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Comune di Milano

Assessorato Educazione e Infanzia

“Organizzare e gestire
i «knowledge workers»”

Lavoro di ricerca

A cura di
Antongiulio Bua e Alessandro Hinna

Dicembre 2006
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione

Indice
Organizzare e gestire i «knowledge workers»
Pag.
Premessa

Introduzione
1. Cosa spinge la Pubblica Amministrazione ad investire nella knowledge based
organization?
2. I protagonisti della knowledge based organization: i «knowledge workers».

Capitolo I
“L’architettura organizzativa per gestire i lavoratori della conoscenza”
1. I presupposti organizzativi
2. La dimensione macro: le configurazioni organizzative.
2.1. L’adhocrazia.
2.2. I networks: gli «intersectional hubs».

Capitolo II
“Il knowledge system”
1. Il knowledge management.
2. Il modello delle “quattro C”.
2.1. La definizione delle comunità di riferimento.
2.2. La definizione del modello delle competenze.
3. Dal knowledge management al knowledge system.
3.1. La definizione del modello di servizi: i contenuti del knowledge system.
3.2. I sistemi di trasferimento delle competenze.
3.3. La soluzione tecnologica.

Capitolo III
“L’organizzazione a misura d’uomo”
1. Individui, conoscenze e organizzazione: note introduttive.
1.1. La spirale della conoscenza.
1.2. La diffusione e lo sviluppo delle competenze idiosincratiche.
2. Le determinanti del comportamento individuale.
2.1. La gestione delle competenze.
2.2. La progettazione del contesto organizzativo.
2.3. Processi e modalità di apprendimento.
2.4. L’organizzazione della comunicazione interna.

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2.5. Dall’apprendimento individuale a quello organizzativo.


3. Altre modalità di sviluppo delle competenze idiosincratiche.
3.1. La cultura aziendale.
3.2. Il sistema premiante.

Bibliografia
Premessa

Al fine di continuare nell’attività di valorizzazione delle risorse umane impiegate


all’interno della struttura.
Per questo, al fine di meglio delineare interventi e strumenti capaci di supportare
efficacemente l’evoluzione dell’organizzazione nel tempo, è stata a noi
commissionata una ricerca avente ad oggetto il delicato tema della gestione della
conoscenza e, quindi, la produzione di materiale informativo/didattico ad essa
connesso.
A questo scopo, presentiamo di seguito gli esiti del lavoro svolto, cercando di
cogliere l’ambizioso obiettivo di portare a sintesi e sistematizzazione i principali
contributi offerti in materia dalla letteratura nazionale ed internazionale.
L’insieme degli autori e delle argomentazioni qui proposte sono il risultato di un
percorso di analisi, valutazione e scelta particolarmente complesso. Il tema trattato,
infatti, dimostra una certa incoerenza tra il numero di contributi prodotti e il “tasso di
innovazione ed originalità” delle argomentazioni proposte (rischio di innovazioni
terminologiche ma non contenutistiche!). E’ per questo, quindi, che si è voluto
inserire nella ricerca, oltre ai più recenti contributi in materia, anche contributi e
strumentazioni già in passato note alla teoria dell’organizzazione aziendale, la cui
originalità ed validità non sembra affatto poter essere oggi messa in discussione.
Ciò premesso, la struttura del documento e la forma che accompagna la sua
elaborazione sono testimonianza dell’esigenza didattica e divulgativa da subito
dichiarata in sede di committenza. I contenuti proposti, quindi, seguono una logica
espositiva che, facendo eccezione alle tipiche ricerche di natura compilativa, non
presenta un ordine storico-cronologico ma, piuttosto, un ordine di tipo funzionale.
Per questo, dopo una breve introduzione alle tematiche trattate e alla loro
legittimazione nel dibattito dell’organizzazione della pubblica amministrazione, il tema
della gestione della conoscenza viene portato all’interno della più vasta area della
progettazione organizzativa in termini di macro-struttura (Capitolo I), sistemi operativi
di gestione (Capitolo II) e, infine, micro-struttura organizzativa (Capitolo III).

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Introduzione

1. Cosa spinge la Pubblica Amministrazione ad investire nella


knowledge based organization?
Nel corso degli anni ’90 sono emersi una serie di fattori ambientali che hanno
giustificato una nuova stagione legislativa. In quel periodo, infatti, sono venuti a
sommarsi numerosi “fattori di spinta” di cui si ravvisa la più evidente testimonianza:
a) in una generalizzata crisi del modello di Stato social burocratico, trasformatosi,
nel corso degli anni ‘80, da promotore ad ostacolo dello sviluppo economico e
sociale, dimostrando la sua incapacità di far corrispondere un’efficace risposta
pubblica alle aspettative e alla partecipazione attiva dei cittadini, nonché alla
diversità di bisogni da questi dichiarata;
b) in un debito pubblico giunto a livelli di insosteniblità;
c) nella profonda crisi di fiducia nelle istituzioni, alla quale i primi governi tecnici di
inizio decennio hanno iniziato a dare una risposta, gettando le basi per quel che
fu, poi, il riordino generale del sistema amministrativo italiano;
d) più in generale in un processo di globalizzazione (in quegli anni è diventato
sempre più intenso), quale fattore di ulteriore pressione sui singoli Stati chiamati
ora alla duplice funzione di (1) protezione dei cittadini e (2) supporto alle imprese
attraverso la riduzione degli oneri a loro carico.

Il cambiamento delle condizioni di contesto ha determinato una serie di


conseguenze che - a loro volta - hanno spinto la Pubblica Amministrazione (PA)
verso l’adozione di sistemi di gestione della conoscenza e sono sintetizzabili nelle
voci seguenti:
1) Il cambiamento del contesto di riferimento spinge la PA ad essere più
competitiva, più orientata al cliente e all’innovazione di servizio. Le si richiede,
quindi, di esercitare le proprie funzioni con maggiore qualità, efficacia ed efficienza,
rispondendo con rapidità e flessibilità alle sollecitazioni provenienti da cittadini ed
imprese e sviluppando le capacità di governo strategico del territorio. Ecco, dunque,
che aumentano in ampiezza e profondità i “saperi” richiesti ai dipendenti pubblici, in
termini di conoscenze tecnico-specialistiche, di capacità gestionali, di nuovi
orientamenti e valori» (cit. da Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report
finale”, 2001). Sul fronte organizzativo, ciò si traduce in una maggiore
responsabilizzazione delle persone che rendono funzionante la “cosa pubblica”. In
termini di competenze, quindi, si rende necessario un vero e proprio processo di
riqualificazione del personale pubblico, al fine di ampliare le conoscenze possedute:
“integrare le tradizionali conoscenze giuridico-amministrative con conoscenze di tipo
gestionale, legate al presidio della qualità del servizio, alla gestione ottimale delle
risorse e all’utilizzo delle nuove tecnologie” cit. da Cantieri, “Knowledge Management
nella PA. Report finale”, 2001, p. 11). A livello organizzativo, tale cambiamento si
riflette in una vera e propria rivoluzione mentale del modus operandi: si rende
necessario superare la tradizionale articolazione in funzioni che implica il lavoro a
“compartimenti stagni”, allontanando i dipendenti dal percepire l’amministrazione in
cui operano come un vero e proprio sistema organizzativo.

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2) Il ridisegno degli assetti istituzionali a seguito delle riforme Bassanini ha


impattato in maniera rilevante sulla gestione delle conoscenze, dato che il
decentramento amministrativo ha aumentato la complessità dell’articolazione
istituzionale, implicando la necessità di forte cooperazione fra centro e territorio,
nonché fra Regioni ed Enti Locali. Per effetto del decentramento - che ha enfatizzato
il ruolo delle Amministrazioni Centrali in termini di indirizzo, di definizione delle
politiche, nonché di pianificazione a livello strategico e di osservatorio su quanto
accade sul territorio - nel concetto di cooperazione ricade anche la condivisione di
saperi di tipo tecnico-specialistico e gestionale.
3) Rinnovamento dell’organizzazione interna, al fine di rendere le Pubbliche
Amministrazioni più snelle e flessibili. Per perseguire tale obiettivo, occorre gestire in
maniera oculata la diminuzione degli organici, causata in parte anche dall’incremento
dei pensionamenti, correndo il rischio di perdere le conoscenze core delle
organizzazioni, man mano che le persone più esperte si ritirano dal lavoro. Dall’altro
lato, le recenti innovazioni legislative e contrattuali hanno ampliato le possibilità di
accesso alla PA dall’esterno, consentendo l’ingresso di persone apportatrici di
professionalità nuove e diverse e - allo stesso tempo - introducendo un terzo
elemento di instabilità del contesto pubblico aumentando la mobilità interna del
personale: si pensi ad esempio, per i livelli di vertice, all’introduzione dello spoil
system. Più in generale, anche all’interno della PA si registra una minore tendenza a
permanere nella stessa posizione organizzativa per tutta la vita. E’ superata l’epoca
del “posto fisso”: per effetto dell’orientamento al cliente e all’innovazione di servizio -
si pone il problema di attrarre e mantenere le persone competenti, valorizzando il
loro ruolo e creando i presupposti per l’innovazione1. “Emerge la necessità di sistemi
che permettano di sedimentare le conoscenze, di trasformarle in patrimonio
dell’organizzazione, di metterle a disposizione di tutti in un’ottica di continuità e di
sostenere l’innovazione organizzativa” (cit. da Cantieri, “Knowledge Management
nella PA. Report finale”, 2001, p. 12).

Quindi, i fattori di spinta individuati e le conseguenti necessità emerse hanno dato


vita ad un complesso di riforme legislative che ha investito l’intero sistema delle
aziende e delle Pubbliche Amministrazioni italiane. Si tratta di un impianto normativo
che sembra distinguersi dal complesso delle riforme del passato per due
caratteristiche assolutamente originali:
a) il sistema di riforma cui si fa riferimento è intervenuto sulle funzioni amministrative
per liberare lo Stato dal peso di compiti ormai da esso non più gestibili. Ciò, si
noti, in controtendenza con la storia delle grandi riforme amministrative che,
invece, hanno sempre puntato ad un graduale, ma costante, ampliamento delle
funzioni pubbliche nell’organizzazione sociale ed economica del paese;
b) gli interventi legislativi hanno posto al centro del processo di riforma il cittadino,
dandogli un ruolo che mai aveva prima assunto nelle proposte di riforma del
passato, spostando così l’attenzione dal processo al risultato dell’azione
amministrativa.
In questa logica si giustificano e meglio si comprendono alcuni importanti
interventi legislativi avvenuti in materia di privatizzazione (si pensi alla trasformazione
in s.p.a, disposta dalla Legge n. 359 del 1992, delle grandi holding pubbliche) e di

1
Cfr. Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report finale”, 2001, p. 12.

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riallocazione delle funzioni tra livelli di governo (avviata con Legge n. 142 del 1990 e
poi meglio integrata dalla Legge n. 59 del 1997, nonché dal D.lgs. n. 112 del 1998).
All’aumento delle capacità amministrative del Sistema Stato sono stati invece
dedicati interventi come, ad esempio, la Legge n. 241 del 1990 in materia di
delegificazione e semplificazione dei procedimenti amministrativi, il D.Lgs. n. 29 del
1993 che - oltre ad introdurre il principio di separazione tra politica e gestione - ha
avviato la riforma dei controlli interni e disposto la cosiddetta privatizzazione del
pubblico impiego.
Al più complessivo disegno di riforma del Welfare, invece, vanno ad esempio
riferite la Legge n. 328 del 2000 ed il successivo D.lgs. n. 207 del 2001, in materia di
sistemi integrati di interventi e servizi sociali (materia, si noti, precedentemente
“pubblicizzata” con la Legge Crispi del 1890).
Ad una vera e propria filosofia di centralità del cittadino-utente, infine, è stata poi
dedicata la già citata Legge n. 241 del 1990 nella parte in cui si definiscono le
procedure per assicurare il diritto di accesso agli atti della pubblica amministrazione
e, più in generale, le modalità di trasparenza dell’azione pubblica (si vedano, da
ultimo, i DD.Lgss. Del 28 dicembre 2000, nn. 443, 444, 445, testo unico sulla
documentazione amministrativa). Dal punto di vista dell’analisi, quindi, il quadro
normativo di riferimento appena accennato, suggerisce di studiare il processo di
cambiamento del mondo pubblico come un processo di cambiamento “a cascata”
(Fig1), che, partendo delle innovazione normative introdotte a livello di sistema, deve
necessariamente ripercuotersi sulle singole aziende che lo costituiscono e, quindi,
sui gruppi e gli individui di cui esse si compongono.

Fig.1. - Innovazione normativa e livelli di cambiamento.


