio d'Anchise, dopo aver preso congedo da Evandro, aveva ricevuto da Venere, in
un'apparizione che essa fece in mezzo ad una nuvola brillante, un dono che era una meravigliosa
opera d'arte. Era un'armatura forgiata e cesellata, con le proprie mani, dal dio Vulcano. Essa
emanava dei riflessi iridescenti come quelli di una nuvola turchina solcata dai raggi del sole. Nei
suoi rilievi erano raffigurati i fatti ed i personaggi principali della dinastia che andava da Romolo ad
Augusto. Vi si scorgeva Coclite e Manlio; Catone che detta va le leggi e Cesare Augusto che
aizzava alla lotta non soltanto il popolo ma anche il Senato, i dei Penati e quelli dell'Olimpo;
Cesare, tre volte vittorioso, appariva posto su un carro trionfale: egli riceveva il grido di vittoria del
popolo che si alternava con i canti delle donne romane; lo si vedeva mentre ascoltava i saluti
plaudenti e il clamore dei giochi; egli stava per fondare trecento templi promessi agli dei, mentre ai
suoi piedi sfilavano i suoi vinti nemici che parlavano varie lingue, coperti da armature e dalle più
disparate armi. Questa armatura, che Vulcano aveva guarnito di sfavillanti ornamenti a sbalzo, non
era altro che una profezia. Ciò che il poeta intendeva era soltanto cantare le somme gesta
dell'avvenire e le future glorie dei di scendenti dei Latini e dei Troiani, quando questi si sarebbero
mescolati a tante razze di popoli. Ma quali brillanti e sublimi poemi Virgilio non avrebbe scritto se
avesse potuto sapere ciò che stava per seguire al secolo di Augusto ? Le nuove imprese della sua
razza, la sua nuova vita, le sue eclatanti gesta, i suoi gloriosi e santi eroi che si muoveranno in
nuove e radiose sfere ? Ciò che la Provvidenza aveva predisposto anzitutto era che la Roma latina
dovesse soppiantare Gerusalemme, la cui celeste missione era terminata. Roma, principale anello
della catena dei tempi, metropoli intermedia tra il Vecchio Oriente e l'Occidente in formazione,
avrebbe assunto il nuovo onere e compito di ospitare la sede e di custodire il canone della vivificata
religione della redenta umanità.

Come strumento della divina vendetta, fu alle sue mani che si affidò il fatale compito. Toccò in
sorte, tanto ai suoi governatori che alle sue coorti ed ai suoi legionari accecati dal paganesimo, di
presidiare il cruento dramma della Passione. Toccò anche ai suoi generali, ed ugualmente al suo
imperatore Tito, cieco strumento, di causare la distruzione del tempio di Gerusalemme dopo terribili
massacri; di annientare totalmente la stessa città, senza che vi restasse pietra su pietra, e di ridurre in
cattività tutti gli Ebrei sopravvissuti.

Roma portava letteralmente a compimento le predizioni dei profeti ed eseguiva uno dopo l'altro i
minacciosi avvertimenti di Gesù Cristo. Che fatidica grandezza!

Incosciente e sanguinaria Roma doveva ancora suggella re, con il sangue dei martiri, la fede del
vero dio che essa stessa aveva lasciato cro-cifiggere. Straziata in fine nel suo proprio seno e in
seguito dalle barbarie essa si libererà e si inchinerà alla luce apportata da Pietro , cro-cifisso, come
il suo Maestro, ma ai piedi del colle Vaticano. Allora la sua potenza e la sua gloria prenderanno un
nuovo slancio poiché essa si impossesserà dello scettro imperituro della nuova e più sublime delle
religioni, quella che si denominerà ormai Romana e Latina.

Da quel giorno Roma ha dominato perché, ha salvato: se il rapido crollo di tutto ciò che è stato
istituito e sviluppato nella civiltà arcaica non ha attratto l'umanità fino al più profondo degli abissi è
stato per il fatto che la Chiesa nascente di Roma, asilo di uomini giusti e di vere dottrine, ha
custodito accuratamente gli elementi che restavano ancora validi. Se i barbari sottomisero il nostro
mondo ad un paganesimo peggiore di quello appena spirato dipese dal fatto che il seme cristiano di
Roma germogliava all'interno dei loro giovani e robusti cuori: i barbari arri-varono a Roma quasi
come selvaggi ma ritornarono nei loro territori almeno toccati dalle nuove misteriose virtù che fino
ad allora avevano ignorato. A partire da questa epoca grandi uomini cristiani successero a grandi
uomini pagani. Dopo Scipione e Marcello, dopo Cesare ed Augusto, Catone e Cicerone, dopo
Virgilio ed Orazio, torce vive e fiammanti del vecchio genio latino, fiorirono Leone e Gregorio
Magno, Costantino e Carlo Magno. E nei cieli brillavano i martiri come costellazioni, le cui prime
stelle erano Sebastiano, Lorenzo e Cecilia, tutta spendente di virtù, nonché la dolcissima Agnese.

Fu ancora latina l'ispirazione che brillò nei poemi di Dante e nei grandi artisti Michelangelo,
Raffaello e Leonardo. Fu il latino Galileo che per primo scoprì i misteriosi movimenti così
armoniosi degli astri celesti.

Fu peraltro una verace figlia della razza latina, tale Isabella la Cattolica, regina di Spagna, che
venne innalzata, dai suoi talenti, dalla sua volontà e dalla sua coscienza, al primo posto tra gli
uomini di stato, tra i legis-latori ed anche tra i guerrieri. Fu essa stessa che fornì i mezzi e gli
incoraggiamenti ad uno dei moderni latini, il più illustre, a Cristoforo Colombo. Le qualità di questa
grande regina avvezzarono la sua corte e formarono uomini della tempra di conquistatori, come
Fernando Cortez, degno di epopea. Fu a questa stessa influenza del genio latino che si dovette la
nascita di liberatori della loro patria come Simon Bolívar, cui toccò la gloria di donare eroicamente
la vita e la libertà a cinque nazioni dell'America. La beata Giovanna d'Arco, divinamente ispirata,
ed il Ca valier Bayard, ambedue senza macchia e senza paura, Luigi XIV e San Vincenzo de' Paoli,
Racine, Napoleone e Pasteur furono tutti eminenti nelle sfere del loro genio così diverso ; furono
ancora essi gli eredi del grande spirito latino e , per questo, l'umanità li ama.

Newton, Milton, Washington e Franklin, cioè la scienza , la poesia , i meriti civici personificati,
benché di origine non latina, furono tuttavia dei riflessi della luce di Roma, della verità che essa
insegnava, delle bellezze da lei offerte, e delle cristiane virtù che essa predicava e sapeva onorare.
Roma è stata allo stesso tempo la culla e la tomba di tutto ciò che è grande. E' stato in essa stessa
che la nuova coscienza trovò la base del sacrificio dei martiri e delle inaudite sofferenze per mezzo
delle quali essa doveva uscire dalle rovine dello sventurato paganesimo.La fecondità latina, la sua
abbondanza, e la sua eterna facoltà di rinnovamento bastarono a colmare tutte le lacune. Presso i
Romani ed i Latini, l'istinto dell'umanità è un segno caratteristico : essi lo hanno rivelato nella
politica, nella religione e nell'organizzazione sociale. Essi seppero, per primi, fondare e far
sviluppare delle colonie in epoche rozze in cui gli uomini pensavano ad unirsi più per distruggere
che per creare; essi furono anche i primi a mettere in pratica il concetto e la scienza dello Stato. Fu
all'interno di questo popolo che nacquero i germi della carità e della solidarietà universale: si! Essi
si formarono in questa razza dove ogni individuo era dotato di un'alta sagacità e nella quale abitava
facilmente il sentimento il più umanitario di tutti, quello che è denominato la Pietà. Gli ospedali
sono la più evidente espressione di questo virtuoso sentimento ed i primi infatti saranno fondati a
Roma. I disgraziati che verranno in essi ricoverati, spinti dalla loro sofferenza, non vi troveranno a
riceverli dei mercenari che , con fare freddo e distaccato, daranno loro un numero e prescriveranno
una fredda terapia medica. La prima cosa che essi vedranno, dopo aver ricevuto il benve-nuto e la
prima visita, sarà una persona che sorriderà loro, che li incoraggerà, che li riempirà di delicate cure:
essi troveranno una donna, una sorella di carità, un angelo. La lingua latina è stata anche, presso i
Romani, un potente veicolo dello sviluppo della loro dominazione universale. Per la sua concisione
e la sua chiarezza essa risulta, in ef-fetti, adatta ad agevolare efficacemente gli uomini di legge, di
amministrazione e di governo. Le iscrizioni latine ci forniscono un esempio illuminante ; esse sono
come il marmo su cui sono state incise: trasmettono il fatto e la parola, l'idea e l'espressione, in una
forma con-cisa ed immutabile; E' per questo che tale stile è detto "lapidario". L'oratoria latina, così
come la gustiamo nelle narrazioni di Tito Livio, è semplicemente inimitabile. I precetti di legge
improntano le loro migliori formule alle risorse offerte dal latino. E' ugualmente grazie al genio
della lingua latina che la liturgia ha potuto comporre le sue preghiere, concise e parimenti complete,
capaci di elevare al cielo il pensiero e la preghiera dei mortali. Queste sono le ragioni della
sopravvivenza del latino. La chiesa cattolica, che ha i propri motivi di credersi tanto immor-tale
quanto universale, l'ha intimamente adottato : l'idioma latino è l'idioma cristiano, immutabile ed
eterno.

Lo sviluppo storico del Lazio

e della Campagna Romana

Dopo che Roma ha oltrepassato il periodo imperiale del regno di Augusto , dopo cioè che la città ha
esteso la dominazione sul mondo antico, in tutto il territorio laziale regna una frenesia ed una
laboriosità sempre più vistosa man mano che ci si avvicina al centro vitale dell'Urbe.

Ormai tutta questa mescolanza di genti e di razze si chiamano con un solo epiteto : popolo Romano.

Tale popolazione , proprio per fini espansionistici ha creato intorno a Roma e quindi nel Lazio,
strutture abitative sempre più confortevoli e stabili, ornate da artistiche architetture e ricche di
servizi sempre più rispondenti alle esigenze di una popolazione in continua crescita.Il Lazio , a
questo punto storico, comprende circa cinque milioni di persone ivi residenti.

Questo momento storico è quello più solenne di tutta l'umanità del mondo allora conosciuto ,
arrivato al culmine del massimo splendore attraverso l'impero di Roma.

Il mezzogiorno della storia del Lazio e della Campagna si colloca, secon-do noi, all'epoca
dell'impero posteriore al regno di Augusto, quando Roma ha già esteso la sua dominazione
sull'antico mondo. Nel campo degli avvenimenti naturali è questa l'ora della calma maestosa, della
luce abbagliante, della forte calura. Il sole sa le allo zenit, spargendo su questo territorio, dal ma re
fino alle montagne che chiudono l'orizzonte, un'atmosfera che produce essa stessa il germe di una
vita feconda e di un intenso vigore. I campi, i fiumi, le colline e le alte cime dei monti, nonché, le
piante, tutti gli esseri insomma, vibrano all'unisono. I mo-desti villaggi, circondati da frutteti e da
umili colture, che erano disseminati qua e là fin dall'epoca della preistoria, che noi abbiamo già
contemplato, sono rimpiazzati al presente da piccole e lussuose città - giardino , incorniciate da
alberi esotici che spandono la loro ombra ri-storatrice su delle stalle stipate di superbi animali: vi si
vedono dei focosi cavalli nati in Africa, degli enormi torelli importati dalle fattorie del Nord, dei
montoni di razza selezionata. Ci sono anche in questi grandi parchi delle grosse gabbie dove
ruggiscono dei leoni, delle tigri, ed altri animali selvaggi e feroci che assecondano la passione e la
vanità dei ricchi proprietari. L'agricoltura si è sviluppata grazie a degli intensi e continui sforzi.
L'aere ristagna secco per il cigolio dei carri polverosi che ingombrano le strade: essa ripercuote i
nitriti dei cavalli ed i belati dei montoni; nell'atmosfera si alza una sottile polvere. Ascoltate ora le
voci, le grida, le imprecazioni, miste ai tintinnii dei campanacci delle greggi ! Guardate le affannose
corse dei conduttori dei carri e dei pala-frenieri ! Regna in tutta la regione una effervescenza di
frenesia e di laboriosità; la si riscontra, sempre di più, man mano che ci si avvicina al centro vitale
della città di Roma. Tutte queste genti che vivono, che si agitano e che circolano freneticamente,
non sono più quei Latini, nemici per secoli dei bellicosi ed invasori Romani; non sono neanche
Etruschi, né Volsci né Sabini ; essi si chiamano tutti Romani e si stimano come fratelli, figli del
fecondo Lazio. Essi amano, a ragione, le loro montagne: infatti queste sono piene di vita e di
abbondanza, incoronate da leggiadre nuvole, ricolme di boschi e di laghi, nonché, adorne dei
classici ricami dei vigneti e degli uliveti, esse si ergono sempre eguali a sé stesse, sempre fiere e
duramente scoscese, ma peraltro sempre belle. Una volta i loro costoni furono sviscerati e le loro
cime spianate dai vulcani: questi ultimi però non incutono più alcuna paura. I crateri estinti sono
diventati degli ameni laghi dalle forme rotondeggianti, dove vengono a riflettersi dolcemente le
nuvole che tracciano il cielo . Un vulcano veramente in attività è oggi invece la stessa città, la
metropoli , l ' Urbe", con il suo fuoco di gloria ed i lampi della sua supremazia, che allo stesso
tempo guida e soggioga il mondo. I sette colli non formano altro che un compatto agglomerato di
gente: essi contano più di un milione di abitanti.

Nella campagna del Lazio, che si estende verso il mare e nei bacini dei fiumi tributari del Tevere, a
monte come a valle, c'è un ragguardevole numero di abitanti sufficiente a far arrivare la popolazione
totale , compre sa quella di Roma, alla cifra di cinque milioni. Le creste delle colline romane sono
coronate da magnifici templi i cui classici frontoni, tutti di marmo bianco dell'Etruria, risplendono
sotto i raggi quasi perpendicolari del sole. Delle statue ben allineate, fitte come legioni, dominano le
sommità di quei templi, al di sopra di preziose e larghe architravi e di floreali cornicioni. Altre
statue e gruppi diversi, sempre di bianco marmo, adornano il centro dei portali e le cavità delle
nicchie, simmetricamente edificate. Inoltre delle quadrighe di bronzo dorato sormontano i portici;
Vittorie alate, in punta di piedi e poggiate sopra le luminose sfere di isolate colonne di levigato
granito orientale, si ergono come per volersi slanciare nello spazio blu. Le masse luminose, dai
mille e risaltanti colori, sono costituite dalle numerose abitazioni private, sia ricche che povere.

Delle costruzioni cubiche, sormontate da emisferi o da cupole, appiattite secondo la moda levantina,
si trova no qui e là, semi - nascoste da vecchi cipressi ancora vigorosi, dai pini ad ombrella e dalle
cupole verdi dei fronzuti platani d'oriente.

Leggere volute di fumo bluastro, invece, tradiscono l'esistenza di una domestica abitazione.

Questi alberi, che abbiamo visto elevarsi ben al di sopra dei giardini, dove svolazzano piccoli
uccelli domestici, offrono la loro benedetta e fresca ombra in mezzo a questa accecante e calorosa
luce.

Ecco ancora apparire altre costruzioni, esse si presentano adesso quasi gigantesche. Ciascuna di
essa ha l'apparenza di una sontuosa villa, am-mirabilmente ricca e bella, lussuosa ed artistica. Tra di
esse citiamo le terme, centri di vita sociale e politica, dove tutto concorre al benessere e favorisce
l'oziosità.

Vicino a tali stabilimenti vi sono dei teatri, degli anfiteatri, dei circhi all'aperto dove si ergono verso
il cielo, per servire da "Metae" e da punti di riferimento nelle sfrenate corse, alcuni secolari e sereni
obelischi, fatti venire via mare, fin dall'Egitto lontano e recentemente conquistato. Nell'azzurro più
elevato planano delle aquile maestose che sembrano re-stare immobili nello spazio. Più in basso, e
forse al seguito delle marce militari delle coorti e delle centurie sotto le armi, si vedono svolazzare
pesantemente alcuni stormi di nerastri corvi. Il rumore, l'umido vapore, le trasparenti ed aeree
ondulazioni della calura si alzano contem-poraneamente dai campi e dalla città verso l'etere, per
completare questo inno fantastico, questo meridiano splendore romano imperiale.

Gli animi si gonfiano d'orgoglio e sono quasi inebria ti da tali sensazioni. Alcuni patrizi, a fronte
alta, si fermano ed assumono pose di sublime fierezza.

Una singolare comprensione delle forze invincibili della supremazia e della dominazione universale
ed eterna si sprigiona da questi esseri viventi, da queste potenti opere d'arte nonché dagli elementi
di questa grandiosa natura, perché è il momento più solenne dell'umanità, arrivata al culmine della
sua grandezza.
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Comunicazioni e strade imperiali

(Le vie consolari … la via Appia)

L'impero romano , per ingrandirsi sempre di più e per controllare più agevolmente i territori
conquistati, ebbe l'esigenza di costruire una capillare e funzionale rete stradale che collegasse
capillarmente ogni punto strategico del territorio sottomesso.

A tal fine vennero costruite , soprattutto dai consoli che governavano in quei tempi, delle strade
apposite che divennero grandi arterie di comunicazione stradale in Italia e all'estero.La via
consolare più famosa che si dipartiva da Roma( ancor oggi in funzione ) era denominata la via
consolare Appia ( dal nome del console costruttore Appio Claudio ).

Una via esce dalla città essa si snoda attraverso i campi davanti ad eleganti abitazioni, giù, giù fino
alle pianure albane : è la Via Appia. Il suo tragitto è segnato in lontananza dalla bianca polvere
sollevata continuamente dalla numerosa folla che si accalca su di essa.

E' in effetti una grande via di comunicazione e pari menti il luogo della passeggiata preferita : essa è
de marcata , in lungo , da numerosi monumenti funerari di gente patrizia o semplicemente di
persone arricchitesi che hanno voluto gareggiare con questi patrizi in opere di pietà, di ricordo e di
vanità. ( b )

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( b ) : La Via Appia

La più antica strada romana, detta dagli antichi "regina viarum", la famosa via Appia .

Essa ha avuto il nome dal censore Appio Claudio Cieco che ne ordinò la costruzione nel 312 A.C.

Dapprima arrivava, con un piano battuto e massicciato, fino a Capua, poi fu prolungata fino a
Benevento ( dopo il 268 a.C.), a Venosa (190 ca.) e infine fino a Taranto e a Brindisi dove due
colonne di cipollino, ancora esistenti, segnavano l'estremo limite.

Pavimentata in origine con blocchi di tufo e, in seguito, con blocchi poligonali di lava basaltica,
l'Appia fu restaurata e abbellita da vari consoli e imperatori tra cui Traiano, che costruì un nuovo
tronco da Benevento a Brindisi. Nei luoghi più frequentati la via aveva, ogni sette o otto miglia,
stazioni per l'alloggio e il cambio di cavalli.

Altre vie si dipartono da Roma prendendo differenti direzioni:esse per-mettono l'entrata e l'uscita
dalla città a numerosi ed attivi suoi abitanti nonché a quel li del circondario. Essi sono cittadini,
funzionari, militari, paesani e schiavi, che si incrociano per via con i loro svariati carri ed i loro
approvvigionamenti.

Sopra i loro basamenti che le fiancheggiano si ergono ugualmente dei sepolcreti ma essi sono di
minore importanza di quelli dell'Appia, la preferita dai potenti e dai ricchi. Questa è la grande
arteria che fa scorrere il sangue e dà la vita a Roma e che riceve i palpiti immediati del suo cuore.

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Ai lati sorgevano numerosi monumenti funebri tra cui la tomba di Cecilia Metella e quello di Cotta
(Casal Rotondo)…

All'Appia convergevano diverse strade tra cui la "Via Latina" e la "Via Domiziana". La strada che
collega la città di Latina con la sua stazione ferroviaria chiamata "via Epitaffio" ed è stata così
denominata a causa di una iscrizione commemorativa collocata nei pressi dell'incrocio con la
VIA APPIA . Tale iscrizione, posta a commemorare l'avvenuta bonifica della zona da parte di Pio
VI, così recita:

" Per ordine di Pio VI, Pontefice Massimo,il tratto dell'Appia verso Piscinara, che le acque
stagnanti avevano interrotto, è stato congiunto da ponti e rinforzato negli argini. Anno 1786".La
località Tor Tre Ponti era un'antica "statio" romana denominata "Tripontium" ed era situata lungo la
via Appia, precisamente al km.66,4. La zona da Tor Tre Ponti fino a Terracina fu fatta bonificare
dal citato papa per poter riutilizzare la Via Appia nel suo percorso originario, molto più lineare in
confronto della più tortuosa via Pedemontana.

A Tor Tre Ponti si può tuttora visitare una chiesa dedicata a S. Paolo , progettata nel XVIII secolo
dall'ing. G.Rappini che riutilizzò per essa un altare risalente al 1572.

Tale dedicazione venne pensata in ricordo del passaggio in questa zona di tale glorioso santo
apostolo, come si può leggere sulla lapide posta nell'androne della chiesa. Per programmare il
dettagliato progetto tecnico di bonifica papa Braschi, cioè Pio VI, pensò di recarsi di persona a
visitare i luoghi paludosi e preparò un apposito soggiorno presso Terracina.La sera dell'8 aprile
1780 il pontefice giunge a Terracina e vi soggiorna fino al 19 dello stesso mese, ospitato nel
sontuoso Palazzo Vitelli.Il papa, attraverso i suoi tecnici, voleva soprattutto e innanzitutto indicare
le linee guida per la direzione della bonifica di un vasto territorio situato a Nord di Terracina.I
lavori di bonifica non furono né rapidi né semplici e durarono una ventina di anni, tutti spesi in un
completo riassetto della via Appia tramite la ricostruzione di stazioni postali a Tor Tre Ponti, Bocca
di Fiume e Mesa, il completamento del canale "Pio VI" e la creazione di una "nuova Terracina".
Tale città doveva diventare, nei disegni del papa, il centro del nuovo comprensorio bonificato.

La via Appia :

testimone di grandi avvenimenti sacri e profani

La via consolare Appia, di per sé famosa per l'immane lavoro impiegato nella sua costruzione e
realizzazione, è divenuta sempre più famosa nel tempo per essere stata testimone di grandi eventi
storici, più o meno sacri o profani, che si sono svolti lungo il suo percorso, soprattutto nelle miglia
più vicine a Roma , centro dell'impero romano e della nascente cristianità.
Al tempo delle prime persecuzioni neroniane contro i primi cristiani romani percorse la via Appia
anche San Pietro che , fuggitivo da Roma, ebbe un incontro molto particolare in un luogo che ancor
oggi ricorda tale avvenimento . . . . .

E' all'uscita della città che, su questa via Appia, s'è compiuto un memorabile avvenimento del
nascente Cristianesimo.Pietro, nuovo Enea, qui arrivato per fondare l'impero spirituale ed
interminabile, era entrato in Roma per correndo questa passeggiata preferita dai ricchi cittadini.
Quando l'inumana persecuzione di Nerone arrivò al culmine di crudeltà, Pietro cedette alle istanze
dei suoi proseliti, che volevano saperlo in luogo sicuro, e quindi tentò la fuga dalla città.

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La Via Appia, arteria di comunicazione che attraversa tale zona, era allora un vecchia via consolare
dell'epoca romana che però era stata costruita con tecniche tanto valide da poter essere riutilizzata
per quasi tutto l'antico tracciato. La grande via aveva conosciuto lunghi momenti di tristezza,
quando affondò nella palude, abbandonata nel fango e tra le erbacce che la ricoprivano,
praticamente scomparendo dalle carte stradali dell'epoca e sostituita dalla via Pedemontana.

Trascorsero quindi quasi nove secoli prima che il papa Pio VI la riscoprisse durante i lavori di
bonifica da lui promossi.Grazie a questo intervento di opera sociale tornarono allora alla luce dei
lineamenti e dei monumenti vecchi di secoli e la via consolare, caduta nel dimenticatoio dei secoli,
riacquistò quasi la sua superba fama di "Appia regina viarum".

Ma ai primi passi che fece fuori dalle mura, forse di mattino presto quando canta il gallo, gli
apparve il suo divino Maestro.L'apostolo, riconoscendosi colpevole di una nuova debolezza,lo
apostrofò con tali semplici parole: " Domine , quo vadis ? " " Signore, dove vai? "

" Eo Romam, ut iterum crucifigar." " Vado a Roma per essere di nuovo crocifisso ", rispose la
persona che gli era apparsa.

Pietro comprese, tornò sui suoi passi in mezzo ai suoi compagni di fede e consumò il sacrificio della
sua vita. Fu così che si decise l'elezione di Roma come altare e seggio della novella religiosa fede.

Oltre a questo evento cardine della storia cristiana , la nostra via consolare ospita ancora vestigia
architettoniche legate al mondo classico e alla Roma pagana repubblicana ed imperiale ; nomi a noi
molto noti riecheggiano nei paraggi delle prime miglia dell'Appia.

Nelle vicinanze di questo miracoloso luogo, di fronte ad una via traversa, si erge il monumento dei
grandi Scipioni, detti "fulmini di guerra".

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Oggi infatti l'Appia è ancora la bella strada di un tempo, anche se possiamo solo intravvedere la
sua gloria passata dalle sue vestigia artistiche quasi scomparse.

La strada scivola velocemente tagliando a metà un paesaggio " molto pittoresco": le verdeggianti e
lussureggianti carciofaie di Sezze e di Priverno, i lindo uliveti che s'arrampicano sul monte
Leano, i platani che da Fondi si avviano verso le gole di Itri, le rocce brulle ma dolci degli Aurunci,
fino ai panorami marini, alle lampare notturne, alle nebbioline che s'alzano appena dal mare nei
giorni di calma.Anche le origini di Cisterna sono legate alla storia della Via Appia..Si suppone che
essa sia stata edificata sulle rovine della località chiamata "Tres Tabernae", resa famosa per il
primo incontro della comunità cristiana di Roma col grande apostolo delle genti, Paolo. Molti
studiosi sup-pongono che tale città abbia preso il nome da Cisterna di Nerone, col quale fu
chiamata, per lo scavo che questo imperatore iniziò nel tentativo di prosciugare l'Agro Pon-
tino.Grazie alle opere di bonifica volute da papa Pio VI il tratto pontino della via Appia, quello che
va da Cisterna a Terracina, rinacque dopo quasi un millennio di abbandono e di insano
impaludamento.

L'uno trionfò su Annibale, l'altro invece pose fine al la secolare guerra contro Cartagine che egli
distrusse fino alle sue fondamenta.

Scipione l'Africano, detto anche il Vecchio, pieno di rancore verso la sua patria ,nei suoi riguardi
ingrata, aveva deciso che le proprie spoglie mor-tali fossero sepolte privatamente nella sua città di
Literno. La sua volontà non fu rispettata affatto. Una seconda dimenticanza dell'ingrata Roma ha
nuovamente permesso che le ceneri del grande condottiero, recentemente scoperte, fossero raccolte
da un senatore veneziano: costui le ha sistemate per farne sfoggio nella sua villa di Alticchiero, nei
pressi di Padova. E' qui che esse oggi riposano.

(Ripostelli, La via Appia).

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Per portare a compimento l'opera di ristrutturazione, di imponente dimensione, vennero sfruttati un


gran numero di galeotti dello Stato Pontificio. Dapprima essi dovettero liberare la carreggiata da
un immane groviglio di rovi, piante e alberi che l'avevano sepolta completamente. Di poi essi
furono impiegati a costruire una nuova massicciata, a dragare e allargare il canale Linea, ad
abbattere ponti di poca solidità e sicurezza e a ricollocare le pietre miliari. Alla fine dell'ingente
fatica la strada rinacque e sul suo percorso vennero curati i punti di posta.

Il 1° novembre 1789 venne inaugurato tale nostro segmento pontino dell'Appia.

Per l'occasione si fece partire da Cisterna una apposita diligenza che facesse visitare i luoghi appena
bonificati.

Su tale mezzo di trasporto presero posto solo pochi privilegiati passeggeri che per tale insolito
viaggio pagarono ben 80 baiocchi come prezzo della corsa inaugurale.
Tra i visitatori della campagna romana attraversata dalla via Appia possiamo ricordare il famoso
Johann Wolfgang GOETHE che nel novembre del 1786, dopo aver visitato Roma, si spinse nella
zona circostante lungo la "regina viarum", per attraversare e visitare i risorti siti del tempo classico
romano.Il R.A.C.I. (Reale Automobil Club Italiano) nel 1930, pubblicando la relazione sullo stato
delle strade in Italia, sconsigliava gli automobilisti di attraversare la regione pontina, durante la
stagione invernale, perchè il viaggio poteva trasformarsi in un'avventura. Il lungo tratto dell'Appia,
l'unica via statale allora esistente, da Casal delle Palme e Ponte Maggiore, era tratteggiato sulle
cartine stradali come "fondo irregolare" perché la palude, nei mesi autunnali ed invernali, veniva
lentamente a ricoprirlo.

