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“Organizzare e gestire
i «knowledge workers»”
Lavoro di ricerca
A cura di
Antongiulio Bua e Alessandro Hinna
Dicembre 2006
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
Indice
Organizzare e gestire i «knowledge workers»
Pag.
Premessa
Introduzione
1. Cosa spinge la Pubblica Amministrazione ad investire nella knowledge based
organization?
2. I protagonisti della knowledge based organization: i «knowledge workers».
Capitolo I
“L’architettura organizzativa per gestire i lavoratori della conoscenza”
1. I presupposti organizzativi
2. La dimensione macro: le configurazioni organizzative.
2.1. L’adhocrazia.
2.2. I networks: gli «intersectional hubs».
Capitolo II
“Il knowledge system”
1. Il knowledge management.
2. Il modello delle “quattro C”.
2.1. La definizione delle comunità di riferimento.
2.2. La definizione del modello delle competenze.
3. Dal knowledge management al knowledge system.
3.1. La definizione del modello di servizi: i contenuti del knowledge system.
3.2. I sistemi di trasferimento delle competenze.
3.3. La soluzione tecnologica.
Capitolo III
“L’organizzazione a misura d’uomo”
1. Individui, conoscenze e organizzazione: note introduttive.
1.1. La spirale della conoscenza.
1.2. La diffusione e lo sviluppo delle competenze idiosincratiche.
2. Le determinanti del comportamento individuale.
2.1. La gestione delle competenze.
2.2. La progettazione del contesto organizzativo.
2.3. Processi e modalità di apprendimento.
2.4. L’organizzazione della comunicazione interna.
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Bibliografia
Premessa
3
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Introduzione
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Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
1
Cfr. Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report finale”, 2001, p. 12.
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riallocazione delle funzioni tra livelli di governo (avviata con Legge n. 142 del 1990 e
poi meglio integrata dalla Legge n. 59 del 1997, nonché dal D.lgs. n. 112 del 1998).
All’aumento delle capacità amministrative del Sistema Stato sono stati invece
dedicati interventi come, ad esempio, la Legge n. 241 del 1990 in materia di
delegificazione e semplificazione dei procedimenti amministrativi, il D.Lgs. n. 29 del
1993 che - oltre ad introdurre il principio di separazione tra politica e gestione - ha
avviato la riforma dei controlli interni e disposto la cosiddetta privatizzazione del
pubblico impiego.
Al più complessivo disegno di riforma del Welfare, invece, vanno ad esempio
riferite la Legge n. 328 del 2000 ed il successivo D.lgs. n. 207 del 2001, in materia di
sistemi integrati di interventi e servizi sociali (materia, si noti, precedentemente
“pubblicizzata” con la Legge Crispi del 1890).
Ad una vera e propria filosofia di centralità del cittadino-utente, infine, è stata poi
dedicata la già citata Legge n. 241 del 1990 nella parte in cui si definiscono le
procedure per assicurare il diritto di accesso agli atti della pubblica amministrazione
e, più in generale, le modalità di trasparenza dell’azione pubblica (si vedano, da
ultimo, i DD.Lgss. Del 28 dicembre 2000, nn. 443, 444, 445, testo unico sulla
documentazione amministrativa). Dal punto di vista dell’analisi, quindi, il quadro
normativo di riferimento appena accennato, suggerisce di studiare il processo di
cambiamento del mondo pubblico come un processo di cambiamento “a cascata”
(Fig1), che, partendo delle innovazione normative introdotte a livello di sistema, deve
necessariamente ripercuotersi sulle singole aziende che lo costituiscono e, quindi,
sui gruppi e gli individui di cui esse si compongono.
Gruppo
Individuo
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CREAZIONE DI CONOSCENZE
INNOVAZIONE CONTINUA
VANTAGGIO COMPETITIVO
2
Cfr. I. Nonaka, H. Takeuchi, “The Knowledge-Creating Company”, New York, Oxford University
Press, 1995 – trad. It. “The Knowledge Creating Company: Creare le Dinamiche dell’Innovazione”,
Milano: Guerini, 1997.
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Interazione cooperativa
Patrimonio
cognitivo
“tacito”
Valori e comportamenti
8
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In Occidente l’essenza del management consiste nel far passare le idee dalle teste dei dirigenti
alle teste dei lavoratori. In Giappone il nocciolo del management è l’arte di mobilitare e riunire le
risorse intellettuali di tutti i dipendenti della società. (Konosuke Matsushita)
9
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KNOWLEDGE USE
Create Apply
Transferable
/codified
KNOWLEDGE TYPE
Product
R&D
Designer
Scientist
Engineer
Intuitive/
unique
Inventor
Salesperson
Entrepeneur
Fonte: tratto Homa Baharami, Stuart Evans, “Super-flexibility for Knowledge Enterprises” in
“Knowledge Workers: Motivational Patterns and Work Challenges”, “Aligning: placing an Iron Hand
into a Velvet Glove”, Spring 2005, p. 138.
Più in dettaglio, esistono:
1. manager professionali o anche detti “manager integratori”, ovvero figure
responsabili di programmi e progetti di innovazione ed implementazione
generalmente dotati di un elevato livello di qualificazione formale ed
esperienza (Product Manager, Project Manager, etc.);
2. professionals o altrimenti detti “esperti colti”. Si tratta di soggetti che
detengono un’enorme quantità di conoscenze strutturate, significative
competenze ed esperienze applicative. Si pensi ai computer scientists, agli
esperti di marketing, etc. In generale, si fa riferimento a tutte quelle figure con
un’elevata formazione e una posizione professionale di spicco;
3
“La definizione di knowledge worker deriva dalla fervida immaginazione di Peter Drucker che ha
voluto sintetizzare in questa espressione l’emergere di un fenomeno di progressiva de-
materializzazione delle prestazioni di lavoro in un numero sempre più grande di ruoli gestionali,
professionali o operativi” (Bonani, 2002, p. 28).
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In primo luogo il “knowledge manager” deve conoscere l’azienda, il suo business e il settore di
appartenenza. Solo in questo modo, infatti, sarà in grado di capire quale conoscenza è veramente di
Conoscenze
valore per l’organizzazione. Inoltre, deve unire una buona conoscenza delle lingue a conoscenze di
Information Technology e di gestione delle risorse umane.
Sarebbe preferibile la provenienza dai sistemi informativi o dalle risorse umane, ma il knowledge
Esperienze manager “deve essere un non specialista!”: deve aver vissuto molteplici esperienze professionali, tra
le quali non può prescindere l’esperienza di project management.
Il knowledge manager deve unire alle capacità analitiche e di sintesi, la visione d’insieme ovvero la
capacità di gestire la complessità attraverso il pensiero laterale e la visione a 360° dei problemi da
Capacità affrontare. Deve, inoltre, essere un leader. Ciò implica un’elevata abilità relazionale, unita alla
capacità di leggere e saper utilizzare i segnali deboli inviati dal contesto sia in termini di
comunicazione verbale che non verbale (metacomunicazione).
Motivazione Elevata
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Nello specifico, nella logica della leadership situazionale, il leader deve possedere
tre abilità:
a) la diagnosi, con cui si intende la volontà e l’abilità di osservare una situazione
e valutare i bisogni di sviluppo dei collaboratori per decidere quale sia lo stile di
leadership più appropriato per uno specifico obiettivo od incarico;
b) la flessibilità, con cui ci si riferisce alla capacità di usare la varietà di stili di
leadership in modo coerente con le necessità emerse;
c) la partnership per la performance o condivisione dello stile di leadership. Il
leader deve saper trovare un accordo con le persone in merito allo stile di
leadership necessario per raggiungere obiettivi individuali e aziendali.
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Alla luce di quanto visto, la gestione della conoscenza chiede il superamento della
burocrazia principalmente attraverso la ridefinizione dell’assetto organizzativo che
deve essere in grado di tradurre in pratica le necessità di gestione emerse
analizzando la figura del knowledge worker:
1. Creare un adeguato contesto comunicativo.
2. Favorire il raggruppamento di conoscenze diverse all’interno di teamwork.
3. Guidare i lavoratori verso lo sviluppo continuo delle loro competenze.
Come di dirà più avanti nel dettaglio, la ridefinizione dell’assetto organizzativo deve
coinvolgere entrambe le dimensioni di cui si compone:
- la dimensione macro, ovvero il ridisegno delle strutture organizzative e
dei sistemi operativi sia in termini di spazio che di tempo. Con il concetto di
“spazio” ci si riferisce alla necessità di dotarsi di strutture snelle. Il “tempo”,
invece, afferisce alla predisposizione di strutture dinamiche. In entrambi i
casi, l’obiettivo è permettere all’azienda di guadagnare in flessibilità. In
sintesi, occorre creare una configurazione organizzativa imperniata su
relazioni interpersonali frequenti che consentano la diffusione e lo sviluppo
delle competenze idiosincratiche dell’organizzazione;
- la dimensione micro. Con la sua riprogettazione ci si pone l’obiettivo di
individuare le competenze organizzative idiosincratiche sulle quali investire
e puntare ad ottenere un durevole vantaggio competitivo.
In dettaglio, in termini di microstruttura, occorre considerare che per indirizzare
efficacemente il lavoro delle persone esistono - in primis - tre categorie di fattori che
impattano sul loro cuore e sulla loro mente, ovvero che contribuiscono ad
incrementare la loro motivazione:
1. sistema premiante - Equa ricompensa, intendendo per equità l’allineamento
della retribuzione tra posizioni simili nell’organizzazione;
2. contenuto della mansione - Stimolo intellettuale, includendo opportunità di
crescita personale approfondimento e futura employability;
3. contesto organizzativo - “Emotional Connettivity”, termine con cui ci si
riferisce all’esistenza di buone relazioni tra il knowledge worker, il capo e il
gruppo in cui è inserito.
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Queste tre componenti sono legate sistemicamente e nella loro simbiosi risiede la
possibilità per ogni individuo di rispondere efficacemente alle attese di ruolo definite
dall’organizzazione. Tale aspetto ha una rilevanza fondamentale perché la copertura
efficace di ogni posizione organizzativa è legata ad uno specifico profilo di
competenze.
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Capitolo I
“L’architettura organizzativa per gestire i lavoratori della
conoscenza”
1. I presupposti organizzativi
La gestione della conoscenza mette in discussione l’intero modo di pensare e fare
organizzazione.
5
Cfr. C. D. Ruta, C. Turati, “KBO Research Program”, White Paper, CRORA, Università Bocconi,
2000.
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6
Cfr. C.D. Ruta, C. Turati, 2002, “Organizzare il Knowledge Management”, Milano, Egea.
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2.1. L’adhocrazia
7
Questo secondo elemento, si note, assume particolare rilevanza lì dove si parli di azienda o
Amministrazione Pubblica. Le motivazioni di ciò sono state brevemente riassunte nella introduzione al
presente lavoro.
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Fig. 7. – L’adhocrazia
Vertice
strategico
Linea
intermedia Staff di
Tecno-
struttura supporto
Nucleo operativo
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Inoltre, nella maggior parte dei casi, la struttura organizzativa che la caratterizza è
la matrice:
[…] La struttura a matrice è stata impiegata per la prima volta nel settore aerospaziale
statunitense; il termine “matrice” è stato coniato con riferimento alle tradizionali griglie a
doppia entrata usate in ambito statistico-matematico. La rappresentazione grafica che ne
deriva racchiude le due caratteristiche precipue di questa struttura, caratteristiche che la
differenziano, in particolare, dalla struttura per progetti; i criteri ispiratori sono gli stessi, la
simultaneità di più dimensioni sussiste ancora come pure la duplice dipendenza; se ne
discosta però per un primo elemento fondamentale: gli organi specializzati per tecniche
“non gestiscono processi produttivi correnti (come nella struttura per progetti), bensì
rappresentano soltanto delle aggregazioni professionali di specialisti, i quali sono
permanentemente assegnati ai diversi progetti (o prodotti, n.d.r.) in corso”1
In secondo luogo, la duplicità di dipendenza gerarchica ha connotati diversi:
“la dipendenza funzionale ha miglior rilievo gerarchico per l’assenza di prestazioni ‘interne’
agli organi tecnici, mantenendo comunque la dimensione più strettamente professionale; la
dipendenza dagli organi di progetto è più densa d’implicazioni personali, in quanto l’individuo
deve ‘collocarsi’ – e non solo temporaneamente – nell’ambito di gruppi di progetto. Parrebbe
quindi appropriato ritenere che prevalga sui modelli di comportamento delle persone la
dimensione del progetto, e quindi (…) si potrebbero definire come organi di integrazione
facenti capo alle unità funzionali,…”2
Ciò che quindi distingue la matrice dalle strutture organizzative tradizionali è l’abbandono del
vecchio concetto “one man – one boss” o della singola catena di comando in favore di un
sistema gerarchico duplice.
In generale, sarà così definibile matrice una struttura che impiega un sistema di comando
duplice e contemporaneo e che comporta:
a) un’adeguata serie di meccanismi operativi di supporto;
b) modelli di comportamento coerenti e, soprattutto, una cultura organizzativa in sintonia.
In termini più sintetici avremo che:
I meccanismi operativi devono operare lungo le due dimensioni simultanee della matrice: il
sistema della pianificazione, il sistema di programmazione e controllo, i sistemi del personale,
il sistema informativo devono tutti servire contemporaneamente sia la dimensione tecnica
che la dimensione prodotto o progetto.