Ambiente
Cambiamento
a cascata
Azienda

Gruppo
Individuo

Fonte: adattamento da Consiglio, 2000.

In tale logica, il processo di cambiamento della Pubblica Amministrazione


necessita di ulteriori azioni affinché - non coinvolgendo solo i fattori hard
dell’organizzazione, ma focalizzandosi anche su quelli soft - possa avere realmente
successo nel lungo periodo.
In proposito, a partire dalla metà degli anni Ottanta, alcune teorie di management
hanno sottolineato l’importanza della conoscenza per la società e per le
organizzazioni del futuro. Al centro degli interessi di queste teorie è la questione
dell’acquisizione, dell’accumulo e dell’utilizzo delle conoscenze esistenti

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accompagnata alla creazione di nuove conoscenze. A tale proposito, in particolare,


due autori giapponesi – Ikujiiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi2 hanno prodotto una
teoria generale nella creazione di conoscenza organizzativa, nata dallo studio delle
organizzazioni giapponesi e dall’analisi del successo che queste hanno saputo
ottenere, raggiungendo nel tempo una posizione di rilievo sul mercato internazionale.
Secondo i due autori tale successo non deriva da una presunta eccellenza
produttiva, da un minore costo del denaro, da relazioni più strette e cooperative con i
clienti, i fornitori e le agenzie governative e neanche da particolari politiche di
gestione delle risorse umane, ma dalla capacità e dall’esperienza nella creazione di
conoscenza organizzativa, ossia dalla capacità dell’organizzazione nel suo
complesso di creare nuove conoscenze, di diffonderle al proprio interno e di tradurle
in prodotti, servizi e sistemi. L’innovazione continua viene messa in atto guardando al
contesto esterno e agli scenari futuri: ogni impresa di successo deve vivere il
cambiamento come un evento quotidiano e una forza positiva e deve essere pronta a
rinnovarsi mettendo da parte persino prodotti e prassi di comprovato successo (ciò
vale per tutte le aziende). L’incertezza spinge alla ricerca di conoscenze possedute
oltre i confini dell’organizzazione. Ad esempio, le imprese giapponesi si sono
continuamente rivolte ai clienti, ai fornitori, ai distributori, alle agenzie governative e
anche alla concorrenza, al fine di ricercare nuove capacità, di andare oltre la
superficie delle cose e di cogliere indizi. Il modo con cui le imprese giapponesi
producono continuamente innovazione trova la sua unicità nel legame tra
dimensione esterna e quella interna. La conoscenza tratta dall’osservazione della
realtà esterna viene condivisa a tutti i livelli, integrata nella struttura di conoscenze
dell’organizzazione ed utilizzata dalle persone preposte allo sviluppo delle nuove
tecnologie e dei nuovi prodotti. In questo modo si determina un processo di
conversione – dall’esterno all’interno e dall’interno di nuovo verso l’esterno – in forma
di prodotti, servizi o sistemi innovativi, e, secondo Nonaka e Takeuchi, è proprio
questo processo la chiave per comprendere le ragioni del successo delle imprese. E’
tale duplice attività interna ed esterna che alimenta un processo di innovazione
continua, che produce a sua volta vantaggio competitivo (Fig.2.)

Fig. 2. – L’innovazione continua

CREAZIONE DI CONOSCENZE

INNOVAZIONE CONTINUA

VANTAGGIO COMPETITIVO

2
Cfr. I. Nonaka, H. Takeuchi, “The Knowledge-Creating Company”, New York, Oxford University
Press, 1995 – trad. It. “The Knowledge Creating Company: Creare le Dinamiche dell’Innovazione”,
Milano: Guerini, 1997.

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La rapidità d’innovazione è, quindi, un fattore competitivo che permette di vincere


sul mercato, grazie alla sua capacità di trasformare la conoscenza aziendale in
valore, ovvero rendendo tutto ciò che l’azienda sa o dovrebbe sapere un surplus
competitivo.

Pertanto, la sfida che oggi si presenta anche per la Pubblica Amministrazione è


quella di progettare una soluzione organizzativa e gestionale che permetta lo
sviluppo delle conoscenze organizzative in termini di:
1. valorizzazione e accrescimento del capitale cognitivo «tacito», legato sia alla
specifica esperienza che alle capacità di ogni singolo membro
dell’organizzazione. Si tratta di conoscenza di contesto e, in quanto tale,
difficilmente formalizzabile e comunicabile;
2. valorizzazione e accrescimento della conoscenza «esplicita», ossia
condivisibile da più individui dell’organizzazione in modo autonomo attraverso
un linguaggio formale e sistematico (es. istruzioni, modelli, strumenti, etc.);
3. utilizzo convergente del capitale cognitivo «tacito» verso obiettivi definiti al fine
di rendere ripetibile – attraverso un processo definito ed esplicito – la modalità
in cui si può sviluppare una scelta innovativa;
4. valorizzazione delle capacità dei membri dell’organizzazione.

Per perseguire i fini descritti, però, è necessario scegliere la cultura organizzativa


come variabile indipendente (Decastri, 1990), a partire dalla quale definire il
cambiamento strategico/organizzativo sostenibile e, conseguentemente, pianificare
gli obiettivi di apprendimento e le azioni di sviluppo del capitale umano. Ciò in quanto
il prerequisito fondativo della gestione della conoscenza è la definizione e la
condivisione aziendale di un insieme valoriale (Fig. 3).

Fig. 3. - Dai valori al knowledge management (Iacono, 2000, p. 91).

Organizzazione basata sulla conoscenza

Creazione e gestione della conoscenza


Patrimonio
cognitivo
“esplicito”

Interazione cooperativa

Organizzazione basata sui valori

Patrimonio
cognitivo
“tacito”
Valori e comportamenti

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Pertanto, “in modo del tutto autoreferente, il processo di cambiamento è nello


stesso tempo un processo di apprendimento organizzativo e quindi di creazione di
nuova conoscenza” (Iacono, 2000, p. 93), di gestione del capitale intellettuale,
ovvero “ tutto quel materiale intellettuale – sapere, informazione, proprietà
intellettuale, esperienza, capacità – che può essere messo a frutto per creare
ricchezza” (Stewart, 1997, p. 8).

In Occidente l’essenza del management consiste nel far passare le idee dalle teste dei dirigenti
alle teste dei lavoratori. In Giappone il nocciolo del management è l’arte di mobilitare e riunire le
risorse intellettuali di tutti i dipendenti della società. (Konosuke Matsushita)

Quanto premesso evidenzia chiaramente come il nuovo impianto legislativo della


Pubblica Amministrazione - cinghia di trasmissione tra modificazioni ambientali ed
esigenza di cambiamento dell’azienda pubblica (Fig.4) – e la necessità di investire
sulla propria conoscenza core determinino un elemento di forte discontinuità
ambientale spingendo le singole aziende a profondi mutamenti interni.

Fig.4. - Il rapporto ambiente/organizzazione nella pubblica amministrazione.

Ambiente Norma Strategia Struttura

Fig. 5. - Portata ed estensione del cambiamento.


Impatto
Infra-organizzativo Inter-organizzativo

Modificazione delle Modificazione delle


regole di fondo regole di fondo
Radicale dell’attore che dell’attore che
esercitano un impatto esercitano un impatto
sugli attori esterni sugli attori interni

Modificazioni che non Modificazioni che non


Incrementale mutano le regole di mutano le regole di
fondo dell’attore e fondo dell’attore e
esercitano un impatto esercitano un impatto
sugli attori esterni sugli attori interni

Fonte: adattamento da Mercurio, Testa, 2000.

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In particolare, l’istituzionalizzazione normativa (a) del principio di sussidiarietà


verticale ed orizzontale, da una parte, e (b) della centralità dell’utente dall’altra,
portano ad una riconfigurazione del sistema di relazioni al livello infra-organizzativo
e, più in generale, a una diversa e maggiore qualità e quantità delle transazioni tra
organizzazione e ambiente, sfidando le singole amministrazioni alla soluzione di
problematiche non familiari (Perrow, 1988) nella soluzione delle quali non v’è ancora
sufficiente memoria organizzativa così come, invece, l’organizzazione burocratica
vorrebbe.
Di qui l’esigenza di un ammodernamento (senza abbandono) di detto modello
attraverso l’introduzione di qualche meccanismo organizzativo capace di aumentare
il grado di sofisticazione dell’organizzazione così da poter al meglio affrontare i
diversi compiti loro assegnati (Fig.5).

Si parla per questo di una necessaria evoluzione verso forme di organizzazione a


«intelligenza diffusa» (Decastri, 2005), affiancando alle regole di base della
burocrazia gli strumenti rivolti ad aumentare la capacità di elaborazione delle
informazioni, attraverso un aumento della capacità di risposta della linea gerarchica
(da realizzarsi attraverso la delega strutturata) e un aumento dei meccanismi di
collegamento tra le diverse unità organizzative (Galbraith, 1977). In questo modo si
dinamizza il passaggio – già auspicato dalla letteratura più recente in materia
(Decastri, 2005) – da una burocrazia meccanica ad una burocrazia professionale
(Mintzberg, 1979) spuria (ovvero con il potenziamento della tecnostruttura e la
creazione di una linea di supervisione e controllo).
In questi termini, quindi, forse meglio si chiarisce il carattere radicale del supposto
mutamento, nella misura in cui va inevitabilmente a scontrarsi con la dimensione
politica (Mintzberg, 1979) e culturale (Schein, 1990) delle singole aziende.
Nell’organizzazione burocratica del lavoro, quanto detto porta ad individuare, negli
attori interni e nei loro sistemi di relazione, un “oggetto” di cambiamento più profondo
(anche se forse meno evidente), il quale conferisce indirettamente maggiore
importanza al contributo che ciascun individuo è chiamato a dare al funzionamento
del sistema azienda. Ciò dovrebbe imporre l’adozione di strategie e strumenti di
cambiamento fondati su ipotesi di limitata capacità degli individui di far fronte alle
nuove richieste di dinamismo. Si tratta di un elemento di pressione, distinto e
complementare a quello derivante dal contesto esterno, ma del quale si deve
necessariamente tenere conto. Di qui l’importanza di interventi che interessano
comportamenti e orientamenti cognitivi dei singoli, affiancando ai contenuti di natura
tecnica lo sviluppo di capacità comportamentali, relazionali e direzionali degli
individui, o più semplicemente la valorizzazione delle competenze organizzative
esistenti e il relativo sviluppo.

2. I protagonisti della knowledge based organization: i «knowledge


workers»

Alla luce di quanto evidenziato, la Pubblica Amministrazione si sta dirigendo (o

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dovrebbe dirigersi) verso la gestione dei “knowledge workers”3. Malgrado in


letteratura non ci siano riferimenti specifici per l’identificazione dei lavoratori della
conoscenza nella Pubblica Amministrazione, in generale i knowledge workers
possono essere catalogati in diverse tipologie (Fig.6.): “Knowledge workers take on
various guises. We have found it helpful to segment them based on type of know-
how they have and how their expertise is deployed. As depicted in Fig.6, some may
be engaged in creative processes, such as R&D, product design and business
development. Others may be engaged in the application of knowledge, with a primary
focus on real-time delivery and execution; examples include sales people and
customer service professional. Others may sit at the intersection between the two,
such as product managers, account managers, marketing professionals, and quality
experts” (Fonte: tratto da Homa Baharami, Stuart Evans, “Super-flexibility for
Knowledge Enterprises” in “Knowledge Workers: Motivational Patterns and Work
Challenges”, “Aligning: placing an Iron Hand into a Velvet Glove”, Spring 2005, p.
138)

Fig. 6. – Categories of knowledge workers

KNOWLEDGE USE
Create Apply
Transferable
/codified
KNOWLEDGE TYPE

Product
R&D
Designer
Scientist
Engineer
Intuitive/
unique

Inventor
Salesperson
Entrepeneur

Fonte: tratto Homa Baharami, Stuart Evans, “Super-flexibility for Knowledge Enterprises” in
“Knowledge Workers: Motivational Patterns and Work Challenges”, “Aligning: placing an Iron Hand
into a Velvet Glove”, Spring 2005, p. 138.
Più in dettaglio, esistono:
1. manager professionali o anche detti “manager integratori”, ovvero figure
responsabili di programmi e progetti di innovazione ed implementazione
generalmente dotati di un elevato livello di qualificazione formale ed
esperienza (Product Manager, Project Manager, etc.);
2. professionals o altrimenti detti “esperti colti”. Si tratta di soggetti che
detengono un’enorme quantità di conoscenze strutturate, significative
competenze ed esperienze applicative. Si pensi ai computer scientists, agli
esperti di marketing, etc. In generale, si fa riferimento a tutte quelle figure con
un’elevata formazione e una posizione professionale di spicco;

3
“La definizione di knowledge worker deriva dalla fervida immaginazione di Peter Drucker che ha
voluto sintetizzare in questa espressione l’emergere di un fenomeno di progressiva de-
materializzazione delle prestazioni di lavoro in un numero sempre più grande di ruoli gestionali,
professionali o operativi” (Bonani, 2002, p. 28).