La via andava completamente sott'acqua e diventava praticamente intransitabile in diversi suoi


punti . Soltanto con i primi soli e tepori primaverili la strada veniva a riemergere insieme ai campi
coltivati.

Quando ci si dirige verso il Sud di Roma, si scopre, a destra della via Appia, la prima colonnina
miliare; essa costituisce la prima tappa per i viaggiatori e per le marce militari. Molto vicino a tal
sito si erge l'arco trionfale di Traiano, di cui non resterà il benché minimo vestigio nei tempi
moderni. I monumenti si susseguono ora senza interruzione. A sinistra, pro tetto da un bosco sacro,
si può notare il sontuoso tempio di Marte, dove sono celebrati i sacrifici delle legioni che partono
per la campagna militare; i vincitori, al loro ritorno, ritornano qui per offrire dei do nativi e dei
ringraziamenti agli dei che li hanno protetti. Dopo aver attraversato un altro arco, quello di Venere,
di stile simile al primo, si entra nel Campo di Marte, attraversato da un fiumicello, l'Almone.

E' proprio da qui che partono le parate militari e sempre qui si radunano le milizie trionfanti al
ritorno della guerra, per potersi contare e per riordinare le fila, prima di fare solenne ingresso nella
città, percorrendo le principali sue vie. Il Campo di Marte può contenere almeno cinquemila
cavalieri: E' il numero fisso per la annuale processione dell'Onore e della Virtù, processione che
avanza in or dine solenne sotto i raggi del sole e sotto il calore di luglio per andare a deporre un
ultima offerta nel tempio di Castore e Polluce, nei pressi del Foro Roma no. Nel modesto ed
angusto ruscello di Almone, che, appena sgorgato, va a perdersi nel Tevere, si compiono le solenni
abluzioni delle sacerdotesse di Cibele, "Magna deorum mater" ( La grande madre degli dei ), dea
della terra, sposa di Saturno e sorella di Oceano. I pontefici vengono annualmente da Roma,
recando con sé l'effigie della divinità, per immergerla nelle acque dell ' Almone, seguendo dei sacri
rituali.

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Essa li resecava di nuovo, dividendo quelli posti alla sponda sinistra del fiume Sisto da quelli che
fiancheggiavano la linea pedemontana dei Lepini. Erano quelli i tempi in cui cominciavano appena
a circolare i primi automobilisti e il regno di tutta questa nostra campagna era ancora in mano ai
contadini ai pastori ed ai carbonai, che controllavano da generazioni il flusso della palude,
sapendone riconoscere il suo lento respiro.

La brezza, in questa stagione, porta un’aria olezzante i cui profumi provengono da un recintato
podere che si scorge tra la via Ardeatina e L’Appia. E’ il cosiddetto "Fundus Rosarum", podere delle
rose, religiosamente recintato ed a cui non si richiede altro che la produzione di olezzanti fiori
destinati al culto di Cibele. Il tempio della dea si erge sul colle Palatino ed è visitato da devoti
patrizi, molto assidui nel culto.

La lunga serie dei sepolcri continua ancora. I marmi emanano dei riflessi dall’ una all'altra parte
della strada. Ci siamo incamminati di molto sulla regina delle vie, cioè sulla "Regina Viarum".

Essa merita ancora un altro epiteto, quello di via retta, diritta. In effetti la si scorge assottigliarsi
come un filo fino in lontananza: essa s'inerpica sulla salita del monte Albano e sparisce alla vista ,
sempre diritta e fian-cheggiata da bianchi edifici che si al ternano con numerosi tumuli funerari.
Tale via è il più ricco e il più prezioso ornamento della campa-gna. I liberti di Augusto qui hanno il
loro colombario particolare: questo consiste in una classica costruzione con portico e colonnato, in
stile greco: all'interno vi sono non meno di tremila nicchie destinate ad accoglie re le ceneri di
quelle persone la cui posizione civile e le cui cariche pubbliche furono dovute al favore del grande
imperatore Au-gusto. Nelle sale superiori vi si celebrano i riti mortuari di comme-morazione.

Presentemente noi ci troviamo davanti alla seconda colonna miliare: ecco ancora alcuni monumenti
di collettiva istituzione, quelli della ricca e nobile famiglia Voluzia, quelli dei Cecilii e di molti altri
che rivaleggiarono vanità per onorare i loro liberti e i loro protetti.

Noi troveremo ancora numerosi sepolcri, simmetricamente disposti:le loro forme severe, i loro
resistenti materiali ( marmo, granito, onice, e porfido ) brillano sotto l'accecante luce; ben presto
però il sole, nella sua continua corsa, sembra nascondersi dietro i ci pressi, i bossi e gli olmi ;

le ombre scompaiono e gli occhi affaticati del viaggiatore possono ora riposare. la carreggiata ed i
marciapiedi della via, pavimentata da grandi lastricati di basalto poligonale, servono per la
passeggiata degli oziosi e per permettere il passaggio della truppa militare e del commercio.E' un
continuo andirivieni di pedoni,di carretti di varia forma, di cavalieri, di lettighe trascinate da quattro
schiavi seguiti da altre riserve . Venditori importuni, indigeni e stranieri, mendicanti ed indigenti,
eleganti giovanotti ed umili disoccupati, tutti si incrociano e si urtano, scavalcandosi ad ogni istante.
Questo formicolio viario di vita e di necessità si allunga davanti i sepolcri pagani che si ergono
muti, non comunicando ai passanti né una sola idea né una sola speranza. Ma ecco il tempio del dio
Silviano, guardiano dei campi e dei boschi, protettore de strade e dei monumenti: dio selvatico e
rozzo cui le donne non hanno il diritto di of-frire sacrifici.E' proprio lui che si prende una cura
speciale del fitto bos-chetto di fronzute querce, posto nel mezzo della pianura.

La ninfa Egeria aveva scelto questo sacro luogo per intrattenersi con Numa Pompilio e per dettargli
i suoi saggi e religiosi precetti. Verso la metà del secondo miglio , su una rotonda collinetta, si erge,
tutto maestoso e massiccio, il superbo sepolcro cilindrico di Cecilia Metella.

Un fregio marmoreo circonda la sua parte superiore, avente in rilievo dei crani o teste di bue,
adorne di eleganti festoni.

Oltre gli emblemi ed i trofei si scorge sulla facciata principale una targa di marmo con un'iscrizione
che dovrà resistere fino ai tempi moderni.

Essa ricorda la consacrazione e la dedicazione del monumento in questi termini :

" Coeciliae / Q. Cretici. F./ Metellae. Crassi. "

( " Q. Crasso Cretico dedicò a Cecilia Metella " )


Il padre di Cecilia fu soprannominato "Creticus" per aver sottomesso, in qualità di proconsole,
l'isola di Creta: questo nobile fatto gli procurò così l'onore del trionfo. Questa distinta e nobile
romana aveva perduto suo marito nella guerra contro i Parti: questo è tutto ciò che si conosce di lei;
forse la sua grandezza derivava dalle sue virtù, dalla sua bellezza, dalla sua fortuna? Che triste
destino! Il suo ricordo è a noi giunto solo perché le sue spoglie furono affidate alla più resistente
delle tombe romane, già conosciuta ed ammirata molto prima dell'era cristiana.

Dopo questo imponente sepolcreto, che domina tutta la via, si vedono allineati in nuova serie,
diversi tumuli, di piccoli templi, delle colonne sormontate da statue o da semplici busti, degli
obelischi, delle piramidi e dei grandi sarcofagi, la cui costruzione sembra voler sfidare i secoli.

Nei pressi del quinto miglio della via Appia venne innalzato anche il sepolcro di un grande filosofo
neroniano , il famoso Seneca , che coerentemente ai suoi principi di vita, preferì suicidarsi piuttosto
che subire l'onta di un ' ingiusta condanna a morte.

Uscendo da Roma si incontrano inoltre anche altre famose e nobili sepolture o residenze
principesche dell'età romana , sempre relative a famosi personaggi storici.

Dopo il quinto miglio ci imbattiamo in un sepolcro soprelevato, adorno di bassorilievi e di ricche


composizioni ben combinate tra loro: è lì che riposa Seneca, filosofo di Cordova, precettore e
maestro di Nerone. Questa zona della Regina Viarum era particolarmente ricercata dai Romani in
villeggiatura: ugualmente Seneca possedeva una villa in questi paraggi. E' là, nel riposo ozioso della
campagna che riceve l'an-nuncio della disgrazia che l'imperatore gli aveva inflitto. Egli partì su-bito
per Roma. La certezza dell'ingratitudine suo imperiale allievo gli fu confermata dal tribuno delle
milizie, Granio. Tornando alla sua villa , durante il pranzo di famiglia, il filosofo si tagliò le vene e
spirò tra le braccia della sua donna Pompeia Paolina e le sue due figlie.

La carreggiata, nel suo lungo percorso, è sempre animata, abbiamo visto, dal traffico di
commercianti, così come la via fluviale , che conduce

al mare, è ingombra di svariate imbarcazioni che fanno vela procedendo a forza di remi. Qui sulle
rive del Tevere si ergono del le villette co-struite tra i boschi ed il fiume. I margini dell'Appia sono
fitti, invece, di una serie di sculture e di marmi funerari; vi si ritrova la più grande animosità
congiunta ad una brulicante confusione: ciò è dato dalle grida dei carrettieri, dai richiami e dalle
segnalazioni di amici che incontrano altri amici, dal fracasso delle ruote dei veicoli .

Mentre invece sul quieto fiume, lungi dai sepolcri, si naviga pressoché, in silenzio: non si ode che la
voce del nocchiero ed i canti dei marinai che si spronano tra loro mentre remano. La diritta linea
della via Appia, dopo il quinto miglio, compie una strana deviazione: si inclina di colpo su di un
fianco, come per scansare un ostacolo insormontabile; ciò non è affatto causato dalla natura del
suolo, perché, non esiste né montagna, né roccia, né crepaccio od avvallamento da evitare .

Il tracciato rettilineo dell' inflessibile console Appio Claudio si è scontrato con le antiche sepolture
degli Orazi e Curiazi ed ha dovuto deviare per evitare uno storico sacrilegio che avrebbe potuto
compiere distruggendo queste tombe solo per conservare un retto allineamento di strada. Proprio
qui dunque ebbe luogo il memorabile combattimen-to di tre nobili guerrieri contro tre altri loro pari
e non meno gloriosi, l'esito del quale fu il trionfo di Roma che a quei tempi cominciava il delicato e
pericoloso percorso della sua grande espansione. Tito Livio de-scrive minuziosamente questo
duello: i tre Orazi, campioni di Roma, ed i tre Curiazi, che gareggiavano per Albalonga, avevano
marciato, gli uni contro gli altri, per venire alle armi. Due degli Orazi erano caduti morti al primo
impatto e due degli Albani erano comunque gravemente feriti . L'ultimo sopravvissuto degli Orazi
mise così in atto uno stratagemma: egli scappò fingendo una fuga.

I Curiazi lo rincorsero, uno distante dall'altro, con una corsa che gli era permessa dalle proprie
forze. Il Romano, scaltro e valoroso, tornò sui suoi passi, li attaccò uno alla volta e finì così per
uccidere i suoi avversari in presenza di due armate che l'angoscia aveva reso silenziose. Da quel
giorno Albalonga fu sottomessa e Roma restò, senza seria concorrenza, dominatrice sovrana del
Lazio.

Per onorare i sei combattenti, considerati giustamente degli eroi, li si sep-pellirono in sepolcri quasi
sacri, eretti sullo stesso luogo del loro glorioso trapasso. Si possono scorgere questi illustri sepolcri,
quando si cammina sull'Appia, un poco scostati a destra della via.

Essi hanno saldi basamenti circolari come costruzioni di guerra; emblemi e statue li sormontano.
Tali sepolcri si fanno notare per la loro vasta dimensione e per la loro ricchezza. In segno di una pia
venerazione, inoltre, sono stati circondati da un sacro bosco che è vietato oltrepassare, del quale non
resterà che qualche albero nei nostri tempi moderni . Più in lontananza vediamo distaccarsi gli
eleganti padiglioni ed il pe-ristilio della sontuosa villa dei Quintili, famiglia potente e valorosa, di
nobile origine albanese. Un ninfeo, decorato con graziose raffigurazioni, riflette le sue fini sculture
ed i suoi chiari mosaici nelle tranquille acque del lago artificiale: al di sopra delle folte cime degli
alberi si distacca il tetto del tempio privato, consacrato ad Ercole. Le forti attrattive di questa
proprietà dovevano fortemente suscitare l'in-vidia e la rapacità dell' imperatore Commodo. Per
impossessarsi così di altre ricchezze l' imperatore decretò la morte del ricco patrizio e la confisca di
tutti i suoi beni . Stessa sorte doveva toccare a tutti i discendenti di Quintilio , accusato peraltro del
crimine di essersi fatto iscrivere nella religione cristiana. Per terminare infine la serie dei ricchi
sepolcri, il cui merito era quello di essere vicini a Roma, ci fermiamo al sesto miglio e
contempliamo il mausoleo di Messalino Cotta, più vasto e più imponente di quello di Cecilia
Metella. La sua massa imponente, a forma di cilindro tronco, rivestita da chiari marmi, e non priva
di una certa arcaica eleganza, si distingue da ogni punto della campagna. Questo sepolcro è adorno
di bassorilievi con maschere teatrali; queste decorazioni si ripetono alternativamente con graziose
scene di Nereidi.

Ci sono dappertutto delle colonne corinzie che sostengono piccoli arcadi; dei candelieri in bronzo
ed altri attributi finemente ornati esaltano la memoria dell' illustre Messalino Cotta, console ai tempi
di Tiberio, uomo ricco ed influente, oratore e raffinato poeta. Tutte le ricchezze e le magnificenze di
questi monumenti, dai più importanti a quelli più umili, sottolineano il carattere di una bellezza
unica ed incomparabile di cui gioisce con vanto la via Appia. Quanto sono belli a vedersi infatti, tali
monumenti, sotto la risplendente luce meridiana del giorno romano!

Gli arbusti ed i fiori, che li circondano e li incorniciano, donano più risalto alle loro forme classiche
e fanno meglio distinguere i loro tenui e chiari colori. Ma ciò che finisce di dare una squisita grazia
a tutto questo insieme è lo splendido panorama formato dall'orizzonte dato dalle montagne laziali:
esse appaiono sempre azzurrine, anche se viste a breve distanza, e i loro fianchi sono opulentemente
rivestiti da oliveti e da vigneti che si toccano e si confondono. Dal lato opposto, là dove si estende
la pianura del Te vere, la decorazione si riveste di nuvolette leggere e di brume fresche e trasparenti,
che si diffondono sia planando sul mare sia correndo al di sopra della vallata: esse donano l'ultimo
tocco al caratteristico fasci no di questa incomparabile contrada romana. Durante il tempo in cui il
Cristianesimo ha cominciato a svilupparsi (nonostante le persecuzioni ed i sacrifici dei martiri, fonti
veraci della sua vita e della sua gloria ) , la via Appia ha dovuto essere testimone più di una volta
delle sue manifestazioni; essa gli ha di certo fornito facilitazioni di comunicazione offrendogli le
ville dei patrizi ultimamente convertiti. Abbiamo già visto Pietro, sul punto di scappare,
incamminarsi precipitosamente sulla grande arteria e restare qui sorpreso dalla meravigliosa
apparizione di Gesù. Ripreso e fortificato dal monito del Maestro l'apostolo tornò sui suoi passi per
lottare di nuovo e morire.

L'arrivo di San Paolo a Terracina

Dopo le figure classiche di Roma, dopo la figura cristiana di San Pietro ,la via Appia ospita un'altro
cardine del cristianesimo ,l'apostolo Paolo che , sbarcando a Terracina, si incammina lungo l'Appia
per incontrare San Pietro, volendolo assistere nella sua missione spirituale di evangelizzazione della
Roma pagana.

Paolo, l'altro cardine di questa religione, sbarca a Terracina ed accorre per assistere Pietro nella
conquista spirituale della metropoli. Egli provò la gioia di trovare dei simpatizzanti e proseliti
romani che erano venuti ad incontrarlo fin presso la posta di Foro Appio, a circa quaranta miglia da
Roma . ( g )

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( g ) : " FORUM APPII " :

Un'antica stazione dell'Appia

Lungo la via Appia antica , precisamente a circa 70 Km da Roma, si incontrava un'importante


"Statio" di ristoro e di rifornimento denominata "Forum Appii". Tale stazione viaria, di per sé già
importante per la sua strategica collocazione tra Roma e Napoli, divenne molto più importante ed
illustre per il fatto di aver ospitato l'incontro tra S. Pietro e S. Paolo nel 61 d.c.( Atti 28, 15 ) .
Secondo il brano biblico infatti S. Pietro venne incontro a S. Paolo apostolo mentre questi sostava
nel Foro di Appio ( ed a Tripontium - Tor tre ponti ) durante la marcia di avvicinamento a Roma : " I
fratelli di là, avendo avute notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre
Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a dio e prese coraggio".

Questo fatto, così rilevante per l'origine delle prime comunità cristiane del territorio pontino, diede
grande lustro a questo sito romano tanto che il seme del cristianesimo attecchì rapidamente e portò
alla costruzione di un importante luogo di culto. Tale edificio cristiano risulta ancora esistente nelle
carte del XVII secolo : secondo " Le carte del Lazio" raccolte dal Frutaz ( tav. 84 ) un "casarilium
Sanctae Mariae" era ubicato nei pressi di Foro Appio , che attorno a sé raggruppava una proprietà
abbastanza consistente. Tale casale logicamente prendeva il nome dall' omonima chiesa esistente nel
piccolo centro urbano ed era dotato di strutture abitative che andavano sempre più espandendosi.

E' con questi che egli entrò in città per costituirsi come prigioniero per tutta la durata del suo
processo. La sua predicazione non fu per questo affatto interrotta e non cessò di provocare continue
conversioni, tra cui si annoverano quelle dei suoi stessi carcerieri e di alcuni funzionari dello stesso
palazzo imperiale.

L'apostolo Paolo, arrivato al culmine della sua missione, pagò il suo impegno missionario con il
"naturale" martirio cruento.Sulla via Ostiense l'Apostolo delle genti pagane venne decapitato con
una sciabola. La sua testa mozzata, secondo cristiana tradizione, rotolando a terra, diede origine a
tre polle di acqua, che zampillando sempre più potentemente formarono tre piccole fontanelle.Tale
luogo, per questo motivo, venne subito denominato con l'attributo delle "Tre Fontane".
Il luogo di sepoltura di San Pietro, crocifisso a testa in giù (secondo il suo volere) sul colle vaticano,
è diventata la sede spirituale più famosa del mondo , avendo ospitato immediatamente la cattedra
papale del cristianesimo e quindi la relativa città del Vaticano.

Si ben conosce come egli fu decapitato, contemporaneamente alla morte di Pietro, sulla via
Ostiense, tra la Laurentina e l'Ardeatina: in questo sito si erge ai nostri giorni la chiese detta delle
Tre Fontane. In questo stesso tempo il capo degli apostoli veniva crocifisso ai piedi del monte
Vaticano. Dopo la decima pietra miliare, i bianchi sepolcri, i monumenti e le ville, sparse qua e là,
non hanno più una disposizione ben ordinata, cosa ben differente da quella che fin qui si osserva;
non è questa infatti la parte più importante della strada: noi l'abbiamo già percorsa prima.
Nondimeno si notano sempre delle case di piacere davanti le quali passano gruppi di passeggiatori e
di gente d'affari .

Il terreno comincia a mostrarsi come se dovesse quasi incorporarsi alla montagna e così formare un
' intima parte degli antichi e saldi basamenti dei monti laziali. Se si prova a guardarsi indietro si
ergono di nuovo i lontani bagliori e la bianca distesa dell'Urbe, sempre ricoperta da una bruma di
fumo, da polvere e da vapore che il flebile venticello non riesce a dissipare. La città appare
solidamente posta sui sette colli, estendendosi magnificamente in tutte le sue direzioni: essa ha l'aria
di essere saldamente posta e stabilizzata per sempre al centro di questa pianura che rappresenta il
mondo verso cui essa si estende, tanti sono i rigidi tentacoli, le numerose vie che si dipartono dalle
sue mura e si slanciano in tutte le direzioni. La dominazione, la potenza, l'impulso e la spinta in
avanti sono altrettante sensazioni provate in modo irresisti-bile alla vista di tale spettacolo. Ci si
ritrova di nuovo soggiogati, e si fa presto a riconoscere apertamente questa forza e questa vita, che
distribuiscono egualmente le loro irradiazioni a tutta la terra nel tempo e nello spazio.

** ** **

Noi comunque l'abbiamo già constatato, non è affatto unica questa stra-da che abbiamo percorso
fino alle pendici dei monti albani e che si prolunga a sud dell'Italia per condurre ai porti del mare
della Magna Grecia. A guisa di raggi di una bianca stella, che si irradiano su di un ver-de campo,
allo stesso modo altri percorsi partono da Roma e portano vitalità in tutto il Lazio e nella circostante
campagna .

Tutte le altri grandi strade che si dipartono da Roma hanno anche loro ospitato luoghi ameni legati
ad edifici pagani, religiosi o residenziali, che sono rimasti nelle nostre classiche memorie.

Tanti borghi, tanti paesi e tante superbe città moderne, si sono evoluti lungo le vie di comunicazione
che si dipartivano da Roma.(d )

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( d ) : Antiche Strade Romane (Tutte le vie dell'Impero)

I nomi delle strade romane rivelano spesso la loro funzione originaria:

la via "Salaria" era destinata ad una funzione commerciale cioè al trasporto del sale dalle saline
presso la foce del Tevere verso l'interno della penisola.

Sull'"Argentea", in Iberia, si svolgeva il traffico del prezioso metallo.Altre vie erano identificate,
invece, dall'area geografica in cui avevano la loro origine o il loro termine:così la via Ostiense da
Ostia, la via Ardeatina da Ardea, la Labicana da "Labicum", la Gabina da "Gabii", la Collatina da
"Collazia", la Tiburtina da "Tibur", la Nomentana da "Nomentum".

La via Iulia Augusta, poi Aurelia, che giungeva fino ad "Arelate" (Arles), portava dall'Italia in
Gallia e da qui proseguiva verso la Spagna, con il nome di Domitia Augusta fino a "Tarraco"
(Tarragona). Altre strade scendevano dai valichi del Monginevro e da quelli del Piccolo e Gran San
Bernardo. Le vie romane erano scandite dai "miliarii", che numeravano dall'inizio le miglia
percorse e recavano, oltre al numero, i nomi dei consoli o degli imperatori che avevano deciso la
costruzione della strada stessa . L'esecuzione delle grandi opere stradali fu sempre una questione di
prestigio e testimonianza dei livelli di autorità , potenza e civiltà che, quasi sempre, seguirono o
anticiparono gli avvenimenti storici principali e lo sviluppo dell'Italia e delle province romane , al
pari delle grandi

Tra la via Appia e il Tevere corre la via Ostiense che permette il viaggio verso il litorale. Attraverso
tale via si effettua il tra sporto delle mercan-terie destinate ad essere in breve tempo vendute e che
sono accompa-gnate dai commercianti stessi e dagli industriali che le sorve-gliano con costante
vigilanza. L'antica via Laurentina si diparte da quella Ostiense nei pressi del quarto miglio. In
questa zona la campagna altro non è che un vasto pianoro, che si distende, su una lunga fascia di
terra, dalle due rive del Tevere. Se si procede ancora per qualche miglio ci si imbatte su questa via
con un'elevazione di terreno, da dove la vista si estende assai bene sia sulla pianura che sul fiume là
dove esso sfocia nel mare.

Si vede il Tevere, padrone del paesaggio, che descrive i suoi ampi meandri, quindi il mar Tirreno ed
il suo lido di sabbia scura in cui gli schiumosi flutti giocherellano e si frangono continuamente,
formando per la lunghezza del banco di sabbia, una indefinita linea bianca. Si possono contare le
imbarcazioni ancorate che aspettano il turno per scaricare i cereali importati dall'Africa, e le
numerose galere ordinate in allineamento ben stretto.

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realizzazioni urbanistiche e monumentali.Come testimonia il gran numero di miliarii con inciso il


loro nome, furono tanti gli imperatori romani dediti alle realizzazioni di infrastrutture e di lavori
stradali: Claudio, tutti i Flavi (Vespasiano realizzò il traforo del Furlo e la via Domiziana), Traiano
(che rinnovò la via Appia, costruì la Traiana e le strade delle province d'Arabia e della Dacia con il
celeberrimo passaggio tagliato nella roccia presso le Porte di Ferro sul Danubio ), gli Antonini, i
Severi, Diocleziano, Costantino, Teodorico e Giustiniano.I ritrovamenti archeologici rivelano come
molte delle vie che avevano il loro baricentro in Roma fossero di origine antichissima .

La rete stradale principale dell'impero si estendeva per un'ampiezza che viene calcolata intorno ai
120.000 Km di tracciati viarii, sorvegliati e mantenuti, lungo i quali erano disponibili tutti i servizi
indispensabili per bestie, veicoli e viaggiatori.

A questo punto del fiume, sulla destra, si estende un'isola. E' il delta formato dalle acque del Tevere
che si dividono in due bracci per se pararsi e gettarsi nel mare. Essa viene chiamata l'isola di
Venere. Invitati da tale padrona di casa, gli dei, al gran completo, discendono talvolta dall'Olimpo,
avvolti dal più gran mistero.

Abbandonano ogni tipo di etichetta e di convenzione per dedicarsi per una notte intera alle orge ed
ai bagordi. Soltanto l'aurora, con la sua pallida alba, ha il potere di richiamarli alla realtà e di
restituirà loro la propria dignità. Essi allora fuggono precipitosamente e qui non tor-neranno fino a
quando un nuovo appuntamento, segretamente stabilito, non li radunerà per ricominciare la stessa
scappatella nella stessa gaudente isola: "l'isola sacra"!

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Le stazioni di posta (mansiones), situate alla distanza di un giorno di viaggio l'una dall'altra, erano
provviste di alberghi (Hospitia), magazzini e scuderie (stabula). Presso i luoghi intermedi di tappa
(mutationes), situati ogni cinque miglia ( ogni cinque mutationes doveva esserci poi una mansio ), si
poteva trovare il cambio dei cavalli ed il rifornimento dei viveri.Di fondamentale importanza
strategica, le strade lungo le frontiere dell'Europa Centrale erano oggetto di costante manutenzione.
L'antica rete stradale romana fu un "sistema" di importanza assoluta per l'esercizio strategico
dell'amministrazione dei territori conquistati e per l'affermazione di influenze politiche, economiche
e culturali. Ne sono testimonianza innumerevoli ritrovamenti archeologici: inoltre lo studio delle
fotografie aeree ha rappresentato uno strumento utilissimo per la individuazione dell'antico tracciato
delle vie di comunicazione.Tra le grandi strade dell'antica Italia ricordiamo la via Appia, da Appio
Claudio Cieco, costruita nel 312 a.C.; la via Flaminia, da Caio Flaminio, tra il 223 e il 219 a.C.; la
via Postumia, da S.Postumio, nel 148 a.C.; le due vie Pomilie, una al Nord nel 132 a.C. e l'altra al
sud, costruite dal console P. Pomilio. La via Appia-Traiana, la cui apertura abbreviava il percorso tra
Benevento e Brindisi passando per Canosa ed Egnazia, prese appunto il nome da Traiano e venne
ricordata dalla costruzione tra il 114 e il 117 di uno splendido arco celebrativo.

Dopo aver attraversato, su una lunga carreggiata, un bassofondo molto esteso, noi arriviamo alla
città di Ostia, fondata da Anco Marzio, nello stesso luogo in cui Enea mise per la prima volta piede
sulla terra del Lazio.Gli stabilimenti commerciali, i magazzini detti empori, le banchine di sbarco
sono disposte in semi - cerchio in faccia al fiume.

La popolazione conta ottantamila abitanti che frequentano le terme, il foro, ed i magnifici teatri di
questa loro città. Uno dei principali templi é quello dedicato al dio Mitra, la cui venerazione fu
importata dalla Persia. Mitra è la personificazione divi della luce e della solennità del giorno, della
limpidezza dell'etere e della feconda calura, fuochi di uno stesso sole: lo si invoca all'alba ed al
tramonto del sole. E' un dio buono, che combatte con la sua luce inalterabile gli spiriti maligni che
si nascondono in mezzo alle tenebre. La conoscenza delle sue virtù e del suo culto fu diffusa
principalmente dai pirati orienta li che Pompeo aveva fatto prigionieri. La sua impalpabile figura è
rappresentata da un giovanotto che conduce un torello nel tempio e che avvicina già la lama al la
gola del-la vittima per poterla sacrificare. A sud di Ostia, che si è ingrandita con-tinuamente, non
molto lontano dal mare, si estende già da epoca remota il famoso bosco di Laurento, terra classica
che noi cono sciamo già, dove vegeta l'alloro sacro e dove visse il re Latino. La vista di tutto questo
paesaggio è di una amenità che dilata l'animo. Questo circondario colpì tanto Plinio il giovane che
questi vi si stabilì in una bella villa. Il luogo è ancora conosciuto e porta ancora il nome di
"Laurentinum Plinii". In linea destra, verso i monti albani, la via latina si snoda avendo a termine la
cima del monte Cavo, che accoglie il grandioso tempio di Giove Laziale. E' passato molto tempo
dalla sua fondazione: tuttavia esso è ancor oggi circondato da monumenti patrizi e da ricchi
sarcofagi funerari. Ci sono peraltro altre vie che , senza allontanarsi dallo stesso luogo, conducono
ai luoghi inaccessibili delle montagne, a Tuscolo per esempio, e alle numerose ville e giardini di
queste incantevoli colline. Di là si scorge la pianura come un mare vivente la cui schiuma rappresa
non sarebbe altro che la lontana me-tropoli.