Ciascuna area tecnica e ciascun prodotto/progetto devono avere piani e programmi separati
e formalmente indipendenti; il sistema di controllo deve operare separatamente per ogni linea
gerarchica; le richieste di capitale finanziario, macchine e materiali e persone devono essere
gestire secondo le esigenze autonome di ciascuna dimensione; sia le aree tecniche che i
prodotti/i progetti devono essere fornite di propri sistemi di carriera, di formazione, di
ricompensa.
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Gli elementi culturali che possono rendere l’organizzazione adatta a recepire le esigenze del
funzionamento di una struttura a matrice sono almeno quattro3:
1) un atteggiamento aperto e flessibile verso l’andamento della vita lavorativa e, soprattutto,
verso il cambiamento;
2) una lunga e condivisa tradizione di cambiamento;
3) il credere nell’utilità di un aperto e frequente scambio di idee e punti di vista su qualsiasi
argomento;
4) la condivisione condivisa di essere parte di un esperimento di challenging e eccitante.
Un ulteriore elemento che può ricoprire un ruolo rilevante è il lay-out: lunghi corridoi con
piccoli uffici separati l’uno dall’altro da mura impenetrabili sono il riflesso architettonico di una
lunga e viva tradizione burocratica. Il lay-out adatto ad una struttura a matrice è quello che:
“letteralmente distrugge i muri con l’intenzione di fare lo stesso in senso figurato, per facilitare
comunicazioni aperte e frequenti con gerarchie e formalismi ridotti al minimo”4
L’enfasi è quindi sulla flessibilità, sull’informalità e sulla minimizzazione della gerarchia.
Il comportamento che è e deve essere conseguente ad una struttura a matrice consta di5
a) una focalizzazione degli sforzi verso le due dimensioni organizzative giudicate
fondamentali;
b) l’elaborazione e la gestione da parte di tutti di un gran numero di informazioni;
c) un impegno verso l’organizzazione a dare sempre risposte equilibrate (relativamente alle
dimensioni prescelte) ai problemi che sono fonte potenziale di un’elevata conflittualità;
d) un rapido, efficace e flessibile ri-impegno di quelle risorse umane che vedono terminare i
propri compiti presso un progetto, un prodotto, un mercato.
In accordo con Davis e Lawrence, la matrice diviene così più un’organizzazione a forma di
diamante piuttosto che di una piramide: il vertice è ancora rappresentativo del top
management (per tecnica e per prodotto/progetto). Ai piedi del diamante c’è il manager con 2
capi (“2 – boss manager”) che, dato un ammontare definito di risorse finanziarie e umane e
avuto un target da raggiungere, è responsabile di un gruppo di attività omogenee.
Top management
R
es
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R
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tto
2 boss
manager
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Al di sotto di questi managers (che sono una porzione relativamente limitata del totale del
personale di un’impresa, ossia una percentuale che può variare dal 2 al 10%, a seconda
delle dimensioni), l’organizzazione riprende le vesti tradizionali e ritornano l’unità di comando
e la relativa forma a piramide. I ruoli chiave di una struttura a matrice sono tre: il top
management, i responsabili di tecnica o di prodotto/progetto e i managers con due capi (2 -
boss managers)6
Il top management è formalmente al di fuori della matrice; ciò nonostante ne è un elemento di
supporto indispensabile per i tre compiti specifici che gli comportano:
a) mantenere gli equilibri di potere: l’esistenza di pressioni verso due dimensioni
organizzative operanti simultaneamente richiede un’opera di continuo bilanciamento delle
posizioni di potere tra i due bracci della matrice. Il metodo basilare per assicurare l’equilibrio
(almeno nel breve termine) risiede nel corretto e uniforme dosaggio del potere detenuto dai
managers delle due linee gerarchiche: la formalizzazione di questa esigenza nei documenti
ufficiali dell’impresa è un primo fondamentale passo; tra gli altri strumenti che il top
management ha a disposizione per riequilibrare situazioni sbilanciate, cinque sono7:
- Il livello delle retribuzioni.
- La denominazione delle posizioni.
- La partecipazione del top management a riunioni o ad incontri informali.
- Il lay-out.
- Il livello organizzativo.
b) gestire il contesto decisionale: il top management deve delegare, ma non può delegare
anche il compito di definire e gestire il contesto in cui sono prese le decisioni. L’esistenza
della struttura a matrice è un indiretto riconoscimento del fatto che l’alta direzione non può
decidere tutto e in tempi brevi: ci sono troppe informazioni da trattare e troppi punti di vista da
prendere in considerazione. Ecco quindi che il top management deve definire le regole del
gioco entro le quali gli altri devono decidere. In particolare deve chiarire agli organi
decisionali inferiori che:
- i conflitti vanno resi espliciti;
- le eventuali posizioni devono conflittuali devono impostare il confronto in modo aperto e
razionale;
- il problema va comunque risolto e gli impegni devono essere presi nei tempi necessari;
c) definire gli standard di performance: è difficile che il sistema organizzativo risponda
autonomamente in modo adeguato alle pressioni aziendali. Compito del top management è
quindi quello di recepire le esigenze dell’ambiente, di tradurle in obiettivi specifici e di
articolarle in standard di performance attese. Si danno così al sistema organizzativo la
direzione e la quantità degli sforzi da compiere. […]
Un primo gruppo di ragioni che portano alla scelta della struttura a matrice è individuato da
Knight8:
1. efficienza organizzativa. La struttura a matrice conserva la specializzazione tecnica
mentre introduce la specializzazione per prodotto o per progetto. Occorre però osservare che
cresce il tempo occupato in riunioni e in comunicazioni non strettamente necessarie.
2. Controllo e contabilità. Quando i sistemi contabili e i sistemi di programmazione e
controllo hanno la pressante esigenza di seguire contemporaneamente più dimensioni, la
struttura a matrice favorisce e rende applicabili soluzioni adeguate.
3. Coordinamento. Quando sussistono rilevanti problemi di coordinamento e, in particolare,
le interdipendenze sono di tipo complesso (ad esempio reciproche9), la struttura a matrice è
un meccanismo di relazioni laterali (il più complesso e costoso)10 che può risolvere più
efficacemente il problema rispetto alle procedure, ai programmi, ai contatti diretti e così via.
4. Adattamento. Quando la rapidità e l’intensità dei cambiamenti ambientali e l’elevata
incertezza rendono necessario raccogliere informazioni in grande numero e da più fonti e il
farle analizzare da organi altamente competenti, la struttura a matrice può essere una
soluzione alternativa (o più spesso complementare) al decentramento11, al sistema
organico12, agli organi di difesa del technical-core13.
5. Efficacia sociale. Nel caso in cui soddisfare i bisogni degli individui che operano
nell’impresa diventi un problema rilevante, la struttura a matrice presenta un numero
maggiore di elementi positivi rispetto a quelli negativi. Se è vero che l’appartenenza a due
gruppi organizzativi può provocare ambiguità, conflittualità e stress, dall’altra parte vengono
notevolmente incrementate le opportunità di crescita professionale, il numero di posizioni a
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Note:
1 A. Rugiadini, “Organizzazione d’impresa”, Giuffrè, 1979
2 A. Rugiadini, op. cit.
3 Si veda S.M. Davis – P.R. Lawrence, “Matrix”, Addison Wesley, 1977
4 Si veda S.M. Davis – P.R. Lawrence, op. cit.
5 Si veda S.M. Davis – P.R. Lawrence, op. cit.
6 Si veda ampiamente S.M. Davis – P.R. Lawrence, op. cit.
7 Si veda S.M. Davis – P.R. Lawrence, op. cit.
8 K. Knight, “Matrix Management”, Gower, 1977
9 D. Thompson, “Organization in Action”, MacGraw-Hill, 1967
10 Cfr. J.R. Galbraith, Organization Design, Addison.Wesley, 1977
11 L.E. Greiner, “Evolution and Revolution in Organizational Grow”, in Harvard Business
Review, luglio-agosto 1972
12 T. Burns – G.M. Stalker, “The Management of Innovation”, Tavistock Publications, 1961
13 J. D. Thompson, op. cit.
14 J.D. Thompson, op. cit.
15 M. Decastri, in “Organizzazione e Cultura dell’Innovazione in Impresa”, a cura di M.
Decastri, Giuffrè Editore, 1984.
Alla luce di tali considerazioni, discende come l’adhocrazia sia una configurazione
innovativa, ma non efficiente.
All’interno di una qualsiasi organizzazione - vi sono sia flussi di affari che flussi di
informazioni e competenze a causa della mobilità delle risorse umane. Si parla di
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Fig. 8. - Il network intraorganizzativo: una rappresentazione grafica
CENTRAL
BROKER
PERIPHERAL
Fonte: Salvatore Parise, Rob Cross, Thomas Davenport, “Strategies for Preventing a Knowledge-Loss Crisis” in “Mit
Sloan Management Review”, summer 2006, vol. 47, n° 4, p. 33.
Tabella 1. – Le strategie di knowledge retention degli «intersactional hubs»
Network role Knowledge-loss risks Actions
• Use personal network
profiles in career development
and onboarding practices to
create network redundancies
• Technical expertise and systematically where
organizational memory as well departures might dramatically
as a set of relationship that help fragment a network.
many others get information or • Reallocate information
Central connector other resources to do their access and decision rights to
work. ensure that one point does not
• Experiential knowledge and become too vulnerable in the
reputation that enable rapid network.
onboarding of new employees. • Have central connectors to
help mewcomers get
acclimated through strategic
introductions, “shadowing”,
mentoring and joint projects.
• Identify and develop
brokers trough staffing and
• Broad knowledge of how rotation across division,
the organization operates and geographic and expertise
ability to recognize groups.
opportunities that require • Assign brokers strategically
integration of disparate where information gap exist or
Broker
expertise. where ideas can move from
• Ability to mobilize and concept to action.
coordinate efforts of disparate • Give brokers preauthorized
groups to pursue those decision limits to tap into
opportunities. network resources. Allow them
to experiment to obtain real-
time information.
• Ensure relevant peripheral
people are visible and
engaged, for example, by
encouraging their hosting of
• Niche (and often
“lunch-and-learns” and
marginalized) expertise or
webcasts.
early-adopter ideas that have
• Invite external partners to
Peripheral player the potential to reshape offering
conduct workshops and attend
operations.
meetings to broaden the
• Set of external relationships
network.
built on trust and familiarity.
• Reward employees for
bringing external ideas and
connections into the
organization.
Fonte: Salvatore Parise, Rob Cross, Thomas Davenport, “Strategies for Preventing a Knowledge-Loss
Crisis” in “Mit Sloan Management Review”, summer 2006, vol. 47, n° 4, p. 33.
Inoltre, la figura di broker della conoscenza - che svolge il ruolo di linking point tra il
central e il peripheral - coincide con il knowledge manager, al quale è affidata:
1. la responsabilità di gestire delle infrastrutture IT che supportano la diffusione della
conoscenza core;
2. la responsabilità dei contenuti, perché deve assicurare che all’interno
dell’organizzazione circoli competenza utile, aggiornata, facilmente reperibile e
fruibile;
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3. la responsabilità di definizione e gestione delle procedure di creazione,
contribuzione, raccolta, utilizzo, diffusione, condivisione e valorizzazione della
conoscenza e delle persone investite dal processo;
4. la responsabilità di diffondere la cultura della competenza attraverso piani di
comunicazione interna e change management: deve assumere un ruolo di
interfaccia verso tutte le altre funzioni.
In sintesi, gli «intersectional hubs» sono deputati alla creazione della Cohesive
Dimension che riflette la personalità dell’impresa: “On the one hand, it is about linking the
values and expectations of knowledge workers to the broader organizational context and
business drivers (O’reilly, 1989). On the other hand, it is about how external stakeholders
view the enterprise and perceive its brand and identify. While financial controls provide the
“hard” control glue, core values and people policies provide the motivational “soft glue”
(Evans, 2005).
Quanto descritto è tanto più vero nel mondo pubblico in cui le organizzazioni sono
chiamate sempre più ad agire nella società quali totalità di parti ordinate suddivise in
molteplici ed interconnessi livelli.
Nel sistema economico in cui sono inserite, infatti, entrano in contatto con altre forze
organizzative, arrivando a concludere giornalmente transazioni di varia natura con altri
soggetti.
Esistono diverse tipologie di reti, ma la più diffusa in assoluto è la forma-N, che trova
terreno favorevole quando sono soddisfatte le condizioni elencate nella Tabella 2. Essa
consente di assolvere - meglio di altre forme organizzative - una serie di esigenze:
• la necessità di operare trasferimenti di conoscenza tra attori diversi;
• la maggiore rilevanza dei diritti di accesso e di uso rispetto a quelli di proprietà;
• la necessità di gestire elevati livelli di incertezza e di rischio economico;
• la necessità di produrre output variabili in modo flessibile e secondo efficienza
(adattamento da Costa, 1997, p. 611).
Maggiore rilevanza
Competizione reale e dei diritti di accesso e
potenziale di uso rispetto a
quelli di proprietà
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In particolare, la forma-N è in grado di gestire meglio le risorse che possiede rispetto
alle altre forme organizzative perché è “una combinazione di processi di coordinamento
prevalentemente non gerarchici e di strutture organizzative basate sull’integrazione per
linee orizzontali e su una gestione aperta dei confini interpretati, agiti e progettati da
un’impresa focale, per ottenere simultaneamente obiettivi di efficienza dinamica e di
varietà di combinazioni produttive e di prodotti su larga scala di attività in ambienti dinamici
e ad alto rischio” (Costa, 1997, p. 613).