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3. tecnici, ossia “esperti pratici”. I tecnici hanno elevate conoscenze tecniche


e metodologiche comprovate da esperienze pratiche: conoscono
perfettamente il contesto applicativo aziendale;
4. operativi qualificati o altrimenti detti “operatoti di processo”. Si tratta di
figure con competenze adeguate a controllare il processo produttivo,
impiegando spesso tecnologie informatiche.4
Inoltre, le aree aziendali in cui si ravvisa la più alta concentrazione di lavoratori della
conoscenza sono:
- sistemi informativi;
- customer care;
- commerciale;
- ricerca e sviluppo;
- personale e organizzazione;
- comunicazione interna ed esterna.” (Bonani, 2002, p. 29)

Nella logica descritta, il top management diventa il luogo fondamentale in cui


viene prodotta sia la visione strategica dell’impresa che il patrimonio di conoscenze
generiche attraverso cui vanno lette le informazioni tratte dai contesti applicativi. In
effetti, il top management si trova nella posizione migliore per poter individuare le
associazioni e le combinazioni tra le informazioni specifiche di contesto.
In questa prospettiva, assume fondamentale rilevanza la figura del knowledge
manager il cui profilo si caratterizza per specifiche conoscenze, esperienze e
capacità…oltre che per una buona dose di motivazione!

In primo luogo il “knowledge manager” deve conoscere l’azienda, il suo business e il settore di
appartenenza. Solo in questo modo, infatti, sarà in grado di capire quale conoscenza è veramente di
Conoscenze
valore per l’organizzazione. Inoltre, deve unire una buona conoscenza delle lingue a conoscenze di
Information Technology e di gestione delle risorse umane.

Sarebbe preferibile la provenienza dai sistemi informativi o dalle risorse umane, ma il knowledge
Esperienze manager “deve essere un non specialista!”: deve aver vissuto molteplici esperienze professionali, tra
le quali non può prescindere l’esperienza di project management.

Il knowledge manager deve unire alle capacità analitiche e di sintesi, la visione d’insieme ovvero la
capacità di gestire la complessità attraverso il pensiero laterale e la visione a 360° dei problemi da
Capacità affrontare. Deve, inoltre, essere un leader. Ciò implica un’elevata abilità relazionale, unita alla
capacità di leggere e saper utilizzare i segnali deboli inviati dal contesto sia in termini di
comunicazione verbale che non verbale (metacomunicazione).

Motivazione Elevata

In particolare, al fine di gestire efficacemente i lavoratori della conoscenza, il


knowledge manager dovrebbe adottare uno stile di leadership di tipo “peer - to-
peer”, in base al quale:

1. Il “boss” è il centro della responsabilità e non dell’autorità. In effetti, la


relazione tra il superiore e il subordinato è mutevole; Il capo può essere fonte
4
Cfr. Gian Paolo Bonani, “La Sfida del Capitale Intellettuale. Principi e Strumenti di Knowledge
Management per Organizzazioni Intelligenti”, Milano: Franco Angeli, pp. 28-29.

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di autorità in un contesto e il subordinato in un altro in base alle competenze


possedute.
2. Ogni lavoratore è unico, quindi il capo deve modificare lo stile di leadership in
funzione delle caratteristiche dei propri subordinati: alcuni avranno necessità
di ordini chiari e dettagliati, mentre altri saranno in grado di organizzarsi
autonomamente dato l’obiettivo da perseguire. In questo senso si parla anche
di «leadership situazionale» o «customized approach»: “Leaders have to
customize their approach and accomodate the unique requirements of
different knowledge workers” (Baharami, 2005).
3. Le relazioni sono basate sul dialogo e gli obiettivi sono decisi insieme. Insieme
si individuano anche le risorse alle quali affidarne il raggiungimento.

“Peer-to-peer thinking is also reflected in how knowledge workers’


expectation are managed. In the parental paradigm, “employees” have
certain expectations from their “employer”. These may include benefits
and perks, educational opportunities and career advancement. […]
Peer-to-peer thinking put the emphasis on meritocracy and egalitarism
norms” (Barhami, 2005).

Nello specifico, nella logica della leadership situazionale, il leader deve possedere
tre abilità:
a) la diagnosi, con cui si intende la volontà e l’abilità di osservare una situazione
e valutare i bisogni di sviluppo dei collaboratori per decidere quale sia lo stile di
leadership più appropriato per uno specifico obiettivo od incarico;
b) la flessibilità, con cui ci si riferisce alla capacità di usare la varietà di stili di
leadership in modo coerente con le necessità emerse;
c) la partnership per la performance o condivisione dello stile di leadership. Il
leader deve saper trovare un accordo con le persone in merito allo stile di
leadership necessario per raggiungere obiettivi individuali e aziendali.

In effetti, il punto di partenza della leadership situazionale è tipico dell’approccio


contingente: non esiste uno stile di leadership valido per tutte le stagioni! Esistono
trattamenti diversi per persone diverse oppure trattamenti differenti per le stesse
persone a seconda dell’obiettivo o del compito affidato.

Adottando uno stile di leadership situazionale, si ottengono una serie di benefici:


- i collaboratori diventano più competenti. Si impegnano maggiormente e sono
in grado di raggiungere o addirittura superare i risultati attesi;
- i collaboratori esprimono energia, creatività, impegno verso l’organizzazione;
- aumenta il rispetto nell’accettazione delle differenze;
- la comunicazione tra managers e collaboratori è più aperta e condivisa.

Inoltre, si riduce la tensione nell’organizzazione; i collaboratori percepiscono il


manager maggiormente recettivo all’innovazione e, pertanto, interessato alla loro
crescita e al loro sviluppo. Ciò implica un morale più elevato ed una maggiore
responsabilizzazione.

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Per il knowledge manager, però, si pone un problema di collocazione all’interno


della struttura organizzativa: la creazione di una nuova funzione appesantirebbe la
struttura mentre appoggiarla ai Sistemi Informativi enfatizzerebbe l’aspetto
tecnologico senza dare la giusta considerazione al ruolo di integrazione, etc. Quindi,
sarebbe preferibile collocarlo nell’area delle Risorse Umane e, più in particolare,
della Formazione. La scelta proposta è motivata principalmente sia dall’affinità di
contenuto che dalle caratteristiche delle strutture dedicate al personale. Quest’ultime,
infatti, sono presenti nella maggior parte delle organizzazioni (e, quindi, anche delle
PA), sono ben integrate ed hanno un forte peso - disponendo, quindi, di notevoli
risorse e persone.

Alla luce di quanto visto, la gestione della conoscenza chiede il superamento della
burocrazia principalmente attraverso la ridefinizione dell’assetto organizzativo che
deve essere in grado di tradurre in pratica le necessità di gestione emerse
analizzando la figura del knowledge worker:
1. Creare un adeguato contesto comunicativo.
2. Favorire il raggruppamento di conoscenze diverse all’interno di teamwork.
3. Guidare i lavoratori verso lo sviluppo continuo delle loro competenze.

Come di dirà più avanti nel dettaglio, la ridefinizione dell’assetto organizzativo deve
coinvolgere entrambe le dimensioni di cui si compone:
- la dimensione macro, ovvero il ridisegno delle strutture organizzative e
dei sistemi operativi sia in termini di spazio che di tempo. Con il concetto di
“spazio” ci si riferisce alla necessità di dotarsi di strutture snelle. Il “tempo”,
invece, afferisce alla predisposizione di strutture dinamiche. In entrambi i
casi, l’obiettivo è permettere all’azienda di guadagnare in flessibilità. In
sintesi, occorre creare una configurazione organizzativa imperniata su
relazioni interpersonali frequenti che consentano la diffusione e lo sviluppo
delle competenze idiosincratiche dell’organizzazione;
- la dimensione micro. Con la sua riprogettazione ci si pone l’obiettivo di
individuare le competenze organizzative idiosincratiche sulle quali investire
e puntare ad ottenere un durevole vantaggio competitivo.
In dettaglio, in termini di microstruttura, occorre considerare che per indirizzare
efficacemente il lavoro delle persone esistono - in primis - tre categorie di fattori che
impattano sul loro cuore e sulla loro mente, ovvero che contribuiscono ad
incrementare la loro motivazione:
1. sistema premiante - Equa ricompensa, intendendo per equità l’allineamento
della retribuzione tra posizioni simili nell’organizzazione;
2. contenuto della mansione - Stimolo intellettuale, includendo opportunità di
crescita personale approfondimento e futura employability;
3. contesto organizzativo - “Emotional Connettivity”, termine con cui ci si
riferisce all’esistenza di buone relazioni tra il knowledge worker, il capo e il
gruppo in cui è inserito.

Prima di abbandonare questa breve introduzione al lavoro, appare opportuna


un’ultima precisazione terminologica: fino ad ora si è parlato prevalentemente di
valorizzazione e diffusione della conoscenza individuale idiosincratica esistente,

14
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spostando l’attenzione dall’apprendimento individuale a quello organizzativo.


Trattando, però, delle tipologie di knowledge workers, è stato introdotto il termine
competenze.
Ogni persona, in effetti, è definibile attraverso un preciso profilo di competenze.
Con il termine “competenze” si indica ciò che rende una persona capace di svolgere
efficacemente determinate attività, ovvero di manifestare specifici comportamenti
efficaci. In dettaglio, le competenze sono costituite da tre elementi:
1. le conoscenze (il sapere);
2. le esperienze (il saper fare);
3. le capacità (il saper essere).
In particolare, le capacità non sono comportamenti, ma si esprimono attraverso i
comportamenti” (Levati, 1997, p. 59).

Queste tre componenti sono legate sistemicamente e nella loro simbiosi risiede la
possibilità per ogni individuo di rispondere efficacemente alle attese di ruolo definite
dall’organizzazione. Tale aspetto ha una rilevanza fondamentale perché la copertura
efficace di ogni posizione organizzativa è legata ad uno specifico profilo di
competenze.

Da un punto di vista della trasferibilità e, quindi, della loro diffusione e


valorizzazione, le esperienze finalizzate e le capacità rientrano nella conoscenza
tacita, ovvero in quel sapere difficilmente formalizzabile e trasmissibile se non
attraverso l’on the job training, la socializzazione - il contatto diretto con chi possiede
quelle specifiche capacità - e, quindi, il buon esempio.
In virtù di questa considerazione, da questo momento in poi, parlando di gestione
dei knowledge workers, ci si riferirà principalmente alla gestione delle loro
competenze e alla creazione di nuove.

15
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Capitolo I
“L’architettura organizzativa per gestire i lavoratori della
conoscenza”

1. I presupposti organizzativi
La gestione della conoscenza mette in discussione l’intero modo di pensare e fare
organizzazione.

In effetti, spostando l’enfasi sulla conoscenza:


- cambiano i parametri con cui si guida la qualità di un’organizzazione.
Dato che il valore della conoscenza cresce con l’aumentare delle sue potenzialità
d’impiego, l’enfasi organizzativa deve spostarsi dalle attività alle relazioni, ovvero
dall’ottimizzazione delle fasi al processo. L’organizzazione deve essere giudicata
sulla sua capacità di creare opportunità di contatto tra le unità organizzative e le
persone;
- cambiano i parametri con cui si giudica la qualità delle persone
all’interno di un’organizzazione. Lo status e la rilevanza delle persone sono
fortemente ancorati non solo a ciò che le persone sanno, ma anche al loro
atteggiamento rispetto ai processi di condivisione della conoscenza;
- mutano i parametri con cui si definisce la relazione tra persone e
organizzazione. Quando un’organizzazione chiede ai suoi membri di
formalizzare il processo che permette loro di conseguire certi livelli di prestazione,
non è spesso altrettanto esplicita nel definire la redistribuzione dei margini
derivanti dal riutilizzo della conoscenza così catturata e nel determinare la sua
“proprietà”. Così, se è vero che la conoscenza è potere, quali motivazioni
dovrebbe avere una persona a cedere ciò che sa e che la differenzia in positivo
da altri? Su questo nuovo territorio di scambio si definisce la nuova relazione tra
impresa e persone: quanto vale la conoscenza? Quanto del valore realizzato
attraverso la conoscenza condivisa appartiene alle persone? Quali sono di
conseguenza i meccanismi organizzativi che rendono più fluido il processo di
trasferimento della conoscenza dall’individuo (o dal gruppo) al sistema
organizzativo?5

E’ in questo scenario che si innesta la formulazione dell’idealtipo organizzativo


denominato Knowledge Based Organization (KBO), ovvero “un sistema organizzativo
in cui la conoscenza svolge un ruolo pivotale nella generazione di valore. La
knowledge based organization fa della conoscenza il punto di riferimento per la
propria azione intenzionale, integrandola nei processi di business e creando un
contesto organizzativo favorevole, attraverso la manovra di leve quali: i sistemi del
personale, i sistemi di rilevazione delle prestazioni, lo sviluppo organizzativo, la
struttura” (Ruta, White Paper, 2000).