La via Latina inizia dalla porta Capena così come la via Appia: essa si separa ben presto dall'altra
per prendere la sua definitiva direzione dopo aver circonvallato le mura della città che a questo
punto inizia ad espan-dersi. Il suo nome di Latina è la migliore prova della sua antichità: essa
attraversava il cuore del territorio propriamente latino per condurvi, con il tragitto più corto, i
Romani stessi che in questo modo potevano facilmente sorvegliare il territorio. Si incontrano ad
ogni passo dei mo-numenti funerari quasi intatti, risalenti all ' epoca di Nerone. Sembra che allora
andasse di moda costruire qui tali edifici che si notano ancora oggi non tanto per il tracciato del loro
stile ma per la finezza e le rifiniture degli ornamenti interni, capolavori in stucco che la posterità
potrà ammirare. La strada incrocia ben presto l'acquedotto Claudio.

Al quarto miglio, sopra di un terrapieno che domina l'intera pianura, si erge il tempio della "Fortuna
Muliebre". Sotto il paganesimo si potevano elaborare le più svariate concezioni o pensieri filosofici,
nonché pensare una vita e dei corpi atti a stabilire un nuovo culto.

Questo tempio consacra il ricordo del luogo in cui Coriolano lasciò cadere il suo sdegno ed il suo
rancore davanti alle suppliche di sua madre. Abbiamo già menzionato Tuscolo: è il paese preferito
per la vil-leggiatura, il riposo. Tale città fu fondata, secondo la leggenda, da Tele-gono, figlio di
Ulisse e di Circe.

Maestosa ed ugualmente ridente Tuscolo si innalza su delle colline che formano i contorni di un
grande cratere spento e che noi vediamo conformarsi a nord di monte Cavo. La parte alta della città,
secondo l'uso greco, forma l'acropoli .

La città si estende tutta intorno, disposta su vari piani. Ecco la famosa villa di Cicerone. La celebrità
del grande oratore nobilita tutto ciò che lo colpisce: è così che Tuscolo parteciperà alla sua fama .

Si pensa che la città, di origine molto antica, fu dapprima colonizzata dai prischi latini del la bassa
regione; dopo aver subito la loro influenza essa si costituirà in repubblica ed entrerà, sotto questo
aspetto costituzionale, nella confederazione di strutta dai Romani nella batta-glia del lago Regillo,
che si trovava nei dintorni. I Tuscolani conserva-rono pertanto una certa autonomia, godendo
interamente delle qualità e delle prerogative dei cittadini romani. Questo luogo parve a tutti così
bello, così gradevole e così fresco tanto da essere sempre abitato da persone ricche : essi vi
conducevano una vita agiata e vi costruirono dimore lussuose quarantatré delle quali sono
menzionate , con i loro nomi propri, da quei scrittori i cui racconti sono giunti fino a noi .

Il teatro è un superbo edificio: gli spettatori posso no , senza per questo spostarsi, osservare durante
le recite il magnifico panorama dei campi albani, di tutta la pianura e della stessa città di Roma. Ma
sono i giar-dini con le loro svariate sculture, sono i bei portici d'accesso alla città, insomma è la
natura ricoperta dal manto dell'arte che dà un interesse molto speciale e dona una fama universale a
Tuscolo. E' per questo motivo che tanta gente viene a visitarla e ad abitare in essa, soprattutto nella
bella stagione dei fiori e dei frutti .
Mecenate, l'aristocratico protettore dei sapienti, de gli artisti e dei let-terati, grande in politica, in
diplomazia e soprattutto per la sua fortuna, possedeva ugualmente una villa nelle vicinanze del
paese. Attratto fortemente dalle bellezze e dalle lusinghe di queste colline egli fece do-no al poeta
Orazio di una seconda proprietà di campagna, posta nelle vicinanze dei monti della Sabina, ad una
certa distanza dal gruppo montuoso laziale in cui presentemente ci troviamo. Ci si arriva seguendo
la via Valeria, percorso che mette in comunicazione Roma con il territorio delle Marche. Se si segue
il corso dell'Aniene, costeggiando al te montagne, quasi inaccessibili, le cui cime sono presidiate da
borghi fortificati, secondo le antiche usanze, noi vediamo apparire o poca distanza la città di Varia.
Molto vicino ad essa e già in rovina , noi troviamo un tempio che i Sabini dedicarono un tempo alla
Vittoria e la denominarono Vacuna. Vespasiano l'ha fatto restaurare ridonando alla dea il suo nome
latino più conosciuto. Noi conosciamo tutti questi det-tagli grazie all'iscrizione scoperta sopra di
una bianca lastra di marmo. La vallata e le colline sono dolci, gradevoli e fertili, ma i piccoli
villaggi, ognuno popolato da persone sane, attive e vigorose, si presentano poco pulite e
generalmente trascurate: si incontrano ad ogni istante dei maiali che circolano in libertà da padroni
della strada :

" Essi si arrotolano e si avvolgono nel fango e ciò, per essi, è un modo di riposarsi, come per gli
uomini è abituale farsi un bagno ".

E' lo stesso Orazio che ci racconta questo: in qualità di vicino egli deve conoscere molto bene gli
usi ed i costumi di quel popolo come di tutti gli animali della contrada. Vicinissimo ad una fontana
d'acqua pura e cristallina, tra lussureggianti piante di noci, di querce e di altri alberi di grande fusto,
al riparo dal chiasso e dal fango del villaggio, si trova la dimora di un poeta, diritta su di un lato
pianoro. Essa ha l'aspetto di una fortezza fatta di fresco. Un torrente scorre dentro un profondo letto
ai piedi della collina: benché faccia un grande rumore esso invita ugual-mente a riposarsi in
tranquillità ed a dedicarsi ad una ricerca poetica ed artistica. Questo rustico paesaggio è descritto da
Orazio nel mezzo della lettera al suo amico Quinzio:

" Ne perconteris, fundus meus, optime Quinti, Arvo pascat he-rum, an baccis opulentet olivae,
Pomisne, an pratis, an aiuncta vitibus ulmo: Scribetur tibi forma loquaciter et situ agri. Continui
montes, nisi dissocientur opaca Valle: sed ut veniens dextrum latus adspiciat sol, Loevum
discendens curru fugiente vaporet "

( Orazio, Lettera XVI , ppgg. 1-6 ).

" Affinchè non mi domandi, o eccelso Quinzio, se il domani nutre il capo dei suoi mietitori, o se lo
arricchisce con le bacche di ulivo, con i suoi frutti, con i suoi prati o con l'olmo tappeto delle vigne,
ti descrive-rò ora dettagliatamente il piano ed il sito del domani.

Esso è posto su dei colli che si inseguono incorniciando una valle piena di ombra: a destra il sole
nascente emana il chiarore dei suoi primi raggi; a sinistra esso lo inonda al tramonto dei suoi
morenti chiarori ".

Il podere di campagna non è soltanto bello: esso è dunque vasto e molto fertile. Mostrando
riconoscenza verso il suo protettore Mecenate il poeta lascia che la gratitudine si esprima quando
egli misura la sua proprietà che si estende dalle cime dei monti fino al bassofondo della valle dove
scorre il rumoreggiante ruscello. Questi diversi scaglionamenti causano differenti esposizioni e
permettono varie coltivazioni: queste ultime sono affidate alla cura di cinque mezzadri. La stessa
villa ed i suoi annessi e connessi occupano il centro della tenuta: la conduzione del terreno e
riservata al lo stesso poeta; egli impiega per questo otto schiavi per la fienagione ed i lavori. Sulle
alture, ultimi contrafforti delle montagne sabine, brillano ad intermittenza, in mezzo a giardini fitti
di alberi, le fantastiche ville di Tibur; esse sembrano cullate, sotto l'influsso della calura estiva, dal
dolce murmure dell'Aniene. Le acque del fiume si frangono e precipitano in gaie e brulicanti
cascatelle che si insinuano tra le fessure del terreno e le fenditure della roccia.

La romana "Tibur" non avrà la stessa sorte di Tuscolo, attualmente in disuso ed abbandonato,
dimenticato, scomparso sotto le macerie nonché sepolto sotto rovi ed erbacce. Essa vivrà conservata
nello stesso luogo privilegiato; soltanto il suo nome sarà modificato: si chiamerà infatti Tivoli.
L'aspra e deliziosa città di Tivoli si vantava di possedere origine risalente all'antichità classica: essa
si diceva essere stata fondata dai Siculi, molti secoli prima che Roma iniziasse la sua vita
immortale. I poeti, che rappresentano le guide ispirate e misteriose della scienza preistorica del
Lazio, fissarono questa antichità in un lasso di tempo di cinquecento anni: questo riconobbero i
poeti più famosi: Virgilio, Orazio, Ovidio. Il nome deriva da Tiburto, un arcadiano ivi giunto con
Evandro, il fondatore del monte Palatino: la città divenne ben presto forte, attiva e potente, senza
mai essere inferiore alle altre, che, come sorelle, si ergevano sulle vicine montagnose alture:

" Quinque adeo magnae, positis incudibus, urbes tela novant, Atina potens, Tiburque superbum,
Ardea, Crustumerique, et turrigerae Antemnae " .

(Virgilio, Eneide, Libro VII )

" Cinque grandi città, tutt' insieme, fanno risuonare l'incudine e forgiano le armi: la potente Atina, la
superba Tivoli, Ardea, Crustumerio ed Antemne, circondata di torri."

Dopo varie peripezie Tivoli dovette fronteggiare, negli anni, l'invadente potenza di Roma che
assorbiva poco a poco tutti i municipi latini; gli abitanti infine dovettero deporre le armi negli ultimi
anni della repub-blica e del primo impero di Roma; la città cominciò a popolarsi di ville
appartenenti a ricche famiglie romane, attirate dalle amene dolcezze di questo soggiorno.
Compiutasi questa pacifica invasione , alla futura Ti voli non poté godere più che dei soli diritti
d'asilo e di immunità, con i quali il Senato di Roma troncava le ultime illusioni di libertà: era
questa, d'altronde, una saggia ed abile mossa politica per conquistare i cuori delle popolazioni che
essi annettevano all'Urbe.

Tivoli si trova edificata su un dolce declivio, a più di cinquecento metri sopra il livello del mare. Al
centro, l'acropoli, o "arce", indica chiaramente l'origine e l'influenza greca della fondazione della
città; la configurazio-ne del terreno poteva da sola rendere superflua l'erezione di questa
tradizionale costruzione. Il terreno, infatti, qui è molto scosceso: la citta-della, che racchiude i
templi della Sibilla e di Vesta, non comunica con il resto della città se non attraverso un ardito
ponte. Il tempio di Vesta, fieramente posto su un costone di una prominente roccia, domina le acque
dell'Aniene; è questa la parte più pittoresca dell' acropoli : la sua forma circolare classica, con le sue
diciotto colonne corinzie, si addice in modo mirabile a questo luogo, che pare essere stato sospeso a
bella posta, per aggiungere bellezza e fantasia alla amorevole fondazione.

** ** **
Adriano, l'imperatore turista - viaggiatore, intraprende la costruzione di grandiosi edifici ai piedi
della collina nei pressi di Tivoli. Il sito geografico è stato scelto accuratamente. Si è sul punto di
finire una meravigliosa dimora nel mezzo di un parco al cui confronto non si è mai visto di più
bello. Egli intende realizzare una sorta di compendio artistico di tutte le regioni del mondo che ha
avuto la fortuna di percorrere e di governare: egli vuole insomma ritemprare il suo spirito spossato a
seguito delle spedizioni contro i Sarmati e gli Sciiti e dopo aver compiuto le severe re pressioni
ordinate contro i cospiratori interni dell'impero: egli intende insomma ammantare di classica
bellezza il pro-prio nuovo ideale di pace, di armonia, di concordia e di giustizia.

Non è forse questo l'oblio che egli sta cercando ? Speriamo che la sedu-zione delle belle fontane
artificiali, l'ombra ed il profumo delle piante, la contemplazione delle fantastiche balaustre di onice,
che solo in parte nascondono la bellezza del panorama turchino, tutte queste meraviglie possano ora
cancellare il ricordo del terribile eccidio da poco compiuto verso il popolo giudeo !
Cinquecentottantamila di questi disgraziati , ciechi dinanzi ai pro feti della propria stirpe, sono stati
passati a fil di spada durante una rivolta scoppiata in occasione dell'erezione, ordina-ta da Roma, di
un tempio dedicato a Giove Capitolino. Questo tempio doveva essere edificato su un immenso
spiazzo, peraltro in sostituzione del tempio di Salomone .

Un castello nel cuore di Roma : dall'impero al papato

Un famoso monumento classico, fatto costruire dall'imperatore Adriano, si distinse subito, dentro le
mura di Roma, per la sua mole e per la sua austerità. Da sede imperiale ( chiamato Mole Adriana )
passò quindi ad essere una fortezza papale , con l'appellativo di Castel Sant'Angelo ( dalla
famosisima statua dell'Arcangelo San Michele che protegge il complesso architettonico ).

Adriano possiede il genio creativo ed inventivo e dota Roma di scuole e di biblioteche. Egli fa
costruire il massiccio mausoleo ( la mole Adriana ) che, spogliato dei propri marmi ed ornamenti,
diventerà il famoso Castel Sant'Angelo. Quanto a Gerusalemme, che egli a colpito a morte nel suo
animo e nelle sue membra, moralmente e materialmente, Adriano vuole invece ricostruir la per
farne una colonia e denominarla con il nome di Elia Capitolina. Egli fa ricostruire le fondamenta del
la città di Atene e getta le basi della futura Adrianopoli. La villa che Adriano possiede presso Tivoli
non è soltanto un compendio ed una riproduzione di opere delle regioni a lui sottomesse: è infatti
anche un " Emporio" meraviglioso di bellezze e di ornamenti che egli ha messo insieme con gusto
ed un tatto squisito dopo i la boriosi traslochi compiuti attraverso le varie provincie dell'impero,
dalla Bretagna fino all'Egitto. Ecco dunque il sor-gere di una architettura marmorea, grazie ad
ingegnose ed artistiche imitazioni, il Liceo, l'Accademia, il Pritaneo di Atene ed i canopi dell'Egitto.
Architetti di prim'ordine si sono offerti per ultimare la co-struzione del palazzo, delle terme, dei
teatri e del circo: inoltre alcuni pittori, scelti tra i più famosi dell'impero, si sforzano di disegnare
curiose concezioni della vita futura che rappresentano le nozioni astratte, tanto ben accette in questo
periodo storico. La palestra si trova molto vicino al teatro greco e presso quello latino che è
naturalmente il più vasto.

Da lì si può passare al Ninfeo dove mille gettiti di acqua cristallina aspergono di goccioline
luminose i mosaici della nicchia centrale, lasciando nel contempo delle grosse perle tremolanti e
trasparenti sulle piante dei gigli , i nenufari , che riposano quieti sulla superficie dell'acqua della
vasca. Per di più alcune statue e fontane, urne ed anfore si trovano simmetricamente disposte in tutti
i liberi intervalli; un viale di busti, ordinati lungo un cornicione di fiori e di alberelli, conduce all'in-
gresso della biblioteca greca e di quella latina; i "triclinii" scoperti si trovano lì accanto, nel posto in
cui la visuale può svariare più comoda-mente verso tutto il paese. Nel mezzo di tutto quest'insieme
artistico si distacca, come una costruzione a se stante, il palazzo imperiale, costruito tutto in marmo
ed in stile dorico. Quest'edificio non fa affatto ombra alle altre costruzioni e non nasconde la visuale
sulla campagna perché, tutto è stato concepito ed eseguito in ampie e giuste proporzioni. Le volte
sono adorne di mosaici. Sul lato meridionale il palazzo è fian-cheggiato da giardini
scrupolosamente curati, che invitano ad inol-trarsi verso una grande piscina preceduta da un cortile
quadrato, magnifico portico di cinquantotto colon ne di marmo. Il voler descrivere tutti i dettagli
della villa di Adriano sarebbe quasi fare la descrizione di un'intera città.Noi ci proveremo in un'altra
occasione: entreremo allora nello stesso peristilio, in granito orienta le, che si erge nei pressi dello
stadio dove si svolgono i giochi atletici. Ora però è giunto il tempo di visitare altri luoghi e città di
questa meravigliosa collina, eterno orgoglio della regione sabina e degno scenario di memorabili
avvenimenti .

** ** **

Ad est di Tivoli, nella pianura e presso quasi le montagne, si erge, nei pressi dell'Aniene, la città di
Collazio, patria di Tarquinio Collatino, padre di Sesto Tarquinio detto "Prisco", uno dei sette re di
Roma. Durante l'assedio di Ardea i principi della famiglia reale vollero sapere come si stessero
comportando le loro mogli in loro assenza: poiché essi avevano a lungo discusso sui meriti delle
loro rispettive spose. Essi montano a cavallo, arrivano di notte a Roma e le ritrovano mentre si
trastullano gioiosamente. La sola Lucrezia, in tutta Collazio, viene trovata intenta a filare la lana
con le proprie domestiche. Era costei la sposa di Tarquinio Collatino. La sua bellezza impressionò
Sesto. Alcuni giorni dopo costui tornò e si introdusse in casa di Lucrezia domandandole ospitalità.
La notte seguente, quando tutti gli abitanti la casa erano nel sonno, egli penetrò nell'appartamento
della donna e la minacciò sia di ucciderla, se gli avesse posto resistenza, sia di spandere la voce che
egli l'aveva uccisa perché scoperta nel momento di tradire suo marito. Lucrezia cedette: ma la
disgraziata, preferendo la morte, il giorno se-guente fece venire suo padre e suo marito per
raccontare loro l'oltraggio subito: " Oh! Che non ci siano mai più delle mogli che preferiscano
sopravvivere al loro disonore, sperando che seguano in ciò l'esempio di Lucrezia !".Con queste
parole costei sguaina un pugnale nascosto sotto il suo abito e se lo conficca nel petto.
Immediatamente Giunio Bruto, sfilando l'arma tutta insanguinata, incita il popolo alla rivolta e così
si compie la caduta dei Tarquini : triste sventura che causerà la caduta del regno di Roma !
Proseguendo verso est ci si imbatte nella città di Ga bi, importante colonia fondata da Albalonga;
questo paese accoglie in sé un celebre tempio consacrato a Giunone . Tornando sul territorio
caratterizzato da depressioni circolari formate da antichi vulcani, noi possiamo scorgere Scattia,
Bola ed infine Preneste : quest'ultima città sussisterà nei secoli sotto il musicale nome di Palestrina.
Questa è la più altera di tutte queste città e si erge sui fianchi della montagna: è fortificata e resa
inaccessibile tanto da ripari naturali che da fortificazioni militari che la circondano. Ricca di ville,
di monumenti e di giardini, essa è molto ricercata da coloro che ricercano un soggiorno pittoresco
ed un luogo ameno lungi dai rumori della Roma affaristica.

Il suo oracolo della Fortuna è assai conosciuto: esso è molto influente e possiede molte ricchezze.

In queste parti esso riveste lo stesso ruolo profetico quello di Delfi in Grecia. Ci si rivolge alla dea
per mezzo di bastoncelli di legno o di metallo che sembrano possedere misteriosi poteri. Per mezzo
di questo magico procedimento gli aruspici interpretano le predizioni. Il tempio, di aspetto
grandioso e molto imponente, occupa la cima di una scoscesa collina, sperone avanzato dei monti
Appenninici; la sua monumentale base è posta alla sommità di una doppia rampa di scale che
permet-tono di salire per cento cinquanta metri d'altezza. L'abbellimento di questo luogo sacro è
completato da vecchi cipressi piantati tra i massi di architettura . Si scorge in lontananza Albalonga.
Questa celebre metropoli dei Latini, che pacificamente si può definire come la madre di Roma,
successe a Laurento, la capitale voluta dall'antico re Latino. Essa era stata fondata da Ascanio, il
figlio di Enea, che la collocò tra il lago e le montagne. Il suo appellativo, "La Lunga", le deriva
dalla sua forma oblunga che la configurazione del terreno aveva imposto ai costruttori. L'esistenza
di Alba è durata fino al tempo di Tullio Ostilio che la distrusse per porre fine, una buona volta, alla
tradizionale rivalità che esisteva tra tale città e Roma. Tutti i suoi abitanti furono condotti in Roma e
venne loro fissata sul monte Celio la loro esclusiva residenza: essi potevano , da queste altezze,
contemplare le rovine del loro paese che si scorgevano all'orizzonte.

Discendiamo nella pianura affatto lontana da questo punto di vista; prendiamo la via Ostiense, che
noi abbiamo già percorsa, ed entriamo in Ardea, antica capita le dei Rutuli: essa è situata nel
territorio posto tra i Latini ed i Volsci; il fiume Numico delimita la frontiera dei territori occupati dai
cittadini di Lavinio. Si può constatare che i gruppi politici, cui diamo oggi il nome di nazioni, erano
allora di così poca importanza sì da confondersi in un angusto territorio i cui limiti non erano
sempre ben determinati. In origine gli Ardeatini non erano affatto dei veri popoli latini ma furono
subito annoverati ed incorporati tra quelli che formaro-no la lega disciolta e battuta da Roma nei
pressi del lago Regillo: i vincitori, più per scelta politica che per sentimento di umanità, usarono
verso costoro molta magnanimità. Da allora gli Ardeatini restarono in tutto e per sempre molto uniti
ai destini di Roma. Lavinia e Laurento estendevano i loro territori sulla stessa linea, al nord di
Ardea. Al tempo dell'impero rimane ben poco delle cose di ciò che Enea aveva trovato come centro
e metropoli del Lazio. Laurento, benché sempre degna del suo nome, a causa dei classici boschi di
alloro che la circondano, non possiede più niente di rimarchevole, durante quest'epoca, eccetto
alcune ville isolate: i malati di Roma vengono talvolta a chiedere la salute alla sua aria, purificata
dalla fragranza dei boschi solitari e dagli effluvi del vicino mare. Abbiamo già visto che le origini di
Laurento si confondono con la primitiva storia del Lazio. Essa fu in effetti fondata in un'età ben
anteriore alla guerra di Troia da un principe chiamato Pico: costui, in compagnia di montanari, era
sceso dalle cime e dalle alte vallate degli Appennini per scacciare i Siculi, un popolo che si era già
stabilito in questo territorio e che facilmente lo aveva occupato costeggiando la costa tirrenica e
sbarcando nel luogo. Il re Latino morì dopo aver dato ac-coglienza ad Enea. E' in questo momento
che venne fondata la città di Lavinio, seconda metropoli del Lazio. Essa venne soppiantata, dopo la
morte dell'eroe troiano, da Albalonga di cui noi abbiamo visto le rovine presso il lago che, all'epoca
della formazione della contrada, fu il più grande dei crateri di questo territorio. In direzione del
mare, verso sud, si trova il porto e la città di Anzio che Dionigi denomina " splendi-dissima " , città
veramente splendente . E' il centro della regione dei Volsci . La sua potenza consiste nel suo
commercio e nella sua attività marinaresca. La città è circondata da boschi di pino e da grandi e
pittoreschi anfratti rocciosi: nelle profondità del mar Tirreno si pesca, al largo della sua costa, il più
bel corallo rosso. Implacabile nemica di Roma, Anzio venne un giorno sottomessa definitivamente
da Camillo; i rottami dei rostri delle sue fiere imbarcazioni furono trasportati a Roma: I rostri
vennero per sempre fissati ad ornamento delle colonne trionfali e della tribuna oratoria del foro al la
quale essi dettero i loro nome.

Coriolano, vittima delle discordie insorte tra i patrizi ed i plebei, fu esiliato dalla sua patria, ed
accecato dal rancore che sconvolgeva il suo animo, si mise alla testa dei Volsci. Noi abbiamo visto
il luogo in cui sua madre, ispirata dal suo patriottismo e dal suo istinto ed amore materno, seppe
arrestare la marcia minacciosa di questi rivoltosi figli. Anzio ha il triste onore, sembra, d'essere stata
la culla di Nerone.

E' a questo imperatore che costei deve la costruzione del suo sontuoso porto, dei suoi templi
magnifici e delle sue ricche ville imperiali.

Se si desidera uscire da Roma dalla parte Nord si deve prendere la via Flaminia che, all'inizio,
attraversa, scorrendo diritta, delle verdi praterie e quindi valica gli Appennini e si allunga fino al
mare Adriatico. Come tutte le altre vie essa è costeggiata da monumenti sepolcrali per molti
chilometri di distanza dalla città. Essa corre lungo il Tevere fin dove se ne diparte seguendo i
capricci del corso del fiume; costeggia poi le colli-ne, attraversa delle valli poco profonde ed infine,
dopo aver lasciato dietro di sé molte borgate di scarsa importanza, arriva nella vicina contrada di
Veio, la potente rivale di Roma .

Dopo la guerra fatale agli Etruschi, in cui il grande Camillo si impadro-nì di questa forte e terribile
città, quest'ultima fu ridotta ad un tale stato di abbandono che più tardi dovette essere colonizzata da
parte delle città sorelle: essa infatti formava un punto strategico che bisognava assolutamente
salvaguardare. Ciò non era però la sola ragione della sua importanza . Il suo nome personificava la
grande influenza storica ed etnografica dell' antica Etruria. Furono gli Etruschi, che vennero proba-
bilmente dai dintorni di Veio, che occuparono il Lazio; essi si erano impossessati di quasi tutta la
regione dell'Umbria ; le tracce che essi vi hanno lasciato si possono rinvenire oggi nelle tombe
funebri e forniscono dei documenti sulla loro dominazione. Si possono riconoscere facilmente le
costruzioni e le colonie che essi fondarono ad Ardea ed a Palestrina: in tali siti infatti si ritrovano
numerose vestigia materiali. Il loro dominio si estese peraltro sul mare e la loro potenza si
manifestò in ogni sorta di impresa, tanto civile che militare. Il loro talento s'affermò in molte opere
di pubblica utilità. Essi furono i precursori dei Romani nel campo della religione, nell'astronomia e
nella musica ed impartirono ai Romani le prime nozioni delle belle arti , so-prattutto quelle relative
all'arte della ceramica. Gli Etruschi furono dei pittori ed architetti molto perfezio-nisti per la loro
epoca. Essi sapevano non soltanto scolpire il marmo ma anche fondere i metalli e lavorare le pietre
preziose.

** ** **

Prima di passare ad altre considerazioni non possiamo omettere di menzionare le altre vie principali
che par tono da Roma.

Citiamo anzitutto, nel sud, la via "Campana", quasi parallela all'Appia: essa si snoda, come indica il
suo nome, fino alle fertili pianure della Campania .

La via "Aurelia" si diparte ad ovest di Roma per inclinarsi verso il mare che bagna una parte
dell'Etruria: essa costeggia il litorale ed è stata ideata per stabilire delle vie di accesso e di
comunicazione con i porti della montagnosa Liguria. Tra la via Flaminia e quella Aurelia vediamo
dipanarsi il bianco nastro selciato della via Cassia che penetra nel cuore dell'Etruria. Le pianure
orientali e le tornite cime meridionali sono separate dalla via Tiburtina nel punto in cui ci siamo
avviati verso Tivo-li ed alla via Valeria che ci ha portati alla ricerca della villa del poeta Orazio.

La tecnica di costruzione di questi percorsi stradali è sempre la stessa : la carreggiata in silice e le


grosse lastre di pietra lavica servono al passaggio di rapidi carri che lasciano Roma per portare le
loro influenze, le loro idee, i loro ordini amministrativi, le loro disposizioni militari, insomma le
manifestazioni di volontà dei cesari dell'augusta Roma, signora del mondo.

Lo sviluppo degli acquedotti


Oltre alle vie di comunicazioni , all'ingresso di Roma, si notano ancora le famosissime vestigia delle
opere di canalizzazione dell'acqua potabile.Sono i famosissimi resti degli acquedotti costruiti per
portare acqua potabile a tutto il territorio romano. Essi, resistendo all'usura dei secoli, sono
testimonianze della grandezza di Roma, al pari delle opere classiche più superbe e più ammirate.