L’articolazione della forma-N prevede due livelli: (1) il livello dell’impresa focale – o
impresa guida, (2) l’ambiente transazionale composto da unità organizzative
giuridicamente indipendenti. I due livelli sono collegati strategicamente da obiettivi comuni
che stimolano la cooperazione e contribuiscono a creare una duplice rete, interna
all’impresa focale ed esterna nel suo ambiente transnazionale. Attraverso tale
articolazione, la forma-N riesce a sfruttare il tessuto di relazioni sociali - e, quindi, di
conoscenza, di fiducia, di amicizia e di supporto - che esiste tra gli attori coinvolti nel
sistema. (Fig. 9.)
Impresa
focale
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• un mix di autorità - fondata in parte sulla centralità dei flussi informativi e in parte
sulle competenze possedute - mercato e fiducia per il coordinamento tra i diversi
moduli;
• centralità del ruolo riconosciuto alle unità ponte;
• estensione verso l’ambiente con cui si intrattengono le relazioni dei sistemi operativi
interni all’impresa focale.
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Capitolo III
“Il knowledge system”
1. Il knowledge management
L’attenzione rivolta alla competenza nasce dal fatto che le organizzazioni di oggi si
trovano ad operare in un ambiente fortemente variabile, “in cui la dispersione geografica si
accompagna alla crescente intensità di competenze nei servizi, alla maggiore
sofisticazione della clientela, all’enorme disponibilità e “pressione” delle conoscenze
messe a disposizione dalle tecnologie e ad un rapido ciclo di creazione/distruzione della
conoscenza stessa” (cit. da Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report finale”,
2001, p., 8). Questa turbolenza richiede alle organizzazioni di aumentare la loro capacità
di adattarsi rapidamente ai cambiamenti, facendo divenire - pertanto - la creazione e
diffusione di competenze all’interno delle imprese e tra organizzazioni diverse la fonte
principale del vantaggio competitivo: «in un’epoca in cui l’unica certezza è l’incertezza,
l’unica fonte sicura per il vantaggio competitivo è la conoscenza» (Nonaka, 1997). Ma il
“sovraccarico informativo” non genera sempre crescita delle competenze e relativa
capacità di trasferirle in attività che producano valore per l’organizzazione - in nuovi
prodotti e servizi - perché nel momento in cui si analizza il rapporto tra competenza e
valore è evidente come si tratti di una relazione non sempre lineare, dato che l’attivazione
a livello organizzativo di conoscenze individuali richiede complesse capacità di gestione
che – a loro volta – chiamano in causa competenze di livello diverso:
a) “porzioni di sapere pronte all’uso” (Turati, 2002, p. 3), ovvero un patrimonio cui si può
ricorrere in caso di bisogno;
b) conoscenze che permettano di integrare e ricombinare in modo creativo le porzioni di
sapere esistenti al fine di trarne un maggiore valore.9
9
Cfr. Carlo Turati, Dino Ruta Cataldo, prefazione di Anna Grandori, “Organizzare il Knowledge
Management”, Egea, Milano, 2002.
30
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
Links ipertestuali
Team di
progetto
(KM)
Sistema di
business
(burocrazia)
Base di conoscenza
31
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A. Comunità
32
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
In tale prospettiva, la segmentazione delle comunità da servire può essere fatta
rispondendo a logiche diverse:
- “per area professionale, possibilmente facendo riferimento al sistema professionale
dell’organizzazione interessata (si parla in genere di famiglie e profili professionali);
- per funzione (ad esempio contabilità, personale, area tecnica e simili);
- per “cliente”, riunendo i ruoli professionali che operano in favore delle stesse tipologie di
clientela;
- per area geografica, riunendo le persone che operano nella medesima zona (regione,
provincia);
- per processi, riunendo i soggetti che lavorano sugli stessi processi di attività”
(adattamento da Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report finale”, 2001).
Non è detto che si debba ricorrere ad un solo criterio: la soluzione spesso nasce
dall’incrocio di parametri diversi.
Nello specifico, la segmentazione migliore è quella che fa riferimento al sistema
professionale dell’organizzazione, perché - essendo frutto di riflessioni interne - è già
interiorizzata ed ha il vantaggio di garantire omogeneità tra le comunità professionali in
termini di competenze che il sistema di KM dovrà gestire.
B. Competenze
C. Canali
33
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Innanzitutto, per poter diffondere adeguatamente il patrimonio di competenze
individuato, occorre definire correttamente il concetto di ”canali”. Il termine è -
apparentemente molto semplice - ma, in realtà, racchiude diverse sfaccettature: i canali di
diffusione nascono dall’integrazione delle infrastrutture (principalmente tecnologiche) volte
a raccogliere, archiviare, diffondere informazioni con i sistemi di “regolazione” delle stesse.
E’ in tale logica si devono affiancare investimenti tecnologici sofisticati alla realizzazione di
un sistema di regole condivise di produzione ed utilizzo del sapere e delle conoscenze.
Per questo motivo, l’idea è quella di fondare il modello di KM sulla progettazione di
sistemi integrati basati anche sull’utilizzo di internet, intranet ed extranet e di tecnologie
multimediali - come ad esempio il ricorso a personaggi virtuali interattivi per la
comunicazione on-line e la formazione digitale - che consentono di coniugare la varietà dei
contenuti con una maggiore ampiezza di contatto e costi sostenibili.
D. Cooperazione
34
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membri delle comunità di pratiche la massima disponibilità di informazioni e competenze
per ricoprire il proprio ruolo.
In tale prospettiva, quindi, i servizi da garantire rientrano in una gamma molto ampia.
Nella fattispecie, alle tradizionali attività di affiancamento e comunicazione più o meno
formali, quali riunioni e convention, si affiancano:
- servizi di tipo innovativo (sistemi di coaching e mentoring, ecc.);
- servizi che vengono forniti sia attraverso i canali della comunicazione faccia-faccia
(servizi di assistenza, docenza in aula, riunioni, ecc.) sia tramite i canali della
comunicazione via web (corsi on line, database, elibrary, e-conference, ecc.);
- servizi che utilizzano un’ampia gamma di supporti, dal cartaceo (libri, documenti, giornali,
procedure, ecc.) all’informatico (e-book, corsi on line, forum, ecc.) – [adattamento da
Cantieri, Knowledge Management nella PA. Report finale, 2001].
Più in dettaglio, i servizi potenziali sono raggruppati in 8 tipologie, ciascuna delle quali
si presta ad essere ulteriormente articolata al suo interno:
- library;
- e-learning;
- mentoring;
- strumenti a supporto del lavoro;
- workshop e formazione;
- forum e news;
- basi dati;
- supporto al KS.
35
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
Per mentoring si intende quel complesso di servizi offerti da parte di colleghi esperti a
supporto dello sviluppo professionale dei propri collaboratori: generalmente si
concretizzano in affiancamento e/o tutoraggio sia on line sia face to face.
Attraverso le basi dati, l’obiettivo è quello di integrare la banca dati esistente con altre
base dati e sistemi informativi di rilievo per la comunità (sistema informativo sul lavoro,
banche dati inerenti la normativa, il tessuto economico, la popolazione, etc.).
36
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
Non si devono solo riprodurre a livello organizzativo competenze strategiche da un
punto di vista individuale, ma occorre permettere - tramite il confronto sociale - di generare
anche nuovo capitale intellettuale e, quindi, innovazione di prodotto e/o di servizio.10,
Per raggiungere tale scopo assumono un ruolo rilevante quelle figure (i champions)
che hanno avuto esperienze significative in merito alle competenze che si intendono
trasferire tramite il training on the job: ciò accade perché il processo di trasferimento è
stato strutturato in modo tale da evitare che i singoli apprendano per tentativi ed errori, ma
in tempi ben più lunghi di quelli oggi necessari.
Nella fattispecie, l’elemento chiave per l’apprendimento è dato dalla formalizzazione
delle learning histories: si tratta di “storie” professionali strutturate - una sorta di
testimonianze - in cui si riepiloga la struttura delle competenze che nei vissuti dei
champions si è rivelata di successo per svolgere il ruolo. La struttura delle competenze
necessarie è ovviamente connessa (a) alle situazioni critiche da affrontare e (b) alle
alternative di soluzioni disponibili. Il ricorso alle learning histories è costruttivo perché
identifica situazioni reali, dove si rende necessario esprimere proprio le competenze
oggetto di apprendimento.
L’ultimo tassello che va a comporre il modello di servizio del KM è costituito dai sistemi
informatici per la gestione delle informazioni. Rispetto al modello delle “4 C” ci collochiamo
nella dimensione dei Canali per gestire e veicolare le informazioni.
Dato che la gestione delle informazioni sta diventando un aspetto sempre più rilevante
per lo sviluppo delle organizzazioni, se ne deve realizzare l’ottimizzazione attraverso il
ricorso all’interazione di più elementi:
a. l’infrastruttura di collegamento;
b. i data warehousing and mining system;
c. i decision support system;
d. i sistemi di gestione documentale.
I DSS sono sistemi di supporto per i processi decisionali che consentono di (a)
supportare le persone nel prendere decisioni in situazioni non strutturate e quindi di
incertezza, (b) permettere di effettuare simulazioni preventive per capire gli effetti di
determinate decisioni nel tempo.
10
Cfr. D. Viviani, “Competenze per Competere”, 2000 – M. Montironi, “Il Coaching” in “Sviluppo ed
Organizzazione”, 1999.
37
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
I sistemi di gestione documentale supportano le organizzazioni tramite la fruizione dei
documenti attraverso Internet o Intranet. In particolare, consentono la catalogazione,
l’organizzazione e la consultazione di archivi condivisi. Grazie alla creazione di un
repository centrale di tutte le informazioni, si riducono i tempi di acquisizione delle stesse e
se ne evita la duplicazione che comporta spesso problemi di allineamento e congruità tra
le differenti versioni dello stesso documento.
Come si può evincere dalla sintetica descrizione delle diverse tipologie di sistemi,
ognuna ha proprie caratteristiche e peculiarità che le consentono di gestire uno specifico
aspetto delle informazioni e – quindi – non tutte le problematiche ad esse connesse. In
questa logica, non esiste un unico strumento informatico a supporto del KM: il KS deve
avvalersi della combinazione dei diversi strumenti identificati che - data la loro modularità -
permettono all’organizzazione di non dover implementare nello stesso momento tutte le
soluzioni, ma di costituire una sorta di sentiero di crescita che, attraverso steps successivi,
consenta di realizzare un sistema integrato.
38
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Capitolo III
“L’organizzazione a misura d’uomo”
Dimensione
epistemologica
Conoscenza
esplicita
Conoscenza
tacita
Dimensione
ontologica
livello di conoscenza
39
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1.1. La spirale della conoscenza
Socializzazione Esteriorizzazione
Conoscenza tacita
DA
Interiorizzazione Combinazione
Conoscenza esplicita
40
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modalità di conversione è tipica della creazione dei concetti di prodotto. Secondo Nonaka
e takeuchi l’esteriorizzazione costituisce, più delle altre modalità di conversione, la chiave
di creazione della conoscenza, perché crea concetti nuovi ed espliciti a partire dalla
conoscenza tacita, e ciò può avvenire in modo concreto ed efficace grazie alla sequenza
metafora-analogia-modello. La metafora rappresenta un modo di percepire e cogliere
intuitivamente un oggetto immaginandone simbolicamente un altro; consiste in un
meccanismo di comunicazione in grado di riconciliare discrepanze di significato e
connettere concetti mentalmente anche molto distanti tra loro, quali idee astratte e
rappresentazioni concrete. Questo processo cognitivo-creativo continua mano a mano che
l’individuo pensa alle somiglianze fra concetti e avverte una disarmonia, un’incoerenza o
una contraddizione nel loro legame, giungendo così spesso alla scoperta di nuovi
significati o alla formazione di nuovi paradigmi. L’analogia, dal canto suo, riduce l’ignoto
sottolineando – attraverso il noto – la “comunanza” che lega cose diverse e riesce ad
armonizzare le contraddizioni intrinseche della metafora. Essa consente così di superare il
divario che separa l’immagine dal modello logico. Una volta creati, infatti, i concetti espliciti
possono dare origine a modelli. In essi non dovrebbe esservi spazio per le contraddizioni e
tutti i concetti e le proposizioni dovrebbero essere espresse in una forma sistematica,
secondo una logica ispirata a principi di coerenza.
41
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
esperienza concreta ha importanza decisiva, tuttavia non sempre è richiesta la
riesperienza reale delle esperienze altrui. Nella misura in cui, ad esempio, la lettura o
l’ascolto di una storia di successo fa percepire ad alcuni membri dell’organizzazione il
contenuto di realtà e l’essenza della vicenda, l’esperienza avvenuta nel passato può
tradursi per essi in un modello mentale tacito. Quando tale modello viene condiviso dalla
maggioranza dei membri dell’organizzazione, la conoscenza tacita entra a far parte della
cultura organizzativa.
Ciascuna modalità di conversione crea un contenuto di conoscenza diverso (Fig. 13).
Socializzazione Esteriorizzazione
Conoscenza tacita conoscenza simpatetica Conoscenza concettuale
DA
Interiorizzazione Combinazione
Conoscenza esplicita Conoscenza operativa Conoscenza sistemica
42
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interazione, attraversando i confini di settore, di dipartimento di divisione e
dell’organizzazione stessa. La conoscenza che parte dal contesto individuale per poi
ritornarvi non è uguale a sé stessa, ma si trasforma lungo il processo di conversione, si
arricchisce dell’esperienza di più individui, delle conoscenze esplicite dell’organizzazione,
dei saperi che provengono dall’esterno e ad ogni ciclo si rinnova continuamente
coinvolgendo sempre più persone ed ambienti diversi.