La knowledge based organization rappresenta un modello organizzativo in cui si


combinano non solo la convinzione strategica della rilevanza delle conoscenze come

5
Cfr. C. D. Ruta, C. Turati, “KBO Research Program”, White Paper, CRORA, Università Bocconi,
2000.

16
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fonte di vantaggio competitivo, ma anche la sensibilità alla gestione della


conoscenza come sistema integrato di scelte di progettazione dei sistemi operativi o
anche dei processi di sviluppo.

Passare da un’activity based organization ad una knowledge based organization


enfatizza la relazione diretta tra conoscenze e valore d’impresa grazie allo sviluppo
di un sistema integrato di soluzioni denominate Knowledge Practices (basi
operative).
In particolare, le basi operative di una KBO sono:
• K-Technology - infrastrutture tecnologiche dedicate, quali ad esempio
software e architetture di Knowledge Management;
• K-Structure - ruoli collegati in modo esplicito ai processi di Knowledge
Management come nel caso del Chief Management Officer o del Knowledge
Integrator;
• K-Assessment - criteri di valutazione dei risultati prodotti dall’adozione
dei sistemi di Knowledge Management, come la valutazione del capitale
intellettuale o la valutazione della knowledge management performance;
• K-HRM - sistemi di gestione delle risorse umane (HRM) basati sulla
valorizzazione della conoscenza;
• K-Culture - cultura knowledge-oriented come ad esempio, una cultura di
tolleranza verso gli errori;
• K-sponsorhiip – sostegno ai processi e alle infrastrutture di knowedge
management espressa in termini di eventi, riti, simboli, etc.6

L’analisi di una knowledge based organization presenta delle difficoltà a causa


della natura non semplice della conoscenza: come la conoscenza è osservabile
tramite le azioni che essa rende possibili, così la knowledge based organization lo è
tramite gli strumenti, le azioni e i processi, ovvero le knowledge practice predisposte
per gestire la conoscenza. Questo non significa necessariamente introdurre nuovi
strumenti, ma più spesso – e semplicemente – riorientare quelli esistenti all’obiettivo
di una gestione sistematica della conoscenza.

In funzione di quanto detto, quindi, l’obiettivo della ricerca è stato quello di


estrapolare dalla teoria organizzativa gli strumenti generali per gestire i knowledge
workers e, quindi, per passare da un’Activity Based Organization ad una Knowledge
Based Organization. In ogni caso, vale la medesima considerazione del paragrafo
precedente: il focus di riferimento non è solo sulla conoscenza in senso stretto, ma
sulla conoscenza come elemento del più ampio concetto di competenza.
Quindi, si può concludere che una Knowledge Based Organization è un insieme
di “strumenti e azioni di gestione della competenza e della loro finalizzazione a un
disegno strategico e organizzativo, espresso nella capacità di utilizzare le
conoscenze come leva per la generazione di valore” (adattamento da Turati, 2002,
p. 18).

6
Cfr. C.D. Ruta, C. Turati, 2002, “Organizzare il Knowledge Management”, Milano, Egea.

17
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2. La dimensione macro: le configurazioni organizzative


Come anticipato, in questa prima parte del lavoro il problema della gestione della
conoscenza viene osservato dal punto di vista della macro organizzazione del lavoro.
Un livello di analisi, questo, che per la verità non trova approfondimenti teorici
particolarmente articolati (cosa che invece si riscontra con evidenza, come si vedrà,
a livello di micro-progettazione organizzativa).
Ciò premesso, vengono dapprima presentate le caratteristiche distintive della
configurazione organizzativa di tipo adhocratico.
Ad essa segue, quindi, un breve trattazione sulla possibilità di agevolare la
creazione e gestione della conoscenza organizzativa utilizzando strumentazioni e
tecniche elaborati in altri contesti o, ai limiti, con finalità progettuali di natura
reticolare.
Come si dirà meglio più avanti, infatti, crediamo che l’osservazione
dell’organizzazione aziendale in forma di rete, permetta di arricchire l’analisi
organizzativa di elementi di osservazione e, allo stesso tempo, strumentali a:
1. meglio cogliere obiettivi di massima circolazione, diffusione e condivisione
di patrimoni informativi e conoscitivi
2. meglio organizzare l’azienda nel sua dimensione di relazione e
interdipendenza con il più vasto sistema di produzione a cui essa
afferisce7.

2.1. L’adhocrazia

“L’innovazione complessa o sofisticata richiede una configurazione


che sia capace di fondere esperti appartenenti a discipline differenti in
armonici gruppi di progetto ad hoc. Utilizzando il termine reso
popolare da A. Toffler in “Future Stock”, si tratta delle adhocrazie.

Fonte: Mintzberg, 1985, p. 378.

Per adhocrazia intende un’organizzazione molto organica con una scarsa


formalizzazione del comportamento, fondata sulla differenziazione delle competenze
e - per tale motivazione - si caratterizza anche per un’elevata specializzazione
orizzontale delle mansioni. Questo implica che - oltre a raggruppare specialisti in
unità omogenee per “mestiere” - si avvale del project management per supportare
l’innovazione, ovvero utilizza gli specialisti in piccoli gruppi multidisciplinari riuniti
attorno a specifici progetti d’innovazione. In tale logica, gli sforzi devono essere
innovativi e non standardizzati, per cui il meccanismo di coordinamento è
l’adattamento reciproco. Così facendo, si staglia come la configurazione che rispetta
in misura minore i principi classici dell’organizzazione, perché – in assoluto – la
conditio sine qua non per promuovere l’innovazione è sovvertire il principio

7
Questo secondo elemento, si note, assume particolare rilevanza lì dove si parli di azienda o
Amministrazione Pubblica. Le motivazioni di ciò sono state brevemente riassunte nella introduzione al
presente lavoro.

18
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weberiano dell’unicità di comando: se necessario si deve favorire la presenza di più


linee d’autorità.
In particolare, in tale organizzazione si rileva un numero elevato di manager con
funzioni d’integrazione e di gestione dei progetti, ovvero con il compito sia di gestire
tutte le varianze e i conflitti da mancata cooperazione sia di controllare i risultati
ottenuti dai progetti a fronte delle risorse assorbite. Il potere decisionale è diffuso e
distribuito a tutti i livelli della gerarchia in relazione alle decisioni da assumere.
L’adhocrazia si può distinguere in operativa e amministrativa. Nel primo caso,
innova e risolve i problemi direttamente a contatto con i propri clienti creando gruppi
multidisciplinari di esperti che spesso lavorano su contratto, come nelle società di
consulenza. A differenza della burocrazia professionale che colloca il problema di un
cliente all’interno delle categorie di conoscenza codificata e applica un programma
standard, l’adochrazia elabora una soluzione innovativa e personalizzata.
Nell’adhocrazia operativa, il vertice strategico e il nucleo operativo sono fusi insieme
poiché è difficile differenziare la pianificazione e la progettazione del lavoro dalla sua
esecuzione. I manager divengono membri effettivi dei gruppi di progetto con la
responsabilità di realizzare il coordinamento: il potere di decidere, però, viene
riconosciuto a colui o coloro che hanno le competenze per decidere,
indipendentemente dalla posizione occupata. Nell’adhocrazia amministrativa, al
contrario, le attività del nucleo operativo sono separate dalle attività direzionali. In
alcuni casi il nucleo operativo è talmente distaccato dal resto dell’organizzazione da
essere trattato come un’azienda autonoma, mentre il resto dell’azienda si occupa di
ricercare e individuare le innovazioni necessarie a causa, per esempio, di un’intensa
competitività sui prodotti o di una tecnologia molto dinamica. In altre circostanze, il
nucleo operativo può essere esternalizzato permettendo al vertice strategico di
concentrarsi sulle attività di sviluppo. Un’ultima modalità per isolare il nucleo
operativo è renderlo completamente automatizzato e gestirlo in via informatica.

Fig. 7. – L’adhocrazia

Vertice
strategico

Linea
intermedia Staff di
Tecno-
struttura supporto

Nucleo operativo

19
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La Figura 7 rappresenta l’adhocrazia: le sue parti sono fuse insieme, quasi a


formare un’unica massa. Mentre nell’adhocrazia operativa si fondono insieme il
vertice strategico, la linea intermedia, lo staff di supporto, la tecnostruttura (gli analisti
dell’organizzazione) e il nucleo operativo, nella adhocrazia amministrativa
quest’ultimo è escluso dalla conglobazione.

L’adhocrazia è posizionata in un ambiente dinamico e complesso. Nella


fattispecie, il dinamismo richiede una configurazione organica che – allo stesso
tempo – deve essere decentrata a causa della complessità: l’adhocrazia è l’unica
che soddisfi queste esigenze d’organicità e decentramento.

Inoltre, nella maggior parte dei casi, la struttura organizzativa che la caratterizza è
la matrice:
[…] La struttura a matrice è stata impiegata per la prima volta nel settore aerospaziale
statunitense; il termine “matrice” è stato coniato con riferimento alle tradizionali griglie a
doppia entrata usate in ambito statistico-matematico. La rappresentazione grafica che ne
deriva racchiude le due caratteristiche precipue di questa struttura, caratteristiche che la
differenziano, in particolare, dalla struttura per progetti; i criteri ispiratori sono gli stessi, la
simultaneità di più dimensioni sussiste ancora come pure la duplice dipendenza; se ne
discosta però per un primo elemento fondamentale: gli organi specializzati per tecniche
“non gestiscono processi produttivi correnti (come nella struttura per progetti), bensì
rappresentano soltanto delle aggregazioni professionali di specialisti, i quali sono
permanentemente assegnati ai diversi progetti (o prodotti, n.d.r.) in corso”1
In secondo luogo, la duplicità di dipendenza gerarchica ha connotati diversi:
“la dipendenza funzionale ha miglior rilievo gerarchico per l’assenza di prestazioni ‘interne’
agli organi tecnici, mantenendo comunque la dimensione più strettamente professionale; la
dipendenza dagli organi di progetto è più densa d’implicazioni personali, in quanto l’individuo
deve ‘collocarsi’ – e non solo temporaneamente – nell’ambito di gruppi di progetto. Parrebbe
quindi appropriato ritenere che prevalga sui modelli di comportamento delle persone la
dimensione del progetto, e quindi (…) si potrebbero definire come organi di integrazione
facenti capo alle unità funzionali,…”2
Ciò che quindi distingue la matrice dalle strutture organizzative tradizionali è l’abbandono del
vecchio concetto “one man – one boss” o della singola catena di comando in favore di un
sistema gerarchico duplice.
In generale, sarà così definibile matrice una struttura che impiega un sistema di comando
duplice e contemporaneo e che comporta:
a) un’adeguata serie di meccanismi operativi di supporto;
b) modelli di comportamento coerenti e, soprattutto, una cultura organizzativa in sintonia.
In termini più sintetici avremo che:

Organizzazione a matrice = Struttura a matrice + Meccanismi operativi matriciali + Cultura da


matrice + Comportamenti da matrice

I meccanismi operativi devono operare lungo le due dimensioni simultanee della matrice: il
sistema della pianificazione, il sistema di programmazione e controllo, i sistemi del personale,
il sistema informativo devono tutti servire contemporaneamente sia la dimensione tecnica
che la dimensione prodotto o progetto.
Ciascuna area tecnica e ciascun prodotto/progetto devono avere piani e programmi separati
e formalmente indipendenti; il sistema di controllo deve operare separatamente per ogni linea
gerarchica; le richieste di capitale finanziario, macchine e materiali e persone devono essere
gestire secondo le esigenze autonome di ciascuna dimensione; sia le aree tecniche che i
prodotti/i progetti devono essere fornite di propri sistemi di carriera, di formazione, di
ricompensa.