Contempliamo ora le strane forme architettoniche degli acquedotti che conducono le acque che
dissetano la città ed i suoi dintorni. Essi attraversano la campagna con potente andatura per
interrarsi e perdersi nel centro stesso dell'agglomerato romano. Questi canali sospesi portano
quell'acqua sufficiente per soddisfare la sete e per i bagni igienici di più di un milione di persone.
Sono fresche e salubri queste acque che sono state incanalate dalle alte cime degli Appennini: esse
attraversano dapprima i monti all'interno di profondi fossati e quindi assumono un corso regolare
attraverso le valli per mezzo di quelle alte, grandiose ed interminabili costruzioni ad arcate che
sostengono un canale. Questo è ancora coperto di uno spesso strato di mura tura per impedire al sole
di riscaldare l'acqua che scorre rapida-mente verso Roma. La città, dalla sua origine, aveva sempre
creduto di avere una copiosa provvigione di acqua potabile, grazie ai suoi pozzi ed ai suoi corsi
fluviali che la irrora no. Ma quando il numero degli abitanti aumentò considerevolmente. ci si
accorse anzitutto che quelle acque erano malsane ed inoltre l'abitudine delle terme e di quei bagni
pubblici così lussuosi fecero crescere le esigenze della popolazione. E' a questo punto che Appio
Claudio, allora censore, intraprese la costru-zione di un primo acquedotto: fu un'opera relativamente
timida ed insufficiente. I ricchi bottini della guerra contro Pirro procurarono delle risorse sufficienti
per intraprendere nuovi lavori di già monumentale carattere: si costruì l'acquedotto del vecchio
corso dell'Aniene che conduceva in città quell'acqua incanalata nelle vette circostanti Tivoli, a venti
miglia da Roma. Ma la città si sviluppava di giorno in giorno, i bisogni cittadini divennero più
impellenti. Quinto Marcio fece salire fino allo spiazzo soprelevato del Campidoglio quel corso
d'acqua che venne a prendere il suo nome (Acqua Marcia): il condotto misura novantuno chilometri
di lunghezza, più di dieci dei quali corrono so-pra delle arcate molto elevate, mentre la provvigione
idrica fornita è valutata sui trecento mila metri cubi giornalieri. Fu così che tutte le contrade della
metropoli furono soddisfatte d'acqua, tanto più che ben cento fontane vennero messe a disposizione
del popolo. In seguito si installarono altre canalizzazioni, poiché già al tempo di Augusto, la città,
insaziabile consumatrice di acqua, ne consumava circa un milione di metri cubi al giorno. La più
ragguardevole di tutte queste opere idrauliche fu quella di Claudio: questo acquedotto in effetti
comprende una sfilza di quindici chilometri di archi sopraelevati la cui altezza supera i trenta metri.
E' uno sviluppo architettonico colossale che conferisce un'impronta tutta speciale alla Campagna
romana per il suo monumentale aspetto.

Gli archi sono composti di pietra angolare estrattadalle cavi della valle ; le architravi e la chiavi di
volta sono tagliate dalle pietre più dure tra-sportate dai monti Albani. Tutto questo sistema di
acquedotti assicura, alla fine del periodo imperia le, una portata di un milione e sette-centomila
metri cubi giornalieri di acqua. Il maestoso Tevere, immu-tabile voce maestra della campagna, offre
le sue acque per il transito di numerose imbarcazioni a remi o a vela: ma a monte della metropoli
esso cessa di essere navigabile.Sulle sue rive si è provveduto a costruire delle ville adorne di
giardini i padroni gareggiano con i confinanti per impreziosirli con un considerevole numero di
elementi decorati vi e di ingegni ricreativi: non sono altro che dei par chi, delle peschiere o delle
cascate zampillanti.

Alcune statue, tempietti di classico gusto, padiglioni ed una ricca varietà di vasellame si notano qua
e là, posti alla rinfusa .

Le piante di papiro ed altre piante acquatiche abbarbicate in acqua sono circondate e soffocate, a
forma di anfiteatro, da altre piante tutte fiorite e da arbusti di preziose e rare essenze importate da
altri continenti. Le vivide ginestre splendenti di giallo ed il rosato alloro d'Africa, albero peraltro
velenoso, distendendo i suoi fusti, che terminano con ciuffi di fiori purpurei tali da far impallidire le
rose, incorniciano tutto l'insieme architettonico.I riflessi di questi vividi co-lori si rispecchiano così
gagliardamente sulle placide acque del fiume tanto da riprodurre l'immagine dei fiori con la stessa
fedeltà con cui l'eco risponde alla voce che lo genera.Ma la coltivazione e l'agricoltura propriamente
detta stanno cadendo in un periodo di decadenza.

Le antiche fattorie dei Quiriti, fertili proprietà terriere di appena due ettari, sono state assorbite dai
grandi latifondi consolari o rimpiazzate da sontuosi parchi e da vaste e ben recintate distese di prati.

L'antica parsimonia e la rustica frugalità dell'era repubblicana sono state soppiantate dal lusso e
dalla sterile pompa del nuovo regime imperiale: l'economia agricola va in rovina a causa delle
dannose abitudini sociali e di nuove impellenti esigenze fiscali.

C'era un vecchio detto che aveva acquisito valore di legge;

i Romani, si diceva, dovevano essere forti per la pace ed il lavoro :

" Romanus sedendo vincit "

(Il Popolo Romano vince restandosene tranquillamente seduto).

Non accadrà più nulla di simile in futuro! Tutti questi mali erano stati preannunciati dal grande
profeta del paganesimo, il poeta delle Georgiche. E cinquanta anni dopo Virgilio, lo stesso
Columella poteva scrivere un insieme di considerazioni elaborate in lode di questo poeta:
"Verissimo vero vati velut oraculo credimus"

( crediamo a questo tal veridico poeta come se fosse un oracolo).

Pare che Catone stesso avesse questa stessa preoccupazione: egli presentiva quest'inizio della
decadenza sociale proprio quando cercava di riabilitare il nobile valore del lavoro agricolo . Non
diceva forse tal

poeta: " E' dalla razza degli agricoltori che escono fuori i più forti e valorosi militari, essendo essi
gli uomini più economi e privi di invidia" ?

Un altro benemerito cittadino, il più famoso di Roma, cioè Cicerone, affermava da parte sua che: "
la vita rustica e campagnola è la maestra della parsimonia, della diligenza e della giustizia; non
esiste essere migliore o più fecondo, alcuno più amabile o più degno del cittadino libero così come
lo è l'agricoltore ".

Tuttavia il nostro vasto panorama , che racchiude l'orizzonte del Lazio e della Campagna ( e ), non
si trova ancora abbastanza afflitto da queste cattive condizioni di vita: il suo aspetto sempre
gradevole farebbe piuttosto pensare al contrario. Le zone agricole di varia coltivazione, che noi
abbiamo incontrato e percorso all'imbocco della via Latina, si sono infatti moltiplicate di numero ,
favorendo l'accrescimento dei consumi ed il rialzo dei prezzi di mercato. I vigneti occupano sempre
i terreni più favorevoli, quelli cioè situati nelle alture tondeggianti delle colline. I proprietari ed i
coltivatori si fanno con-correnza : essi non si ritengo no soddisfatti della produzione vinicola se non
quando i loro vini riempiono le anfore dei festini di Cesare, oppure quando li si possa bere in coppe
d'oro adorne di esotici fiori, al suono di musiche e di canti che scacciano le preoccupazioni : La
rinomanza di questi vigne ti si tramanderà ai posteri.
Ed è ancor oggi infatti un titolo di merito il fatto di poter vantare l'origine "doc" e la provenienza di
questi vini: questo vino, si dice per vantarne la qualità, è dei "Castelli Romani", cioè un vino dei
colli Laziali ( Albani ).

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( e ) : La " Campagna Romana "

Vari autori ( da Nibby e Tomassetti fino ai nostri giorni) usano il termine "Campagna Romana" per
indicare un territorio più esteso del semplice Agro Romano, il quale ultimo indicherebbe l'ambito
suburbano, che dagli orti e vigne immediatamente fuori delle mura si allargava fino ai limiti esterni
della pianura che circonda Roma .

Sul piano della curiosità storica , relativamente ai secoli XII e XIII, quando l'organiz-zazione dello
Stato della Chiesa raggiungeva un inquadramento destinato a durare nei secoli, cominciò a formarsi
l'accezione territoriale di "Provincie di Campagna e di Marittima" per determinare e delimitare gran
parte del territorio a sud di Roma, posto tra la catena appenninica e il corso del Liri-Garigliano
( esclusi le terre delle diocesi di Fondi, Gaeta, Sora e Aquino ) , cioè all'interno dei confini di quella
che oggi è la regione costituzionale del Lazio.

Quasi come piegati alla classificazione di Catone nel suo trattato "De Re Rustica" i campi si
succedono secondo un ordine di importanza. Vi si coltivano frutti di tutto il mondo, dalla lontana
Persia alle regioni del Nord, dalla Spagna come l'ardente Africa. Inoltre noi vediamo i roseti che,
grazie ad una metodica coltivazione, producono quei leggeri ba-stoncelli che delicatamente
sostengono i primaverili pampini delle vigne: essi offrono loro un appoggio che, a guisa di
treppiede, venuta l'estate, si coprirà di un dolce carico di abbondanti grappoli.

Gli uliveti offrono alla vista un riposante sguardo distogliendola da visione troppo impresse da
colori molto pronunciati e donano quiete all'animo ed ai sensi; il sole filtra attraverso i loro rami
cinerei ed affusolati, nel contempo riscalda il suolo che va a vivificare ed anima infine le rugose
radici, che corrispondono alle divisioni del tronco, affinché esse producano senza sosta il succo
oleoso che riempie i verdi

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Un manoscritto di anonimo del 1666 (conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana e intitolato
"Discorso del dominio spirituale e temporale del papa") testimonia che nel XVII secolo il territorio
sottoposto direttamente al Governatorato di Roma ( Circoscri-zione nettamente distinta dal
patrimonio di S.Pietro o Tuscia, dalla Sabina, dalla Campagna o Ciociaria, dalla Marittima) era
chiamato Campagna Romana e corrispondeva ad un'area dal raggio di 40 miglia, che abbracciava
Tivoli, Frascati, Albano, Palestrina, Ardea, Porto, Ostia. Al contrario per alcuni moderni geografi il
termine Agro Romano corrisponderebbe a tutto il territorio o circoscrizione o distretto del Comune
di Roma; perciò l'Agro Romano avrebbe un'estensione più ampia della Campagna Romana vera e
propria, ossia alla pianura che si estende dal mare Tirreno fino ai rilievi Ceriti e Sabatini, alle
colline sabine, ai monti Cornicolani, Tiburtini, Prenestini, e ai Colli Albani.

Spesso però vari autori moderni ( in particolare il grande Roberto Almagià ) usano
indifferentemente questi due termini, come se Agro Romano e Campagna Romana fossero
equivalenti.

Nell'uso corrente poi il termine Campagna Romana sta diventando desueto ed è usato per un mondo
scomparso e testimoniato da pittori ( come i venticinque pittori della Campagna Romana ) , mentre
Agro Romano persiste nell'uso burocratico, ma spesso con un ' accezione territorialmente ristretta al
suburbio.

frutti, complementare ornamento del fogliame. La coltivazione degli orti della pianura è invece a
carico de gli ortolani e giardinieri così pieni di premure per le loro piante. E' proprio da lì che, sul
far del giorno, escono i carri agricoli già ben attrezzati dalla sera precedente:sono que-sti mezzi che
ingombrano le vie quando ci si sta approssimando alla città. Gli orticoltori si affrettano a sorpassare
astutamente i pesanti car-rozzoni trainati da buoi per poter essere i primi ad arrivare al mercato
mattutino. In verità non tutta la pianura è coltivata intensamente perché infatti la maggior parte di
essa rimane, o per condizione di natura o per-ché sfruttata artificialmente, allo stato di verdeggiante
prato la cui erba serve al nutrimento dei buoi e delle vacche che vi pascolano sopra.

Il latte poi è, come in tutte le zone ed in ogni tempo , un prodotto ne-cessario ed impareggiabile.
L'uso che si fa di tal alimento nelle libagioni lo nobilita ancor più: è del latte, infatti, che si servono
di preferenza i pontefici in certi riti solenni. Peraltro anche quei bei tori bianchi, così ben accuditi,
sono accuratamente scelti perché anche essi vengono destina ti ai sacrifici religiosi.

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E le grandi macchine per i movimenti di terra hanno completato "lo scasso del cappellaccio" ,
sconvolgendo l'aspetto dell'Agro o Campagna Romana.Una parte del territorio del Patrimonio di
San Pietro ( o della Chiesa di Roma ) era denominato in due modi diversi: una parte si chiamava
"Territorio della provincia di CAMPAGNA" e l'altra " Territorio della provincia di MARITTIMA".

Il termine più usato già da lungo tempo era quello di "Campania" (da non confondersi con l'attuale
zona napoletana) mentre "Maritima" era un termine percepito quasi come un'aggiunta alla prima
provincia per eccellenza. Si deve però notare che , nel linguaggio più antico risalente al "Codex
Carolinus", la Marittima veniva considerata distinta e con una sua peculiarità rispetto all'altra parte.
Tale distinzione, con lo stabilizzarsi della divisione dello Stato della Chiesa in province, divenne nei
secoli sempre meno rigida e il termine "Maritima" era aggiunto con un trattino a Campania e non si
riteneva più come costituente una provincia a sé stante.

Una verde colorazione, di differenti tonalità, si offre poi alla vista osser-vando i campi di orzo non
ancora giunti a piena maturazione.I rosolacci, ovvero le immancabili piante di papavero,
sospingono in tutti i sensi i loro flessuosi steli alla cima esplodono i loro fiori di rosso acceso :
possiamo qui ammirare l'eterna riproduzione dei germi del la natura che durano nel tempo più di
tutte le opere e di tutte le istituzioni create dagli uomini.Questi fiori, dai colori ardenti, si scavano
un passaggio per poter ricevere una carezza dal sole attraverso i fitti steli che si curvano sotto il
peso delle chiomose spighe di grano. I terreni di mediocre qualità, che si estendono dalle
montagnose cime fino al centro della pianura, sono coperte da boschetti e da alberi di alto fusto: è
qui che si infittiscono i boschi cedui delle verdi querce, che procurano legno da costruzione e da
riscaldamento; sempre qui si andranno a raccogliere i ramoscelli e le teneri radici per tessere
corone, ghirlande e festoni in occasione di trionfi e di civili cerimonie, militari o religiose.

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Comunque, per rigore di ricostruzione storica, la provincia di Campagna era la zona dietro i Lepini,
comprendente i paesi Ernici, da Ceccano fino a Frascati e a San Cesareo. Vi erano inclusi anche i
paesi dell'antico Lazio (Vetus Latium), ai quali sovrastava il castello di Fumone, che col fumo
dava l'allarme per l'approssimarsi dei nemici. Perciò venne il famoso proverbio " Quando Fumone
fuma, tutta la Campagna trema".

Il territorio di Marittima invece comprendeva la zona litoranea dei Volsci al di qua dei Lepini fino
a Terracina, oltreché Marino e Rocca di Papa.Lo stesso territorio della città di Sezze, come tutti i
paesi dei monti Lepini, era di "Marittima" e vi rimase per secoli. Nel 1832 l'intero territorio fu
riformato giuridicamente e burocratica-mente e passò sotto le leggi generali dello Stato Pontificio.
Il papa Gregorio XVI, realizzando ambite aspirazioni popolari tendenti ad una riforma generale,
con "motu proprio" del 1°febbraio 1832 istituì la Legazione cui sarebbero appartenute diverse
città .Velletri divenne sede della Legazione (con 56.539 abitanti totali) comprendente la provincia
di Marittima, con seguenti governi e comuni: Velletri (Cisterna, Ninfa, Giulianello, Rocca
Massima), Segni (Carpineto, Gavignano, Gorga e Montellanico), Valmontone (Lugnano,
Montefortino), Terracina (San Felice), Cori e Sezze. Sezze quindi fu riconosciuta sede di un
governo che estendeva la sua giurisdizione sui comuni limitrofi di Sermoneta, Norma e Bassiano.
Il complesso demografico di detto governo era composto di 14.419 abitanti totali, così distribuiti:
Sezze 8648; Sermoneta 2021; Norma 2009; Bassiano 1741).

I lavori dei campi terminano a mezzogiorno.I gruppi di schiavi, sia indigeni che stranieri, possono
ora ritirarsi nelle proprie dimore. Essi cantano, per strada, delle monotone nenie per abbandonarsi
all'oblio ed alla fatalità. Costoro sono naturalmente seguiti e controllati dai caporioni agricoli e dagli
attendenti dei lavori che, senza alcuna passione e quasi freddamente, sono intenti a stimare il
raccolto mattutino, peraltro con il pensiero già rivolto alla previsione serale. A quest'ora del giorno,
di intensa calura e di somma quiete, veramente invitante alla tregua dei lavori ed al raccoglimento
interiore, essi non sentono affatto nei loro animi dei sentimenti di adorazione e di ringraziamento
verso gli dei dispensatori dei buoni frutti dei campi: essi non pensano ad altro che alle ricompense
che coronano la fatica impiegata nei loro rudi lavori. Gli uomini di questo tempo sono diventati
poco alla volta sempre meno religiosi: essi pensano e vogliono prima di tutto arricchirsi, godere
delle prosperità e sono continuamen-te alla ricerca di nuovi piaceri.

Povere vittime del miraggio delle proprie illusioni !

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Poeti, pittori e romanzieri di ogni nazione trassero ispirazioni dalla campagna romana. La pittura ,
come giustamente notava Ugo Fleres, non se ne giovò abbastanza: la malaria fugò spesso l'artista.
Nicolas Poussin e Claude de Lorena non osarono spingersi troppo oltre fuori porta del popolo dove
abitavano e dipingevano. Il Piranesi si allontanò ancor meno per trarre elementi delle sue tetre
ispirazioni , tipiche della cosiddetta poesia delle rovine.

Divenuti quindi molto prosaici e materialisti costoro dimenticano i be-nefici della bionda e feconda
Cerere e la misteriosa protezione dei Fauni e delle vergini Dri adi. Ma, ciò che è ancor più grave, è
il fatto che essi non invocano più quelle divinità che il poeta designa quali torce luminose
dell'universo: "Clarissima mundi lumina". Essi sembrano ignorare ora sia Bacco che Nettuno,
protettori delle vigne e dei focosi cavalli allevati in campagna ; ignorano inoltre la dea Minerva, la
protet-trice dell'uliveto apportatore di pace ; ignorano infine il dio Pan, protettore delle placide
schiere di greggi ed armenti, nonché il dio Silvano, fedele guardiano dei boschi consacrati ai ricordi
celesti o destinati alle necessità dei mortali.

La Campagna, un tempo fiorente e popolata, continua a decadere rapi-damente: questa decadenza è


il riflesso delle corruzioni e delle debo-lezze che già minano il centro vitale dell'impero. Una veloce
e fatale risonanza di notizie fa pervenire nella metropoli notizie di disfatte e di colpi di mano subiti
nelle lontane frontiere, estremo baluardo della potenza romana.

Rivolte e tumulti, sedizioni e delitti vari si rinnovano continuamente nel cuore stesso di Roma.

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I pittori francesi e tedeschi non trovarono di meglio che i carri di fieno e le mandrie di bufali; e del
resto, le barbe incolte, i panciotti rossi e tutta la colorazione a bandiera dei ciociari non v'era
bisogno di cercarla al di là della scalinata di Trinità dei Monti. Tuttavia il Sartorio, il Coleman, il
Petiti, il Carlandi e il Costa composero artisticamente con molta originalità i loro assai pregevoli
lavori.

Benché apparentemente le situazioni, quanto alle culture ed alle piantagioni, fossero simili o di poco
cambiate rispetto agli ultimi tempi della Repubblica o al primo periodo imperiale, in realtà, quanto
alle prati che amministrative si erano consolidate nuove abitudini che dove-vano apportare una
funesta influenza sulla vita agricola. I municipi ave-vano perduto la propria indi pendenza:le
tradizionali prerogative dei cittadini cadevano nel dimenticatoio a causa del semplice volere di un
commissario imperiale ; lo stato di liberi cittadini andava man mano scomparendo nei comuni
dell'impero.

A causa di siffatte condizioni socio - politiche e per altri motivi non meno sfavorevoli alla vita
economica, le proprietà divenivano sempre più estese: i piccoli coltivatori andavano scomparendo;
le fattorie non erano oggetto della dovuta attenzione. Solo le lussuose e nobili ville, la cui
conduzione era nelle mani di famiglie patrizie, peraltro sempre sog-giogate al potere imperiale,
continuavano la loro esistenza nel ben mezzo di una sempre più invadente e totale desolazione. A
questo punto arrivò il colpo di grazia: fu messa in atto la divisione e la spartizione dell'impero
romano, a seguito delle selvagge devastazioni e dei feroci assalti sopravvenuti nel quarto e quinto
secolo d.C. .

Una imperitura fama di barbarie stigmatizzerà i fautori di queste atro-cità, cioè quelle compiute
dalle armate di Alarico e di Gianserico, seppur possano meritare tali orde il nome di armata. La
parte di territorio più colpita da queste barbarie furono gli immediati dintorni della città di Roma.
Proprio qui infatti sono state messe in atto tutte quelle svariate operazioni di assedio. Ne è scaturito
il risultato che niente, letteralmente niente, è rima sto intatto.

Molti pensano che la più alta rispettabilità o inviolabilità, che doveva garantire la salvaguardia dei
monumenti e degli altri edifici (per la loro grande bellezza o per la loro consacrazione religiosa agli
dei o ai morti), non abbia fatto altro che agevolare la loro distruzione ed il loro annientamento.
Nell'anno 536 la mole Adriana, al nord del Tevere, fu testimone di un increscioso avvenimento. La
massa monumentale era stata già trasformata in fortezza ma essa era ancora adorna di opere d'arte e
di ricchezze architettoniche che si annoveravano tra quelle più preziose della Roma imperiale. Or
dunque avvenne che gli assediati, per poter controbattere l'assalto che i Goti scagliarono in quel
ricordato periodo, un bel giorno non trovarono di meglio che sbarazzarsi dei barbari nientemeno che
lapidandoli e gettando loro contro, dall'alto delle merlature, le statue greche e le altre sculture che
sormontavano il detto mausoleo. I Goti furono debellati e respinti ma oggi ci si interroga su chi,
nella suddetta circostanza, siano stati i veri barbari: forse i Ro-mani che si trovavano in alto o i Goti
che li assediavano dal basso ? Ecco ancora un altro esempio di questo nocivo modo di agire. In un '
altro fatto si videro dei cavalieri che avevano attaccato i loro cavalli a delle statue rovesciate ; altri
invece abbattevano e riducevano a pezzi dei cor-nicioni di stile corinzio riccamente ornati: delle
trabeazioni scolpite erano invece collocate a terra in modo da poter servire da transenne o da ripari
murari. Più tardi si potranno vedere, ohilà , dei forni da calce riempiti con monconi di statue di
maestri d'arte, miseramente ridotte in polvere di marmo allo scopo di facilitare la calcinazione.

A voler operare una distruzione più metodica si demolivano poi , da sopra a sotto, quelle terme che
parevano indistruttibili: si riducevano quindi in un ammasso rovinoso i templi, le basiliche ed i
sepolcreti. Si ab-battevano gli alberi dei parchi e dei giardini per servirsene come legna da ardere o
per affastellarli ed incendiarli all'aria aperta.Tali sono state le dolorose vicissitudini avvenute in
generale nella Campagna. Ma il La-zio, regione speciale ed antico territorio di eroiche guerre e di
irri-ducibili confederazioni, il "Vecchio Lazio" doveva ancora soffrire le più grandi distruzioni ed i
più grandi danneggiamenti.

Nel corso dei secoli, soprattutto a partire dai tempi leggendari resi fa-mosi da Enea ed i suoi
Troiani, tutto era ridente, gioioso e fiorente.

Sopravvenne però la politica della rifondata Roma : essa causò discordie ed impacci socio - politici
in questa placida quiete : gli abitanti autoctoni di colpo vennero a trovarsi, senza alcuna garanzia di
dedicarsi ai lavori agricoli, privi di totale sicurezza per i loro beni e per le proprie persone.

Roma era una temibile vicina di casa. Sempre vittoriosa nei combatti-menti essa non mancava di
approfittare dei suoi successi per sottomet-tere o per mandare inesorabilmente in rovina quei popoli
vinti e soggio-gati: era questo il risultato di tutte le sue conquiste. Malgrado questi vio-lenti
accadimenti tuttavia ne risultò una certa positività : queste popo-lazioni , terminate le guerre,
venivano a beneficiare di leggi dettate da spirito pratico e che Roma dettava loro.

Durante la Repubblica, ad esempio, furono promulgate quelle famose leggi dette "Cassie" e
"Licinie" : esse limitavano il possedimento di grandi latifondi e favorivano così, in modo tutto
legale, le piccole proprietà.

L ' " Agro " intero venne diviso in porzioni o lotti di una limitata consi-stenza; questa saggia misura
apportò una nuova prosperità che durò per un certo periodo di tempo. Più tardi le interminabili
guerre dell'impero fece cadere il Lazio in una generale decadenza: l'aratro, considerato disdi-cente
dai favoriti e dai pidocchi rifatti, non trovò più dei cittadini disponibili ad impugnarlo.

Per somma sventura inoltre un giorno accadde che le nuove strade costruite per le comunicazioni
con i paesi stranieri e lontani nonché la facilità dei tra sporti marittimi offerta al commercio dalle
flotte romane, signore del mare come le legioni lo erano della terra, provocarono dap-pertutto la
diminuzione del prezzo delle derrate alimentari.

I cereali furono importati dall'Africa mentre gli altri prodotti agricoli vennero forniti in abbondanza
dalla fertile Campania e dall'industriosa Etruria.

Una sventura non arriva però mai da sola: una volta che furono sop-presse le colture nei bassifondi,
fece la sua comparizione la malaria: essa divenne endemica e rese inabitabili molte zone della
Campagna.

La divisione dell'Impero, e più tardi il trasferimento della sua sede in Bisanzio ( Costantinopoli )
furono causa di un ancor più profondo abbandono. I desolati pa lazzi restarono miseramente
inabitati, restando silenziosamente ritti su se stessi, imponenti e destinati all'oblio nel mez-zo delle
grandi zone verdi dei parchi che le circondavano. Esse erano disertate dai loro padroni. In breve si
videro le superbe ville, tristi ed abbandonate, custodite soltanto da vecchi cipressi pesantemente al-
lineati, a guisa di sentinelle, davanti a dei monumenti funebri.

I giardini, invasi da erbacce di ogni tipo, si trasformarono in incolti terreni cespugliosi. I barbari,
sguinzagliati come orde cieche in mezzo ai campi, finirono per devastare ogni cosa.

Essi uccidevano e distruggevano intere popolazioni travolgendo tutto ciò che si parava loro contro
ed accanendosi contro tutte le opere d'arte.

Una delle conseguenze naturali della nuova politica era stata l'imposta di tutte le esorbitanti tasse
che gravavano sopra i campi di coltivazione : i carichi erano tanto più penosi perché ripartiti in
modo ineguale, essendoci già dei privilegi ben stabiliti. Erano le classi più infime che sopportavano
ingiustamente le più forti pressioni fiscali.

In Roma si erano venuti a formare, fatto prettamente nuovo, dei gradi specifici nei titoli e nelle
pubbliche funzioni. Si distinguevano per questo i Nobilissimi, i patrizi, gli illustri, gli spettabili, i
chiarissimi, i perfetti , gli egregi , ecc. ecc.

I conti facevano la loro prima apparizione. Tutti i quei signori i cui onori e le cui cariche erano
cessate misero davanti i loro titoli una preposizione : si ebbero così gli "ex" consoli, gli ex -
prefetti...

Ecco l'esordio della nobiltà imperiale che si andò a sviluppare e ad ac-centuare a seguito del
fenomeno detto del "nepotismo" e , subordina-tamente, del "servilismo". Dopo la Nobiltà
susseguiva una seconda gerarchia, quel la dei Curiali, ed una terza, quella dei liberi cittadini. Questi
ultimi vennero però facilmente spogliati delle loro proprietà agricole, sia per la sagacia e la violenza
dei ricchi sia per l'invasione dei barbari. In ogni caso essi furono ridotti a diventare semplici coloni
al servizi dei potenti. E' pur vero che, più tardi, questa crudele condizione degli umili ricevette delle
compensazioni appena che si pervenne a migliorare le condizioni riservate agli schiavi.

Questo miglioramento sociale , dovuto anzitutto alla filosofia stoica e liberale, non raggiunse la sua
perfezione se non grazie alla dottrina cristiana, fondata sulla Carità. Lo schiavo divenne un uomo e
poté dispor re di un proprio salario e reddito. Diventò così impossibile sia venderlo che separarlo
dalla propria famiglia. Questi rivoluzionamenti apportarono grandi migliorie all'agricoltura.

La Chiesa, che cominciava a diffondersi e stabilizzarsi nel territorio, inculcò i suoi principi. a tutte
le classi della società, di cui essa modificò il modo di essere e le norme morali.

Tutte le nozioni e tutti i dettami ammessi fino a quel periodo vennero profondamente trasformati:
una nuova vita morale andava ad iniziare in tutte le campagne e nella città.

" Ad una società violenta essa si sforzò di insegnare la dolcezza : alla gerarchia feudale essa oppose
l'uguaglianza di tutti gli uomini ; al disordine interpose la disciplina, alla servitù contrappose la
libertà e contrastò la forza con il diritto. Essa proteggeva lo schiavo dalla superbia dei padroni :
contro quegli sposi un poco libertini, che non avevano alcun timore né di divorziare né di praticare
la poligamia, essa difese i diritti della donna, dei figli e della famiglia.
Agli stati, che non sapevano altro, per le pubbliche cari che, che ricor-rere alla successione
consanguinea diretta, essa indicò la strada di quella spirituale, anche e soprattutto per la libera
successione degli abbati, dei vescovi e degli stessi pontefici : si videro così dei servì che ebbero
modo di insediarsi nella cattedra di San Pietro, al di sopra di ogni re. Le nazioni barbare avevano
fatto scempio dell'antica civiltà: essa ne raccolse, nell'intimità dei suoi monasteri, i mutilati avanzi.
Essa fu anche la madre delle fedi così come lo fu del libero pensiero, dell'arte e della scienza "

( Victor DURUY "Histoire du Moyen Age" ).