Non ogni conoscenza tacita è valida e generativa di “nuovo valore”, ma se non si crea
una interazione agevole le persone non saranno spinte a condividere nuove idee e
concetti. Competizione tra le persone, comportamenti di sfiducia e scarso rispetto
reciproco come anche squilibri nelle informazioni che si danno e si ricevono, atteggiamenti
di rifiuto delle responsabilità, minacciano l’efficacia del processo di creazione della
competenza.
Il contesto sociale in cui le persone operano può sostenere il processo di creazione del
sapere da due diversi punti di vista: (1) come “fertilizzatore” delle capacità individuali e (2)
come ambito in cui le persone possono elaborare i significati delle conoscenze e, quindi,
produrre sistemi di “comprensione”. I processi di sostegno della creazione di competenza
sono perciò orientati in tre direzioni fondamentali:
a) Creare contesti facilitanti per l’emergere di nuove competenze;
b) Promuovere condizioni e ruoli per la diffusione di sapere implicito;
c) Sostenere il confronto e l’apertura rispetto alle conoscenze esterne
disponibili.
A questo proposito Nonaka e Takeuchi, relativamente alla loro teoria della creazione di
competenza organizzativa11, indicano cinque condizioni che la promozione della spirale di
competenza richiede al livello organizzativo12:
1. intenzionalità;
2. autonomia;
3. fluttuazione e caos creativo;
4. ridondanza;
5. varietà.
Intenzionalità
La spirale delle competenze è avviata dall’intenzionalità organizzativa, che può definirsi
come l’aspirazione dell’organizzazione al raggiungimento dei propri obiettivi.
Normalmente, in impresa, gli sforzi di acquisire l’intenzionalità prendono la forma di una
strategia, che consiste essenzialmente nello sviluppo della capacità organizzativa di
acquisire, creare, accumulare e sfruttare competenza. La criticità che deriva dalla
formulazione di una strategia di questo tipo è quella di concettualizzare una vision relativa
al tipo di competenza da sviluppare e nel dare ad essa una veste operazionale in un
sistema manageriale capace d’implementarla. L’intenzionalità organizzativa costituisce il
criterio più importante per valutare la veridicità di ciascun elemento della competenza.
Senza di essa non è possibile stabilire il valore di un’informazione o di una conoscenza
percepita o creata. A livello organizzativo, l’intenzionalità è spesso espressa dagli
11
Nonaka e Takeuchi si riferiscono solo alla creazione di conoscenza organizzativa. In questa trattazione,
però, i knowledge workers sono stati considerati come portatori di competenze individuali dalla cui sinergia
scaturiscono le competenze organizzative.
12
Cfr. adattamento da I. Nonaka, H. Takeuchi, op. cit., 1995.
43
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standard o dalle vision, che possono pertanto essere utilizzati per valutare e giustificare la
conoscenza creata. L’intenzionalità è quindi necessariamente intrisa di valori.
Per creare competenza le organizzazioni economiche non possono affidarsi
unicamente al pensiero e ai comportamenti individuali, questi vanno riorientati e promossi
favorendo impegni collettivi, è necessario alimentare il coinvolgimento dei propri
dipendenti, e ciò avviene con la formulazione e proposta di un’intenzionalità organizzativa.
Autonomia
La seconda condizione è l’autonomia. A livello individuale, tutti i membri
dell’organizzazione dovrebbero agire, per quanto consentano le circostanze, in modo
autonomo. Permettendo ciò, l’organizzazione stessa può accrescere la probabilità di
generare opportunità inattese: è infatti da individui autonomi che nascono idee originali, si
diffondono nel gruppo e divengono infine concetti organizzativi. Un’organizzazione che
permette ai suoi membri di auto-organizzarsi ha maggiori probabilità di conservare
flessibilità nell’acquisizione, coinvolgendo persone rappresentative delle diverse attività
organizzative.
La ridondanza
La ridondanza è la quarta condizione che favorisce l’avvio della spirale della
competenza, anche se il termine può suonare non positivo perché richiama concetti di
sovraccarico e duplicazione informativa. Con questo termine Nonaka e Takeuchi si
riferiscono a quell’informazione che va al di là delle richieste operative immediate dei
13
Cfr. T. Winograd, F. Fklores, “Understanding Computers and Cognition: A New Foundation for Design
Reading”, Addison-Wesley, MA, 1996.
44
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membri dell’organizzazione, una sovrapposizione intenzionale di informazioni circa le
attività del business, le responsabilità manageriali e l’organizzazione nel suo complesso. Il
verificarsi della creazione di competenza organizzativa richiede la condivisione dei concetti
elaborati da un individuo o da un gruppo da parte di altre persone, che possono non
averne un bisogno immediato. In particolare, la condivisione di informazioni ridondanti
promuove la condivisione di conoscenza tacita, in ragione della capacità delle persone di
avvertire ciò che gli altri stanno tentando di formulare. La ridondanza è particolarmente
importante in fase di sviluppo dei concetti di prodotto, quando è decisivo di poter
esprimere le immagini radicate nella conoscenza tacita. In questa fase, infatti,
l’informazione ridondante permette ai singoli di invadere i rispettivi ambiti funzionali e di
offrire consigli e nuove informazioni a partire da punti di vista diversi. Si determina in tal
modo, una sorta di “apprendimento per intrusione” nella sfera di percezione di ciascun
individuo. Condividere informazioni aggiuntive, inoltre, aiuta le persone a capire la loro
collocazione all’interno dell’organizzazione, tale processo a sua volta serve a controllare la
direzione del pensiero e dell’azione individuale. La ridondanza di informazione offre cosi
all’organizzazione un meccanismo di autocontrollo utile per mantenere la rotta prefissata.
La ridondanza può causare effetti collaterali non desiderabili. L’aumento della quantità di
informazione da elaborare può provocare un fenomeno di sovraccarico informativo,
l’abbassamento dell’efficienza operativa può causare un aumento dei costi del processo di
creazione di conoscenza, almeno di quelli di breve periodo. E’ importante quindi
individuare un punto di equilibrio tra creazione di informazione ed elaborazione della
stessa, come è utile a lenire gli effetti negativi della ridondanza, chiarire il luogo all’interno
dell’organizzazione dove poter collocare le informazioni e immagazzinare le conoscenze.
In effetti, ogni essere umano agisce, interpreta e modifica la realtà attraverso il proprio
comportamento. Ed è proprio il comportamento – insieme alle attività operative svolte - la
variabile fondamentale da cui partire per riprogettare la microstruttura di
un’organizzazione, dove con il termine microstruttura si intendono “quelle strutture di base
componenti un soggetto organizzativo (un’impresa, un ente pubblico, un’associazione
45
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
volontaria, un’istituzione educativa, ecc.) di cui concorrono a realizzare i processi operativi:
ossia, le microstrutture sono le organizzazioni operative che hanno il compito di «fare le
cose»” (Costa, 1997, p. 663). In esse si fanno ricomprendere sia le unità organizzative di
base - costituite da più persone o da gruppi di persone - che le “unità di operazione” svolte
da singoli individui.14
A) La persona
1. La personalità
Per quanto attiene al concetto di personalità, come è noto, nel linguaggio comune
viene utilizzato secondo diverse accezioni. Nel contesto di riferimento, però, “il termine
personalità indica l’insieme relativamente stabile delle caratteristiche psicologiche di una
persona, ossia un modello duraturo di caratteristiche che definiscono l’unicità di una
persona e che influenzano il modo con cui essa interagisce con gli altri e con l’ambiente”
(Tosi, 2002, p. 4).
In tale logica, il concetto di personalità è utile per interpretare e gestire molte situazioni
organizzative: in particolare, la personalità è un fattore fondamentale nelle dinamiche
motivazionali individuali e di gruppo, nonché nella gestione dei conflitti interpersonali. Su
questo tema, d’altro canto, si ritornerà in seguito.
In generale, però, esiste un modello dinamico della personalità, che affronta il
problema dell’adattamento della personalità individuale al contesto lavorativo. Tale
modello parte dal presupposto secondo il quale, gli obiettivi personali si muovono e si
mescolano agli obiettivi organizzativi, generando complessità perché non è detto esista lo
stesso tipo e livello di commitment15 per tutti i partecipanti al gruppo. Nella fattispecie,
all’interno di un’organizzazione si possono ravvisare tre tipologie di personalità:
1. l’organizzativista. Si tratta di quei soggetti che si identificano totalmente sia con il posto
di lavoro sia con l’organizzazione per la quale lavorano: i loro obiettivi personali
coincidono con quelli dell’impresa;
2. il professionista. Il professionista è un soggetto che vive per il “suo” lavoro
indipendentemente dall’organizzazione per cui svolge la mansione. Egli si identifica
con il contenuto del task e con il miglioramento delle proprie competenze. In ogni caso,
14
Cfr. Giovanni Costa, Nacamulli Raoul (a cura di), “Manuale di Organizzazione Aziendale”, Volume 2, “La
Progettazione Organizzativa”, Torino, Utet Libreria, 1997, pp. 662-663.
15
«Il commitment organizzativo è il grado con cui una persona si identifica con un’organizzazione e si sente
in sintonia con essa, in relazione a tutti i fattori che influenzano la sua attività lavorativa, intesi sia come il
lavoro in sé nell’organizzazione, sia come tutti i fattori esterni all’organizzazione che sono in “competizione”
con il livello di commitment sul lavoro» cit. in Heny L. Tosi e altri, “Comportamento Organizzativo: Persone,
Gruppi e Organizzazioni”, Egea, Milano, 2002, p. 320.
46
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
pur non immedesimandosi totalmente con le finalità dell’organizzazione, le rispetta e
contribuisce a perseguirle;
3. l’indifferente. Coerentemente con la teoria motivazionale di Herzberg16, il soggetto
indifferente è orientato al soddisfacimento dei cosiddetti “fattori igienici” e, quindi,
all’ottenimento di una retribuzione mensile per il proprio sostentamento, nonostante
non si identifichi in alcun modo con il fine organizzativo verso cui la sua azione è
finalizzata. In tale circostanza, non generano motivazione né il lavoro in quanto tale, né
l’organizzazione per cui si presta la propria opera.
2. Le competenze
Queste tre componenti sono legate sistemicamente e nella loro simbiosi risiede la
possibilità per ogni individuo di rispondere efficacemente alle attese di ruolo definite
dall’organizzazione. Tale aspetto ha una rilevanza fondamentale perché la copertura
efficace di ogni posizione organizzativa è legata ad uno specifico profilo di competenze.
16
Cfr. Frederick Herzberg, Bernard Mausner, Barbara Bloch Snyderman, “The Motivation to Work”, John
Wiley, New York, 1959.
47
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
B) area realizzativa, in cui afferiscono le modalità con le quali una persona agisce e
modifica la realtà;
C) area relazionale, che raccoglie le capacità che presiedono ad un’efficace gestione
dei rapporti sociali.
Per un maggiore grado di dettaglio, si veda l’allegato al termine della trattazione.
3. La motivazione
Alla luce di queste nuove affermazioni, ne consegue che “le capacità sono espressione
di attitudini che hanno trovato condizioni esterne (conteste) ed interne (motivazione)
favorevoli al loro manifestarsi in comportamenti o più nello specifico nella prestazione
lavorativa” (adattamento da Levati, 1997, p. 28).
48
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
the work is embedded. Knowledge workers can decide how best to get the job done
in the face of new realities and the unfolding big picture”.
2. Blending different knowledge workers into complementary teams: nessun
lavoratore possiede le competenze necessarie per la totale comprensione di un
incarico urgente e complesso. Quindi, il lavoro è svolto prevalentemente in team di
progetto dove le competenze dei lavoratori sono selezionate ma fuse insieme per il
perseguimento dell’obiettivo.
3. Balancing directed guidance and empowered delegation: il personale vuole
essere guidato e non gestito. Necessita, pertanto, di parametri strategici (di
contesto e di progetto) e comportamentali per poi poter operare autonomamente.
4. Binding knowledge workers to the organizational community: si devono
guidare i lavoratori - attraverso brainstorming e feedback - verso lo sviluppo
continuo delle loro competenze in funzione delle esigenze di contesto.
(adattamento da Baharami, 2005).
“The aligning orientation-based entities and the supervisory tilt of traditional enterprises
differ in three board areas: exercising control by providing “context”, clear parameterrs
and critical round-rules: treating knowledge workers in a peer-to-peer framework; and
recognizing of emotional, not only financial and intellectual, drivers in motivang
knowledge workers” (Baharami, 2005).
Infine, un ulteriore elemento che può giocare un ruolo fondamentale nel determinare la
prestazione è dato dal contesto lavorativo o più in generale, dalle condizioni in cui si
svolge la vita lavorativa.
B) Il contesto
“Il contesto consiste in un insieme di elementi che conferiscono ad una situazione uno
specifico significato e che, come tale indirizza la scelta dei comportamenti attuabili. In
questo senso il contesto agisce con una funzione che potremmo definire in generale
maieutica, permettendo all’attitudine di esprimersi in capacità, sotto la specifica forma di
opportunità di esercizio, e alla capacità di confluire, insieme agli altri elementi, in
competenza, sotto la specifica forma di opportunità oggettiva” (Levati, 1997, p. 41).