20
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione

Gli elementi culturali che possono rendere l’organizzazione adatta a recepire le esigenze del
funzionamento di una struttura a matrice sono almeno quattro3:
1) un atteggiamento aperto e flessibile verso l’andamento della vita lavorativa e, soprattutto,
verso il cambiamento;
2) una lunga e condivisa tradizione di cambiamento;
3) il credere nell’utilità di un aperto e frequente scambio di idee e punti di vista su qualsiasi
argomento;
4) la condivisione condivisa di essere parte di un esperimento di challenging e eccitante.
Un ulteriore elemento che può ricoprire un ruolo rilevante è il lay-out: lunghi corridoi con
piccoli uffici separati l’uno dall’altro da mura impenetrabili sono il riflesso architettonico di una
lunga e viva tradizione burocratica. Il lay-out adatto ad una struttura a matrice è quello che:
“letteralmente distrugge i muri con l’intenzione di fare lo stesso in senso figurato, per facilitare
comunicazioni aperte e frequenti con gerarchie e formalismi ridotti al minimo”4
L’enfasi è quindi sulla flessibilità, sull’informalità e sulla minimizzazione della gerarchia.
Il comportamento che è e deve essere conseguente ad una struttura a matrice consta di5
a) una focalizzazione degli sforzi verso le due dimensioni organizzative giudicate
fondamentali;
b) l’elaborazione e la gestione da parte di tutti di un gran numero di informazioni;
c) un impegno verso l’organizzazione a dare sempre risposte equilibrate (relativamente alle
dimensioni prescelte) ai problemi che sono fonte potenziale di un’elevata conflittualità;
d) un rapido, efficace e flessibile ri-impegno di quelle risorse umane che vedono terminare i
propri compiti presso un progetto, un prodotto, un mercato.

In accordo con Davis e Lawrence, la matrice diviene così più un’organizzazione a forma di
diamante piuttosto che di una piramide: il vertice è ancora rappresentativo del top
management (per tecnica e per prodotto/progetto). Ai piedi del diamante c’è il manager con 2
capi (“2 – boss manager”) che, dato un ammontare definito di risorse finanziarie e umane e
avuto un target da raggiungere, è responsabile di un gruppo di attività omogenee.

Top management
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2 boss
manager

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Comune di Milano – Direzione Generale Educazione

Al di sotto di questi managers (che sono una porzione relativamente limitata del totale del
personale di un’impresa, ossia una percentuale che può variare dal 2 al 10%, a seconda
delle dimensioni), l’organizzazione riprende le vesti tradizionali e ritornano l’unità di comando
e la relativa forma a piramide. I ruoli chiave di una struttura a matrice sono tre: il top
management, i responsabili di tecnica o di prodotto/progetto e i managers con due capi (2 -
boss managers)6
Il top management è formalmente al di fuori della matrice; ciò nonostante ne è un elemento di
supporto indispensabile per i tre compiti specifici che gli comportano:
a) mantenere gli equilibri di potere: l’esistenza di pressioni verso due dimensioni
organizzative operanti simultaneamente richiede un’opera di continuo bilanciamento delle
posizioni di potere tra i due bracci della matrice. Il metodo basilare per assicurare l’equilibrio
(almeno nel breve termine) risiede nel corretto e uniforme dosaggio del potere detenuto dai
managers delle due linee gerarchiche: la formalizzazione di questa esigenza nei documenti
ufficiali dell’impresa è un primo fondamentale passo; tra gli altri strumenti che il top
management ha a disposizione per riequilibrare situazioni sbilanciate, cinque sono7:
- Il livello delle retribuzioni.
- La denominazione delle posizioni.
- La partecipazione del top management a riunioni o ad incontri informali.
- Il lay-out.
- Il livello organizzativo.
b) gestire il contesto decisionale: il top management deve delegare, ma non può delegare
anche il compito di definire e gestire il contesto in cui sono prese le decisioni. L’esistenza
della struttura a matrice è un indiretto riconoscimento del fatto che l’alta direzione non può
decidere tutto e in tempi brevi: ci sono troppe informazioni da trattare e troppi punti di vista da
prendere in considerazione. Ecco quindi che il top management deve definire le regole del
gioco entro le quali gli altri devono decidere. In particolare deve chiarire agli organi
decisionali inferiori che:
- i conflitti vanno resi espliciti;
- le eventuali posizioni devono conflittuali devono impostare il confronto in modo aperto e
razionale;
- il problema va comunque risolto e gli impegni devono essere presi nei tempi necessari;
c) definire gli standard di performance: è difficile che il sistema organizzativo risponda
autonomamente in modo adeguato alle pressioni aziendali. Compito del top management è
quindi quello di recepire le esigenze dell’ambiente, di tradurle in obiettivi specifici e di
articolarle in standard di performance attese. Si danno così al sistema organizzativo la
direzione e la quantità degli sforzi da compiere. […]
Un primo gruppo di ragioni che portano alla scelta della struttura a matrice è individuato da
Knight8:
1. efficienza organizzativa. La struttura a matrice conserva la specializzazione tecnica
mentre introduce la specializzazione per prodotto o per progetto. Occorre però osservare che
cresce il tempo occupato in riunioni e in comunicazioni non strettamente necessarie.
2. Controllo e contabilità. Quando i sistemi contabili e i sistemi di programmazione e
controllo hanno la pressante esigenza di seguire contemporaneamente più dimensioni, la
struttura a matrice favorisce e rende applicabili soluzioni adeguate.
3. Coordinamento. Quando sussistono rilevanti problemi di coordinamento e, in particolare,
le interdipendenze sono di tipo complesso (ad esempio reciproche9), la struttura a matrice è
un meccanismo di relazioni laterali (il più complesso e costoso)10 che può risolvere più
efficacemente il problema rispetto alle procedure, ai programmi, ai contatti diretti e così via.
4. Adattamento. Quando la rapidità e l’intensità dei cambiamenti ambientali e l’elevata
incertezza rendono necessario raccogliere informazioni in grande numero e da più fonti e il
farle analizzare da organi altamente competenti, la struttura a matrice può essere una
soluzione alternativa (o più spesso complementare) al decentramento11, al sistema
organico12, agli organi di difesa del technical-core13.
5. Efficacia sociale. Nel caso in cui soddisfare i bisogni degli individui che operano
nell’impresa diventi un problema rilevante, la struttura a matrice presenta un numero
maggiore di elementi positivi rispetto a quelli negativi. Se è vero che l’appartenenza a due
gruppi organizzativi può provocare ambiguità, conflittualità e stress, dall’altra parte vengono
notevolmente incrementate le opportunità di crescita professionale, il numero di posizioni a

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Comune di Milano – Direzione Generale Educazione

contenuto manageriale, il grado di partecipazione e di autonomia decisionale, il livello delle


comunicazioni.
La matrice inoltre in grado di favorire la creazione di un tessuto sociale tale da permettere un
efficace coordinamento mediante “mutuo aggiustamento”14. […]

Note:
1 A. Rugiadini, “Organizzazione d’impresa”, Giuffrè, 1979
2 A. Rugiadini, op. cit.
3 Si veda S.M. Davis – P.R. Lawrence, “Matrix”, Addison Wesley, 1977
4 Si veda S.M. Davis – P.R. Lawrence, op. cit.
5 Si veda S.M. Davis – P.R. Lawrence, op. cit.
6 Si veda ampiamente S.M. Davis – P.R. Lawrence, op. cit.
7 Si veda S.M. Davis – P.R. Lawrence, op. cit.
8 K. Knight, “Matrix Management”, Gower, 1977
9 D. Thompson, “Organization in Action”, MacGraw-Hill, 1967
10 Cfr. J.R. Galbraith, Organization Design, Addison.Wesley, 1977
11 L.E. Greiner, “Evolution and Revolution in Organizational Grow”, in Harvard Business
Review, luglio-agosto 1972
12 T. Burns – G.M. Stalker, “The Management of Innovation”, Tavistock Publications, 1961
13 J. D. Thompson, op. cit.
14 J.D. Thompson, op. cit.
15 M. Decastri, in “Organizzazione e Cultura dell’Innovazione in Impresa”, a cura di M.
Decastri, Giuffrè Editore, 1984.

Per concludere, l’adhocrazia enfatizza “la competenza, la struttura organica, i


gruppi di progetto e le task forces, il decentramento senza un’unica concentrazione
del potere, l’organizzazione a matrice, sistemi tecnici sofisticati e automatici, la
giovane età delle persone dell’azienda. Tuttavia, non rappresenta la configurazione
per tutte le aziende; richiede una cultura organizzativa sofisticata e persone con
profili di competenza complessi (alto livello di scolarizzazione, elevata stabilità
emotiva, elevata autonomia e orientamento agli obiettivi, con valori di collettivismo)”
(Decastri, 2005).

Inoltre, si caratterizza per il mancato bilanciamento dei carichi di lavoro. E’ – in


effetti – impossibile definire in maniera regolare il tempo di lavoro del personale che
opera su progetto: in alcuni periodi non ha lavoro da svolgere, in altri è costretto agli
straordinari per terminare il progetto entro i termini stabiliti.

Infine, i membri dell’adhocrazia instaurano relazioni interpersonali frequenti per


combinare le competenze esistenti ed elaborare idee innovative. Queste
comunicazioni avvengono molto lentamente e la presa delle decisioni richiede così
tempi talmente lunghi da renderle a volte intempestive.

Alla luce di tali considerazioni, discende come l’adhocrazia sia una configurazione
innovativa, ma non efficiente.

2.2. I networks: gli «intersectional hubs»

All’interno di una qualsiasi organizzazione - vi sono sia flussi di affari che flussi di
informazioni e competenze a causa della mobilità delle risorse umane. Si parla di

23
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione

network intra-organizzativo – ovvero un network tra gruppi relazionali8, i cui membri


si scambiano competenze idiosincratiche. Secondo Teece, «se le transazioni di
know-how - o più in generale di competenze – sono o diventano progressivamente
idiosincratiche, […] il trasferimento interno della conoscenza ha il vantaggio di ridurre
il numero delle transazioni che ne consentono la diffusione e di attenuare i pericoli
del suo uso opportunistico» (Teece, 190, p. 229).

In questa logica, favorire le relazioni interpersonali si rivela un ulteriore approccio


alla gestione dei knowledge workers, in quanto consente di massimizzare la
comunicazione, per rendere più agevole il trasferimento della competenza e far
scattare la “scintilla innovativa”. In effetti, se non si creano le condizioni per una
interazione agevole le persone non saranno spinte a condividere nuove idee e
concetti. Da un punto di vista organizzativo, ciò implica individuare delle figure di
coordinamento all’interno del sistema che possano realizzare l’integrazione delle
competenze idiosincratiche esistenti e il successivo sviluppo. Si tratta degli
«intersectional hubs», equiparabili alle boundary spanning units (unità di confine),
ovvero alle unità ponte tra il mondo esterno ed il mondo interno all’organizzazione.

Il compito di questi organi è quello di migliorare i collegamenti sia interni che


esterni e nello svolgere questo ruolo, possono assumere due differenti
comportamenti: possono fungere da catalizzatori interno degli interessi e delle
informazioni espresse dalle unità esterne oppure possono essere i rappresentanti
dell’organizzazione con le altre unità esterne.

Nella fattispecie, gli «intersectional hubs» hanno diverse responsabilità, ma


devono essere in grado di creare communication networks decentrate (sia interne
che esterne), ossia reti di comunicazione che favoriscono la gestione di informazioni
e competenze complesse e, quindi, di processi decisionali poco strutturati e
favorevoli all’innovazione.

I principali si ravvisano nelle seguenti figure (Fig. 8 e Tabella 1):


1. il Central Connector. E’ un soggetto con elevate conoscenze tecniche ed un
set di relazioni intraorganizzative molto ampio. Supporta il personale nel
reperimento delle informazioni necessarie allo svolgimento del proprio lavoro.
2. il Broker. Conosce nel dettaglio le modalità operative dell’organizzazione e ha
la capacità di riconoscere le situazioni che richiedono elevata integrazione di
competenze differenti. E’ in grado, quindi, di mobilitare e coordinare gli sforzi
di comunità professionali disparate in caso di necessità. Il broker dovrebbe
coincidere con il “knowledge manager”.
3. il Peripheral Player. Si tratta di una figura “trasversale” volta a creare un set di
relazioni esterne (tramite workshop e meetings specifici) per potenziare il
reperimento di conoscenze ad elevato valore aggiunto.
Come si evince dalla sintetica descrizione dei ruoli di coordinamento individuati,
mentre sia il Central Connector che il Broker sono deputati alla creazione di networks
interni, l’attività del Peripheral Player è rivolta principalmente verso la costituzione di
reti esterne.
8
Cfr. Roberto Cafferata, “Sistemi, Ambiente e Innovazione. Come si in tergano la continuità e il
mutamento nell’impresa”, Torino: G. Giappichelli Editore: p. 222, 1995.