Fu alla fine del VI secolo che la Campagna rotolò definitivamente verso il totale degrado.

Per conoscere il curioso modo con cui vennero distrutti i castelli , le abitazioni di piacere e di lusso,
le fattorie e le case di commercio che era-no distribuite su tutta la campagna, sarebbe opportuno
capire le deduzioni degli archeologi su tale questione.Costoro hanno rinvenuto, dopo attento esame,
delle stratificazioni che ricopri vano l'area di quelle distrutte costruzioni ( che furono la maggior
parte ) e di quelle incendiate : altre invece erano state semplicemente abbandonate.

Gli spessi muri ed alcune colonne, sempre di materiali molto solidi, rimasero in piedi per alcuni
anni ma alla fine caddero su se stessi, spar-gendosi nell'area circostante.In ogni scavo o ricerca sono
state sempre trovate delle colonne rotolate in terra in una stessa direzione : per tale motivo è stato
concluso che i sollevamenti sismici avevano provocato la definitiva distruzione di queste
costruzioni che costituivano il ricco ornamento della Campagna.

Nell ' VIII secolo, che si distinse per la più grande stabilità politica, i pontefici romani ebbero modo
di stabilire una amministrazione rego-lare : la Campagna entrò in un'era relativamente prospera.

La Chiesa , che stava già procurando una pace duratura , non avrebbe tralasciato di mantenerla
anche per se stessa nel corso dei secoli suc-cessivi. Alcuni centri cominciarono a ripopolarsi:erano
principalmente

quelli che godevano il favore di una salubre posizione su elevati colli, dall'alto dei quali si poteva
lottare, all'occorrenza, sia contro i nemici che contro le febbri malariche delle paludi che
infestavano le zone sot-tostanti. Il regime proprietario dei cosiddetti latifondi, cioè degli estesi
appezzamenti agricoli, venivano rimpiazzati dalle domuscultae , cioè da quelle " proprietà
effettivamente lavorate, aventi peraltro un'estensione adeguata al tipo di coltura in esse praticate ".

In questo periodo restavano ancora delle zone boscose che potevano es-sere sfruttate
vantaggiosamente. Malgrado tutto non era più la campa-gna dei buoni tempi passati.

Noi l'abbiamo già sottolineato: non esistevano più quei vasti appezza-menti dove la ricchezza e il
buon gusto apparivano in ogni loro minimo dettaglio. I superbi monumenti architettonici,
interminabile serie di opere ornamentali poste lungo le strade che tagliavano in due le verdi praterie,
giacevano a terra; i monumenti funebri, dai lineamenti finemen-te scolpiti e le urne cinerarie
coperte da iscrizioni, erano riverse a terra in mille pezzi.L'erba cresceva tra gli interstizi ed i giunti
murari che an-davano a ricoprire; la ruggine, invece, sfigurava, a guisa di un'orrida piaga, le bianche
e rotondeggianti facce e i mutili arti delle statue e dei bassorilievi. I blocchi sfavillanti di marmo, i
contorni lattei del le figure mutava-no in pallore di morte o in macchie verdastre che delineavano
fenditure e spaccature archi tettoniche.
Sembrava come se le epoche storiche si iscrivessero da loro stesse sui monumenti tramite i
cambiamenti e le discrepanze del marmo: infatti il passare degli anni fa variare il colore marmoreo
donandogli mille sfu-mature che corrispondono ad altrettante misteriose alterazioni cheil tempo,
l'aria, la luce, l'umidità e l'abbandono provocano sulla super-ficie della nobile materia. Nei primi
anni di vita sfavilla la candida tonalità del bianco marmo venato ; negli ultimi periodi invece sarà la
tonalità di rosso vermiglio, somigliante a quella delle comuni pietre. Le statue denotano dunque le
differenti fasi del tempo seguendo la patina che le ricopre. Questa patina è dolce e, per così dire,
tenera: essa dona quasi un riflesso di incarnato giovanile per ché queste statue sono state da poco
scolpite. Ma la patina è più dura e sfuma verso una calda e rosea colorazione quando queste opere
d'arte cominciano ad avere qualche anno di età, anche quando esse sono state accuratamente tenute
al riparo delle intemperie della brutta stagione.In seguito la patina diventa di aspro colore, quasi
rugosa, cinerea, nonché opaca, smorta e con macchie rossastre: essa infine spegne la trasparenza
delle venature e produce delle placche cadaveri che su quelle statue che purtroppo sono di annosa
età. Non sarà forse che lo statuario marmo, questa pelle delle montagne, fredda e dura,venga ad
assumere una certa inspiegabile vita quando l'arte e l'immaginazione, nonché il genio, gli vengono a
conferire una forma che risponde allo stesso ideale dell'artista ?

Verso il nono secolo furono eretti, quali segni tangibili di un nuovo potere, le prime torri strategiche
sulle alture collinari ed in mezzo alle verdi pianure. L'uso giuridico delle terre in enfiteusi, cioè
cedute in pos-sesso di lunga durata sotto il pagamento di annuale rendita, cadde in discredito. Senza
provenire dallo stesso legale principio il feudalesimo venne a rimpiazzare la detta enfiteusi. La
gente povera, senza alcun in-teresse a invischiarsi in estranee lotte ed in sanguinosi intrighi, che
com-portavano continui assalti tra truppe rivali, si ritirò a vita privata nei bassi fondi malsani.
Conseguenza di ciò fu che l'agricoltura decadde in proporzione del progresso feudale: l'abbandono
delle fattorie e dei campi coltivati giunse a compimento estremo in diretto collegamento del
popolamento delle rocche e castelli fortificati; alcuni di questi non tar-darono a formare dei comuni
indipendenti. Siamo arrivati nel momento storico in cui non esisteva più l'agricoltura e non c'era
interesse che per la pastorizia che permette all'uomo di traslocare nel giro di una sola notte.

( Tomasetti, La Campagna Romana nel medio evo ).

Si può immaginare fino a che punto di regresso ci si stesse incamminan-do ricordandosi che papa
Innocenzo VII, nel 1046, nominò "defensor stratarum et viarum" ( difensore delle strade e delle
vie ) quel tale Pietro di Masuccio .Costui creò, diciamo così, una funzione e una figura, come quella
del difensore dei minorenni, per proteggere e mantenere tra di essi quello più operoso ma che in
generale godeva di cattiva reputazione. Oggi il potere civile è molto diverso: la politica ha sofferto
molto per i cambiamenti e per le brusche alte razioni ma, nonostante tutto, l'aspetto generale della
campagna non è quasi affatto cambiato a partire da quel periodo. Abbiamo già visto che le
principali vie erano in cattivo stato: i loro monumenti principali erano stati di strutti, fatti a pezzi ed
abban-donati a terra. Le lucertole correvano svelte lungo le fessure e le crepe marmoree, i corvi che
volavano si venivano a posare sopra di esse quali signori della solitudine e i lupi avanzavano di
notte fino alle stesse porte della città : questa arrivava quasi a contenere trenta mila abitanti, tutti di
misera condizione sociale.

***

Le Torri Costiere del territorio pontino


La difesa dei siti abitati e del territorio pontino è stato sempre una preoccupazione continua per tutti
i popoli che si sono susseguiti nel dominio sopra di esso.

La maggior parte dei presidi difensivi risale ad epoca pre-romana o romana ma un vero assetto
organico difensivo è stato progettato dalla Chiesa solo nel tardo medioevo, ricostruendo e
rafforzando dei siti costieri e montani particolarmente adatti alla difesa del territorio.

Si potevano scorgere, da ogni lato, delle torri squadrate costruite a mat-toni, dove gli uomini
potevano arroccarsi sia per difendersi sia per lan-ciare segnali di guerra. le torri più munite si
ergevano lungo il litorale marino: esse erano occupate da vedette che difendevano gli accessi
costieri. ( z 1 )

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( z 1 ) Le torri costiere difensive pontine

Dal IX al XV secolo il sistema difensivo della costa pontina era costituito da fortilizi di presidio e di
avvistamento. Oltre al Castello di Terracina, posto in pozione elevata a guardia della città, potevamo
scorgere alcune fortezze tutte risalenti ad epoca romana o pre-romana; tali luoghi di difesa erano:la
fortezza delle Mole ( o del Farrone ) ; il Fortilizio di Monte Sant’Angelo; il Castello baronale di
Rocca Traversa e la Fortezza del Pesco Montano.

La difesa del territorio, dal XIII al XV secolo, era ancora affidata a tale sistema di fortificazione
della costa costituito soprattutto dalle antiche torri semaforiche che sopravvivevano ancora nel tratto
da San Felice a Terracina.

Tali torri non solo servivano a segnalare le navi nemiche ma fungevano anche da fortezze difensive
di tutto il contado e delle rocche baronali, opponendosi anche alle eventuali offensive dei nemici,
soprattutto dei Turchi e di tutti i Musulmani.

Nel XVI secolo avvenne la trasformazione organica del sistema difensivo della costa laziale e
pontina.

Oltre a Torre Astura ( nei pressi di Anzio ) vengono restaurate o riprogettate interamente dallo Stato
Pontificio e precisamente nel periodo di governo dei papi Pio IV, Pio V, Gregorio XIII e Paolo V
( anni dal 1563 al 1621 ) .

Sorgono così Torre Paola, Torre Fico,Torre Moresca e Torre Cervia ( dal 1563 al 1574 ). Tra il 1582
e il 1592 vengono ugualmente innalzate :Torre Olevola ( 1570 circa ), Torre Vittoria ( costruita
presso San Felice e così chiamata in seguito alla vittoria di Lepanto del 1571), Torre Gregoriana
( del Posatore o Torre Nova ) , Torre del Pesce e Torre dell’Epitaffio .

A fianco di queste torri, sorge ancora, e non senza ostacoli burocratici e progettuali, altri baluardi :
nel 1560 circa papa Pio IV erige al rango di fortezza la torre del Pesco Montano ( avamposto di
epoca anteriore ma menzionato come torre soltanto nel 1460 , sotto Pio II, essendo sorta presso la
porta Napoletana di Terracina ) ed infine viene costruita la Torre Badino ( di Paolo V nel 1616 ).

Tutte queste torri, ad eccezione di Torre Paola, nel 1809 erano già distrutte o gravemente
danneggiate; Torre Cervia e Torre Fico sono state comunque ricostruite in seguito.

Fu proprio in quei luoghi che approdarono le imbarcazioni saracene e quel-le dei pirati : costoro non
furono adeguatamente fermati e puniti per cui avanzarono audacemente fino all'interno del territorio
laziale.

In effetti le spiagge romane non furono liberate da queste dannose incursioni se non nel 1571
quando i musulmani invasori furono sgominati nella più brillante azione di guerra annotata nei
giorni fausti delle imprese militari marine : la battaglia di Lepanto. ( z 2 )

Tale impresa, dove don Giovanni d'Austria si coprì di imperitura gloria, fu opera anche di Roma : il
papa infatti avendo sollecitato e ottenuto l'appoggio della potente Spagna, formò la lega che
condusse le flotte a questo eroico combattimento.

Grazie a questa vittoria il litorale italiano, così come quellodi tutta l' Eu-ropa, riguadagnò la dovuta
tranquillità e fiduciosa calma.

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( z 2 ) : La Battaglia di Lepanto_

La città greca di Lepanto, posta nei pressi di Corinto, ha assunto una grande fama storica per essere
stata sede di una famosa battaglia navale combattuta il 7 ottobre 1571 tra la Santa Sede ed i Turchi
ottomani , comandati da Mehemet Alì pascià .Combatterono questa "Crociata" le principali potenze
navali cattoliche, riunitesi in una Sagra Lega promossa dal papa San Pio V.La flotta della lega ( a
cui concorsero - oltre la Santa Sede - Venezia, La Spagna, i Savoia, Genova, Malta e alcuni altri
stati italiani ) fu affidata al comando di don Giovanni d'Austria (Fratello di Filippo II ) ma la flotta
pontificia vera e propria fu diretta e governata da Marcantonio Colonna. Sotto le direttive di questo
condottiero combatterono valorosamente anche dei cittadini di tutto il territorio pontino

( quelli di Sermoneta, legati ai Caetani, quelli di Sezze, legati ai Colonna, quelli di Gaeta , che
abitavano là dove partì la flotta pontificia ).

A seguito di tutti questi avvenimenti, le fantasie si trovavano in preda dell'esaltazione e la vita non
conosceva più la dolce quiete dello spirito; le leggende si facevano facilmente strada.

Le credenze e le superstizioni, private di ogni fondamento dogmatico o razionale, arrivavano a


coprirsi di una parvenza di religiosità. Tali erano i mali dell'epoca feudale, comuni peraltro a tutta
l'Europa: a Roma essi erano minori di quelli dei paesi del nord.

Una di queste sinistre superstizioni trovò diffusione all'inizio della cam-pagna, verso nord, proprio
all'uscita della porta Flaminia .

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Pio V donò alla propria flotta un vessillo rappresentato da un drappo di seta cremisi di mt 3,15 x
2,35, sul quale il sermonetano Girolamo Siciolante dipinse il Crocifisso tra S.Pietro e S.Paolo , che
recava la scritta "In hoc signo vinces".

Sotto questo sacro vessillo le navi pontificie ( ben 238 galere,1800 cannoni, 30000 soldati, 12900
marinai e 40000 schiavi ) si riunirono a Gaeta e proseguirono per Napoli, dove il drappo fu
benedetto a Santa Chiara. La flotta partì quindi per Messina da dove puntò diritta verso Lepanto.

Conclusasi la battaglia navale con il trionfo delle armi cristiane, don Giovanni d'Austria e
Marcantonio Colonna, adempiendo al voto fatto alla partenza, depositarono il vessillo (rimasto
miracolosamente indenne) nel Duomo di Sant'Erasmo di Gaeta, dove più tardi fu intelaiato come
pala d'altare.Oggi è ancora conservato sull'altare maggiore della predetta chiesa.In ricordo di tale
prodigiosa battaglia, che segnò l'inizio della decadenza turca in occidente, anche Onorato IV
Caetani di Sermoneta fece erigere, a valle del paese, la chiesetta di Santa Maria della Vittoria.

Tale grandiosa vittoria , pur rivelandosi grandiosa nelle sue proporzioni, non sconfisse totalmente i
Turchi ed infatti non impedì nuove incursioni ottomane lungo le coste tirrene: nel 1588, nel 1593
alcuni musulmani tornarono nel nostro territorio, guidati soprattutto dal pirata Assan Agà che fu
sconfitto nelle acque tra il Circeo e Ventotene soltanto nel 1598 . A questi episodi ne seguirono
certamente altri che procurarono ancora delle preoccupazioni ai nostri pontefici, sempre dediti
all’opera di rafforzamento costiero.

Là vi era una delle più malfamate contrade cittadine: se non c'era completo deserto era perché i
delinquenti si davano appuntamento proprio in tale posto. La porta aveva già le sue tradizioni e le
sue gloriose leggende ma il suo circondario era tenebroso e godeva di una cattiva reputazione.
Tuttavia fu proprio sotto quest'arco monumentale che Costantino, vincitore di Massenzio nel 312,
fece la sua entrata trionfale in Roma: era stato inoltre proprio qui che, presso il ponte Milvio, prima
della battaglia era apparsa il segno della Croce "In hoc signo vinces"

( Con questo segno vincerai ) , parole che facevano il verso del " Mane, thecel , phares" ( "Pesato,
Contato, Diviso") della Bibbia.

Ma niente aveva impedito che un albero nefasto, evidentemente infestato dai demoni, fosse
cresciuto in questi paraggi sul luogo, si diceva, della sepoltura di Nerone. Lo spirito del tiranno
tornava nel mondo ed appariva girovagando nelle immediate vicinanze. Era peraltro ancora lì che si
distendevano i giardini della famiglia dei Pincii: il luogo oggi è chiamato il giardino del Pincio.

Vi si poteva ammirare la grande villa di Messalina, moglie dell'imperatore Claudio. Chi mai non era
a conoscenza della vita licenziosa e dissoluta di questa famosa imperatrice ? E , inoltre, come se
non vi fossero abbastanza antecedenti deplorevoli, registriamo il seguente avvenimento : da molto
tempo, ai piedi del muro che delimita ancor oggi la villa Borghese e non molto distante da quel
citato albero spiritato, i Romani era no soliti seppellire le donne di malaffare e quegli uomini che
morivano senza i conforti religiosi. Niente poteva vincere il terrore che incuteva questo luogo:
neanche la considerazione che questa stessa porzione di muro, il muro torto, è sempre stata difesa
dal papato anche in modo nascosto.

I Goti stessi non osarono affatto attaccare Roma da questo punto e Be-lisario aveva appositamente
evacuato le fortificazioni di quest'angolo ben sapendo che anche i barbari temevano e rispettavano
l'Apostolo. Il fatto è che l'invasione di questi spiriti malvagi arrivò ad un limite tale che il papa
Pasquale II dovette prendere un ' atteggia mento radicale. Egli affidò questa dimora del demonio a
colei che gli tiene schiacciata la testa sotto il proprio tallone e vi costruì sopra la chiesa di Santa
Maria del Popolo. Questa dicitura derivava dal fatto che tale luogo, mal grado tutto, era abbastanza
abitato, benché lontano dalla città propriamente detta. Quando i movimenti demografici della
popolazione portarono i cittadini ad abitare verso il nord città, una delle strade principali della città
venne prolungata fino alla nuova chiesa. Due altri templi furono di nuovo dedicati alla stessa
Vergine Maria. Era così che il luogo doveva chiamarsi, soprattutto dopo che esso fu trasformato in
una monu-mentale piazza, la piazza delle Tre Marie . A proposito di tali fatti si può constatare che lo
straordinario fenomeno della campagna stava inva-dendo la città: si verificò in occasione del triste
periodo dell'esilio dei papi, esuli in Avignone, dal 1305 al 1377. Lo spazio vuoto compreso
all'interno della città venne convertito, per tre quarti, in terre libere da qualsiasi coltivazione: le
stesse miserie e la stessa febbre malarica di pa-lude, che abbiamo già riscontrato in campagna,
vennero ad opprimere questi improvvisati campi cittadini. Le abitazioni urbane, tutte sporche e
malsane, erano costruite su quei lembi di muri che altro non erano che le vestigia delle superbe
antiche costruzioni.

Sopra i palazzi, sotto le terme, e perfino sopra i templi, si scorgevano dei modesti tetti di paglia
sotto i quali dimoravano le migliori famiglie : non si beveva che la sola acqua del Tevere, torbida e
piena di impurità; gli acquedotti erano stati interrotti o divelti da movimenti tellurici ed i loro
formidabili piloni giacevano in terra, come mani dei giganti dopo la battaglia.

Secondo altri studiosi invece la città di Roma, in quel periodo, non avrebbe contato più di settemila
abitanti. Fu a questo punto che il papa decise di ritornare dall'esilio di Avignone per poter ancora
una volta salvare la città; Roma riacquistò la sua salvezza grazie ai persuasivi con-sigli di Santa
Caterina da Siena:

" E' certo che l'umanità debba dei ringraziamenti a coloro che non ab-biano mai abbandonato il
suolo natale.

Senza di essi, forse, si dovrebbe oggi mostrare al visitatore straniero soltanto il sito dove fosse sorta
Roma, come peraltro si indica al visi-tatore l'arcaico abitato di Veio, di Ostia o di Tuscolo ".

( Lanciani, La destruction de Rome antique )

Il ritorno del papa nel suo stato è, allo stesso tempo, uno dei giorni fausti più memorabili della
campagna romana. Lo si può paragonare con quell'altro avvenimento anteriore di mille anni, cioè
con l'ingresso trionfale Costantino, vincitore di Massenzio.Costui discese dal nord della città dalla
parte di rettamente opposta alla strada da cui entrò il papa tornando da Avignone. Costantino entrò
in Roma per lasciarvi espandere il Cristianesimo; Gregorio per impedire la morte di Roma.

Preceduto dai gonfalonieri e dai magistrati il papa fece la sua entrata il 17 gennaio 1377, giorno che
resterà per sempre memorabile.

Egli era a cavallo e posto sotto un grande baldacchino, circondato da una magnifica parata di
cavalieri tra i quali si potevano contare almeno undi-ci cardinali. La città semi - deserta , affamata,
provata dai tormenti di sete e di febbri malariche, si svegliò improvvisamente per dedicarsi a pub-
bliche feste : essa si sentì alfine alquanto rianimata.

La città seppe trovare i dovuti incensi, i cantici e i fiori per abbellire l'ac-coglienza tributata al padre
della patria.

Quando venne sera, costui si recò in preghiera presso la tomba dell'Apostolo, trovandola illuminata
da ottomila lampade. L'affidamento e la fede dei fedeli che erano stati abbandonati fecero dei
prodigi per testimoniare la loro riconoscenza. Il Senato e il popolo romano eressero un monumento.
Un bassorilievo, dello scultore Olivieri, ci ha trasmesso la rappresentazione della scena della
processione. Si vede il papa che si avvicina alle porte della città per fare il suo solenne ingresso
attraverso i campi, nella cinta delle merlate mura. Ma Gregorio dovette riconoscere che la grande
Roma, la meraviglia del mondo, era allora ridotta ad uno stato inferiore a quello delle più piccole
città del territorio romano.

I popolosi centri della campagna potevano mostrargli i loro edifici pub-blici e privati come
magnifici esemplari che infondono speranza. Tivoli, Viterbo ed altre città di secondo piano erano
tutte più fiorenti di Roma !

** ** **

Uno speciale tratto della storia della Campagna è l'influenza e il potere dei suoi feudatari nelle
decisioni riguardanti la vita di Roma.

La nobiltà diveniva tal mente potente che essa era in grado di dettare, dall'alto dei suoi fieri castelli,
le più importanti risoluzioni di politica.

All'interno della città cominciavano ad originarsi oscure fazioni : era però nei campi che esse
dispiegavano le loro bande di avventurieri.

Esse mettevano in atto dei veri assalti e dei veri combattimenti , so-prattutto in occasione della
elezione del papa.

I conclavi non potevano più esplicare i propri mandati con la dovuta in-dipendenza. Una volta
affermatesi queste cattive abitudini non sorprende affatto che alcune famiglie, che si accaparravano
i favori con il loro coraggio o la loro violenza, siano pervenute ad imporre i loro mal-vagi desideri:
il sovrano pontefice non doveva forse la sua elezione, fino ad un certo punto, all'intrigo di costoro ?
I conti di Tuscolo, ad esempio, i fondatori dell'illustre famiglia dei Colonna, decisero da soli
l'elezione di parecchi papi.

Capi turbolenti ed autoritari essi furono talvolta la causa di molte ri-volte facendo sì che il papa
dovesse quindi ricorrere alle armi per sottomettere la Campagna e ricondurla sotto l'antico diritto.

Nel corso del 12° secolo la ricchezza e il potere dei conti di Tuscolo toc-carono un tale degrado che
i loro domini e le loro proprietà vennero ad estendersi da Tu scolo fino alle porte stesse di Roma, e
da qui fino al mare.

( Abbate, Guida alla Provincia di Roma )


A fianco di questi potenti signori e di altri loro simili, come i Frangipane, gli Orsini ed i Caetani,
che dettavano la loro legge nelle zone di Campagna altrettanto bene di come lo facessero in città,
erano sorti i cosiddetti baroni:costoro, forse perché meno numerosi , mostravano altrettanto più
orgoglio e spirito turbolento. Essi coprivano di torri merlate tutte le colline e tutte le loro proprietà
che si trovavano all'interno della città. Il paesaggio assunse quell'aspetto ostile, straniero, che le
stampe e le pitture dell'epoca hanno per noi conservato. Da ogni angolo si ergevano torrioni che
tagliavano di netto le ondulanti linee dell'orizzonte; in città esse si slanciavano in alto come per
sorpassare, in altezza, le più alte costruzioni e i campanili. La tomba di Cecilia Metella era sempre
stata la più bella e la più semplice delle monumentali costruzioni della Campagna; eccola dunque
tutta sfigurata dagli edifici feudali : la sua elegante mole non è altro che il supporto e la base di
sedici torri che fanno corona al castello dei Caetani.

Accadde anche che i duchi e i conti iniziarono a disputare con gli altri nobili, soprattutto con i
terribili baroni: queste controversie avevano origine dalle opinioni politiche che dividevano Roma
oppure dalle stesse ambizioni di quei rivali che si facevano lotta. Erano come le bat-taglie tra pesci
nelle quali i più grandi mangiano quelli più piccoli. I titoli secondari iniziarono allora a cadere in
disuso: molti sparirono del tutto. Ecco la spiegazione di quelle strane rovine che occupano ancor
oggi i più bei siti di Campagna.

Vi sono castelli , torri e borgate di cui si è perduto il ricordo , lo stesso nome: non si sa più a chi
siano appartenuti né in che periodo abbiano cominciato ad esse re distrutti. Se essi avessero avuto
origine dai tempi classici, lontani di mille anni, il mistero che li copre sarebbe meno affascinante e
forse sarebbe anche meno oscuro.

Più tardi, precisamente nel corso del XVII secolo, noi possiamo imbatter-ci in nuovi appellativi tra
quelle famiglie nobili che governarono le zone di Campagna dividendosene le zone di influenza.
Sono i Doria , i Borghese, i Torlonia , i Barberini ecc. ecc.

I tempi delle guerre intestinali e della vita aspra e violenta è passato alle spalle.

Al contrario i lavori agricoli si praticano con molto più piacere e dol-cezza: nelle vicinanze della
città si ergono, dopo un'accurata scelta dei posti più panoramici, quelle graziose ville romane che
resteranno in vita come veri gioielli della natura e dell' arte.

Il papa Pio VI, consacrato nel 1775, poté intraprendere in quella epoca alcuni importanti lavori
nell'Agro Romano. I campi di battaglia, campi di morte, cedettero il posto a campi di coltura, a
campi di allevamento.

Il nome di questo papa è rimasto collegato alle prime opere di bonifica. Si sa che, a seguito delle
guerre delle fazioni, la malaria era penetrata, peraltro incoraggiata dagli uomini che abbandonavano
la terra, fino all'interno della stessa città.

La situazione della regione restringeva il problema delle febbri ma-lariche in un circolo vizioso :
persino ai nostri giorni non siamo ancora del tutto usciti da questo problema.

I campi erano inospitali perché non erano coltivati e non li si coltivava perché erano inospitali. Pio
VI avviò risolutamente le prime opere di bonifica per favorire lo scolo delle acque. La sua
principale preoccu-pazione, dopo aver fatto tracciare appositi canali per disseccare le paludi
Pontine, le più infette di tutte, fu quella di escogitare una retta distribuzione delle proprietà.

Questa indagine permise di constatare che la quinta parte del territorio non era in possesso che di tre
soli proprietari.
Il papa mise in atto tutti quei metodi di riscatto delle proprietà da queste manomorte ma tutti i suoi
domini vennero ad essere invasi dalle truppe della Rivoluzione Francese: si stava per fondare la
Repubblica Romana. Dopo questa inattesa invasione fu la volta delle locali insurrezioni contro lo
straniero. I Napoletani, con a capo il famigerato Fra' Diavolo, presero parte alla lotta. I Francesi
dovettero evacuare la città e la Campagna, ritirandosi a Civitavecchia.

A questo punto sopravvenne la più imprevedibile delle vicissitudini. Poco tempo dopo, l' antico
Lazio e la Campagna Romana, terra dei discendenti di Enea e signori dell'universo, regno terreno o
seggio della Chiesa cattolica nel corso del 18° secolo, non doveva più esistere che in condizioni
veramente incredibili.

Napoleone, prendendo di per sé il posto di Carlo Magno, annulla la cessione fatta al sovrano
pontefice e crea un dipartimento francese del tutto nuovo, il Dipartimento del Tevere !

** ** **

Abbiamo fin qui tracciato, in grandi linee, la storia della Campagna. Allunghiamo ora lo sguardo,
prima che non sia troppo avanzato il giorno romano, su alcune delle città e alcuni siti agresti che
attualmente esistono e si schiudono di fronte a noi, studiamo un poco queste popolazioni nuove,
nascite recenti, necessarie all'attività della regione. Non c'è uno solo di questi posti che non possieda
le sue particolari bellezze, sia naturali sia pertinenti all'arte.

L'interesse storico ed archeologico nascerà, nel visitatore, ad ogni visita, ad ogni passo.
Rimireremo, ancora una volta, sia i monti che le colline, le valli, i fiumi ed i ruscelli: rassegna
positiva questa volta, in cui tutte le cose appariranno sotto il loro vero odierno aspetto.

Dopo aver superato porta San Paolo, si giunge, a circa due chilometri, dinanzi alla basilica che porta
lo stesso nome e che, potrete constatare, gareggia con quella di San Pietro, se nondimeno abbiate
l'occasione di visitare anche quest' ultima.