Quindi, sintetizzando:
49
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
Alla luce di quanto emerso, il nodo centrale del KM è la valorizzazione del sapere
esistente al fine di produrre - attraverso forme organizzative, sociali e cognitive appropriate
- nuove competenze e processi produttivi supportati da sistemi technology oriented
congruenti.
L’organizzazione, quindi, diventa un deposito di competenze, che – in questa
prospettiva – è allo stesso tempo:
a. conoscenza ovvero prodotto da archiviare, accessibile, facilmente recuperabile e
fruibile dal personale aziendale a qualsiasi livello. Si pensi ai dati e alle informazioni
presenti in un’organizzazione;
b. “knowing”, processo interattivo/biunivoco di creazione e condivisione di competenze
che nasce dall’interazione sociale.
Secondo tale impostazione, il patrimonio di un’organizzazione non coincide solo con la
mera somma delle conoscenze prodotte (documenti, relazioni, dati), ma è identificabile
con l’insieme delle competenze che generano tali conoscenze, traducendole in
prodotti/servizi e risultati.
Ne consegue che la costruzione di un sistema di KM deve partire dalle esigenze dei
“clienti” interni, lette alla luce degli obiettivi dell’organizzazione. Ciò significa mappare la
competenza esistente. A tale fine, si rende necessario comprendere in maniera dettagliata
il ciclo di gestione delle competenze affinché possa essere adattato alle diverse esigenze
organizzative.
In generale, un normale si articola in due momenti principali (Fig. 14):
Fig. 14. - Un ciclo«normale» di gestione delle competenze
- Filtrare
- Codificare (edit)
Scegliere un’unità di analisi e - Collegare
creare strumenti di raccolta - Dare un senso
- Ritenere
Organizzare
Mappare Distribuire
Perfezionare Utilizzare
Rendere possibile il
perfezionamento della Rendere possibile la
competenze esistenti ricontestualizzazione delle
competenze esistenti
50
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
1) La mappatura delle competenze, ovvero la ricerca del “tesoro nascosto”!
“E’ nascosto in posti speciali (…): a volte su un’isola, a volte in casse fradicie alla base del
tronco di un vecchio albero morto, proprio là dove l’ombra cade a mezzanotte; ma per lo più sotto
il pavimento di case stregate… Il tesoro resta sepolto per molto tempo e arrugginisce tutto. Poi, un
giorno, qualcuno trova un vecchio foglio di carta ingiallita che spiega come trovarlo… Ci vuole
quasi una settimana per decifrare quella carta perché è tutta piena si segni e di geroglifici”. (Mark
Twain)
Competenze
Intensità richiesta
richieste
Junior Senior
0 1 2 3 4 5
Ad esempio in
materia di
diritto, utilizzo
Di base di strumenti Nulla Scarsa Sufficiente Media Alta Massima
informatici,
lingue
straniere.
Specifiche per
comunità
Conoscenze professionale,
tecnico- Disciplinari legate al Nulla Scarsa Sufficiente Media Alta Massima
professionali settore e al tipo
di attività
svolta.
Conoscenze
legate
all’esercizio del
Di ruolo ruolo (ad Nulla Scarsa Sufficiente Media Alta Massima
esempio
project
management).
52
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
Per perseguire tali finalità, deve offrire:
- l’affiancamento di servizi di tipo tradizionale (formazione in aula, seminari e convegni,
tutorship operativa, studio personale) con servizi di tipo innovativo (e-learning, data
mining, etc);
- servizi che vengono forniti attraverso: (a) i canali della comunicazione faccia-faccia
(servizi di affiancamento, coaching, docenza in aula, riunioni, ecc.), (b) i canali della
comunicazione via web (corsi on line, database, e-library, e-conference, ecc.), (c)
un’ampia gamma di supporti dal cartaceo (libri, documenti, giornali, procedure, ecc.)
all’informatico (e-book, banche dati, corsi on line, forum, ecc.).
In definitiva, knowledge economy non significa solo codificare le competenza core
dell’organizzazione per replicare nel tempo successi, ma implica rendere il processo di
gestione del capitale intellettuale più fluido sia nella fase di creazione che di fruizione e
scambio dello stesso.
L’obiettivo è migliorare la qualità della vita delle persone che ne fruiscono, ovvero:
• permettere alle persone di trovare rapidamente ciò che cercano, anticipando il loro
fabbisogno di verifica della coerenza tra la natura dei problemi da risolvere e le
soluzioni disponibili;
• garantire un’elevata qualità della conoscenza captata;
• favorire un’adeguata ricontestualizzazione della conoscenza intercettata.
Ciò implica che un adeguato sistema di Knowledge Management deve possedere
alcune caratteristiche specifiche:
- semplificare i processi di inserimento, codificazione, catalogazione e aggiornamento
della conoscenza;
- garantire la qualità della conoscenza resa disponibile (selezionare la qualità delle
idee e delle soluzioni che vengono catalogate e diffuse);
- facilitare il processo di incontro tra domanda ed offerta di conoscenza;
- eliminare le inefficienze del processo di fruizione della conoscenza, ad esempio
eliminando le inefficienze nel processo di ricerca, di validazione e di
ricontestualizzazione della conoscenza esistente.17
17
Cfr. Carlo Turati, Dino Ruta Cataldo, prefazione di Anna Grandori, op. cit., 2002, pp. 12-13.
53
Comune di Milano – DirezioneCentrale Educazione
2.2. La progettazione del contesto organizzativo
Proprio in relazione al ruolo esercitato dal contesto e alla posizione che in esso
occupano gli individui coinvolti nel processo di creazione di competenze, Doz e Santos
hanno evidenziato l’importanza di due condizioni: la condivisione del posizionamento
(collocation) e la condivisione del contesto (co.setting)18. Secondo i due autori la presenza
di queste due condizioni garantisce che la gestione della competenza non sia legata
esclusivamente al casuale verificarsi di eventi scatenanti. La condivisione della stessa
location, ossia la contemporanea presenza in uno spazio in un determinato momento,
garantisce agli individui co-located di condividere medesimi linguaggi, storia, cultura,
istituzioni, tecnologie e cosi via. La seconda condizione implica la condivisione degli
elementi riferiti al contesto nel quale si realizza l’interazione tra le persone (Fig. 15).
Casualità crescente
D&D
Dispersione
Differente Differenziazione
Contesto Simile
C&C
Collocation & Virtual
Co-setting collocation
Uguale
18
Cfr. Y. L. Doz, Santos J., “On the Management of Knowledge: from Thetrasparency of Collocation and co-
setting to the Quandary of Dispersion and Differentiation”, Working Paper, Insead, 1997.
19
Cfr. K. E. Weick, P. Van Order, “Organizing on a Global Scale: A Research and Teaching Agenza”,
Human Resources Management, n° 29, 1990, pp. 49-61.
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Più forte è la condivisione della posizione e del contesto, più implicita e meno visibile
sarà la gestione della competenza. Il grado di collocation cambia in relazione alle variabili
tempo e distanza. Lo stato di “condivisione virtuale della posizione” si manifesta in
condizione di dispersione geografica e/o sfasamento temporale ma in presenza,
comunque, di un contesto condiviso (distant but yet near).
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propri dispositivi, viene destinata una limitata attenzione ai suoi bisogni ed è scarso l’aiuto
che può aspettarsi dai suoi colleghi. Tuttavia, questa situazione può indurre a dare meno
rilevanza agli ostacoli ed a sviluppare ed applicare le proprie metodologie in modo da
raggiungere un obiettivo con pieno successo, un percorso per prova ed errore consente di
apprendere quali metodi funzionano e quali no, di arrivare ad una buona comprensione
personale del compito da seguire e di guadagnare una notevole quantità di conoscenza
tacita adattata ai metodi utilizzati (si pensi, per esempio, ad uno studente che lavora
isolato sviluppando un proprio metodo di apprendimento ). Resta il fatto che i tentativi
individuali di presentare nuove idee, concetti o prototipi si scontreranno con il severo
giudizio e l’atteggiamento brusco e austero degli altri partecipanti al processo.
Quando il processo riveste una dimensione sociale, ogni membro di un team tratta
conoscenza con gli altri partecipanti. L’operazione è semplice quando ha per oggetto
conoscenza esplicita. Se essa invece è tacita, occorre innanzitutto che venga resa
esplicita prima che i partecipanti possano esprimere il valore (i ritorni attesi) e decidere
cosa “scambiare”. In presenza di un ridotto livello di care, i membri dell’organizzazione per
dimostrare la propria competenza tecnica quale misura del loro valore per l’azienda,
esprimono la conoscenza esplicita nella maniera più legittima: concetti chiaramente
definiti, argomenti “a prova di pallottola”, dati e informazioni validi e riutilizzabili, e cosi via.
In tal modo non viene rilevato neanche il più piccolo ostacolo incontrato durante il
processo di apprendimento. La condivisione di conoscenza tacita, che come si è visto,
richiede l’uso di linguaggi non convenzionali, analogie e metafore, è notevolmente
ostacolata dalla presenza di scarsa fiducia ed indulgenza e di una irrisoria forza di
coraggio tesa alla sperimentazione.
In un contesto in cui il care è presente in misura elevata, ogni individuo concede,
conoscenza nella stessa misura in cui da altri riceve a sua volta aiuto. L’ambiente, in
questo caso, svolge un ruolo di rapporto e l’obiettivo del processo di apprendimento
diviene ottenere il massimo “effetto leva” dalla conoscenza altrui. Sussiste un impegno
reciproco nell’aiutare gli altri ad ottimizzare il risultato della propria performance e, quindi,
a condividere conoscenza. Ogni persona può sperimentare molto più liberamente lo
sviluppo di soluzioni in merito al proprio incarico.
Nonaka e Konno hanno individuato il concetto di Ba per esprimere il luogo ideale in cui
le condizioni organizzative “facilitanti” possono trovare il loro dispiegamento21. Il Ba per
essere definito come uno “spazio condiviso” che stimola l’emergere di relazioni sociali tra
gli individui e getta le fondamenta alla creazione di conoscenza. Questo spazio può essere
fisico (un ufficio), virtuale (e-mail, teleconferenze), mentale (esperienze condivise, idee,
ideali), o una possibile combinazione di questi. Ciò che differenzia questo luogo
dall’ordinaria interazione tra individui è proprio il concetto di creazione di conoscenza: il Ba
fornisce una piattaforma per far progredire la conoscenza individuale e/o collettiva che
integra tutte le informazioni a ciò necessarie in una prospettiva trascendentale. I due
21
Cfr. I. Nonaka, S. Konno, “The Concept of Ba in Knowledge Creation”; California Management Review,
vol. 40, 3, 1998, pp. 40-54.
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motori lo definiscono come “il mondo dove l’individuo realizza se stesso quale parte di un
ambiente dal quale dipende la sua vita”.
Il Ba esiste a molti livelli (individuale, di gruppo, organizzativo) e questi livelli possono
essere connessi formando, cosi, un grande Ba che Nonaka e Konno chiamano basho.
Cosi come il Ba degli individui è il team, quello dei team è l’organizzazione, mentre il
Ba dell’organizzazione è l’ambiente di mercato. Il Ba è di fondamentale importanza per la
creazione di competenza organizzativa, ma questo processo creativo è amplificato quando
tutti i diversi Ba convergono in basho. Agire in un Ba significa capire ed andare oltre i
propri confini attuando un’esplorazione necessaria per la realizzazione di quella “magica
sintesi” di razionalità e intuito che genera la creatività. La conoscenza è intangibile,
illimitata e dinamica. Ci sono quattro tipo di Ba che corrispondono ai quattro stadi del
modello di creazione della conoscenza – che nel nostro caso diventa modello di creazione
della competenza – elaborato da Nonaka e Takeuchi, ciascuno dei quali offre la
piattaforma per realizzare modalità di conversione di competenze individuali in
competenze organizzative. La combinazione dei processi è rappresentata in Fig. 17.: ogni
Ba supporta un particolare tipo di processo di conversione ed accelera, spingendolo verso
l’alto, il processo di valorizzazione e creazione di competenze.
Exsercising Ba Cyber Ba
Situato Gruppo a
Exsercising Cyber gruppo
Ba Ba
Per la riuscita del processo di creazione di nuova competenza, infine, oltre ai fattori già
considerati, va sottolineato lo sviluppo dei “ruoli di riferimento” nel trasferimento dei modelli
di comportamento, ovvero delle capacità e della conoscenza esplicita. Von Krogh, Nonaka
e Ichijo sostengono che la capacità di agevolare la costruzione di nuovo sapere è frutto di
energia, impegno e costanza nel tempo. Essi hanno evidenziato l’importanza dei c.d.
“attivisti delle competenze”, ossia di una “persona, un gruppo o un dipartimento a cui
venga affidata la responsabilità specifica di energizzare e coordinare gli sforzi tesi alla
creazione di conoscenza nell’impresa”22. Tre sono gli obiettivi fondamentali che con
questa innovazione si vogliono raggiungere: (1) dare avvio e concentrare l’attenzione sulla
diffusione della competenza esistente e sulla creazione di nuova, (2) ridurre i tempi e i
costi necessari per il processo di creazione, (3) potenziare e diffondere le iniziative di
creazione di nuova competenza.