24
Fig. 8. - Il network intraorganizzativo: una rappresentazione grafica

CENTRAL L’insieme delle linee di connessione


nodo UNITA’ ORGANIZZATIVA
rappresenta la Connective Dimension che
delinea l’anatomia dell’organizzazione ovvero
Nello specifico, i nodi possono essere l’insieme delle relazioni, dei raggruppamenti di
singole persone, unità capacità, delle responsabilità e delle linee
organizzative o altre d’autorità. (Clustering Dimension).
organizzazioni: per questo si parla

CENTRAL
BROKER

PERIPHERAL

Fonte: Salvatore Parise, Rob Cross, Thomas Davenport, “Strategies for Preventing a Knowledge-Loss Crisis” in “Mit
Sloan Management Review”, summer 2006, vol. 47, n° 4, p. 33.
Tabella 1. – Le strategie di knowledge retention degli «intersactional hubs»
Network role Knowledge-loss risks Actions
• Use personal network
profiles in career development
and onboarding practices to
create network redundancies
• Technical expertise and systematically where
organizational memory as well departures might dramatically
as a set of relationship that help fragment a network.
many others get information or • Reallocate information
Central connector other resources to do their access and decision rights to
work. ensure that one point does not
• Experiential knowledge and become too vulnerable in the
reputation that enable rapid network.
onboarding of new employees. • Have central connectors to
help mewcomers get
acclimated through strategic
introductions, “shadowing”,
mentoring and joint projects.
• Identify and develop
brokers trough staffing and
• Broad knowledge of how rotation across division,
the organization operates and geographic and expertise
ability to recognize groups.
opportunities that require • Assign brokers strategically
integration of disparate where information gap exist or
Broker
expertise. where ideas can move from
• Ability to mobilize and concept to action.
coordinate efforts of disparate • Give brokers preauthorized
groups to pursue those decision limits to tap into
opportunities. network resources. Allow them
to experiment to obtain real-
time information.
• Ensure relevant peripheral
people are visible and
engaged, for example, by
encouraging their hosting of
• Niche (and often
“lunch-and-learns” and
marginalized) expertise or
webcasts.
early-adopter ideas that have
• Invite external partners to
Peripheral player the potential to reshape offering
conduct workshops and attend
operations.
meetings to broaden the
• Set of external relationships
network.
built on trust and familiarity.
• Reward employees for
bringing external ideas and
connections into the
organization.

Fonte: Salvatore Parise, Rob Cross, Thomas Davenport, “Strategies for Preventing a Knowledge-Loss
Crisis” in “Mit Sloan Management Review”, summer 2006, vol. 47, n° 4, p. 33.

Inoltre, la figura di broker della conoscenza - che svolge il ruolo di linking point tra il
central e il peripheral - coincide con il knowledge manager, al quale è affidata:
1. la responsabilità di gestire delle infrastrutture IT che supportano la diffusione della
conoscenza core;
2. la responsabilità dei contenuti, perché deve assicurare che all’interno
dell’organizzazione circoli competenza utile, aggiornata, facilmente reperibile e
fruibile;
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
3. la responsabilità di definizione e gestione delle procedure di creazione,
contribuzione, raccolta, utilizzo, diffusione, condivisione e valorizzazione della
conoscenza e delle persone investite dal processo;
4. la responsabilità di diffondere la cultura della competenza attraverso piani di
comunicazione interna e change management: deve assumere un ruolo di
interfaccia verso tutte le altre funzioni.

In sintesi, gli «intersectional hubs» sono deputati alla creazione della Cohesive
Dimension che riflette la personalità dell’impresa: “On the one hand, it is about linking the
values and expectations of knowledge workers to the broader organizational context and
business drivers (O’reilly, 1989). On the other hand, it is about how external stakeholders
view the enterprise and perceive its brand and identify. While financial controls provide the
“hard” control glue, core values and people policies provide the motivational “soft glue”
(Evans, 2005).

Quanto descritto è tanto più vero nel mondo pubblico in cui le organizzazioni sono
chiamate sempre più ad agire nella società quali totalità di parti ordinate suddivise in
molteplici ed interconnessi livelli.
Nel sistema economico in cui sono inserite, infatti, entrano in contatto con altre forze
organizzative, arrivando a concludere giornalmente transazioni di varia natura con altri
soggetti.

Esistono diverse tipologie di reti, ma la più diffusa in assoluto è la forma-N, che trova
terreno favorevole quando sono soddisfatte le condizioni elencate nella Tabella 2. Essa
consente di assolvere - meglio di altre forme organizzative - una serie di esigenze:
• la necessità di operare trasferimenti di conoscenza tra attori diversi;
• la maggiore rilevanza dei diritti di accesso e di uso rispetto a quelli di proprietà;
• la necessità di gestire elevati livelli di incertezza e di rischio economico;
• la necessità di produrre output variabili in modo flessibile e secondo efficienza
(adattamento da Costa, 1997, p. 611).

Tabella 2. – Le condizioni di contesto favorevoli all’adozione della forma-N.

Varietà ed importanza Trasferimento delle


conoscenze

Rapidità dell’evoluzione Incertezza


tecnologica
Rischio economico

Entità dell’evoluzione Flessibilità Forma-N


dei bisogni dei clienti
Efficienza

Maggiore rilevanza
Competizione reale e dei diritti di accesso e
potenziale di uso rispetto a
quelli di proprietà

Fonte: Costa, 1997, p. 611.

27
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In particolare, la forma-N è in grado di gestire meglio le risorse che possiede rispetto
alle altre forme organizzative perché è “una combinazione di processi di coordinamento
prevalentemente non gerarchici e di strutture organizzative basate sull’integrazione per
linee orizzontali e su una gestione aperta dei confini interpretati, agiti e progettati da
un’impresa focale, per ottenere simultaneamente obiettivi di efficienza dinamica e di
varietà di combinazioni produttive e di prodotti su larga scala di attività in ambienti dinamici
e ad alto rischio” (Costa, 1997, p. 613).

L’articolazione della forma-N prevede due livelli: (1) il livello dell’impresa focale – o
impresa guida, (2) l’ambiente transazionale composto da unità organizzative
giuridicamente indipendenti. I due livelli sono collegati strategicamente da obiettivi comuni
che stimolano la cooperazione e contribuiscono a creare una duplice rete, interna
all’impresa focale ed esterna nel suo ambiente transnazionale. Attraverso tale
articolazione, la forma-N riesce a sfruttare il tessuto di relazioni sociali - e, quindi, di
conoscenza, di fiducia, di amicizia e di supporto - che esiste tra gli attori coinvolti nel
sistema. (Fig. 9.)

Fig. 9. - Una rappresentazione grafica della forma-N.


Ambiente transazionale
Rete
interna

Impresa
focale

Unità di confine Impresa focale

Fonte: adattamento da Costa, 1997, p. 617.

In generale, la rete esterna all’organizzazione presenta le seguenti caratteristiche:


• “elevata centralità dell’impresa focale;
• elevata connettività tra gli elementi della rete per mantenere controllo sociale e
fiducia;
• impresa focale come broker fra aggregati diversi non altrimenti connessi, al fine di
stimolare la varietà, la ricchezza informativa e il cambiamento strategico;
• mix di autorità, scambio e fiducia per il coordinamento della rete esterna;
• gestione strategica integrata per facilitare processi di controllo e di trasferimento
dell’apprendimento da parte dell’impresa focale” (adattamento da Costa, 1997, p. 628).

Le peculiarità dell’impresa focale, invece, si ravvisano in:


• una struttura gerarchica flat;
• un’organizzazione per processi basata sull’individuazione di moduli, la cui
responsabilità di risultato è affidata a specifici team di professionisti;

28
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
• un mix di autorità - fondata in parte sulla centralità dei flussi informativi e in parte
sulle competenze possedute - mercato e fiducia per il coordinamento tra i diversi
moduli;
• centralità del ruolo riconosciuto alle unità ponte;
• estensione verso l’ambiente con cui si intrattengono le relazioni dei sistemi operativi
interni all’impresa focale.

29
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
Capitolo III
“Il knowledge system”

1. Il knowledge management
L’attenzione rivolta alla competenza nasce dal fatto che le organizzazioni di oggi si
trovano ad operare in un ambiente fortemente variabile, “in cui la dispersione geografica si
accompagna alla crescente intensità di competenze nei servizi, alla maggiore
sofisticazione della clientela, all’enorme disponibilità e “pressione” delle conoscenze
messe a disposizione dalle tecnologie e ad un rapido ciclo di creazione/distruzione della
conoscenza stessa” (cit. da Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report finale”,
2001, p., 8). Questa turbolenza richiede alle organizzazioni di aumentare la loro capacità
di adattarsi rapidamente ai cambiamenti, facendo divenire - pertanto - la creazione e
diffusione di competenze all’interno delle imprese e tra organizzazioni diverse la fonte
principale del vantaggio competitivo: «in un’epoca in cui l’unica certezza è l’incertezza,
l’unica fonte sicura per il vantaggio competitivo è la conoscenza» (Nonaka, 1997). Ma il
“sovraccarico informativo” non genera sempre crescita delle competenze e relativa
capacità di trasferirle in attività che producano valore per l’organizzazione - in nuovi
prodotti e servizi - perché nel momento in cui si analizza il rapporto tra competenza e
valore è evidente come si tratti di una relazione non sempre lineare, dato che l’attivazione
a livello organizzativo di conoscenze individuali richiede complesse capacità di gestione
che – a loro volta – chiamano in causa competenze di livello diverso:
a) “porzioni di sapere pronte all’uso” (Turati, 2002, p. 3), ovvero un patrimonio cui si può
ricorrere in caso di bisogno;
b) conoscenze che permettano di integrare e ricombinare in modo creativo le porzioni di
sapere esistenti al fine di trarne un maggiore valore.9

E’ sulla base di queste esigenze che si è sviluppata la disciplina del Knowledge


Management (KM) - di cui di seguito si riportano alcune delle definizioni possibili - volta a
sistematizzare metodi e prassi già presenti in larga parte nelle organizzazioni.

«L’insieme delle azioni che catturano, distribuiscono e favoriscono il riutilizzo della


conoscenza» (Davenport e Prusak, 1998)

«La creazione di nuova conoscenza e la capacità di cambiare i comportamenti organizzativi in


modo da incentivare una simile attitudine» (Garvin, 1993)

«I processi di identificazione e gestione della conoscenza catturata dell’organizzazione»


(Myers, 1996)

«La capacità di mappare la distribuzione della conoscenza di un sistema organizzativo e


trasformarlo in valore per l’impresa, attraverso la creazione di soluzioni che ne facilitino la
mobilizzazione» (Maglietta, 1995)

Nella fattispecie, quindi, il KM è “un approccio integrato finalizzato a creare,


organizzare, rendere accessibile, condividere, utilizzare e capitalizzare il patrimonio di
competenze presente in un’organizzazione al fine di generare valore aggiunto per la
stessa” (cit. da Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report finale”, 2001, p. 7). (E’
fondamentale evidenziare che si parla di valorizzazione delle competenze e non solo delle
conoscenze organizzative).

9
Cfr. Carlo Turati, Dino Ruta Cataldo, prefazione di Anna Grandori, “Organizzare il Knowledge
Management”, Egea, Milano, 2002.

30
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione

In sintesi, indipendentemente dalla struttura organizzativa adottata e al fine di gestire


efficacemente le risorse, occorre traghettare le aziende verso un’organizzazione
ipertestuale, supportando i processi con un adeguato sistema di knowledge management
(Fig. 10).

Fig. 10. – L’organizzazione ipertestuale

Links ipertestuali

Team di
progetto
(KM)
Sistema di
business
(burocrazia)

Base di conoscenza

2. Il modello delle “quattro C”

Al fine di passare da un Activity Based Organization ad una Knowledge Based


Organization, occorre costituire un sistema di Knowledge Management (KM) per una
gestione efficace dei lavoratori della conoscenza.
In primis, però, si individuano le quattro dimensioni chiave (le quattro C) sulle quali
agire per realizzare significativi risultati nella gestione del proprio capitale intellettuale e
nella creazione e diffusione di nuove competenze. Si tratta delle quattro dimensioni su cui
dovrà essere progettato il sistema di Knowledge Management:
A Comunità. Identificare le Comunità di pratiche, sostenendo, quindi, contesti sociali e
di comunicazione in cui i dipendenti si riconoscono professionalmente, mettono a
confronto le proprie competenze, ricavandone valide sinergie per sviluppare innovazione;
B Competenze. Dopo aver individuato le Comunità di pratiche, porre in essere un
ampio processo di identificazione delle competenze individuali per poi estrapolare le
competenze organizzative, al fine di renderle facilmente attivabili e disponibili rispetto alle
diverse esigenze dell’organizzazione;
C Canali. Progettare canali ed infrastrutture tecnologico-sociali per rendere più
agevole la condivisione e la diffusione delle conoscenze.
D Cooperazione. Progettare un modello di cooperazione per sostenere la condivisione
delle competenze in relazione sia ad obiettivi individuali che organizzativi.
Le quattro “C” identificate permettono di perseguire contemporaneamente due obiettivi:
(1) leggere il grado di sviluppo dei sistemi di knowledge; (2) progettare interventi per
sviluppare nuove competenze.
A questo punto, è necessario analizzare nel dettaglio le quattro dimensioni progettuali
identificate al fine di meglio comprendere come operare.