( cfr note in appendice " Giubileo 2000, Storia degli anni santi e delle basiliche cristiane romane ) .

Se poi, alla prima biforcazione delle vie che vanno verso il mare, si dovesse prendere quella di
sinistra, non si tarderà a raggiungere l'abbazia delle Tre Fontane. Molto tempo prima di giungervi ci
si può rendere conto della sua vicinanza alla sola vista degli eucalipti che qui crescono come piante
di alto fusto.

E' una fondazione relativamente recente creata dai fra ti Trappisti che non hanno avuto affatto paura
della morte.

Il sito era oltremodo pestilenziale perché invaso, all'inizio di ogni estate, da nugoli di perniciose
zanzare che iniettavano con i loro aculei, come se fossero lance, l'inoculazione fatale della malaria.
Questi bravi religiosi , che non parlano mai, rispondono alle domande con segni affabili ed
intelligibili. Colui che è preposto a ricevere le visite è il solo di essi che abbia una lingua ed una
voce. Al termine di alcuni anni di penoso la-voro questa porzione di Campagna fu pressoché
risanata e bonificata. Ci sono tre chiese una affianco all'altra: in quel la di fondo sono state sistemate
le tre fontane che danno nome a questo luogo di pel-legrinaggio. La tradizione designa questo luogo
delle tre fontane come quello corrispondente ai tre balzi prodigiosi che compì la testa di San Paolo
nell'atto in cui essa cadde a terra, mozzata e staccata dal corpo per mezzo della spada del carnefice.

Ostia si trova ad una distanza di ventuno chilometri; ci si arriva tramite l'altra strada che abbiamo
lasciato alla nostra destra.

Il viaggiatore romantico non saprebbe reprimere, prima di arrivare, una certa emozione di fronte
alla vista di Laurento, la città madre dei Latini: il sito di questa città rimane poco distante sulla
sinistra ma non si sa più dove esista precisamente il luogo archeologico.

Forse esso potrebbe essere l'attuale castello, molto noto, di Tor Paterno, o più precisamente la
piccola borgata di Capocotta, a circa quattro chilometri e all'interno della zona.

Tutti questi paraggi sono rigogliosi di vegetazione fino al limite del litorale marino:esistono ancora
delle piante di alloro che crescono e si sviluppano in ottime condizioni climatiche. Lo spirito si
distende sotto l'influenza di questi ricordi e si dilata commosso dalla grandezza che ispira la culla
latina e da questa atmosfera luminosa e leggera in cui le nuvole riflettono vivamente i lampi
scintillanti della plumbea sabbiatura. Questa piana immensa e questi arbusti che abbiamo sotto lo
sguardo, quest' aere sempre puro, fresco e gradevole, fanno bene ai sensi, al cuore e all'intelletto. La
moderna città di Ostia è un sito colmo di melanconica pace: ciò che le conferisce ancora una certa
importanza è unicamente il fatto di rivestire la funzione di peristilio del vecchio porto dei Romani,
attualmente scomparso, porta superba ed orgogliosa città che oggi giace come un cadavere sotto le
spesse coltri di polvere e di resti urbani. Alcuni operai, lavorando in silenzio, effettuano fruttuosi
scavi: vengono dissotterrati dei bei sarcofagi di marmo; ancor prima erano sta ti trovati degli
scheletri, delle anfore e dei vasi di terracotta: il tutto giaceva sotto una strada che fu un tempo la più
trafficata della città. I trecento abitanti attuali di Ostia vivono sopra i resti di ventimila
abitantidell'antica Ostia. Essi offrono alla curiosità ed alla moderna ricerca il tesoro delle loro
strade, i loro palazzi, i loro templi divenuti silenziosi. E' una nuova Pom-pei, non sepolta sotto la
lava e la cenere ma distrutta dalle inondazioni e coperta dalle sabbie del Tevere. La corrente del
fiume si dirige sempre verso la stessa parte di litorale ed essa potrebbe invadere la città per
sommergerla se essa esistesse ancora.

Questa distruzione comunque era stata innanzitutto iniziata dai pirati e dai Saraceni: essa fu ultimata
nel tempo, nel corso dei secoli di decadenza e di abbandono. Ecco la spiegazione di questo aspetto
di cimitero senza croce, di luogo desolato, quantunque verde e fertile, che offre la vista di queste
rovine.

Le volpi vi trovano oggi riparo mentre i voraci e selvaggi cinghiali vi si nascondono per sfuggire ai
cacciatori. Non si penserebbe mai che questo luogo si possa trovare soltanto a mezz'ora di
automobile dalla città; si crederebbe piuttosto che esso sia molto lontano da qualsiasi centro - città .
Gli uomini della zona percorrono la Campagna cavalcando pelosi cavalli : essi indossano in testa un
grande cappellaccio di cencio scuro e girano armati di un fucile a doppia canna, ben sistemato in
sella.E' con quest'acconciatura e con tali armi che essi rimpiazzano gli antichi sog-getti del re
Latino. Coloro che non appartengono alla colonia di Ostia moderna vivono con le loro famiglie
sotto delle capanne coperte di paglia e di rami, tutto come in certi luoghi dell'America latino-
spagnola . E' vero comunque che essi non vi restano ad abitare che per il solo inverno : dal
momento in cui la calura ritorna a farsi sentire, peraltro accompagnata dall'inevitabile malaria, essi
tornano nei loro villaggi, nelle montagne della Sabina e degli Abruzzi , da dove erano scesi a valle.
In queste capanne si trovano uomini, donne e bambini dai modi rozzi e quasi selvaggi: essi
rispondono alle domande del forestiero con una certa durezza e diffidenza.

Anzio, con il suo delizioso porto, è superiore a Ostia, senza timore di essere contraddetti: la sua
posizione vantaggiosa è data dalle sue strade spaziose e dai suoi discreti palazzi; essa conta tremila
abitanti che aumentano considerevolmente durante il periodo estivo. Il clima della zona è salubre e
ameno. Il nome di Anzio comunque sta per acquistare felicemente una inattesa popolarità, pari a
quella che ha reso illustre l'ignota isola di Milo nell'arcipelago delle Cicladi. E' stata trovata, negli
scavi dell'antico palazzo di Nerone, dove essa era rimasta sepolta per ben venti secoli, una statua di
straordinaria bellezza. Gli studiosi, i conoscitori, le hanno attribuito differenti nominativi. La folla
entusiasta però, senza altre spiegazioni, ha adottato la statua come sua figlia. E' una giovinetta
molto simpatica, in tutto graziosa, ricoperta da un peplo dalle plissettature della migliore epoca
classica. Essa incede portando, all'altezza del petto, un oggetto tutto spezzato che somiglia ad un
piatto.

La statua per questo è stata denominata, molto semplicemente, con il titolo di "La fanciulla
d'Anzio". Questo nome di bambino viziato, trova-to in famiglia, non le sarà giammai levato.

La fanciulla è felice, robusta e sprizzante freschezza ; il suo portamento ispira graziosità e bontà
d'animo : non si può far a meno di vederla per poterla amare, per cercare la sua amicizia, per
desiderare uno schiudersi della sua bocca che ispira sincerità.

- Dimmi, cara fanciulla, da dove sei venuta e chi ti ha condotta in questi pa-raggi dai laboratori della
Grecia, dove gli dei entrano ed escono liberamente ? In che modo si è proceduto per poterti far
attraversare il mar Jonio sempre agitato ? In quale angolo eri posta, di fronte alle turchine acque del
mare e in mezzo agli allori rosati della villa di Nerone ? Che pensa di te l'imperatore ? E' vero che tu
eri già consacrata al servizio degli dei come fedele sacerdotessa e che la tua pri-ma preoccupazione
era quella di non disertare le funzioni religiose ?

E' per questo motivo che, essendo neofita in questi riti, tu rechi in mano con molta attenzione il
ramoscello di alloro e il rotolo di papiro che ti è stato affidato? Raccontami, nella tua schietta
parlata e facendoci ammirare la tua bella dentatura, i sentimenti e le impressioni che ti hanno
accompagnato da quando l'artista ti ha concepito e ti ha dato una forma pregevole , in una materia
incorruttibile, fino al tuo ritrovamento ed alla tua bella mostra nel mezzo della capitale delle eterne
bellezze. In quella città i cittadini e i forestieri ti am-mirano con occhi compiacenti. Essi fissano,
compiaciuti, la loro attenzione là dove la quieta serenità del tuo sguardo pulito non incontra altro
che un sentimento che esprime e riflette soltanto la più grande ammirazione.

Affiancata ai monti ed a poca distanza da Roma si trova la piccola città di Frascati. Essa rimane
adagiata in mezzo a piantagioni di vigneti e di uliveti: antichi palazzi, circondati da meravigliosi
giardini, la incoronano come un diadema.

E' il sito più vicino in cui i Romani sono soliti cercare un periodo di distensione, di piacevole svago
e di aria pura. Il suo nome da solo merita una accurata descrizione : Frascati vuol dire ornamento di
fogliame, sito verdeggiante e pergole colme di uve. La vista panoramica, che si gode dai suoi
terrazzamenti, è una delle più gradevoli del mondo. In fondo alla valle si intravede in lontananza
l'intera città di Roma: Il Lazio al completo si dispiega ai piedi della montagna. Se si getta lo sguardo
a sinistra si può scorgere il mare; a destra, invece, si scopre tutta la vallata racchiusa tra i monti
della Sabina e l'Etruria; là in basso infine si notano già i primi siti della Toscana. Le ridenti chine
dei monti, in forma di anfiteatro, sono perennemente ricoperte di alberi, di boschi e di ville che
stagliano i loro profili sotto la luce e gli azzurri colori dell'orizzonte lontano.

Le verdi cupole dei platani orientali, i fusti ad ombrello dei pini e i classici giardini pensili che
sovrastano le squadrate abitazioni italiane, chiudono l'orizzonte donandogli , con i propri contorni,
un ultimo tocco di gusto pittoresco. Ecco le scene che attiravano gli artisti in quell'epoca, nel tempo
in cui Claudio di Lorena attese il momento propizio della sera prima per rubare alla natura, in un
batter d'occhio, tutte le sue riunite grazie e poi per fissarle sulla tela a buon pro' dei suoi posteri.

La fondazione di Frascati è posteriore all'impero romano. Fu una rigo-gliosa rinascita della


vegetazione e della vita umana sulle ultime ve-stigia quasi smorte di una splendida villa appartenuta
a Lucullo e più tardi a Domiziano.Tusculo, il sito preferito dei nobili romani, ristagnava nell'oblio
nel mezzo delle sue grandiose rovine che si potevano ammira-re dall'alto della montagna. Dopo il
Rinascimento si provvide a costruire in tale posto delle sontuose ville, divenute oggi dei palazzi e
dei parchi di un enigmatico mutismo.

L'animo è colpito dal contrasto che essi formano con i verdi germogli e le macchie floreali dei
graziosi giardini, con le loro casupole dai vario-pinti colori e le screziate palazzine. Gli alberi di
queste classicheggianti ville, specialmente i cipressi, hanno raggiunto proporzioni smisurate.

Il tutto è improntato ad un carattere di immobilità e di solennità che si comunica allo stesso essere,
soggiogato dalla contemplazione dell'e-norme e profondo nonché immutabile bacino dove si adagia
la città di Roma con la sua immortale esistenza. Se si desidera inerpicarsi sulla col-lina , lungo gli
stretti sentieri che mettono in comunicazione le ville Lancelotti e Rufinella, si arriva, dopo un'ora di
cammino e di scalata, a ciò che resta della famosa Tuscolo. Di tutte le antiche costruzioni non
rimangono altro che i gradini del teatro, delle iscrizioni e dei terrei brandelli di marmo, raccolti e
risistemati dai monaci del convento di Camaldoli.

I castagni cominciano ad essere abbastanza colmi di frutti a queste altitudini : ce ne sono alcuni che
difendono queste rovine, alcuni tratti di una grossa muraglia, ultimi resti forse di un grande
serbatoio d'ac-qua. Le vestigia della villa di Cicerone non sono perfettamente localizzate :l'esatto
luogo della sua dislocazione è reclamato in proprietà da svariati ed attuali pretendenti. Essi poggia
no le loro pretese su qualche brandello di antiche fondamenta che mostrano con grande
venerazione: laggiù, essi dicono, è la dimora dell'autore delle Catilinarie. Tivoli, l'antica Tibur, è
anch'essa un paese di villeggiatura che gode di un ameno clima. Essa è resa interessante soprattutto
dalle rovine dei suoi imperiali templi e da quelle della superba villa di Adriano. Si visita inoltre la
gradevole villa d'Este, risalente all'epoca rinascimentale e costruita dall'omonimo cardinale nel XVI
secolo.

I monti della Sabina circondano la cittadella con i loro dolci declivi; su questi ultimi si scorgono
parecchi castagni il cui verde e gaio fogliame dona piacevolezza al paesaggio e leggerezza all' aere.
L'ornamento che, comunque, rimane il più bello e il più raro è tutto quel sistema di bianche e
frizzanti cascate formate dall'Aniene, all'interno della stessa cinta della città di Tivoli.

La rapacità degli speculatori ha voluto impossessarsi di queste cascate. Essi le hanno ristrette e
canalizzate per mezzo di tubazioni di ghisa per trasformare queste naturali bellezze in forza motrice,
in titoli azionari, in rendite vitalizie. E' da qui che perviene in Roma la luce elettrica che la illumina.
Per fortuna che tutte le cascate non sono diventate ambita preda di gente d'affari! Ce ne sono
rimaste alcune che continua no a far sentire il loro dolce mormorio facendo zampillare in alto gli
spruzzi brillanti delle loro acque sguscianti, divise in mille rivoli e che si vaporizzano cadendo su
rocce inalterabili.

La classica campagna non è sfuggita all'invasione del moderno pro-gresso. Le linee ferroviarie la
circondano da ogni parte: sono degli anacronismi necessari per facilitare gli spostamenti degli
uomini . Si ode talvolta un sibilo stridente; improvvisamente appare una locomotiva che traina un
con voglio che traccia una curva, evitando l' ostacolo causato da una serie di supporti di acquedotto;
l'abbondante fumata biancastra, violentemente sprigionata, non arriva all'altezza della conduttura
d'ac-qua sopraelevata. La ferrovia non possiede alcuna o ben poche stazioni periferiche: non ci sono
popolazioni da servire con tale mezzo di trasporto. I treni sfrecciano con molta rapidità: essi hanno
più l'aria di chi fugge che di chi si avvicina, come infatti se essi volessero sfuggire alla tristezza ed
alla solitudine che emanano da questo luogo. Sono sem-pre dei treni di viaggiatori: ce ne sono ben
pochi infatti per il trasporto delle merci. Quest'angolo di Campagna non sarà mai un centro di
grandi movimenti industriali.

I destini del genio lati no sono più eccelsi: ogni cosa qui si indirizza al cuore e all'intelligenza
dell'umanità. Il commercio di Roma è il più attivo del mondo : esso si pratica con ingegno e
potrebbe anche sfruttare la strada ferrata.

** ** **

Abbiamo già analizzato il singolare aspetto della grandiosa pianura denominata "Agro Romano":
abbiamo soffermato sopra di essa i nostri trasognati sguardi sui tempi primordiali, nei secoli
dell'impero e nel seguito dei periodi più recenti.Ecco il teatro delle antiche lotte eroiche e dei più
grandi avvenimenti della storia; fu in questo lembo centrale di terra che si compì la più formale e la
più feconda evoluzione dell'u-manità : fu sotto questo cielo che avvenne, nei cuori e negli animi, la
trasformazione più sostanziale e più intima. Sottolineiamo ora la ricca varietà degli elementi
naturali che costituirono questo territorio. Davanti le montagne che lo delimitano si estendono
immense pianure verdi, dei grandi lotti coltivati, dei laghi e delle paludi, dei cumuli di rocce, delle
sinuose valli, degli altipiani erbosi o coperti di querce o di pini; infine, sulle cime dei monti sono
infossati dei crateri rimasti aperti quando i vulcani si estinsero. Imponenti rovine, grandiose, come
quelle di acquedotti, di terme e di sepolcreti, sembrano essersi radicati da soli sopra questo suolo
tutto impregnato di storia feconda. I sette colli dell'Urbe sono stati resi meno aspri, quasi appianati,
dai cumuli delle dirute rovine, dalle piogge dei numerosi secoli trascorsi, dai danni di guerra e dal
fuoco devastatore. Esse non sono altro che delle linee on-dulate dominate da qualche palazzo
nobiliare o da qualche tempio.

Il Campidoglio è sormontato dalle colossali impalcature del colonnato che sta a commemorare il re
Vittorio Emanuele II e l'unità d'Italia.

Dei cupoloni semi - sferici, coronati da lanterne e da grandi pomelli che servono da sostegno alla
croce, si sono disseminati in tutto l'esteso panorama di Roma.

Essi sottolineano la differenza essenziale tra questa Roma formata fati-cosamente dai papi in mezzo
a tante difficoltà, ora sviluppate dagli Ita-liani, e l'antica Roma cesariana, distrutta dai barbari
esternamente e dalle fazioni al suo interno.

Diritti, sereni ed immutabili, avvolti nei loro mantelli di marmo, ecco i santi che, sugli elevati
frontoni delle basiliche, montano di guardia tra il cielo e la terra.

E queste figure nere e severe che si distaccano sui tetti delle case ed al di sopra delle logge dei
palazzi, sono gli Apostoli di bronzo, che sovrasta no i capitelli e le trionfanti spirali delle colonne
erette un tempo alla gloria di Traiano e di Antonino.

colle Vaticano sembra erigersi lontano dalla via comune e del gruppo dove brillano le sue colline
sorelle sotto il sole pomeridiano: esso estende i suoi giardini, il suo tempio, le sue elevate mura e i
suoi palazzi sacri nel mezzo di un quartiere isolato. Naturalmente è il tempio che domina con la sua
massa tranquilla e con il suo benefico aspetto. La sua semi sfera, di un colore grigio perla, copre e
protegge la tomba del primo dei vicari del cielo, di Pietro il pescatore di Galilea. La città, la
campagna, il Lazio, le montagne popolate da differenti popolazioni e l'intera regione visibile
all'orizzonte, tutto si sottomette a questo monumento amato da ogni parte. I cittadini lo chiamano
familiarmente "Cupolone".

Tali fortunati abitanti di Roma lo possono scorgere da ogni lato ed inviargli le loro familiari carezze.
Essi sentono ed apprezzano istin-tivamente la forza, la pace e la gloria che da lì si irradiano. Essi
credono di scorgere l'irradiazione eterna delle virtù care al cristiano.

Le aquile dagli occhi penetranti non si fanno più vede re in cielo. Delle colombe, amiche dei templi,
uccelli di alleanza e di concordia, che sono attirate dall' odore di incenso, volteggiano al di sopra
delle chiese ed attorno ai campanili. I loro spassosi volteggi non alterano affatto la calma di tale
scenario.

L'intero aspetto della città comunica all'anima dei sentimenti pacifici , delle rassicuranti emozioni.

Si prova, senza volerlo, l'effetto di vicinanza di questo grande focolare melanconico che porta in lui
e dirige verso l'universo tutti gli abbracci della carità di Cristo. Gli avvenimenti politici non
potranno mai to-gliergli questo carattere.

Questi lampi che vengono da lontano, questi gioielli brillanti incasto-nati nella ricca montatura del
vermiglio autunno, non sono che i riflessi inviati, attraverso la campagna latina, da Tivoli, Frascati,
Grottaferrata, Marino, Castel Gandolfo e Rocca di Papa, città svogliatamente distese al-la fine del
giorno sulle coste delle vicine montagne.

Se si osserva bene questa pianura che ci separa dai pendii del Lazio , si può apprezzare più
facilmente qual’ è la sua fisionomia al bagliore dei raggi spiegati del sole.Non è un terreno
completamente piano, come si è indotti a credere. Oltre gli altipiani, la pianura è spesso interrotta da
piccole valli allungate il cui umido fondo forma dei burroni poco profondi, dove scorrono piccoli
ruscelli o umili sorgenti d'acqua.

La pianura consta di più di duecentomila ettari di superficie: la sua altezza sopra il livello del mare è
assai modesta. I viaggiatori che la contemplano per la prima volta dalla finestra di un vagone,
subiscono un'impressione di monotonia e di abbandono, poiché infatti essa è , al-l'apparenza, un
territorio inospitale, steppa spoglia dell ' occidente , dove non si arriva se non perché lì vicino vi è
Roma. Il Tevere, almo padre di questi paesi, si snoda su un lungo percorso. Trecentosettanta
chilometri separano le sorgenti, nel monte Coronaro, dal suo estuario nella riva di Ostia. Esso
traccia le sue curve più pronuncia te proprio at-traversando la città: vuole così renderle l'omaggio
curvandosi davanti al suo avvicinarsi, e rallenta il suo corso per godere più a lungo del suo sacro
contatto. I rivieraschi dicono che il Tevere è un fiume fanciullone, che le sue piene sono modeste e
che se arriva a straripare, gonfio dalle piogge o ingrossato da gli affluenti, ciò non dura che qualche
breve tempo. Prima di chiamarsi il Tevere il suo nome era Albula, Biancastro:la sua acqua era di
tale colore alle sue origini. Esso porta attualmente il nome del gigante Tybris, re dei Toscani, gettato
nelle sue acque dopo aver trovato la morte in un terribile combattimento con Glauco, figlio di
Minosa. I suoi afflu-enti sono numerosi ma privi di impetuosa portata d'acqua: il loro corso così
esile ricorda quei fanciulli che si arrampicano sopra un vecchio , come abbiamo già menzionato in
una precedente descrizione. L'Aniene è il più consistente tra questi affluenti: lo si chiama ora
Teverone, nome familiare datogli dal popolo romano. Il suo vero nome italiano è appunto Aniene:
esso discende i monti della Sabina e la sua confluenza con il Tevere si trova a monte della città e
dirimpetto alla via Flaminia. Esistono altri corsi d'acqua che si vedono in lontananza, che svolgono
attraverso la campagna verde i loro bei nastri argentati. Essi portano una ben piccola quantità
d'acqua e il loro corso è molto limitato: appena usciti dalla sorgente essi vanno a gettarsi diritti
verso il mare, non cercando minimamente di contribuire ad ingrossare il fiume. Il Numico merita
una menzione speciale: esso serve da linea di demarcazione tra antichi possedimenti dei Rutuli e
quelli dei Latini. Le sue acque cristalline si dischiusero e seppellirono per sempre Enea: il fracasso
della battaglia fu causa di canti funebri. Tra questi fiumi ce ne sono alcuni che formano degli stagni
e dei laghi prima di giungere al termine della loro corsa. Queste acque stagnanti dove le piante e i
residui si decompongono durante l'estate, favoriscono lo sbocciare di quelle malsane zanzare che
trasmettono all'uomo le febbri di paludi, la malaria.

Si credeva fino a questi ultimi tempi che le esalazioni degli acquitrini fossero la causa di questa
malattia: è invece scientificamente provato ora che gli agenti infettivi sono le zanzare. Ecco perché
gli abitanti della campagna hanno dotato le loro porte e finestre di piccole reticelle che non fanno
filtrare altro che l'aria e la luce del giorno. Questa causa ( fatto assai curioso ) è stata già segnalata
nell' antichità da uno scienziato che sembra aver scoperto anche i microbi. Varrone, per nominarlo,
parla di "minuti corpuscoli invisibili" che nascono sulle acque morte e che provocano le malattie
degli uomini.

I venti trasportano questi miasmi, questi piccoli esseri malsani e li spandono su tutta la campagna:
ecco la causa principale della sua de-solazione. Non si deve dunque credere ciò che afferma
Madame de Stael nella sua opera classica intitolata "Corinne ou l'Italie" ; essa qui descrive
l'isterilimento del suolo stanco di produrre. Le terre di campagna, si dirà al contrario, non si
stancano mai di produrre : esse so-no, in genere, straordinariamente fertili.

E' stato provato, per esempio, che in uno stesso terreno, al Foro Appio, fu praticata la semina per
trenta anni di seguito e le raccolte non diminuirono affatto. La rassegna dei corsi d'acqua che noi
abbiamo passata porta a parlare del fiume di Ninfa, il Ninfeo: appena che esso sorge va
scomparendo subito a poca di stanza, nelle immediate vici-nanze delle Paludi Pontine, in direzione
di Terracina.

Il fiume, il lago e la città di Ninfa sono luoghi ammalianti, avvolti di mistero e di magica bellezza
( A ). Se ciò è un fascino per gli artisti esso è assolutamente una disperazione per gli storici e gli
archeologi. C'è in quel sito, non si sa più esattamente a che epoca, un tempio dedicato alle ninfe.I
cristiani, venuti più tardi, si servirono di quei muri e di quelle colonne per erigere, sullo stesso
posto, un santuario in onore dell' arcangelo San Michele, capo delle milizie celesti.

( A ) : vedi nota in Appendice sulla storia e la leggenda di NINFA .

Si sa ancora che nel corso del XII secolo, tale luogo fu un piccolo feudo dei potenti ed ambiziosi
Frangipani e divenendo, allo stesso tempo, un teatro, per molte riprese, delle lotte tra i Guelfi e i
Ghibellini; costoro incendiarono tutto e malauguratamente non si conosce più altra ulteriore notizia.
Il fiume appariva in superficie sotto forma di una sorgente molto limpida: essa, ancor oggi, ristagna
dopo i suoi primi passi per formare un laghetto, molto limpido anch'esso, in cui si riflette una torre
medievale. Or dunque, a sostegno della sua origine, non abbiamo né minore storia né minore
tradizione. La torre comunque non è realmente isolata, come potrebbe sembrare al primo impatto.

Esistono, ad essa molto vicine, altre rovine poetiche, di altre costruzioni misteriose: monasteri,
chiese e dimore particolari. Una sorniona quiete ed un'atmosfera perfida riempiono questo deserto
di Ninfa. Senza dubbio sono queste acque stagnanti che, non potendo scorrere per i canali ed i
fossati ostruiti, divengono la causa di queste stregonerie. Le febbri e le altre malattie hanno
impedito che gli uomini restassero ad abitare tale angolo di palude da almeno sei secoli a questa
parte. Le anatre selvatiche ed i corvi sono rimasti i padroni del lago e della città, che una volta era
tanto fiera. Al contrario i fiori, la cui purezza e la cui delicata conformazione sfidano i capricci del
tempo, si sono moltiplicati con tanta abbondanza, in mezzo a tale affascinante sito, che non si
possono contare le svariate e belle specie: ci sono delle malve di parec-chie varietà, dei cespugli di
rose cani ne, di narcisi nonché dei gigli e delle margherite dai petali dorati. Qui crescono tutte le
migliori specie di piante e fiori da giardino, come altrove crescono le cattive erbe. Gli allori e gli
olezzanti cespugli di ginestra distaccano i loro fusti su tale insieme tutto fiorito. Le edere hanno già
ricoperto con il loro scuro e fe-dele mantello tutti i muri e le torri. I cardi selvatici, dal pelo bianco
appuntito e pungente, circonda no il lago con i loro gambi capricciosi e lussureggianti. Ecco dunque
la città enigmatica di Ninfa.

E' Ofelia, la fidanzata di Amleto, languidamente distesa nel suo letto di acque trasparenti: essa
svanisce e scompare, come un'illusione, tra le canne dei giunchi acquatici e le ampie foglie dei
ninfei che fluttuano sulla superficie delle acque luminose di queste lagune paludose della morte...

** ** **

Appendice

NINFA : STORIA E LEGGENDA

A) LA "STORIA DI NINFA" :

Ai margini della " Via Consolare Pedemontana ", ( * ) proprio sotto la rupe di Norma, a lato di un
limpido laghetto formato dalle acque del fiume Ninfeo, nell’VIII secolo d.C. si insediò un modesto
nucleo di persone che avevano abbandonato la diruta Norma. Il luogo era ricco di terreni fertili per
l’agricoltura che consentivano la coltura di vigneti, oliveti e ortaggi. Il piccolo borgo medievale di
Ninfa, ai piedi di Norma, crebbe di importanza con l’abbandono della via Appia e della via Setina a
vantaggio della "Via Consolare Pedemontana".

( * ) Tale via Pedemontana era quella strada di epoca romana ai piedi dei monti Lepini, peraltro già
esistente e di origine volsca, che univa a Velletri ed a Roma le città periferiche di Cisterna, Cori,
Norma, Sermoneta, Sezze, Priverno, Terracina. Questo percorso, quasi contemporaneo alla via
"Appia" e ad essa alternativo ( soprattutto in caso di frequenti allagamenti di quest’ultima), si
sviluppò lungo la base dei monti Lepini, facendo crescere d’importanza gli insediamenti creati dalle
popolazioni di pianura, fuggite sui monti a causa degli allagamenti e del le invasioni saracene.