Gli attivisti svolgono tre funzioni critiche:
1) fungono da catalizzatori. In primis, lavorando liberamente all’interno
dell’organizzzione e raccogliendo la voce dei suoi membri attraverso i differenti livelli e
confini organizzativi, loro sono esposti ad un’elevata varietà di nuovi dati, idee, intuizioni,
opportunità, interrogativi e problemi. Dopo aver raccolto questi segnali, gradualmente
elaborano dei processi scatenanti, ossia definiscono il cosa, il come, il dove, il quando e il
perché degli input raccolti e, successivamente, li indirizzano alla funzione, reparto o
posizione che è deputata a raccogliere e sviluppare le nuove informazioni;
2) fungono da connettori. E’ plausibile che in un contesto d’impresa organizzato in
modo da facilitare le occasioni per l’avvio di una nuova spirale di competenza, si manifesti
il problema della frammentazione con cui iniziative diverse possano cercare di affermarsi.
Idee su nuovi prodotti e servizi, differenti modalità di produzione, nuovi modi di concepire e
praticare l’attività di controllo e così via. A quest’obiettivo sarà teso l’impegno degli
attivitsti, che dovranno assumersi la responsabilità di produrre delle mappe condivise di
cooperazione e connettere le iniziative laddove la “fertilizzazione” incrociata può condurre
ad economie di scala o di scopo nel processo di creazione della conoscenza;
3) sono “mercanti” di previsioni. Gli attivisti dovranno lottare contro la miopia che
caratterizza la creazione della conoscenza. Il loro compito sarà di comprendere il
contributo di ogni microcomunità allo sviluppo dell’intera organizzazione e di indagare
come le singole iniziative possano effettivamente modificare il posizionamento strategico
dell’impresa.
Von Krogh, Nonaka e Ichijo precisano che il knowledge activism non riguarda l’attività
di controllo, ma è legato alla possibilità di agevolare il processo di creazione di
22
Cfr. adattamento G. Von Krogh, I. Nonaka, K. Ichijo, “Develop the Knowledge Activists”, Harvard Business
review, vol. 15, ottobre, 1997, pp. 475-483.
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conoscenza. Io suo obiettivo principale è quello di assicurare un’autoconnessione tra le
iniziative, non crearle.
Alla luce di quanto visto fino ad ora, per (a) valorizzare e trasferire le competenze
idiosincratiche individuate e (b) sviluppare nuove competenze volte ad ottenere e/o
consolidare il vantaggio competitivo nel tempo, occorre progettare un intervento formativo
integrato, ovvero basato su diversi metodi formativi.
In generale, con il termine formazione si intende quella leva di Gestione del Personale
definibile come “l’insieme dei criteri che regolano i processi per lo sviluppo e
l’adeguamento delle competenze professionali e manageriali degli operatori aziendali e dei
loro comportamenti, garantendo e accrescendo la necessaria coerenza tra il modello di
management e le esigenze impresse dall’ambiente/mercato di riferimento” (Paneforte,
2002, p. 261).
In realtà, la formazione non è una leva una tantum, ma un processo continuo con
l’obiettivo di generare, sviluppare e mantenere nel lungo periodo competenze professionali
e manageriali coerenti con la cultura organizzativa. La formazione non è nient’altro che
un’attività finalizzata a produrre apprendimento e l’organizzazione - indipendentemente da
quale essa sia - apprende tramite i suoi attori. “Le organizzazioni crescono e si sviluppano
se si sviluppano i loro attori. […] Rappresenta così un punto d’incontro fra le potenzialità e
i bisogni dell’individuo e le potenzialità e i bisogni dell’organizzazione, fra il sapere
individuale […] e il sapere organizzativo. […] Le organizzazioni apprendono quando i
gruppi acquisiscono nuove competenze e concretizzano, nei risultati, azioni visibili che
derivano dall’apprendimento: per realizzare apprendimento nelle organizzazioni occorre
quindi sviluppare capacità e conoscenze che devono però essere condivise; si devono
creare infatti le condizioni favorevoli per realizzare un collegamento organico e non
casuale fra apprendimento individuale e trasferimento al gruppo e all’organizzazione”
(Autieri, 1998, pp. 164, 165).
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trasmissione del sapere, di riqualificazione delle risorse umane, di crescita professionale e
di sviluppo della cultura manageriale. In sintesi, la formazione è la conditio sine qua non
per diffondere e valorizzare le competenze idiosincratiche esistenti all’interno di
un’organizzazione, creando i presupposti per svilupparne di nuove e gettare le basi per
ottenere un vantaggio competitivo durevole nel tempo – magari anticipando le tendenze
del mercato in un processo di enactment dello stesso.
Proprio in tale logica, quindi, occorre analizzare le fasi in cui si articola il processo
formativo che – nello specifico – sono quattro:
1. analisi del fabbisogno formativo;
2. progettazione dell’intervento formativo;
3. attuazione dell’azione promossa;
4. valutazione dei risultati.
Progettazione dell’intervento
Realizzazione dell’intervento
Attività di feedback
Dopo aver individuato il percorso formativo più adeguato per i risultati che si vogliono
ottenere, occorre tradurlo in pratica, ovvero è necessario applicare i metodi individuati e
riadattarli in funzione delle esigenze che mano a mano si presenteranno – senza però mai
perdere di vista lo scopo finale dell’intervento. E’ in questa fase che la relazione si fa più
intensa, perché entrano in gioco anche i partecipanti. Quindi, si ha una relazione a tre:
formatore – docenti – partecipanti. Dovrebbe essere presente anche il formatore – qualora
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diverso dal docente – perché deve attivare opportune azioni di monitoraggio al fine di
monitorare sia la coerenza dei contenuti sviluppati con le finalità richieste dal committente
sia il relativo apprendimento da parte dei partecipanti.
Infine, nella valutazione dei risultati, la finalità ultima è quella di verificare (a) l’avvenuto
apprendimento da parte dei fruitori dell’attività formativa e (b) l’effettiva applicazione delle
competenze acquisite in ambito organizzativo. In questo step, tutti gli attori sono chiamati
in causa: “il docente certifica l’apprendimento dei partecipanti, i partecipanti sono in grado
di impiegare le competenze acquisiste, i capi di utilizzare le nuove competenze dei
collaboratori, il formatore valuta il docente, il committente valuta i risultati complessivi
dell’investimento formativo” (Autieri, 1998, p. 171).
PROCESSO
SISTEMA
Mentre fino all’inizio degli anni ottanta si parlava di formazione episodica, senza un
disegno strategico e di continuità, a partire dagli anni novanta si inizia a dare la giusta
importanza alla formazione quale sistema in cui la valutazione dei risultati e l’analisi dei
bisogni non sono due eventi lontani nel tempo (Fig.19), ma un momento inscindibile.
Infatti, si inizia a considerare il risultato raggiunto tramite la prima tranche di intervento
formativo e successivamente si programma il to be, nella logica della formazione
permanente (Fig.20).
Nella prospettiva descritta, quindi, ogni volta che si intende realizzare un intervento
formativo entrano in gioco tre variabili: (1) gli obiettivi, (2) le persone, (3) le strutture.
Gli obiettivi discendono direttamente dall’analisi dei bisogni: rappresentano il gap
esistente tra le competenze richieste per coprire un determinato ruolo – ovvero svolgere
specifiche attività – e quelle effettivamente possedute dal soggetto che ricopre la
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posizione e, quindi, esegue le suddette attività. Le persone sono coloro che risultano
coinvolti a vario titolo dall’intervento formativo, dai committenti ai fruitori dello stesso. Le
strutture, invece, coincidono con quanto necessario tecnicamente ed organizzativamente
per rendere operativa l’iniziativa di formazione e poterne valutare concretamente i risultati.
Le tre variabili descritte creano un vero e proprio sistema di intervento formativo, in
quanto sono legate da interdipendenza complessa: l’analisi dei bisogni determina gli
obiettivi formativi che – a loro volta – sono il presupposto per progettare l’intervento
formativo e, quindi, individuare le strutture per poter sviluppare le persone. A partire dal
matching tra i risultati raggiunti e gli obiettivi prefissati, si ridefiniscono le finalità e si
innesca un circolo virtuoso di valorizzazione delle competenze esistenti e di creazione di
nuove – nella logica della formazione continua. Ne discende, pertanto, che le altre due
caratteristiche di quello che abbiamo definito il sistema formativo sono (1) la contingenza e
(2) la coerenza. Per contingenza si intende la capacità del sistema di adattarsi alla
situazione specifica e all’evoluzione della stessa. La coerenza, invece, afferisce alla
capacità di porre in essere interventi in linea con le necessità emerse dalla situazione
contingente.
La logica della formazione continua implica l’adozione di una politica del personale
oculata, in base alla quale si verifica costantemente la rispondenza tra le persone che
operano all’interno dell’organizzazione e i profili professionali che vengono ritenuti di
successo dalla stessa. Allo stesso tempo, però, occorre considerare che l’efficacia di un
investimento formativo sarà tanto più elevata quanto più alla formazione verranno
affiancate le altre leve gestionali, strutturali e tecnologiche necessarie per la soluzione dei
problemi emersi.
Alla luce della panoramica delineata, la fase principale – dopo l’analisi dei bisogni – è
la progettazione dell’intervento formativo.
In generale la progettazione prevede la programmazione del mix di attività che si
vogliono impostare per il raggiungimento dell’obiettivo formativo. A tale proposito, esistono
due approcci che costituiscono un continuum della progettazione:
1. l’approccio ingegneristico;
2. l’approccio fenomenologico.
I modelli descritti, come accennato, sono i poli estremi di un continuum. “In generale,
emerge una tendenza nella prassi ad adottare processi di azione progettuale orientati alla
soluzione di problemi contingenti, che rifiutano le certezze assolute del modello
ingengneristico e il relativismo altrettanto assoluto del modello fenomenologico,
assumendo una dimensione ed un atteggiamento nei confronti della progettazione
organizzativa fortemente pragmatica” (Serio, p. 198).
Alla luce della panoramica delineata e in termini di metodi formativi è possibile fare una
distinzione in funzione di cinque categorie:
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organizzazione ed analisi dell’individuo e – allo stesso tempo – focalizza l’attenzione
sulla capacità di gestire lo stress e le priorità.
D) Metodo dei casi. E’ un metodo formativo in cui si descrive una situazione
aziendale che deve essere analizzata e che richiede la presa di decisioni.
Generalmente coinvolge un piccolo gruppo di persone che dopo l’analisi discutono in
seduta plenaria dei problemi emersi e delle decisioni da prendere: l’obiettivo è guidare
al problem solving.
E) Incident. E’ una variante del metodo dei casi in cui si individua il testimone
aziendale di un incidente realmente accaduto. Il gruppo di partecipanti deve risolvere il
problema emerso, ma per farlo deve fare un supplemento d’indagine intervistando con
domande mirate il testimone. Gli incidenti dispiegano la loro migliore efficacia nello
sviluppo delle capacità di analisi, di raccolta delle informazioni e di diagnosi dei
problemi.
F) Brainstorming. Nel brainstorming si chiede ai partecipanti di indicare le soluzioni
per risolvere un problema dato, così come vengono in mente senza censure né
ripensamenti.
G) Business game. Si tratta di una simulazione della conduzione strategica di
un’azienda nel lungo periodo, in cui i partecipanti interpretano i diversi gruppi di
direzione delle aziende in gioco nello scenario competitivo. I partecipanti devono
prendere decisioni di business e devono regolarsi in funzione di quanto deciso dagli
altri gruppi.
H) Role playing. Il role play è una situazione simulata in cui il partecipante (o i
partecipanti) e uno o più interlocutori interpretano un ruolo con un obiettivo da
raggiungere. Tale metodo sollecita la dimensione relazionale al fine di raggiungere un
obiettivo, permettendo di stimolare la capacità di gestione dello stress, la leadership, la
negoziazione e la comunicazione.
I) Dinamica di gruppo. Si tratta di una o più situazioni didattiche destrutturate o
semi-strutturate in cui i membri del team devono risolvere un problema e il loro
comportamento viene osservato dal docente. Di solito questa tipologia di intervento è
mirata su aree d’intervento specifiche, quali relazione, negoziazione e leadership. Si
pone l’obiettivo di migliorare la capacità di controllo delle reazioni personali e altrui
(Quaglino, 1985).
J) Action learning. Nell’action learning si affida all’allievo un progetto di cambiamento
organizzativo, in modo tale da permettergli di acquisire competenze nuove provenienti
dall’esterno e – al tempo stesso – rielaborare quelle già possedute.
K) Metodi riflessivi. Tali metodi hanno la finalità di aiutare ad abbattere le procedure
difensive che ogni soggetto costruisce intorno ai propri modelli mentali, impedendo
qualsiasi processo di apprendimento.
Passando dalla semplice lezione alle dinamiche di gruppo, l’attenzione si sposta dai
contenuti ai processi.
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afferisce al modo e all’intensità con cui sono seguiti gli stadi di sviluppo della
professionalità, attraverso rotazioni, inserimenti graduali e programmati, etc.23
A partire dagli anni ’90, però, l’introduzione di tecnologie di connessione più friendly e
meno costose, una diffusa e maggiore alfabetizzazione dello strumento informatico e la
necessità di incrementare gli interenti formativi presso le organizzazioni aprono la strada
alla diffusione dell’e-learning: “il learning realizzato per mezzo delle tecnologie che
connettono alla rete e permettono di accedere alle risorse della stessa […] è la modalità
attraverso la quale soggetti connessi alla rete producono, socializzano e dividono
conoscenze” (Varanini, 2002). Con lo sviluppo di tale metodologia, d’altro canto, la
formazione deve affrontare nuove sfide perché devono essere modificati i sistemi di
erogazione delle azioni formative, ma non solo. In effetti, per gestire la formazione
multimediale devono essere ripensati i criteri di analisi dei bisogni, di progettazione e
valutazione perché la mole delle informazioni da gestire aumenta notevolemente.