31
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A. Comunità

“Per comunità si intendono aggregazioni di più profili professionali che condividono


luoghi di utilizzo e produzione di competenze e che rappresentano i destinatari
dell’insieme dei servizi forniti dal sistema di knowledge” (cit. da Cantieri, “Knowledge
Management nella PA. Report finale”, 2001, p. 15). In generale, la creazione di “comunità
di pratiche” è agevolata dalla presenza di tecnologie: individui dislocati in comunità sociali
differenti possono, infatti, condividere conoscenze professionali di comune interesse, fino
a crearne di nuove.
In questo contesto, favorire la diffusione e la valorizzazione delle competenze implica
identificare e sostenere anche processi di interazione sociale tra le persone, in quanto la
creazione di conoscenza core è un processo più collettivo che individuale: solo dal
confronto reciproco del proprio processo di creazione di sapere è possibile validare e dare
un significato alla propria conoscenza “tacita”.
Nella costituzione di comunità, quindi, occorre sviluppare dei contesti che facilitino la
condivisione del sapere e la nascita di un sentimento di appartenenza. La comunicazione ,
pertanto, assume un ruolo fondamentale perché le Comunità di pratiche non possono
essere definite processi sociali permanenti: richiedono, pertanto, un grande sforzo di avvio
ed un continuo impegno nel loro mantenimento. In questa logica, quanto più
l’organizzazione avrà investito sulla creazione di climi di fiducia e di collaborazione e sulle
capacità delle persone di integrare le proprie conoscenze in comunità di pratiche e di
saperi, tanto maggiore sarà il ricorso ai servizi per la conoscenza (intranet, extranet,
internet).
In sintesi, la costituzione di comunità di pratiche può incontrare diverse difficoltà:
- l’eterogeneità di linguaggio tra coloro che avrebbero bisogno delle stesse conoscenze;
- una cultura non knowledge oriented, ovvero poco orientata a scambiare esperienze e a
condividere percorsi di ricerca per creare innovazione;
- ridotta diffusione dell’uso della rete come fonte di informazioni e di conoscenze;
- scarso orientamento verso metodologie e sistemi di gestione e archiviazione del sapere;
- paradigmi e valori collettivi orientati alla dipartimentalizzazione, che spinge verso
l’accrescimento delle competenze individuali più che organizzative.

I processi di costituzione delle comunità dovranno assumere come obiettivi principali:


- l’identificazione di specifici ruoli per la diffusione di sapere implicito (knowledge officers,
focal points, coaching e mentoring, intersectional hubs);
- la facilitazione di contesti di cooperazione interni ed esterni alle amministrazioni che
consentano l’emergere di nuove conoscenze e consolidano il valore della condivisione.

Si può concludere che la corretta identificazione delle Comunità professionali e dei


relativi fabbisogni è l’elemento fondante (nonché la principale garanzia di efficacia) di un
Sistema di Knowledge Management (Knowledge System).

D’altronde, in questo primo passo nella creazione di un sistema di gestione della


competenza si deve acquisire la consapevolezza che non esiste una definizione univoca
di “comunità di pratiche”, perché esse varieranno in funzione delle esigenze
dell’organizzazione. Come ben si comprende se – da un lato – tale aspetto costituisce un
punto di forza del Knowledge System (KS) - rendendolo versatile alla volatilità
dell’ambiente competitivo - dall’altro rappresenta anche un punto di debolezza a causa
degli ampi spazi di interpretazione che permeano l’intero processo di progettazione dello
stesso.

32
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In tale prospettiva, la segmentazione delle comunità da servire può essere fatta
rispondendo a logiche diverse:
- “per area professionale, possibilmente facendo riferimento al sistema professionale
dell’organizzazione interessata (si parla in genere di famiglie e profili professionali);
- per funzione (ad esempio contabilità, personale, area tecnica e simili);
- per “cliente”, riunendo i ruoli professionali che operano in favore delle stesse tipologie di
clientela;
- per area geografica, riunendo le persone che operano nella medesima zona (regione,
provincia);
- per processi, riunendo i soggetti che lavorano sugli stessi processi di attività”
(adattamento da Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report finale”, 2001).
Non è detto che si debba ricorrere ad un solo criterio: la soluzione spesso nasce
dall’incrocio di parametri diversi.
Nello specifico, la segmentazione migliore è quella che fa riferimento al sistema
professionale dell’organizzazione, perché - essendo frutto di riflessioni interne - è già
interiorizzata ed ha il vantaggio di garantire omogeneità tra le comunità professionali in
termini di competenze che il sistema di KM dovrà gestire.

B. Competenze

Al fine di ottenere un vantaggio competitivo durevole, un’organizzazione deve


selezionare e focalizzare rapidamente le competenze determinanti per renderle facilmente
disponibili a tutti coloro che ne debbono fare uso per svolgere la loro attività.
L’obiettivo futuro è quello di favorire l’identificazione e la condivisione a tutti i livelli delle
competenze di riferimento, comunicando all’esterno dell’organizzazione (clienti, cittadini,
altre organizzazioni e istituzioni) ciò che la stessa è in grado di offrire. Ciò implica che la
sua capacità di operare sarà fortemente condizionata non solo dalle proprie conoscenze
organizzative, ma anche dal capitale intellettuale derivante dalla qualità del network che
essa riesce a utilizzare e governare attraverso le sue risorse qualificate. In sostanza, il
sistema di KM da implementare si fonda su due presupposti fondamentali:
- la visione integrata del portafoglio di competenze sia interne che esterne;
- l’identificazione di modalità appropriate di “valutazione, selezione, legittimazione e
diffusione delle diverse competenze” (cit. da Cantieri, “Knowledge Management nella
PA. Report finale”, 2001).
E’ evidente come - in linea con quanto accennato - al fine di perseguire i fini indicati -
l’elemento dal quale non si può prescindere è la creazione di un sistema di competenze
che consenta di individuare con precisione i fabbisogni sia individuali che organizzativi in
termini di informazioni, conoscenze, capacità, ovvero in termini di aree chiave del know-
how che facilitano la diffusione differenziata della competenza influenzando l’efficacia del
Knowledge System stesso: le comunità professionali – per l’appunto.

D’altronde, i criteri di lettura e classificazione delle competenze sono numerosi e la sua


individuazione verrà ripresa e approfondita nel Par.1 del Capitolo Terzo, affrontando il
tema della progettazione micro per la gestione dei knowledge workers.

C. Canali

Una volta mappate le competenze esistenti si rende necessario favorirne la diffusione


a qualsivoglia livello. Per realizzare tale passaggio critico, occorre progettare degli
adeguati canali che possano veicolare il flusso delle informazioni e delle competenze
identificate: elemento chiave per raggiungere un elevato grado di efficienza.

33
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Innanzitutto, per poter diffondere adeguatamente il patrimonio di competenze
individuato, occorre definire correttamente il concetto di ”canali”. Il termine è -
apparentemente molto semplice - ma, in realtà, racchiude diverse sfaccettature: i canali di
diffusione nascono dall’integrazione delle infrastrutture (principalmente tecnologiche) volte
a raccogliere, archiviare, diffondere informazioni con i sistemi di “regolazione” delle stesse.
E’ in tale logica si devono affiancare investimenti tecnologici sofisticati alla realizzazione di
un sistema di regole condivise di produzione ed utilizzo del sapere e delle conoscenze.
Per questo motivo, l’idea è quella di fondare il modello di KM sulla progettazione di
sistemi integrati basati anche sull’utilizzo di internet, intranet ed extranet e di tecnologie
multimediali - come ad esempio il ricorso a personaggi virtuali interattivi per la
comunicazione on-line e la formazione digitale - che consentono di coniugare la varietà dei
contenuti con una maggiore ampiezza di contatto e costi sostenibili.

D. Cooperazione

La diffusione delle competenze, però, non passa solo attraverso la strutturazione di


adeguati canali tecnologici e multimediali, ma deve poter avvalersi anche di strutture e
processi operativi che favoriscano il collegamento tra le persone e le informazioni,
indipendentemente dalla loro natura elettronica o cartacea.
Ad esempio, in tale prospettiva, è utile identificare i ruoli cruciali per la conoscenza, i
cosiddetti «knowledge roles». Nella fattispecie, si tratta di persone che nell’organizzazione
sono i principali portatori di una particolare competenza (ruoli tecnico-professionali,
competenze manageriali ed organizzative, ruoli amministrativi). L’organizzazione deve
legittimare il loro ruolo - meglio se attraverso un riconoscimento formale - al fine di
facilitare il loro compito: i collettori di conoscenza hanno la responsabilità di facilitare
l’accessibilità alla loro area di conoscenza, favorendo – quindi – la diffusione del relativo
sapere. Generalmente si tratta dei punti di riferimento dell’organizzazione: i responsabili o
gli esperti delle Comunità di pratiche.
Nella stessa logica e come accade per i phreripheral hubs, ben si comprende come i
knowledge roles rappresentino un ponte non solo tra i membri all’interno
dell’organizzazione, ma anche tra l’interno e “centri di competenza” esterni. Il ricorso a
ruoli di collegamento implica la capacità dell’organizzazione di non “perdere le tracce”
delle persone che possiedono competenze idiosincratiche, garantendone l’impiego nel
modo più appropriato.

3. Dal knowledge management al knowledge system


A questo punto occorre esaminare le leve su cui puntare per dinamizzare il sistema di
Knowledge Management, ovvero per permettergli di autorganizzarsi, evolvere in funzione
delle esigenze organizzative.
Per perseguire tale obiettivo, è necessario progettare adeguatamente:
- il modello di servizio, ovvero i contenuti del sistema;
- i sistemi di trasferimento delle competenze;
- la soluzione organizzativa;
- la soluzione tecnologica.

3.1. La definizione del modello di servizi: i contenuti del knowledge system

Una volta definite le comunità professionali e il modello delle competenze, il framework


del Knowledge System è pronto. A questo punto non resta che progettare il modello di
servizio, ossia l’insieme integrato di servizi che il sistema di knowledge offre alle comunità
professionali. Si fa riferimento ad un sistema di servizi integrato perché si deve garantire ai

34
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membri delle comunità di pratiche la massima disponibilità di informazioni e competenze
per ricoprire il proprio ruolo.
In tale prospettiva, quindi, i servizi da garantire rientrano in una gamma molto ampia.
Nella fattispecie, alle tradizionali attività di affiancamento e comunicazione più o meno
formali, quali riunioni e convention, si affiancano:
- servizi di tipo innovativo (sistemi di coaching e mentoring, ecc.);
- servizi che vengono forniti sia attraverso i canali della comunicazione faccia-faccia
(servizi di assistenza, docenza in aula, riunioni, ecc.) sia tramite i canali della
comunicazione via web (corsi on line, database, elibrary, e-conference, ecc.);
- servizi che utilizzano un’ampia gamma di supporti, dal cartaceo (libri, documenti, giornali,
procedure, ecc.) all’informatico (e-book, corsi on line, forum, ecc.) – [adattamento da
Cantieri, Knowledge Management nella PA. Report finale, 2001].
Più in dettaglio, i servizi potenziali sono raggruppati in 8 tipologie, ciascuna delle quali
si presta ad essere ulteriormente articolata al suo interno:
- library;
- e-learning;
- mentoring;
- strumenti a supporto del lavoro;
- workshop e formazione;
- forum e news;
- basi dati;
- supporto al KS.

Nella library, le comunità professionali hanno libero accesso a documenti di varia


natura (libri, articoli, relazioni, cd rom, ecc.) e su diverso supporto (cartaceo, informatico).
Tale accesso può essere diretto od indiretto: sarà del primo tipo in caso di documento su
formato elettronico e reperibile dal sistema con un motore di ricerca; viceversa, si parlerà
di accesso indiretto in presenza di documenti cartacei rispetto ai quali il sistema dovrà
fornire informazioni relative a dove e come rinvenirli. Qualora i documenti siano reperibili
solo all’esterno, è prevista la possibilità di connettersi a link a sistemi bibliotecari esterni
all’amministrazione ed a siti di altre amministrazioni o istituzioni di carattere nazionale o
internazionale.