Questa strada iniziava ai piedi dei monti Lepini presso l’antica "statio" romana di Cisterna e
proseguiva per Ninfa, s’allungava poi ai piedi di Norma e Valvisciolo, lambiva quindi Sermoneta,
Bassiano, Sezze, Priverno, Fossanova , arrivando infine a congiungersi con l’Appia poco prima di
Terracina. Sotto Sermoneta si trovava in funzione, e si trova tuttora ma in stato di abbandono, la
suggestiva Torre del Monticchio. Essa fu costruita dai Caetani, che la ressero per secoli, e fu posta
a controllo della sottostante via Pedemontana. Oggi essa si presenta al visitatore in una posizione
singolare, infatti il "Monticchio", ovvero la collinetta su cui era stata costruita, è stata letteralmente
divorata da una cava, che ha risparmiato solo il banco di roccia su cui insiste la stessa torre, ormai
diventata isolata ed inaccessibile. Nel 1700 il Pantanelli così descriveva la torre: "Tra lo Ninfeo e la
via Papale s’erge ameno monticello, composto delle medesime pietre naturali dei nostri monti e
vestito d’arbori d’oliva e da ghiande, appellato il Montecchio..." Inoltre, sempre nel ‘700, lungo il
percorso di tale via, sorgeva no delle stazioni di servizio per il cambio, il riposo ed il foraggiamento
dei cavalli: Di questi luoghi chiamati "Poste", ve ne era uno sotto Sermoneta sul quale i Caetani
esercitavano il di ritto di riscuotere un pedaggio dai passeggeri in transito. Quando per la Posta
passava un membro di tale nobile famiglia veniva sparata una salva di dodici colpi di cannone dal
Castello sermonetano a spese del Ministro dell’Eccellentissima Casa.Nel territorio di Sezze invece,
proprio nei pressi della stessa Pedemontana, si potevano ammirare, in epoca romana, le costruzioni
di ville romane, costruite soprattutto nel I secolo a.C. ed abitate da nobili famiglie per alcuni
secoli. La più nota, anche perché ancora ben conservata, è la villa detta "Le Grotte", di cui restano
ancora dei cospicui resti. Tali vestigia ci fanno in tendere che trattavasi di una grande villa a
terrazze che, in virtù della sua notevole estensione, della sua maestosità e della presenza di grandi
cisterne, doveva necessariamente avere un carattere latifondistico . Alcuni studiosi del secolo
scorso identificarono questa costruzione con la villa di Mecenate, altri parlano delle terme di
Augusto. Papa Zaccaria nel 743 ebbe in dono dall’imperatore Costantino Copronimo il
possedimento di Ninfa, che con altri paesi costituirono poi il nucleo del patrimonio della Chiesa nel
sud del Lazio. Il borgo divenne comune fin dal 1118 ( L’anno stesso della morte di Lidano) per
concessione di papa Pasquale II che, con nobile gesto, si degnò di conferire il feudo di Ninfa non
ad un casato signorile ma al popolo stesso. Venne così regolata l’amministrazione comunale e
regolati con magnanimità i rapporti con il governo centrale di Roma. L’abitato così si espande
completamente, fioriscono i commerci e sorgono numerose torri signorilità sua ricchezza comincia
ad interessare molti signorotti locali e romani. Dopo alterne vicende di spadroneggiamenti vari da
parte dei conti di Tuscolo su tutto l’agro pontino, il papa Eugenio III nel 1146 offrì il feudo di
Ninfa, con piena fruizione delle rendite percepite dalla Chiesa, a Cencio ed ai nipoti Oddone ed
E.Frangipane. Nel XII secolo ci pensa Federico Barbarossa a spezzare questo ricco borgo
medievale distruggendolo completamente durante gli anni che vanno dal 1159 al 1167. Tutto
questo fu causato da furiose lotte di carattere feudale e religioso che sopravvennero dopo
l’incoronazione del papa Alessandro III (al secolo Rolando Bandinelli di Siena): tale nobile senese
venne consacrato papa il 20 settembre 1159 proprio nella Chiesa di Santa Maria Maggiore della
stessa Ninfa. L’incoronazione era stata a lungo osteggiata da Federico al punto tale che detto
casato dei Bandinelli, non sentendosi sicuro neanche in Roma, si rifugiò a Ninfa per procedere
sbrigativamente alla consacrazione papale del citato Alessandro III. Dopo otto anni di saccheggi e
di distruzioni lo stesso Federico dovette però arrendersi e sottostare, umiliato, dinanzi alla potenza
dello stesso papa a lungo osteggiato. Il tutto si risolse con una pace e con un perdono totale ma ciò
non valse a salvare Ninfa che era stata orribilmente distrutta. Ninfa in verità era divenuta una
splendida " città – giardino " , ricca di superbi monumenti e dotata di un piano urbanistico vera
mente ammirevole.La città, con la pace riacquistata, passò momentaneamente in possesso dei
Frangipane e poi degli Annibaldi, che la tennero fino al 1297, quando la cedettero per 200.000
fiorini d’oro alla fami glia Caetani, i quali poi per secoli, tranne una breve parentesi di dominio
Borgia, ne furono i legittimi proprietari. A protezione del borgo per tutto il medioevo dominava una
slanciata torre con merlatura ghibellina, a pianta quadrangolare, al ta m.32,fatta costruire da Pietro
Caetani proprio nel 1300 (ancora oggi esistente ed in buone condizioni), che si specchiava nelle
limpide acque del lago. Esisteva inoltre, a difesa dell’abitato, una poderosa cinta di mura. In quegli
anni Ninfa poteva disporre di oltre 150 abitazioni e di due mulini per cereali. Nel suo territorio
Ninfa ospitava ben nove chiese: ben sette chiese erano state costruite al suo interno ( S.Maria
Maggiore, S.Biagio, S.Salvatore, S.Leone, S.Angelo, S.Marino e S.Quinziano); altre due chiese
invece, quelle di S.Pietro e di S.Clemente, sorgevano fuori le mura.

Negli ultimi mesi del 1992 sono state rinvenute, quasi casualmente, vestigia di ulteriori edifici
medievali finora sconosciuti. Nelle vicinanze della città era presente anche il grande monastero di
S.Maria delle Marmore(o Marmosolio), identificato da alcuni con l’abbazia di Valvisciolo mentre
da altri storici ( tra i qua li il cardinale Borgia di Velletri) viene collocato presso Doganella, dove la
presenza di cave di travertino avrebbe giustificato l’appellativo delle Marmore.( * )

( * ) Percorrendo la via Appia, poco prima del bivio per Latina Scalo, si vede chiaramente in
lontananza la monumentale abbazia di Valvisciolo, situata nel territorio del comune di
Sermoneta. Riportiamo di seguito alla presente appendice, certi di fare cosa gradita a tutti, la
complessa e millenaria storia di detto luogo di culto.

Dopo una lenta ricostruzione Ninfa passò sotto il dominio di Ottaviano Conti, consegnatagli in
feudo da Innocenzo III nel 1216. Alla fine del XIII secolo Ninfa si ritrova ad essere sotto la mira
dei Caetani che, con l’intento di possederla completamente, cominciarono ad acquistare vari
appezzamenti del paese. l’opera di appropriazione di detti Caetani fu favorita anche da Bonifacio
VIII che, pochi anni prima di morire, donò in concessione feudataria ai suoi potentissimi parenti
non solo Ninfa ma quasi tutto il territorio pontino.

Fra le famiglie di antica nobiltà che ebbero feudi, ducati e possedimenti nel territorio dell’attuale
provincia di Latina, quella dei CAETANI è la più antica, e quella che per molto tempo riunì sotto
il proprio segno "nobiliare" il territorio che va da Cisterna al fiume Garigliano. A questo casato
sono legate molte vicende storiche pontine. Originaria di Gaeta, cui dette duchi e ipati nei secoli
IX e X, la famiglia dei Caetani ha dato vita a diversi "rami". I più importanti sono stati i Caetani
d’Aragona, i Caetani di Sermoneta e i Caetani di Fondi. Questa potente fami glia ha dato alla
Chiesa quattro pontefici, fra cui Bonifacio VIII, e ben ventotto cardinali. Guerre, alleanze,
matrimoni, hanno contrassegnato la storia e i rapporti con altre casate italiane, quali i Gonzaga , i
Medici, i Colonna, ed altre. A differenza di queste, ai Caetani non riuscì il disegno di formare una
loro Signoria, fra lo Stato Pontificio e il Reame di Napoli, sia per gli interessi del Vaticano sui
territori pontini, sia per l’opposizione di importanti comunità, fra cui SEZZE, che non ebbero facili
rapporti con la famiglia Caetani.Nel secolo successivo, pur essendo feudo papale, Ninfa venne
ugualmente sconvolta da rappresaglie, da saccheggi e da distruzioni.Infatti il 14 settembre 1328
Ludovico il Bavaro, per vendicarsi del rifiuto del pontefice( Giovanni XXII) di incoronarlo
imperatore, ordinò ai suoi soldati di attaccare la città, castelli e territori che appartenevano al papa
o che erano feudi della Chiesa.I soldati bavaresi piombarono anche su Ninfa, ne infransero le mura
e saccheggiarono case, chiese e granai. Alla fine si misero a distruggere tutto ciò che restava del
borgo e finirono la loro opera devastatrice incendiando tutto: i cittadini ninfani, annichiliti da tale
inaspettata ferocia, furono presi da grande timore e, tra grida e pianti di avvilimento, fuggirono,
come impazziti, fuori dalle mura , cercando di salvarsi nelle zone limitrofe che non erano state
assalite.Nel 1330 la città, comunque, passò completamente sotto il dominio dei Caetani che
provvidero a restaurarla dalle sofferte distruzioni.

La pace e la prosperità di Ninfa durarono pochi anni perché la città si trovò ben presto coinvolta
nelle sanguinose guerre seguite allo scisma d’Occidente.Tutto iniziò il 20 settembre 1378 quando
in Fondi, nella chiesa di S.Pietro, venne eletto l’antipapa Clemente VII ( al secolo Roberto di
Ginevra), sotto la protezione di Onorato I Caetani, conte di Fondi nonché cugino dei padroni di
Ninfa. Fu questa incoronazione la causa scatenante sia del citato scisma e sia delle violente
contese che ad esso susseguirono in tutto il territorio italiano, pur tra nobili dello stesso casato ma
di opposti schieramenti politico - religiosi. Nel 1380 quindi i Caetani di Ninfa non riuscirono a
fermare l’immane saccheggio della città da parte delle truppe inviate dal cugino Onorato I.

Benedetto Caetani, padrone del posto, si salvò solo con una fuga precipitosa mentre tutta la sua
proprietà venne completamente depredata: il danno subito dai Ninfani, pur senza distruzione
completa, risultò veramente ingente e stimato sui 1500 fiorini d’oro.
L’anno successivo, il 1381, fu la fine definitiva della fiorente cittadina medievale: i vicini paesi di
Sezze, Bassiano e Sermoneta, che la invidiavano a causa della sua importanza assunta fino a quel
tempo, si allearono per distruggerla. Fu così che con odio implacabile tali popolazioni limitrofe
misero fine definitivamente a Ninfa, distruggendone le mura ed i palazzi con il ferro e con il fuoco.

Le tenebre della notte calarono sulla gemma della pianura pontina che da quel giorno perse la
vitalità di nucleo popolato.Alcuni cittadini, dopo la distruzione, tornarono nel borgo a prendersi,
come cimelio affettuoso, gli stipiti di pietra delle loro case e che in parte rimisero in opera a
Sermoneta, là dove riedificarono le loro abitazioni quei Ninfani che qui vollero rifarsi la nuova
residenza.

Dopo questo terribile evento Ninfa non fu più abitata e anche a causa della malaria divenne la
"città dei morti", in cui i rovi, l’edera, la rigogliosa vegetazione spontanea presero il sopravvento
sulle costruzioni di quello che era stato un importante centro economico e strategico.

In verità Ninfa fu oggetto, per questo, di un tentativo di ripopolamento da parte dei Caetani ma ciò
fallì miseramente. Nel 1499, in seguito a lotte di nobili e potenti famiglie del territorio pontino,
il pontefice Alessandro VI della famiglia Borgia tentò di sterminare il ramo dei Caetani di
Sermoneta, confiscandone i beni e facendo uccidere vari membri della famiglia. Egli decretò che i
beni dei Caetani, compresi quelli relativi al la povera Ninfa, fossero venduti a favore della Chiesa.
Fu così che il 12 febbraio 1500 i castelli di Sermoneta e di Bassiano, nonché le tenute di Ninfa,
Norma, Cisterna, S.Felice e S.Donato, furono venduti a Lucrezia Borgia per 80.000 ducati d’oro,
che il papa "ufficialmente" incassò dalla figlia. La famigerata ferocia dei Borgia si manifestò
ancora una volta con lo spregevole gesto sacrilego di Lucrezia che diede ordine di gettare le ossa
dei Caetani sepolti ella chiesa di S.Pietro in Sermoneta. Una volta distrutta tale chiesa infatti i resti
mortali di tali nobili furono fatti gettare con i calcinacci nel dirupo del monte sermonetano.
Ma il regno dei Borgia fu di breve durata, perché già nel 1505, dopo la morte del pontefice, la
restaurata Signoria dei Caetani tornò a brillare sui feudi pontini, purtroppo senza più gloriarsi dello
splendore di Ninfa, ormai in lento e continuo disfacimento. Si distese così un definitivo velo di
oblio su questa splendida città che, visitata nel corso del 1800 dallo storico tedesco Ferdinand
Gregorovius, venne da questi definita come la "Pompei del Medioevo". La poetica descrizione di
Ninfa fatta nel secolo scorso da questo grande storico, ha ancora intatto il suo fascino:

"Ecco Ninfa, ecco le favolose rovine di una città che con le sue mura, torri, chiese, conventi ed
abitati, giace mezza sommersa nella palude, sepolta sotto l’edera foltissima. I fiori brulicano in
tutte le strade, si dirigono in processione verso la chiesa in rovina, scalano le torri, giacciono ridenti
e scherzosi sui de serti telai delle finestre, invadono le soglie, perché ovunque dimorano le Silfidi,
le Fate, le Naiadi e mille spiriti graziosi del mondo della favola".

Nel 1920-21 comunque il duca Gelasio, discendente dei signori Caetani, che aveva ereditato la
proprietà della zona, decise di risanare Ninfa per trasformarla in parco. Gelasio provvide altresì a
restaurare la grande torre, che presentava notevoli guasti alle pareti e alla merlatura, e il castello,
ridotto in cattive condizioni di staticità.

Con grandi sforzi e con tanta passione il luogo viene completa mente trasformato fino a diventare
un vero giardino sotto le cure di Roffredo e di sua figlia Lelia Caetani. Opera veramente di rilievo
fu la messa a coltura di essenze rare e profumate, esotiche e nostrane; furono disciplinati e ben
organizzati i numerosi corsi d’acqua. Ninfa viene così attraversata dal fiume Ninfeo che irriga ed
impreziosisce tutta l’oasi e la vegetazione presente.

Con il proprio marito,il nobile inglese Hubert Howard, Lelia amplia i progetti dello zio ed inizia
con molta passione l’opera di trasformazione di Ninfa da giardino restaurato a vera oasi
naturalistica e vero giardino botanico. Dell’antico splendore cittadino però non rimangono che i
ruderi di due ponti, della torre e delle sette chiese interne.

Oggi l’oasi di Ninfa fa parte della fondazione "Roffredo Caetani" di Sermoneta, istituita dopo
l’estinzione di detto casato, e per la sua grande importanza naturalistica è gestita con la consulenza
delle associazioni ambientalistiche LIPU e WWF che organizzano le visite stagionali dell’oasi da
Aprile a Settembre di ogni anno. ( i biglietti vanno acquistati in anticipo presso l’EPT di Latina, la
sezione LIPU di Latina, la fondazione Caetani di Roma, il WWF di Roma. Le visite scolastiche
sono consentite in date da concordare). Il consultivo del 1992 ci svela che sono stati oltre 42 mila
i visitatori che hanno frequentato quest’anno, nelle giornate di visita al pubblico, la città-giardino
di Ninfa. In detto rapporto annuale, curato dalla suddetta fondazione, vengono evidenziati i
problemi che attengono alla difficile ma entusiasmante gestione di questo angolo medievale
botanico - avifaunicolo e, in genere, ambientale, che può considerarsi davvero unico. Nel giardino,
che si estende insieme alla distrutta città medievale, su un territorio di circa 6,5 ettari, vivono 1200
specie vegetali, 154 specie di uccelli e 16 specie di mammiferi. Ninfa "opera" all’interno di una più
ampia oasi di 1852 ettari, che abbraccia territori dei comuni di Norma, Cisterna e Sermone ta,
costituiti per 1/3 di collina, 2/3 di pianura, con un 70% di coltivi, 10% di aree umide e il 20% di
bosco misto. Nello splendido giardino, insieme ai nostri ontani, salici, pioppi, olmi, querce aranci,
limoni, melograni, crescono l’azzurro "Ceanothus" californiano, i grandi aceri nipponici, le
betulle boreali, l’albero dei tulipani, l’acero dello zucchero, giganteschi bambù, la splendida
"Gunnera Manicata" dell’Amazzonia, che ha le foglie larghe fino a m. 1.5, i ciliegi cinesi, la Calla
etiopica. Profumate sono le numerose varietà di rose che compongo no giochi floreali con altri
alberi; profumatissimi sono i cuscinetti di terreno coltivati con garofani, papaveri d’oltre oceano,
tulipani olandesi, peonie, begonie, lillà, lavanda, salvia, rosmarino …

Il tutto è disposto con amorosa cura e in modo scientifico. Nelle acque del Ninfeo e nel laghetto si
trova la lontra, mammifero ormai raro in Italia. Numerosi sono gli animali che vivono,
rigorosamente protetti, nell’oasi di Ninfa: il tasso, l’istrice, la faina, la puzzola, e le 154 specie di
uccelli: va rie specie di anatre selvatiche, gli aironi cenerini, le garzette, il gufo, l’allocco, il
barbagianni, l’usignolo, il cardellino, il picchio rosso, le cincie e i rari passeri solitari e pendolini,
un genere d’uccello quest’ultimo che crea un caratteristico nido a forma di fiasco che appende ai
rami dei salici.

E’ questo un insieme botanico veramente costoso e rilevante, accresciutosi dal 1920 ad oggi, che
però non è la vera essenza caratteristica dell’oasi di Ninfa. Ciò che contraddistingue tale oasi non è
infatti questa sua varietà ed abbondanza di vegetazione bensì il suo particolare sito geografico -
climatico, posto al riparo da forti escursioni termiche, che permette l’impianto e la rigogliosità di
piante ed arbusti di differenti regioni tropicali. Nel giardino sono state immesse nuove specie
vegetali, rispettando il delicato equilibrio biologico, dei rapporti e anche dei cromatismi, ed è stato
ripulito il fondo del laghetto che si forma con le prime acque sorgenti del fiume Ninfeo, con la
conseguenza di renderlo trasparente e di richiamare una più nutrita popolazione di uccelli
acquatici, tra tiffetti, germani, reali, aironi, martin pescatori, folaghe, gallinelle d’acqua e, per la
prima volta, moriglioni.

Il tutto è disposto con amorosa cura e in modo scientifico. Nelle acque del Ninfeo e nel laghetto si
trova la lontra, mammifero ormai raro in Italia. Numerosi sono gli animali che vivono,
rigorosamente protetti, nell’oasi di Ninfa: il tasso, l’istrice, la faina, la puzzola, e le 154 specie di
uccelli: va rie specie di anatre selvatiche, gli aironi cenerini, le garzette, il gufo, l’allocco, il
barbagianni, l’usignolo, il cardellino, il picchio rosso, le cincie e i rari passeri solitari e pendolini,
un genere d’uccello quest’ultimo che crea un caratteristico nido a forma di fiasco che appende ai
rami dei salici.
E’ questo Un insieme botanico veramente costoso e rilevante, accresciutosi dal 1920 ad oggi, che
però non è la vera essenza caratteristica dell’oasi di Ninfa. Ciò che contraddistingue tale oasi non è
infatti questa sua varietà ed abbondanza di vegetazione bensì il suo particolare sito geografico -
climatico, posto al riparo da forti escursioni termiche, che permette l’impianto e la rigogliosità di
piante ed arbusti di differenti regioni tropicali. Nel giardino sono state immesse nuove specie
vegetali, rispettando il delicato equilibrio biologico, dei rapporti e anche dei cromatismi, ed è stato
ripulito il fondo del laghetto che si forma con le prime acque sorgenti del fiume Ninfeo, con la
conseguenza di renderlo trasparente e di richiamare una più nutrita popolazione di uccelli
acquatici, tra tiffetti, germani, reali, aironi, martin pescatori, folaghe, gallinelle d’acqua e, per la
prima volta, moriglioni.

E’ proprio di questi ultimi giorni una bella notizia circa tutto il territorio di Ninfa: La Regione Lazio
ha emesso un decreto con il quale il giardino di Ninfa ( e naturalmente tutte sue le pertinenze ) è
stato istituito in Monumento Naturale, come Campo Soriano e come il Tempio di Giove Anxur
inTerracina.

Il decreto porta la data del 25.02.2000 e la Commissione consiliare permanente della Regione si era
espressa appena undici giorni prima. E’ veramente una encomiabile rapidità buracratica.

L’area ricade sotto il perimetro comunale di Cisterna.

Per effetto del provvedimento di tutela dell’area, all’interno della zona saranno posti dei divieti
circa alcune azioni: gli antichi proprietari e benemeriti creatori della Fondazione Roffredo Caetani,
donna Lelia Caetani e Hubert Howard ( cui è naturalmente affidata la gestione del Monumento
naturale) , avevano peraltro definito una serie di proibizioni volte a garantire la conservazione della
"naturalità" dello scenario.

La Fondazione stessa dovrà ora adottare uno specifico regolamento per l’utilizzo e la fruizione di
questo nuovo monumento naturale.
B) LA "LEGGENDA " DI NINFA

La storia "leggendaria" di Ninfa si perde nel mito di tempi arcaici, da ambientarsi forse in epoca
volsca quando i fatti storici non erano ancora tutti suffragati da riscontri certi o tramandati per
iscritto.

Secondo la tradizione leggendaria quindi Ninfa era una principessa e cioè la bella figlia del re
volsco del luogo.

Costui, come tanti altri suoi predecessori e successori, aveva in cuor suo un solo tormento: il
desiderio di liberare l'Agro dalla presenza soffocante e devastante della palude.

Per risolvere questo angoscioso problema tale re non esitò a chiedere aiuto ad altri due re suoi
confinanti: Martino, buono e saggio, e Moro ( detto anche Portatore) , malvagio e dedito ad arti
magiche.

Ad ambedue i sovrani vicini il nostro re decise di affidare il compito di prosciugare il territorio


gravemente insalubre.

Con l'affidamento di tale onerosa opera il re manifestò l'idea di una singolare ricompensa: egli
avrebbe dato in sposa la propria figlia a chi fosse riuscito in tale impresa.

Ambedue i contendenti idearono subito un sistema di prosciugamento basato sull'escavazione di un


canale che facesse defluire le acque stagnanti verso il vicino mare : l'idea, di per sé ottima, ben
presto non si dimostrò di facile praticabilità a causa dei molti ostacoli geografici di tali luoghi.

Martino, amato segretamente da Ninfa, molto ragionò e molto si adoperò per portare per primo a
termine l'opera intrapresa che invece procedeva con enorme fatica e lentezza.

Moro era ugualmente in affannosa ricerca ed alla fine, quando non trovò una razionale soluzione
del problema, ricorse alle arti magiche, anche perché i progressi dell'avversario erano comunque
più rapidi.

Fu solo attraverso questi mezzi fraudolenti che il canale sboccò rapidamente a mare, poco
tempo prima di quello progettato da Martino : tale magico soccorso diede la vittoria al malvagio
re Moro (Portatore) nella singolare sfida con il buon re Martino .

Di fronte a questa dura realtà la bella Ninfa, addolorata, si gettò a capofitto nel lago ( che venne a
pren-derne il nome) non volendo acconsentire alle nozze con l'odiato pretendente.

Per incanto il canale di Moro scomparve e la pianura fu nuovamente sommersa nel pantano.

Questa leggenda è veramente fantastica ma possiamo trovare ancor oggi dei reali riferimenti alla
storia: infatti esistono ancora nel nostro territorio i nomi di Ninfa (lago), di Martino e di Portatore
(ambedue legati a due corsi d'acqua).

Rimane aperto un dilemma: sono veramente questi nomi che scaturiscono dalla storia fantastica
oppure è la leggenda che si è originata da fatti e persone reali?

Sembra a tal proposito che il canale di rio Martino, certamente scavato in epoca antichissima, sia
stata opera dei Volsci, antichi abitanti dei nostri luoghi, primi bonificatori delle paludi pontine.

Finché tali antenati si occuparono del deflusso delle acque al mare, non risulta esserci stato alcun
luogo paludoso nel nostro Agro Pontino. Oggi in verità la città morta di Ninfa è un suggestivo ed
inquietante luogo che evoca un passato burrascoso: rovine scheletriche circondate da piante
esotiche, cavalieri medievali morti in battaglia, il rudere di un castello che si specchia su un laghetto
dalle acque malefiche, sono questi i segni reali ed a volte impalpabili dell'antica vitalità di Ninfa.

Su tali luoghi della città fantasma aleggia anche lo spettro di una dama misteriosa ed ammaliante
che dalla notte dei tempi si para sul cammino di viandanti solitari.

Impetuosa e ribollente l'acqua sembra possedere enigmatiche affinità con la contessa Giselda
Frangipane, vissuta alcuni secoli or sono a Cisterna di Latina e riconosciuta proprio come il
fantasma del lago di Ninfa.

APPENDICE II:

ORIGINE E STORIA DELL'ABBAZIA DI VALVISCIOLO.

L'Abbazia di Valvisciolo, dedicata ai santi Pietro e Stefano, situata ai piedi del monte Corvino, ha
una storia molto complessa ed alquanto controversa. Nella storia di questo luogo abbaziale infatti
si intrecciano le intricate vicende di ordini religiosi, quali i Basiliani, i Cistercensi ed i Templari,
che si succedettero nei vari luoghi religiosi pontini.

Tale successione di eventi possiamo riscontrarla anche nella nascita e nello sviluppo dell'abbazia
sermonetana.

Mancando notizie sicure circa l'inizio della sua esistenza, si è diversamente congetturato tra gli
studiosi di arte medievale, sulla genesi sia dell'appellativo con cui è stata denominata e sia sulla
costruzione.

L'abbazia fu probabilmente costruita, nel secolo XI, dai monaci greci basiliani, portati nella
campagna romana da S.Nilo nel X secolo. In origine essa fu detta la chiesa di S.Pietro presso
Sermoneta.

Nel XII secolo i monaci basiliani scomparvero dalla zona, lasciando i loro siti religiosi ai
Cistercensi ed ai Cavalieri Templari (ordine soppresso nel 1312 da papa Clemente V ), che
adattarono le modeste strutture edilizie basiliane alle loro diverse esigenze, ricostruendo e
riadattando i primitivi edifici di culto.Quasi subito dopo il loro arrivo in Italia, cioè subito dopo il
1116, i Templari si insediarono presso Sermoneta dove ebbero in concessione la "Commenda nel
territorio di Sermoneta, per entrate della quale furono concessi molti terreni e vigne e altri, né in
quel tempo era Abbadia dei Santi Pietro e Stefano come al presente", così come descrive un
anonimo.

Detti Cavalieri si dovettero limitare a costruire, accanto alle celle dei Basiliani, degli ambienti per
loro abitazione, adatti alla regola ed al tenore di vita che osservavano.

Il nome "Valvisciolo" per alcuni studiosi sarebbe stato derivante da "Valle dell'usignolo", nome non
appartenente originariamente al luogo attuale, ma ad un altro, situato presso Carpineto,
precisamente a Malvisciolo, presso la Valle Roscina, esisteva un'altra abbazia ugualmente dedicata a
S. Stefano.

In realtà tali studiosi sono caduti in errore perché il nuovo toponimo sarebbe sempre derivante
dall'abbazia sermonetana ma risulterebbe un misto tra Malvisciolo e Valle, cioè "Valvisciolo",
quale poi è rimasto.

L'abbazia invero sorge allo sbocco di una valle, alle pendici del monte Corvino, e la seconda parte
del nome deriva presumibilmente dai viscioli selvatici che dovevano crescere presso Malvisciolo
carpinetano. Dunque non saranno stati certo gli usignoli a dare l'appellativo al complesso
abbaziale.

L'attuale Valvisciolo ebbe anche l'appellativo di Marmosolio, che era quello di Doganella dove era
esistita un'altra abbazia dedicata allo stesso santo, distrutta da Federico Barbarossa nel 1165, in
odio al pontefice Alessandro III.

I Cistercensi di Marmosolio si videro quindi costretti a rifugiarsi presso Valvisciolo sermonetano,


in quel tempo governata dai Templari.

Tale presenza gerosolimitana era giustificata anche proprio dall'esistenza delle zone paludose
che sia i Templari sia i loro "cugini" Cistercensi erano soliti bonificare con tanta cura.Dopo la
distruzione di Marmosolio quindi i Templari abbandonarono ben presto Valvisciolo per consegnarla
definitivamente ai Cistercensi provenienti da questa abbazia distrutta. A questi ultimi monaci
dunque toccò il compito di costruire, con la loro particolare arte, la solida ed attuale abbazia. Si può
così datare la costruzione dell'odierna chiesa fra il 1165 ed il 1170.

Il complesso edilizio quindi ricevette anche l'appellativo di Marmosolio,per rie-vocazione


nostalgica dell'altra, e l'annessa chiesa fu dedicata ai santi Pietro e Stefano.

Essa rappresenta il più antico edificio religioso di stile gotico-cistercense esistente nell'area dei
Monti Lepini.