23
Cfr. Giovanni Costa, 1997, “Economia e Direzione delle Risorse Umane”, Torino, Utet Libreria, pp. 270-
271.
65
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comunicazione one to many. Al di là degli aspetti tecnologici, le mailing list necessitano di
un moderatore e la loro diffusione è filtrata nei modi e nei contenuti” (Serio, p. 209).
Infine, il forum - spesso chiamato anche newgroup o conferenze - non è altro che un
gruppo di discussione on line su un argomento specifico: è un luogo di consultazione e il
suo utilizzo è funzione dell’interesse dell’argomento del forum. Non viene attivato, quindi,
da una mail come nel caso delle mailing list. Spesso è dotato anche di una newletter per
aggiornarlo rispetto alle novità prodotte dai vari membri.
In particolare, però, come emerge dalla Tabella 7, sia la formazione d’aula tradizionale
che quella virtuale ricadono nella creazione di percorsi di crescita guidati. Quindi, il mix tra
apprendimento individuale e apprendimento guidato è fondamentale perché ricorrendo
solo a percorsi predefiniti si rischia di alimentare una dipendenza molto forte, togliendo alle
persone sia capacità che voglia di costruirsi.
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Sincrona e
Erogazione Sincrona/asincrona Sincrona Sincrona Asincrona Asincrona
asincrona
Trasferimento e
Trasferimento Trasferimento
Informativo- sviluppo di Assistenza
Obiettivo formativo di nozioni e di nozioni e Informativo
direttivo nozioni e specifica
competenze competenze
competenze
Audio Messaggi,
Immagini e audio docente, Messaggi e documenti e Percorsi
Canali e strumenti Ricerche guidate
relatori supporti e documenti comunicazione guidati
applicazioni diretta
67
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24
Cfr. P. Watzlawick, J. H. Beavin, d. D. Jackson, “Pragmatica della Comunicazione Umana. Studio dei
Modelli Interattivi, delle Patologie e dei Paradossi”, Edizioni Astrolabio, Roma, pp. 74-76.
25
Cfr. F. Marcolin, op. cit., 1998, pp. 95-122.
68
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26
Cfr. P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson, op. cit., 1971, p. 89.
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future alla base di una relazione: è compito dell’interlocutore comprendere il valore
intrinseco di quelle proposte, ossia la verità o la falsità delle stesse.27 Tale fenomeno è
generato da una vera e propria dispersione di informazione che, durante il processo di
comunicazione, si acutizza anche per effetto di orientamenti cognitivi e culture
individuali differenti.
In effetti, ogni essere umano ha una propria personalità, che - insieme alla
motivazione, alle competenze e al contesto in cui agisce - influisce sul proprio
comportamento: essendo tali elementi combinabili in infiniti modi differenti tra di loro, ne
deriva che esistono numerose tipologie di orientamenti nello svolgimento delle diverse
attività lavorative. In ogni caso, gli orientamenti di base, a loro volta scomponibili in ulteriori
dimensioni,28 sono due:29
1. orientamento al task/ai risultati. Si concentra l’attenzione sullo svolgimento del
compito e, quindi, sulle attività di pianificazione, controllo e valutazione dei risultati;
2. orientamento alle persone. Il soggetto trae la sua soddisfazione dal benessere e
dallo sviluppo dei propri collaboratori.
In questo ultimo caso, è evidente come si configurino maggiori difficoltà di dialogo tra
gli interlocutori con la necessità di ricorrere a strumenti di integrazione volti a
massimizzare le occasioni di interazione.
Per perseguire tale obiettivo, ai più conosciuti meccanismi di integrazione interna, si
affianca - coerentemente con il concetto di co-setting di Doz e Santos (Par.2.1.) - l’aspetto
spaziale, in quanto sussiste una perfetta corrispondenza tra la disposizione dei
complementi d’arredo e le varie reti di comunicazione.
27
Cfr. P. Watzlawick, J. H. Beavin, d. D. Jackson, op. cit., 1971, p. 90.
28
Cfr. R. E. Quinn, “Beyond Rational Management: Mastering the Paradoxes and Competing Demands of
High Performance”, Business and Management Series, Jossey Bass, San Francisco, 1990. Cfr. K. S.
Cameron, R. E. Quinn, “Diagnosing and Changing Organizational Culture: Based on the Competitive Values
Framework”, Wesley Series on Organization Development, Addison Wesley, Massachussets, 1999.
29
Cfr. A. Rugiadini, op. cit., 1979, pp. 276-277.
30
Cfr. A. Grandori, “Teorie dell’Organizzazione. Ecologia delle Popolazioni, Apprendimento Adattivo,
Progettazione Razionale”, Edizioni Giuffrè, Milano, 1984.
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2. Fixed typologies. Vi ricorrono le organizzazioni che desiderano supportare una
moderata diversità di attività, consentendo alle persone un moderato controllo della
loro postazione.
3. Mandatory specialization. Questa soluzione prevede la creazione di spazi adibiti
al lavoro di team non prevedibile anticipatamente.
4. Mass customization. La soluzione standardizzata è diffusa presso le aziende che
vogliono offrire un ridotto controllo della propria workstation: gli uffici hanno tutte le
medesime caratteristiche.
5. Configurable categories. E’ una soluzione che permette ai lavoratori di scegliere
come lavorare, perché si possono spostare i complementi d’arredo.
6. Modular made-to-order. Si usa presso quelle organizzazioni con elevate esigenza
di lavoro in team anche se scarsamente prevedibile, garantendo un moderato grado
di scelta nella definizione del proprio ambiente lavorativo.
7. Mass personalization. Alta possibilità di personalizzazione, ma bassa predicibilità
delle esigenze.
8. Individualized segmentation. Alta possibilità di personalizzazione e moderata
predicibilità delle esigenze.
9. One-size-fits-one. Ogni lavoratore può progettare come desidera il proprio spazio
di lavoro in funzione delle proprie esigenze.
Fig. 22. – Tipologie di workstation in funzione al grado di scelta dei lavoratori e del
grado di predicibilità delle loro esigenze di teamwork.
Modular
High
Mandatory One-size-fits-
Degree of Segmentation
made-to-
specialization one
order
Moderate
Degree of Choice
E’ pur vero, però, che l’ambiente lavorativo - come già in parte accennato - deve
favorire la socializzazione e dovrà, quindi, essere strutturato in modo tale da permettere la
configurazione di una rete di comunicazione decentrata, perché più adatta a favorire la
vicinanza e il confronto tra le persone, consentendo la “familiarizzazione” di linguaggi ed
atteggiamenti eterogenei, propri anche della diversa collocazione professionale.
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Fig. 23. – “Ufficio ad osso per cani”
Legenda:
= tavoli: non devono essere necessariamente rotondi. Possono essere anche di altre
dimensioni: l’importante è che vengano disposti in modo da ricreare un modello di
comunicazione a rete decentrata;
α + β + γ + ω: squadra
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volta – rientra nella tipologia Mass Personalization. In questo esempio, in ogni zona agli
angoli - definibile come “isola funzionale” - è possibile collocare ognuno dei teams
interdipendenti che, nella loro dialetticità gerarchica, costituiscono una squadra.
Sia la formazione d’aula tradizionale che quella multimediale permettono
all’organizzazione di valorizzare e trasferire le competenze idiosincratiche individuate,
ricorrendo alla condivisione di adeguati spazi fisici.
L’obiettivo sia della formazione che della cultura è quello di favorire il passaggio di
competenze individuali al resto dell’organizzazione, facendole divenire competenze
organizzative. Tale passaggio implica gestire un vero e proprio processo di cambiamento
organizzativo. Argyris e Schon31, infatti, definiscono il cambiamento organizzativo come un
processo di natura dialettica, all’interno del quale si verificano episodi di apprendimento e
di fallimento ad apprendere. Le organizzazioni sono coinvolte in una transazione continua
con i loro ambienti, interno ed esterno, che mutano continuamente in risposta sia alle forze
esterne sia alle azioni organizzative; inoltre gli obiettivi, i fini e le norme organizzative sono
sempre molteplici e parzialmente contrastanti. Da queste condizioni di vita organizzativa
derivano dei processi dialettici in cui situazioni organizzative problematiche danno luogo
ad un’indagine organizzativa – posizione e risoluzione del problema – che crea a sua volta
nuove situazioni problematiche all’interno delle quali entrano in gioco nuove incoerenze e
incongruenze. Queste si manifestano caratteristicamente nel conflitto intra-organizzativo. I
modi con cui l’organizzazione risponde a tali conflitti producono ulteriori trasformazioni
della sua situazione problematica.
E’ nel contesto di tali processi, ai quali Argyris e Schon si riferiscono usando
l’espressione “dialettica organizzativa”, che ha luogo l’apprendimento organizzativo.
“Buona dialettica” è l’espressione usata per descrivere i processi di indagine organizzativa
che assumono la forma dell’apprendimento double-loop. Nella fattispecie, il processo di
comunicazione “double loop” è un processo di comunicazione a due vie - detto anche
transazionale. Si caratterizza per la trasmissione contemporanea, sia da parte
dell’emittente che del ricevente, di messaggi volti a fornire un feedback in relazione
all’efficacia della comunicazione in corso, ovvero in merito alla coerenza tra l’intenzione
comunicativa della fonte e quanto realmente compreso ed accettato da parte del
destinatario. Il ricorso a tale tipologia di processo comunicativo è auspicabile qualora il
contenuto dei messaggi inviati sia di difficile comprensione o presenti rischi di distorsione
da parte della fonte o semplicemente dello stesso destinatario. Ne discende che si ricorre
ad una processo di comunicazione double loop qualora si vogliano “ridurre le distanze” tra
i soggetti coinvolti, per meglio permettere loro di cogliere la comunicazione sia nella sua
componente verbale che non verbale. Con il termine “ridurre le distanze”, si vuole
semplicemente significare che la comunicazione a due vie consente di minimizzare la
distanza tra gli interlocutori, passando dalla distanza sociale a quella personale. La zona
personale inizia “mano che ci si allontana dal corpo” (Marcolin, 1998, p. 119): tale confine
non è preciso, ma versatile e varia da individuo ad individuo e da cultura a cultura. Le
distanze personali si aggirano da 45cm a 120cm e permettono di cogliere interamente il
viso del proprio interlocutore. Si tratta di situazioni che si stabiliscono facilmente tra parenti
ed amici stretti e che consentono, ad esempio, la stretta di mano e la discussione di
argomenti di carattere personale, basandosi anche su una moderata forza della voce.32
31
Cfr. C. E. Argyris, D. A. Schon, “Organizational Learning: a Theory of Action Perspective”, Addison
Wesley, Reading, Mass, 1978.
32
Cfr. F. Marcolin, “Il Silenzio Impossibile. Psicologia del Comunicare in Modo Efficace”, Edizioni GB,
Padova, 1998, 1998, p. 119.
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Il raggiungimento della buona dialettica, affermano gli autori, esige il
deuteroapprendimento organizzativo, il quale richiede che i membri dell’organizzazione
riflettano e indaghino sul loro sistema d’apprendimento organizzativo e sul suo effetto
sull’indagine organizzativa.
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apprendono per effetto dell’interazione. Il contesto, però, è dato dal combinato
disposto sia degli elementi fisici che sociali.
3. Esiste una forte dipendenza sia tra il modo in cui si consolidano le pratiche
organizzative e il modo in cui la formalizzazione di tali pratiche viene attuata, sia
nell’evoluzione delle pratiche stesse. Il processo di “scoperta” delle pratiche che
vengono in un secondo momento accettate e diffuse, prima nel gruppo locale e poi
- attraverso la formalizzazione - nel gruppo più allargato è fortemente dipendente
dalla storia delle pratiche che le hanno precedute33.
4. La taciteness di parte delle conoscenze incorporate nelle routine si riflette su un
aspetto che ha un impatto molto forte sull’organizzazione dell’impresa. Si tratta
della forma distribuita delle conoscenze immagazzinate nelle routine organizzative.
Le conoscenze tacite impediscono una perfetta comunicazione delle informazioni,
inoltre i limiti cognitivi dei singoli costituiscono un ostacolo insormontabile ad
un’azione individuale pienamente consapevole e deliberata a causa della paura
“ortogonale” della conoscenza. Si ammetta di poter considerare un’attività come
perfettamente routinizzata attraverso regole esplicite o implicite a livello individuale.
Il coordinamento delle azioni dei singoli richiede per essere perfettamente
routinizzato che ciascun individuo tenga conto di tutte le possibili reazioni degli altri
attori ad un’azione o ad un particolare stimolo che si verifica, inclusi errori e conflitti.
Al crescere del numero degli attori coinvolti, il numero degli elementi da considerare
cresce esponenzialmente. Considerare gli individui capaci di interiorizzare sotto
forma di regole condizione-azione l’intero insieme delle possibilità, è chiaramente
poco realistico. Quando il repertorio parziale di regole di coordinamento
internalizzate dagli individui fallisce, questi inizieranno qualche forma di
esplorazione delle alternative e, attraverso l’apprendimento, tenderanno a trovare
nuove soluzioni, ovvero a costruire e ad imparare nuove regole. Le regole di
coordinamento, dunque, non sono poi dissimili dalle altre regole condizione/azione.