Si chiarisce quindi la successione cronologica dei tre monasteri: agli inizi del X secolo esistette
Valvisciolo carpinetano, la cui denominazione fu ripresa da quello sermonetano dei Templari. Tale
abbazia rilevò anche l'appellativo di Marmosolio di Doganella nell'XI secolo e, passato in mano dei
Cistercensi, venne definitivamente ricostruita nel XII secolo e sistemata nello stato in cui ancora ci
appare; essa è la sola di quelle altre abbazie che resiste ancora alla rovina ed alla distruzione dovuta
al trascorrere del tempo.
** ** **
SANT'ANGELO SUL MONTE MIRTETO

(Tempio rupestre - Monastero diroccato)

1)
la grotta-santuario dedicata a San Michele protettore delle anime dei pellegrini,Lasciata Ninfa, si
prende un viottolo bianco sulla destra e ci si arrampica per l’ultima tappa lungo i fianchi del monte
sotto Norma, scoprendo un’altra delle costanti del cammino di Santiago. Frequentemente le alture
sono dedicate al pesatore delle anime, al giustiziere del drago che insidia il pellegrino
scoraggiandone l’andare con le difficoltà e le tentazioni della via. E così da Sant’Angelo del
Gargano a Compostella, passando per Castel Sant’Angelo (Roma), la Sagra di San Michele nella
Val di Susa, St. Michel d’Aiguille a Le Puy nell’Alvernia francese, San Miguel in Excelsis a Estella
nella Navarra spagnola. E relativamente al tratto d’Appia Pedemontana: per San’Angeletto di
Terracina (Monte Giove), Sant’Angelo del Mirteto e Porta San Sebastiano dove l’Appia incontra le
mura di Roma.

Mentre si sale la vista si allarga ad abbracciare la pianura e il mare. La grotta è circondata da un


casolare e dalla chiesa di Santa Maria ( cfr seguente paragrafo ) , resti del monastero dell’ordine
florense animato dalla presenza dei discepoli diretti di Gioacchino da Fiore, venuti sui Lepini
all’inizio del ‘200.

Oggi il santuario rupestre è completamente disadorno e lontano dalla descrizione del Pantanelli:
«Vicinissimo a detto convento si vede il devoto antro di Sant’Angelo sopra Ninfa o della Stramma,
che ha alcuni altari, pitture e stalli intagliati nei vivi massi di pietra che muovono a devozione»
(P.Pantanelli "Notizie storiche della terra di Sermoneta ", Bardi ed. Roma 1972, vol.I pg. 26).

Lo spazio fino agli anni venti-trenta presentava leggibili gli affreschi, tra i quali quello di Michele
che uccide il drago (fortunatamente riportati su cartoncino dall'archeologa Maria Barosso).

Ma la nudità permette l'ascolto del silenzio, cogliendo l'eco del vociare dei pellegrini che
accorrevano numerosi in cerca di protezione, e riprendevano il cammino pronti a sfidare il caldo
della palude e le imboscate dei banditi: traduzione materiale delle insidie tese dal maligno alle loro
anime.

Dopo un lungo periodo d'abbandono il sito è preso in custodia dal movimento delle "Domus
Cultae", che intendono trasformare l'ambiente in luogo di riflessione culturale e formazione umana.

Affacciandosi sulla pianura si nota come il luogo sia una vedetta naturale per il controllo della
sottostante Pedemontana che, terminata la sua funzione, va a ricongiungersi con l’Appia nel
territorio di Cisterna.

Conclusione

Senza mezzi termini l’Associazione Italia-Francia per l’Europa di Bassiano ribadisce la denuncia
contro i danni ambientali subiti e i rischi di degrado che la Pedemontana corre: altrimenti l’averne
risvegliato la memoria si risolverebbe in un lavoro sterile e inutile.

In termini di bilancio finale, i siti illustrati per presentare la seconda parte della ricerca risultano
ugualmente funzionali alle strade di pellegrinaggio. Materialmente: sorgenti terapeutiche e osterie
in Piedimonte, ospedale a Valvisciolo. Spiritualmente: venerazione delle reliquie di San Lidano nel
territorio di Sezze, lucro di indulgenze a Ninfa. Inoltre: l’assistenza ai viandanti degli Ospitalieri
Antoniani è potenziata da quella dei Cavalieri Templari (passo di Acquapuzza e Valvisciolo), ordine
cui è legato pure l’itinerario alchemico per San Giacomo (iniziazione evocata da cerchio magico
graffito, salamandra e conchiglia scolpite nell’abbazia). La memoria compostellana si rivela nei
documenti (cronache del capitolo di Santa Maria in Sermoneta), sul piano iconografico (Giacomo
Leonardo, Giorgio, Francesco a Selvascura e Michele arcangelo al Mirteto); deriva dalla
dedicazione di chiese rurali ai protettori: Antonio abate e Giacomo nonchè Madonna della Stella
con evidente allusione alla Via Lattea nella quale si riflettono anche le tracce lepine del cammino di
San Giacomo. Finalmente la consapevolezza carolingia è ribadita dalla toponomastica (Fossato di
Orlando), mentre si delineano i profili di altri pellegrini per Santiago (Luca e Gualtiero da
Sermoneta), per Roma (confraternita di Lecce) e Gerusalemme (Oddone da Sermoneta e Vincenzo
da Bassiano).

I dati, sommandosi agli elementi forniti con la prima serie di tappe, sanzionano il ruolo della
Pedemontana nei movimento dei pellegrinaggi. La via pone così la sua candidatura all’ingresso nel
reticolo europeo delle strade per Campostella.

Se la verifica dello studio attualmente in corso presso il Centro di Studi Campostelani


dell'Università di perugia darà esito positivo, l'Associazione titolare della ricerca chiederà al
Consiglio d'Europa di poter installare nella microregione lepina il cartello "Cammino di Santiago -
Itinerario Culturale Europeo" (con la stilizzazione della conchiglia jacopea e la bandiera dalle
dodici stelle in campo blu).

Chissà che non serva a diffondere tra i cittadini della XIII Comunità Montana e della Provincia
pontina la coscienza del valore di un patrimonio culturale e ambientale che va difeso dai vandali di
turno, dall'abbandono, dall'oblìo e che va adeguatamente valorizzato: perché appartiene alle regioni
d'Europa nel senso delle comuni radici.
2)

ILTEMPIO RUPESTRE DI SAN MICHELE ARCANGELO

È questo un monastero medievale sorto nelle immediate adiacenze di una grotta la quale, a partire
dall'Alto Medioevo, venne usata come tempio rupestre dedicato a San Michele Àrcangelo. E posto a
mezzacosta tra le rovine di Norba e Ninfa. Seppur con qualche fatica, dato lo stato di conservazione
non ottimale delle strutture, è possibile riconoscere gli spazi e gli ambienti nei quali i monaci
trascorrevano la loro vita quotidiana. La chiesa non è eccessivamente grande, a navata unica e
presenta segni di rifacimenti nel corso della sua vita millenaria.

La foresteria è situata a distanza rispetto al resto del complesso monastico; un giardino la divide
dagli altri edifici. Nel corso dei secoli, in questo luogo, venne costruito un frantoio che è rimasto in
funzione fino al secolo scorso. lì monastero fu sicuramente abitato dai monaci florensi finché
Martino V ( Papa , 1417-1431 ) decise di unirlo a quello benedettino di Santa Scolastica di Subiaco.

Da notizie storiche risulta che nel corso del XIII secolo i proventi di Ninfa venivano dati in
concessione ( definitiva o temporanea ) ai monasteri di Santa Maria della Gloria, di Santa Maria di
Monte Mirteto oppure di Santa Maria dei Lebbrosi di Terracina.
All’epoca di Gregorio IX (1227 / 1241) risultano varie concessioni e/o donazioni effettuate nei
confronti del monastero di Santa Maria della Gloria di Monte Mirteto ( cfr

" Les registres de Gregoire IX " ). La vasta zona pianeggiante che si estendeva ai piedi del colle era
in parte paludosa . La palude ospitava delle piscine acquitrinose che si alternavano con aree emerse,
con boschi e con prati , territori questi tutti frequentati da mandrie di bufali . I papi Gregorio IX e
Alessandro IV ( 1254-1261 )decisero di concedere all’abbazia di Santa Maria di Monte Mirteto il
libero pascolo proprio per i bufali ( cfr "Les structures du Latium médiéval…" pg. 269 , 2 voll. –
Roma 1973 ).

Qualora si voglia essere informati sulle caratteristiche della macchia nelle zone paludose si può
consultare il volume "Lazio", pg. 183 e ssgg. di R. ALMAGIA’ – Torino 1976 (2).

Per notizie generali su tale monastero si consulti il famoso « Masticon Italiane, I, pg. 121, e pg. 136,
n° 87.

Per uno studio più approfondito della storia del sito religioso e di tutto il complesso patrimoniale di
Santa Maria de Gloria si può consultare il testo "Il monastero forense di S. Maria della Gloria… " di
F. CARAFFA edito in Roma nel 1940.

Diversi saccheggi accelerarono la rovina di Sant'Angelo sul Monte Mirteto e vi fu bisogno di due
restauri (1770 e 1832) per prevenire il crollo. Oggi il monastero non è più abitato ed è oggetto di
una lodevole iniziativa di recupero ad opera dell'Associazione Culturale "Opera di San'Angelo sul
Monte Mirteto" che , originatasi dall'ex Domus culta pontina, raggruppa innanzitutto le attività di
varie Domusculte pontine ( Sessana, Normense, Setina ) ed è diventata la guida di gruppi scouts
provinciali ( vedasi Agesci zona pontina e relativo gruppo giovanile "Sentiero Luminoso" ). L'Opera
intende essere punto di riferimento culturale per tutti i gruppi culturali che operano nel territorio
adiacente.

L'Associazione, infine, che opera già in contatto con i Centri Coscienza di Milano e di Bergamo,
intende restaurare il complesso arcaico e religioso per fondare in esso un Centro socio-culturale di
grande respiro ed apertura.

Per tale eccellente finalità sono stati organizzati molti momenti di volontariato.

************************

IL MIRTO

(Myrthus communis)
Il colle che si estende tra Ninfa, Norba e Norma è chiamato Monte Mirteto, fin dall'epoca
medievale, proprio per la presenza del Mirto. Infatti questa pianta, nell'ambiente mediterraneo,
subentra alla vegetazione originaria distrutta da incendi o coltivazioni. E questa una pianta
farmaceutica appartenente alla famiglia delle "Mirtacee" che molta parte ha avuto nella storia e
nelle leggende di tutti i popoli mediterranei: fu pianta sacra per i Persiani mentre per gli Ebrei è
considerato simbolo di pace e di verginità. La bellezza di questo arbusto sempreverde (alto
normalmente da i a 3 metri), che profuma l'aria con il suo delicato aroma sembra giustificare tanta
fama. Le foglie possono essere sia ovali che di forma allungata assottigliate alla punta e hanno un
colore verde assai brillante. lì Mirto fiorisce in estate. I fiori sono di colore bianco latte ed hanno
moltissimi stami sporgenti.

il frutto, dal colore nero - ceruleo, è una bacca di forma sferica; si distingue nettamente dal resto
della pianta per il suo riflesso metallico.

il Mirto vive comunemente nell'ambiente della macchia mediterranea in unione con altri vegetali
caratteristici. È presente in quasi tutto il bacino mediterraneo ed anche in Asia Minore, in Persia e
perfino in Afghanistan. Tutte le parti della pianta possono essere distillate per ricavarne un olio
chiamato "acqua di mirto", il quale viene usato sia in profumeria, che come medicinale.

Molte specie di uccelli mangiano questo frutto per il suo sapore aromatico.

Dopo quest’ampia escursione culturale sul territorio pontino posto presso Ninfa e nelle sue
immediate vicinanze riprendiamo il filo del racconto per spingerci verso la periferia di Roma.uasi
tutte le piante, i fiori ed i legumi della zona temperata sono facilmente coltivati, anche sui monti
della regione romana. Noi non potremmo, senza ripeterci, parlare ancora della vigna e dell'uliveto
che si direbbero trovarsi qui nella loro terra d'origine.

Noi li vediamo dominati dai bei fusti di querce, di olmi e di castagni che si alternano a dei faggi e
ad altri alberi di buona fattura; essi hanno sempre occupato tali pendii o questi altipiani: infatti sono
là da tempo immemorabile. Gli arbusti ed i fiori arborescenti, o quelli che , al modo delle malve,
delle violette, dei papaveri, degli anemoni e delle marghe-rite, si ergono poco al di sopra del suolo,
sono sempre molto diversi e molto abbondanti.

Quest'insieme floreale compone una flora molto ricca, i cui differenti soggetti si spandono da sé
stessi, in modo sempre maggiore: le loro chiare sementi sono trasportate dalle acque o disperse dai
venti.

La fauna non offre niente di particolare: gli orsi scompaiono, come an-che quegli angoli oscuri e
nascosti che si trovano sulle boscose alture, coperte di neve per una metà dell'anno. E' anche il caso
del lupo. Quanto ai cinghiali ed alle volpi, essi non sono ancora scomparsi: forniscono, al contrario,
il pretesto per delle brillanti battute di caccia ad inseguimento, praticate dall'alta società. Ci sono,
oltre all'aquila reale dalle enormi ali e dallo sguardo altezzoso, delle aquile di molte altre specie. Ma
esse non sono le sole padrone dell'aria: nel loro alto volo, infatti, si incrociano con i falconi e gli
altri uccelli da preda. Gli uccelli di piccolo taglio sono molto abbondanti: essi sono sempre
preceduti, come dappertutto, dalla rapida e capricciosa rondinella. Tra i rettili, biso-gna menzionare
il carbonaro o "colubro verde", il serpente che serviva come emblema di Esculapio, il figlio
d'Apollo e dio della medicina. L'aspide , che si nasconde sotto le pietre e i rovi , è il solo che sia
vera-mente velenoso. Si può comprendere poi, nella fauna romana, quei gran di buoi dalle enormi
corna e quelle pance dal terribile e selvatico aspetto? I buoi di campagna, come quelli dellaToscana,
non hanno forse l'aria di appartenere alla razza egiziana, le cui forme ci sono state fedelmente
trasmesse dalle sculture e dagli obelischi della valle del Nilo ? I tori e le vacche delle praterie sono
selvaggi e pericolosi: ci si può trovare faccia a faccia con questi animali irritati e minacciosi senza
che vi siano vicini né alberi ne muretti di possibile rifugio: bisognerebbe allora coricarsi in terra e
restare in tale posizione senza muoversi affatto; altrimenti la bestia , sdegnata, attaccherebbe e si
getterebbe su di voi a testa bassa.

I bufali, da qualche anno, si mostravano ancora in gruppo e si avvi-cinavano così uniti fino alle
porte del paese; ora invece essi sono completamente scomparsi: ci si serviva di loro per i traini
agricoli ; le femmine producevano latte così come le vacche e si poteva mangiare la loro carne.
Cosa manca all'uomo, il re del creato, in mezzo a tanti favorevoli elementi ?

Il numero considerevole delle città scomparse, i cumuli delle loro rovine, le vestigia delle grandi
necropoli ci permettono di affermare che la popolazione laziale e della campagna è stata nei primi
tempi abbastanza numerosa. In seguito, l'affermarsi della repubblica favorirà naturalmente la
crescita degli abitanti; noi comunque l'abbiamo già ben delineato, l'impero fu la causa del declino
sociale, sotto tutti gli aspetti. Dopo il disastroso periodo del feudalesimo, il papa Sisto V, si dedicò
energicamente all'amministrazione dello stato. Egli fece rispettare la legge in modo integerrimo
tanto dai nobili sediziosi quanto dalla borghesia che dal popolo: i dintorni di Roma cominciarono a
ripopolarsi. Questo movimento, non molto sensibile ma regolare e metodico, è con-tinuato
favorevolmente fino ai tempi moderni. Almeno si può affermare che lo spopolamento è stato
frenato.

La razza dei Latini, così come esiste oggi anche sui monti e i loro con-trafforti nei paesi latini, si di
sangue sempre da quelle di tutte le altre zone. Sono persone di bella taglia, robuste, con una
regolare fisionomia, poco diversa da quelle che abbiamo riscontrato nei soggetti dell'antico regno
visitato da Enea. Esse si fanno notare per i loro cadenzati e ben equilibrati movimenti, per i loro
modi alteri ma privi di durezza. Si può prendere per certo che quando le genti sono tenute a
cambiare di con-dizione sociale, quando esse discendono, ad esempio, dalle valli per stabilirsi nelle
pianure, le loro caratteristiche somatiche vanno gradual-mente a perdersi . Alcuna determinata
fisionomia si è conservata intatta in qualche angolo lontano di questo magnifico Lazio e neanche
nella stessa Roma: in essa infatti, non vi si trovano più i tratti di alcuna razza predominante.

Ciascun individuo, soprattutto nelle classi superiori e medie, costituisce un esemplare a sé stante. I
tratti sono gotici o asiatici, gallici o saraceni, normanni, giudei o greci. Dopo tante vicissitudini,
tante invasioni e tante promiscuità, queste disparate influenze sono rimaste inevitabil-mente nel
bagaglio genetico della razza latina.Ciò che non si può contestare invece è il fatto che tutta la
popolazione delle zone alte della campagna vale fisicamente più di quella che abita le umide
pianure, do-ve l'aria è pesante e dove le febbri rendono anemiche e recano danno alle generazioni.
Le linee ferroviarie e telegrafiche, le automobili e le biciclette, sono arrivate, ben inteso, a far
perdere certe originalità che rimarcavano la differenza ed il carattere personale delle
località.Rimane , come felice eccezione, l'angolo pittoresco delle montagne del sud, dove gli
abitanti, vestiti inun modo tutto particolare, sono chiamati "Ciociari" : essi appartengono
principalmente al comprensorio di Frosinone. Disgraziatamente li si vede sempre di meno nella città
di Roma, cui essi donavano una nota di pittoresca allegria con i loro abiti di opera-comica. Alcuni di
essi sono ancora al servizio, come modelli viventi, nelle botteghe degli artisti, o , meglio ancora,
vendono fiori sulle scale di piazza di Spagna. Il nome di ciociaro deriva loro dalle "ciocie", un tipo
di sandalo allacciato fino a mezza gamba: è la calza tura comune degli uo-mini, delle donne e dei
bambini di questo territorio.

** ** **
Quale differenza tra la Via Appia che noi abbiamo visitato nella prima metà del giorno e quella di
questo pomeriggio! Noi siamo ora al decli-nare del giorno: il chiarore decrescente ci accompagnerà
in quest'ultima passeggiata. Noi non troveremo più le rovine che i barbari hanno lasciato sopra di sé
e che sono state totalmente di sfatte dalle fazioni sediziose. Ci sono, in questi momenti, delle rovine,
dei tumuli informi, strane masse di pietre e di mattoni accatastati, che sono ricoperti di mu-schio, di
scheletri di murature senza rivestimenti, senza proporzioni né forme. L'impressione monumentale
non deriva che dall'allineamento di questi profi li : l'emozione non è prodotta che grazie al ricordo e
alla me-ditazione di ciò che fu l'incomparabile sequenza di sepolcreti romani, così ricchi e così
splendidi. La luce affabile del giorno che svanisce comunica un triste aspetto alle montagne che si
ergono all'orizzonte e che abitual-mente sono spendenti di colori. Una tonalità uniforme copre il
tutto: i tumuli, le grandi cubature di muratura verdastra si stagliano tetre e silenziosamente allineate
ed immobili come delle sfingi. Non passa alcu-na persona: non si ode anima viva.

Se in un attimo le nuvole lasciano filtrare uno dei raggi del sole che è già sul mare, si scorgono a
poca distanza alcuni resti di acquedotto, parte integrante del paesaggio romano; essi si lasciano
colorire un i stante dalle calde luci del crepuscolo.

Si ha l'impressione di un incendio che si consuma rapidamente, scorgendo queste arcate illuminate,


e che fugge e che interseca in larghezza tutto il paesaggio, ritornato monotono. L'effetto non dura
molto: le forme e le linee svaniscono nella decolorazione della sera.

Si odono improvvisamente i belati di un gregge di montoni che risalgono sulla carreggiata e la


invadono interamente.

Essi si sono inerpicati dal fondo valle e si frammischiano ai sepolcreti diruti, smantellati, dove le
erbe, spuntando tra gli interstizi, si offrono come pasto provvidenziale. Un pastore , dal cappello
appuntito , con un abbigliamento di pelle villosa, con calzoni e con sandali fermati da lacci, fa
anch'egli la sua entrata in scena. E' proprio un ragazzotto carino !

Il suo viso, dolcemente colorito ed espressivo, è ricoperto da boccoli neri che adornano la sua
fronte: si direbbe un'apparizione tutta romantica.

Egli domanda, con molte buone maniere, un poco di tabacco per fare un rimedio alla sua pecorella
preferita e viziata.

Noi glielo doniamo molto volentieri, non senza dubitare che egli voglia semplicemente fumare. Si
direbbe mai che ci si trovi a soli cento miglia di distanza da tutto il centro abitato ? Il silenzio regna
dappertutto. Non arriva agli orecchi neanche un 'eco, un lontano brusio, se non il fioco tintinnio
della campanella di una piccola cappella situata, nelle vicinan-ze, all'entrata di un antico cimitero. E'
l'ora dell' Ave Maria.

Una formazione di vapore dovuta all'evaporazione fredda ed umida, si disegna nel bassofondo come
una mussolina bianca e tesa. Le nuvole, leggermente smosse dal vento, sono per un istante colorate
di rosa e di carminio dai raggi infuocati che il sole invia verso di esse.

Allora una melanconia intensa si impossessa della valle e delle colline; da lì essa sale verso le
brume e i va pori aerei e raggiunge ugualmente le montagne e le nuvole del cielo. Essa copre
sensibilmente tutte le cose della natura che non sono immerse dal generale oscuramento. Resta
dunque nello spazio qualche cosa di grande, di bello e di imponente. Ad un tale luogo, ed alla stessa
ora, lo spirito si trova assalito da strane e-vocazioni e da strane idee. Il pensiero e il cuore si
riempiono dei ricordi di fatti sublimi che permisero alla religione cristiana di svilupparsi e di
stabilizzare la comunicazione dell'uomo con il suo Dio. Le nozioni storiche prendono una via
inattesa: i semplici ricordi poetici diventano pungenti emozioni.

Si vorrebbe avere tutta la forza di comprensione, tutta la serenità, tutte le facoltà occorrenti per
abbracciare le grandi idee suggerite da questa zona. Ci si lascerebbe penetrare da tali sensazioni fino
al fondo l’anima per ritemprare la volontà, l'intelligenza, e tutte le potenze morali che sono sopite in
noi o che si svegliano spesso di fronte a delle sollecitazioni ben inferiori. Il boschetto di alberi rigidi
e compatti, che spiccano sempre sulla pianura come un grande punto nero, è il sacro bosco della
favolosa Ninfa Egeria: non ci sono altri, tranne quello degli Orazi e Curiazi, che ha resistito al
trascorrere dei secoli, apparendo sempre nuovo sul medesimo sito. Annibale, il più grande guerriero
dell'antichità , pervenne un giorno fin sotto alle sue distese ombrose . Chissà se la sola maestà di
Roma con il suo nome misterioso, e con il semplice sviluppo dell'accidentato profilo, non furono
sufficienti per gettare discordia e spavento nel suo ardito spirito ? Egli, ad ogni modo, tornò indietro
senza tentare l'assalto , fermato dalla sola presenza dell'immortale città.

Ma sono i monumenti cristiani di tutte le epoche che emanano le sen-sazioni più profonde: quelle
piccole basiliche, modestamente appartate, ci parlano ancora delle cose superiori. Esse danno
accesso ai cimiteri sotterranei o " catacombe".

Era in queste oscure gallerie che si riunivano i primi cristiani per ren-dere un ultimo omaggio ai
fratelli martirizzati. Verso sera, durante la notte oppure all'alba, si poteva incontrarli a gruppi
silenziosi e misteriosi, mentre si dirigevano verso le proprietà terriere vicine alla cit-tà per
discendere nelle catacombe.

Essi andavano a cospirare ! La cospirazione consiste va nel sottomettersi al tiranno e ad offrirsi al


martirio soltanto dopo aver confessato pubblicamente la propria fede. Il loro saluto fraterno era
"Pace": i loro emblemi erano il Buon Pastore e il nuovo Orfeo che attirava irresistibilmente le anime
con la sua dottrina. Il loro pegno di sincerità era il loro nudo collo sempre pronto ad offrirsi alla
spada del carnefice. Se la Campagna romana ha sempre racchiuso il più vasto teatro della storia è
tuttavia nei sotterranei oscuri delle catacombe che è stato preparato lo scenario più trascendentale, il
più sublime del dramma dell'umanità. Se il paganesimo brillava ancora sulla terra con le
manifestazioni di forza brutale e incontestabile, ben presto una nuova forza sarebbe sorta da queste
viscere di Roma : essa non aveva altre armi né altre luci tranne quelle delle coscienze: essa è sempre
stata immortale perché è sempre stata spirituale. Questo ha prodotto la forza della Carità.

Tutto ciò che si rifà alle catacombe esercita nell'animo una commovente ammirazione.

Quelle lapidi di marmo semi - distrutte , quelle iscrizioni , di circa venti secoli, si indirizzano verso
il cuore comunicandogli cose inef fabili :

" Figlia mia dolcissima, possa tu vivere nello spirito ".

Queste parole semplici e facili possiedono la forza di un eloquente discorso e di una completa
manifestazione d'amore e di fede ben ferma. Nel cimitero di San Callisto, proprio vicino alla via, è
stata scoperta in frammenti, in seguito ricomposti, quest'altra iscrizione :

" Qui giacciono in uno stesso cumulo i corpi dei santi. Le loro nobili anime sono state accolte nel
regno dei cieli. Qui giacciono i compagni del papa Sisto che trionfarono sui loro nemici. Qui gli
altri papi che fanno corona attorno all'altare di Cristo. Qui il papa ha vissuto in una profonda pace.
Qui i confessori che vennero dalla Grecia. Qui i giovani, i bambini ed i vecchi con le loro caste
discendenze che preferirono conservare la loro verginità.Qui, io, Damaso, ho desiderato farmi
seppellire ma non ho voluto turbare il riposo dei santi ".
Malgrado la loro santa semplicità, questi versi sono degni di Omero : si può forse leggerli senza
lasciarsi vincere da una pia emozione ? Essi furono fatti incide re dal papa nel IV secolo quando
provvide anche a decorare magnificamente la cripta del cimitero che aveva accolto tanti martiri.

Eccoci dunque in una proprietà piena di ricordi, divenuti, si può dire, universali : sono precisamente
i terreni che appartengono a santa Cecilia vergine: da tanto tempo è stato ritrovato il sarcofago
contenen-te le sue spoglie mortali. Sepolta sopra la soglia della cappella dei papi essa sembrava
voler proteggere l'ultimo sonno di quelli che aveva ricevuto in custodia.

Questa zona della Campagna emana veramente degli effluvi di santità, di pace e di poesia, come un
giardino ricolma l'aria con i suoi penetranti sentori che esala no dai suoi fiori. C'è ora il languore
della sera : il giorno è svanito. Ci si è pertanto abbandonati alla calma; si ode l'invocazione
dell'infanzia che si rivolge ai martiri e particolarmente a Santa Cecilia il cui solo nome è una musica
che rafforza lo sguardo a dirigersi verso il cielo. Questa giovinetta, mille volte nobile, ha il do no
inesplicabile di farsi amare ed ammirare da tutti. La sua fama è giunta fino ai paesi più lontani; il 22
novembre di ogni anno, ci si riunisce per pregare in suo nome.Le più belle melodie della terra
giungono ai nostri orecchi, per fe-steggiare la santa , sia nella catacomba sia nella basilica di
Trastevere , sia nelle chiese del mondo intero. A Roma il suo nome è amato come se tutto il mondo
avesse conosciuto la santità della vergine; nella Campagna il pastore più umile vi narrerà le virtù di
Santa Cecilia. Attorno all' oscura scala che discende nell'antica sepoltura si scorgono dei pellegrini
animati di curiosa simpatia che vengono a deporre con emozione una offerta, un ricordo per questa
giovane e graziosa vergine, regina e simbolo dell'arte immateriale che distacca gli animi dalle attra-
zioni più basse. La fredda brezza apporta ancora i profumi del fieno verde e dei trifogli che
ricoprono tutta la campagna . Quando il sole sprofonda del tutto dietro l'orizzonte del mare, verso
cui si stava dirigendo, il cielo si schiarisce per un momento; quindi alcune nuvole sono pennellate
da raggi dorati e dalla porpora lasciata dal sole che ora non è più visibile. La vallata, rattristata, è
leggermente rianimata per l'ultima volta da questo dolce fuoco delle nuvole che inviano a terra
alcuni affabili riflessi.

Il crepuscolo termina e quindi si fa totalmente buio. Non si distingue altro, sotto i tenui raggi delle
prime stelle, che la stretta Appia : non si può più camminare se non guardando attentamente , uno ad
uno , i lastroni della pavimentazione dell'antica carreggiata.

( Da "Il Lazio e la Campagna Romana"

di Carlo Luigi ABBENDA , Roma 2000 )

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