Le routines, quindi, vengono implementate dall’azione combinata e coordinata di
più individui. Le modalità di coordinamento necessarie per un’azione routinizzata
sono esse stesse fondate su una forma di conoscenza tacita e distribuita.
5. La routinizzazione delle attività ha effetto sulle modalità di apprendimento, di
comportamento e di ricerca di soluzioni a livello dei singoli attori e
dell’organizzazione nel suo complesso. Secondo Zamarian esistono delle meta
routines in grado di governare processi di scelta complessi che prevedono
l’adozione di routine di livello gerarchico inferiore e che godono delle stesse
proprietà delle routine. Le routines di ordine superiore servono come punto di
riferimento e di attivazione per routine di ordine inferiore
In termini pratici, inoltre, esistono altre due modalità per riprodurre competenze di
successo:
a) “i luoghi della memoria”. Le routine sono insiemi di regole che strutturano il
comportamento e che le organizzazioni memorizzano in luoghi metaforici:
- le memorie dei singoli individui;
- il codice di comunicazione o il linguaggio almeno parzialmente condiviso. In effetti,
lo sviluppo di capacità individuali all’interno del gruppo e il processo di costituzione di un
codice condiviso tra gli attori sono processi mutuamente adattivi. Il linguaggio condiviso
che nasce all’interno dell’organizzazione funziona da interfaccia e da collante tra le
competenze individuali e le capacità dimostrate dal gruppo nel suo insieme.
33
Cfr. J. G. March, “Exploration and Exploitation in Organizational Learning”, Organization Science, II, 1,
1991, pp. 71-87.
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b) gli artefatti, che costituiscono uno degli elementi che permette l’affermarsi e il
diffondersi di comportamenti routinizzati all’interno dell’impresa Una routine
organizzativa viene replicata con maggiore successo se è stata codificata
esplicitamente attraverso artefatti quali manuali operativi e software, ovvero Standard
Operating Procedures. Le procedure formali, in effetti, sono in grado di “portare”le
pratiche considerate migliori.34
Allo stesso tempo, però, il sotfware di gestione può essere interpretato come una delle
fonti del linguaggio organizzativo. Da un lato la conoscenza del “gergo” del sistema
software condiziona il modo in cui gli attori producono e si scambiano informazioni,
dall’altro la presenza di tale artefatto contribuisce alla formazione di un senso di
partecipazione ai processi organizzativi attraverso le sue valenze simboliche.
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A) Contenuti intrinseci
Con riferimento ai contenuti intrinseci - ovvero i contenuti che soggiacciono a
qualunque azione posta in essere dall’organizzazione - i due elementi di cui si deve dare
una primaria definizione sono:36
i valori (il rispetto delle persone, la collaborazione, etc.), ovvero le convinzioni
partecipate tra i soggetti, gli elementi espressamente accettati, che possono derivare
spontaneamente dall’agire organizzativo oppure possono essere definiti in funzione dei
fini da perseguire. Indipendentemente dalla loro origine, assurgono a guida delle azioni
degli individui stessi;
gli assunti impliciti/di base, ossia gli elementi inconsci che non solo determinano il
modo di pensare, sentire, comportarsi, ma indagano (a) il rapporto dell’organizzazione
con l’environment, (b) le definizioni della realtà e (c) le relazioni interpersonali. Si tratta
del livello più profondo della cultura perché inconscio, ovvero del quale i membri
dell’organizzazione non hanno spesso una chiara consapevolezza.37 Gli assunti di
base generano nel tempo dei sistemi complessi di convinzioni - difficilmente
modificabili - perché si articolano e si combinano variamente tra di loro.
Artefatti e creazioni
Tecnologia Visibili ma spesso non
Arte decifrabili
Modelli comportamentali visibili e udibili
Valori
Livello più alto di
Verificabili nell’ambiente fisico
consapevolezza
Verificabili solo con il consenso sociale
Assunti di base
Rapporto con l’ambiente
Dati per scontati
Natura di immobili, tempo e spazio
Invisibili
Natura della natura umana
Inconsapevoli
Natura dell’attività umana
Natura delle relazioni umane
B) Manifestazione esterna
La cultura per consolidarsi e diffondersi - favorendo l’identificazione sociale tra i
dipendenti di un’organizzazione in generale e, nello specifico, tra i membri di un gruppo di
lavoro - necessita di strumenti di manifestazione esterna, denominati anche artefatti. In
generale, i contenuti intrinseci della cultura - valori e assunti impliciti - sono espressi
principalmente in termini di credenze o miti.
I miti, spesso riferiti ai membri dell’organizzazione,38 sono le storie narrate di cui si
conserva memoria e che hanno influito sull’evoluzione ideologica o sull’acquisizione di
credenze. In generale, si tratta di racconti basati su eventi reali che circolano con
frequenza tra i dipendenti dell’impresa, in modo tale da metterne al corrente anche i
36
Cfr. E. H. Schein, M. Decastri (a cura di), op. cit., 1990, pp. 41-43.
37
Cfr. G. Bonazzi, “Storia del Pensiero Organizzativo”, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 399.
38
Cfr. R. D’anna, “Caratteri e Problemi di Progettazione della Struttura Organizzativa”, Giappichelli, Torino,
2004, p. 48.
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neoassunti, facendo fluire delle informazioni sull’organizzazione, e, consequenzialmente,
influenzando la percezione del correlato clima organizzativo.
A questo punto si rende necessario indagare quale sia lo scopo della cultura, ossia gli
orientamenti che essa persegue.40
Dopo aver analizzato quali sono le componenti della cultura e i fini da essa perseguiti,
è necessario descriverne il processo di formazione, un processo in movimento legato sia
alla teoria sociodinamica - ovvero alla fenomenologia dei gruppi - sia alla teoria della
leadership. Il luogo di origine della cultura - come già accennato - è il gruppo con tutte le
caratteristiche connesse. Ciò accade perché il team si staglia come l’arena in cui – a
39
Cfr. P. Gagliardi, “Le Imprese come Culture: Nuove Prospettive di Analisi Organizzativa”, Isedi, Torino,
1995, p. 212. Cfr. L. Daft, “Organizzazione Aziendale”, Apogeo, Milano, 2001, pp. 332-334.
40
Cfr. R. D’anna, op. cit., 2004, p. 47.
41
Cfr. E. H. Schein, M. Decastri (a cura di), op. cit., 1990, p. 71.
42
Cfr. M. Bortoloso Cassani (a cura di), “L’Inconscio Organizzativo: Analisi del Controtransfert Istituzionale”,
Guerini e Associati, Milano, 1993.
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fronte di problemi significativi da affrontare – si scoprono soluzioni nuove e di successo
che diventano oggetto di apprendimento da parte dei membri e che permettono
l’adattamento del gruppo e dell’organizzazione all’ambiente esterno. Ne consegue che,
essendo la cultura il risultato finale della ripetizione di un successo, è una variabile in
continuo movimento perché non è possibile utilizzare una soluzione all’infinito, dato che i
problemi mutano nel tempo e sono necessarie soluzioni diverse dalle precedenti. In
questo modo nasce una vera e propria tensione connessa alla dicotomia tra la
conservazione degli assunti legati all’esperienza precedente e la necessità di un loro
adattamento alla variabilità ambientale. Il soggetto che assume il ruolo di protagonista
nella gestione di questa tensione è il leader/knowledge manager43 che:
[…] durante i periodi di continuità (…) ha un ruolo di garante delle regole del gioco
e della coesione sociale. In tali momenti la leadership è fortemente orientata alla
difesa della cultura da possibili deviazioni e deve assicurare la coerenza dei
messaggi che esprimono in vario modo il sistema dei valori aziendali. In altro modo
il leader è responsabile della funzione “ansiolitica” della cultura: i comportamenti
conformi alle regole sociali tendono a essere ripetuti automaticamente, non per la
loro razionalità ed efficacia, ma per la loro capacità di dare tranquillità e di
rassicurare (“si è sempre fatto così, perché non dovrebbe andare bene anche
questa volta”). […]
In questa logica, l’azione della leadership può essere rivolta anche alla promozione e al
sostegno di processi di cambiamento organizzativo, dato che il leader si staglia come
l’unico soggetto atto a promuovere trasformazioni, assumendo un comportamento
deviante. Ciò accade perché, all’aumentare dello status attribuito ad un soggetto aumenta
anche la credibilità che gli viene riconosciuta, tanto da permettergli di mettere in
discussione le consolidate regole e norme del gruppo.
43
Cfr. E. H. Schein, M. Decastri (a cura di), op. cit., 1990, pp. 157-158.
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Alla luce di quanto detto - in caso di riorientamento - il leader deve essere in grado di
sviluppare il sentimento di appartenenza al gruppo e all’organizzazione attraverso la
“ridefinizione cognitiva” 44 dei valori e degli assunti di base della cultura organizzativa. Per
“ridefinizione cognitiva” si intende la capacità del leader di attribuire ai valori esistenti un
nuovo significato rispetto a quello conosciuto fino a quel momento, nonché la capacità di
introdurre ex novo nuove concezioni, nuovi assunti impliciti e nuovi valori…passando per
le espressioni visibili ovvero per gli artefatti.
Ciò implica l’introduzione di nuovi miti, riti, simboli collegati con i valori che si intendono
diffondere e coerenti anche con il nuovo modello di competenze che si vuole diffondere e
sviluppare a supporto degli stessi. La finalità ultima è la creazione di un’unica identità
organizzativa, realizzando un’efficace integrazione interna che consenta di portare a buon
fine il processo di cambiamento in atto.
D’altronde, non esiste una politica premiante valida per tutte le stagioni, ma possiamo
elencare dei principi guida alla sua progettazione:
- valutazione delle prestazioni e dei risultati conseguiti;
- garanzia di coinvolgimento di tutto il personale anche mediante turnazione;
- l'incentivazione non è predeterminata in misura fissa ma è variabile in virtù
degli obiettivi assegnati e della disponibilità di finanziamento;
- applicazione selettiva degli incentivi da parte dei responsabili funzionali;
- garanzia di equità e di meritocrazia nell'applicazione della politica premiante.
Nella fattispecie, “il sistema premiante può essere definito come l’insieme delle variabili
e delle loro connessioni volte a produrre riconoscimenti equi e motivanti nei riguardi delle
persone attive all’interno dell’organizzazione” (Paneforte, 1995, p. 306).
E’ costituito dai seguenti sottosistemi:
1) il sub-sistema di carriera;
2) il sottosistema retributivo.
Il sottosistema di carriera attiene alla componente “soft” dell’organizzazione, ovvero
alla valorizzazione e allo sviluppo delle persone attraverso la strutturazione di possibili
sentieri di carriera all’interno della struttura organizzativa.
Il sottosistema retributivo, al contrario, è la componete “hard” che afferisce ai
presupposti e ai fattori che determinano l’articolazione delle ricompense da parte
dell’azienda nei confronti del personale.
44
Cfr. Decastri Maurizio in Schein Edgar H., 1990, op. cit., p. 307.
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2. lo scambio psicologico in termini di benefici/contributi e, pertanto, di aspettative
reciproche;
3. il rapporto di appartenenza in quanto membri dell’organizzazione.
[…] Sul piano dei meccanismi operativi adottati dalle realtà organizzative sono stati
messi a punto un gran numero di modelli, metodi e procedure che, interagendo
reciprocamente, contribuiscono a legare in modo complesso il sistema retributivo
allo sviluppo delle carriere. […]
Per quanto riguarda la progettazione del sistema di carriera, occorre che vengano
rispettati i seguenti principi chiave:
1. monitorare continuamente le competenze, le potenzialità e le motivazioni delle
persone dell’organizzazione;
2. definire ed aggiornare continuamente le opportunità di carriera derivanti dalle
politiche di sviluppo aziendale e dalle scelte strategiche di innovazione e cambiamento.
L’errore peggiore che si potrebbe commettere è quello di far fare carriera alle persone
solo in base al perseguimento degli obiettivi prefissati senza considerare il possesso di
competenze (anche latenti) alla copertura della nuova posizione organizzativa.
Invece, la politica retributiva - in coerenza con quanto detto in precedenza - deve
basarsi sui seguenti criteri:
1) Coerenza esterna: L'azienda deve applicare una politica delle retribuzioni coerente
rispetto a quella praticate sul mercato del lavoro, al fine raggiungere una certa
competitività anche nell'applicazione degli stipendi. Per questo motivo, con indagini di
mercato, viene monitorata la posizione degli stipendi, per capire dove l'azienda si dirige,
soprattutto rispetto alle aziende che operano nello stesso settore.
2) Coerenza interna: La politica retributiva viene applicata nel rispetto dell'organigramma
aziendale e cercando di mantenere allineate le retribuzioni di figure omogenee per ruolo
ed esperienza. In particolare, la retribuzione sarà composta da due elementi:
1. la retribuzione fissa – connessa alla criticità della posizione all’interno
dell’organizzazione;
2. la retribuzione variabile legata alla performance del titolare della posizione stessa e,
in particolare, all’allineamento del comportamento agito con quello atteso
dall’organizzazione.
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esigenze di equità interna e di competitività con il mercato esterno di riferimento.
[…]
Alla luce di quanto descritto, discende che gli elementi oggetto di valutazione della
prestazione - da cui scaturiscono le conseguenze in termini di carriera e di retribuzione
variabile - dovranno essere coerenti con i comportamenti che si richiedono al personale e
con le competenze che si intendono diffondere, valorizzare e sviluppare.
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Bibliografia
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