Il servizio di e-learning consiste nella messa a disposizione su rete di corsi on line e di


una relativa guida in linea per il loro corretto utilizzo oltre alla possibilità di contattare
direttamente docenti e tutor per chiedere informazioni/chiarimenti sui contenuti dei corsi ed
avere stimoli per ulteriori approfondimenti.
Inoltre, sta prendendo piede l’idea di migliorare il servizio offerto integrandolo con
l’introduzione di PVI (Personaggi Virtuali Interattivi) a supporto della formazione
multimediale:
1. i docenti virtuali;
2. gli attori.
I docenti virtuali sono PVI in grado di insegnare e spiegare interattivamente all’allievo i
contenuti da apprendere, personalizzandoli in funzione dei suoi bisogni – rendendo i
sistemi di e-learning coinvolgenti efficaci e motivanti.
Gli attori virtuali sono PVI che - all’interno di business game simulati – recitano parti di
clienti, dipendenti, o partner nei confronti dell’allievo che deve cercare di influenzare i
comportamenti e le decisioni al fine di sperimentare ed apprendere specifiche capacità,
come – ad esempio – capacità sociali quali la vendita, la leadership e la negoziazione.
Questi PVI sono affiancati da docenti virtuali che guidano, consigliano e valutano l’allievo
durante la sua interazione con gli attori virtuali.
Attualmente, il mercato dei PVI non è molto sviluppato in Italia.

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Comune di Milano – Direzione Generale Educazione

Per mentoring si intende quel complesso di servizi offerti da parte di colleghi esperti a
supporto dello sviluppo professionale dei propri collaboratori: generalmente si
concretizzano in affiancamento e/o tutoraggio sia on line sia face to face.

L’organizzazione, inoltre, deve mettere a disposizione dei propri dipendenti i principali


strumenti a supporto delle attività quotidiane:
- modelli e procedure;
- modulistica connessa alla gestione delle attività;
- tools informatici;
- altro (adattamento da Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report finale”,
2001).
Nel contempo, fornisce tutto il materiale necessario in merito alle iniziative di
formazione, ai workshop, ai seminari e ai convegni organizzati dalla stessa o da altri enti o
istituzioni.

L’azienda organizza dei forum in cui discutere su specifiche tematiche oggetto di


interesse sia interno all’organizzazione che di attualità.

Attraverso le basi dati, l’obiettivo è quello di integrare la banca dati esistente con altre
base dati e sistemi informativi di rilievo per la comunità (sistema informativo sul lavoro,
banche dati inerenti la normativa, il tessuto economico, la popolazione, etc.).

Infine, per rafforzare il KS, è preferibile dotarlo di un sistema di data warehousing e


data mining.
“Su tali sistemi si innestano i cosiddetti decision support system, che sulla base di
modelli di previsioni e di simulazione aiutano la definzione delle scelte strategiche e
operative da parte del management” (cit. da Cantieri, “Knowledge Management nella PA.
Report finale”, 2001). Non si deve pensare, però, che il Knowledge Management System
sostituisca i sistemi informativi ed operativi esistenti: li integra, perché permette di leggere i
dati e le informazioni in funzione delle esigenze conoscitive degli utilizzatori.

3.2. I sistemi di trasferimento delle competenze

Al fine di implementare un efficace ed efficiente sistema di gestione delle competenze,


è necessario porsi il problema di come trasferire non solo le conoscenze esplicite, ma
anche quelle implicite legate all’esperienza e alle capacità dei singoli, superando la
tradizionale visione statica del modello di servizio.
Nella fattispecie, l’approccio ritenuto efficace per lo sviluppo e il trasferimento di
competenze afferisce al modello delle “quattro C” - più precisamente alla sfera della
Cooperazione e si basa sul principio per cui è “solo attraverso l’esplicitazione e la
condivisione del modo in cui le persone esperte interpretano le situazioni tipiche della
propria professione, coloro che sono in apprendimento riescono ad acquisire non solo le
nozioni relative al ruolo, ma anche il “sapere pratico”. È necessario perciò, tramite la
formazione, sviluppare nelle persone le competenze operative connesse alla gestione del
proprio ruolo e le competenze necessarie per agirlo: queste competenze si manifestano
appieno soprattutto nei momenti critici, ove l’esperto sa individuare e governare i fattori di
successo, conosce le «routine» organizzative e operative di successo, anche se non
formalizzate e codificate” (cit. da Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report
finale”, 2001).

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Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
Non si devono solo riprodurre a livello organizzativo competenze strategiche da un
punto di vista individuale, ma occorre permettere - tramite il confronto sociale - di generare
anche nuovo capitale intellettuale e, quindi, innovazione di prodotto e/o di servizio.10,
Per raggiungere tale scopo assumono un ruolo rilevante quelle figure (i champions)
che hanno avuto esperienze significative in merito alle competenze che si intendono
trasferire tramite il training on the job: ciò accade perché il processo di trasferimento è
stato strutturato in modo tale da evitare che i singoli apprendano per tentativi ed errori, ma
in tempi ben più lunghi di quelli oggi necessari.
Nella fattispecie, l’elemento chiave per l’apprendimento è dato dalla formalizzazione
delle learning histories: si tratta di “storie” professionali strutturate - una sorta di
testimonianze - in cui si riepiloga la struttura delle competenze che nei vissuti dei
champions si è rivelata di successo per svolgere il ruolo. La struttura delle competenze
necessarie è ovviamente connessa (a) alle situazioni critiche da affrontare e (b) alle
alternative di soluzioni disponibili. Il ricorso alle learning histories è costruttivo perché
identifica situazioni reali, dove si rende necessario esprimere proprio le competenze
oggetto di apprendimento.

3.3. La soluzione tecnologica

L’ultimo tassello che va a comporre il modello di servizio del KM è costituito dai sistemi
informatici per la gestione delle informazioni. Rispetto al modello delle “4 C” ci collochiamo
nella dimensione dei Canali per gestire e veicolare le informazioni.
Dato che la gestione delle informazioni sta diventando un aspetto sempre più rilevante
per lo sviluppo delle organizzazioni, se ne deve realizzare l’ottimizzazione attraverso il
ricorso all’interazione di più elementi:
a. l’infrastruttura di collegamento;
b. i data warehousing and mining system;
c. i decision support system;
d. i sistemi di gestione documentale.

L’infrastruttura di collegamento permette all’organizzazione di gestire le informazioni


perché rappresenta un network di collegamento tra le persone sia all’interno
dell’organizzazione che all’esterno. Nella fattispecie, si fa riferimento rispettivamente al
mondo di Internet e a quello di Intranet. Nel primo caso, si ottimizza la comunicazione
dell’organizzazione con il mondo esterno, realizzando lo scambio di informazioni di tipo
istituzionale. Nella seconda fattispecie, l’organizzazione comunica al proprio interno,
migliorando le relazioni tra i suoi dipendenti. Il valore aggiunto dell’infrastruttura di
collegamento risiede nella capacità di collegare e raggiungere tutte le persone, fornendo
loro - tramite gli strumenti di seguito descritto - opportuni servizi condivisi.

Il data warehousing and mining system è un contenitore unitario di dati prodotti


dell’organizzazione, che consente di integrare e preparare le informazioni raccolte in
modo che le persone possano analizzarle, manipolarle, trasformarle e combinarle, al fine
di scoprire se esistono delle correlazioni o dei trend specifici.

I DSS sono sistemi di supporto per i processi decisionali che consentono di (a)
supportare le persone nel prendere decisioni in situazioni non strutturate e quindi di
incertezza, (b) permettere di effettuare simulazioni preventive per capire gli effetti di
determinate decisioni nel tempo.

10
Cfr. D. Viviani, “Competenze per Competere”, 2000 – M. Montironi, “Il Coaching” in “Sviluppo ed
Organizzazione”, 1999.

37
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
I sistemi di gestione documentale supportano le organizzazioni tramite la fruizione dei
documenti attraverso Internet o Intranet. In particolare, consentono la catalogazione,
l’organizzazione e la consultazione di archivi condivisi. Grazie alla creazione di un
repository centrale di tutte le informazioni, si riducono i tempi di acquisizione delle stesse e
se ne evita la duplicazione che comporta spesso problemi di allineamento e congruità tra
le differenti versioni dello stesso documento.

Come si può evincere dalla sintetica descrizione delle diverse tipologie di sistemi,
ognuna ha proprie caratteristiche e peculiarità che le consentono di gestire uno specifico
aspetto delle informazioni e – quindi – non tutte le problematiche ad esse connesse. In
questa logica, non esiste un unico strumento informatico a supporto del KM: il KS deve
avvalersi della combinazione dei diversi strumenti identificati che - data la loro modularità -
permettono all’organizzazione di non dover implementare nello stesso momento tutte le
soluzioni, ma di costituire una sorta di sentiero di crescita che, attraverso steps successivi,
consenta di realizzare un sistema integrato.

38
Comune di Milano – Direzione Generale Educazione
Capitolo III
“L’organizzazione a misura d’uomo”

1. Individui, contesto e organizzazione: note introduttive


La teoria della creazione di conoscenza sviluppata da Nonaka e Takeuchi, e già citata
nell’introduzione, fa riferimento ad una propria epistemologia, che si basa sulla distinzione
tra conoscenza tacita e conoscenza esplicita, ovvero tra conoscenza personale specifica
del contesto e quindi difficilmente formalizzabile e comunicabile ed una conoscenza
codificata e trasmissibile tramite un linguaggio formale e sistematico. Alla conoscenza
tacita viene data particolare rilevanza, dato che il nucleo di creazione di conoscenza è
dato proprio dalla sua mobilitazione e conversione.
L’interesse è incentrato sulla creazione di conoscenza nell’organizzazione e non
nell’individuo: la teoria quindi si rifà anche ad una specifica ontologia, intendendo con
questo termine l’ordine dei soggetti creatori di conoscenza (individuale, di gruppo,
organizzativo ed interorganizzativo). La conoscenza, infatti, è unicamente il prodotto di
singoli individui: un’organizzazione non può creare conoscenza senza gli individui, che
diventano - pertanto - la variabile chiave da gestire. Essa, quindi, sostiene i membri più
creativi, offrendo loro un contesto in cui creare conoscenza. La creazione di conoscenza
organizzativa va intesa come un processo di diffusione a livello organizzativo della
conoscenza creata dagli individui e di sistematizzazione della stessa entro la rete di
conoscenze dell’organizzazione. Tale processo di diffusione e sistematizzazione ha luogo
all’interno di una “comunità di interazione” in espansione, che attraversa i livelli intra ed
interorganizzativi. Le due dimensioni del processo di creazione della conoscenza -
epistemologica ed ontologica - possono essere rappresentate come in Fig.11.
L’asse epistemologico designa il luogo in cui avviene la conversione della conoscenza
tacita in esplicita. L’asse ontologico designa il luogo in cui la conoscenza creata dagli
individui viene trasformata al livello di gruppi e di organizzazione. I due assi non sono
reciprocamente indipendenti ma interagiscono iterativamente e continuamente fra loro.
Quando l’interazione tra conoscenza tacita ed esplicita passa dinamicamente da livelli
ontologici inferiori a livelli superiori, si origina una “spirale di conoscenza”, ovvero un
processo dinamico di creazione della stessa.
Fig. 11. – Dimensione epistemologica versus ontologica

Dimensione
epistemologica

Conoscenza
esplicita

Conoscenza
tacita
Dimensione
ontologica

individuo gruppo organizzazione livello interorganizzativo

livello di conoscenza

Fonte: Nonaka, Takeuchi, 1997.

39
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1.1. La spirale della conoscenza

Il presupposto fondamentale del modello dinamico della creazione di conoscenza è


che la conoscenza umana si crea e si diffonde attraverso l’interazione sociale tra
conoscenza tacita ed esplicita: tale interazione – nel linguaggio di Nonaka e Takeuchi – è
chiamata “conversione di conoscenza”. Le due tipologie di conoscenza si diffondono in
termini sia qualitativi che quantitativi attraverso un processo sociale tra individui che esula
dai confini interiori della stessa persona: l’individuo, infatti, non può considerarsi mai
isolato dall’interazione sociale. Nello specifico, Nonaka e Takeuchi individuano quattro
modalità di conversione della conoscenza (Fig.12.).

Fig. 12. – Le modalità di conversione della conoscenza

Conoscenza tacita A Conoscenza esplicita

Socializzazione Esteriorizzazione
Conoscenza tacita
DA

Interiorizzazione Combinazione
Conoscenza esplicita

Fonte: Nonaka, Takeuchi, 1997.

La socializzazione: da una conoscenza tacita ad un’altra


La socializzazione è un processo di condivisione di esperienze e di creazione di forme
di conoscenza tacita quali modelli mentali abituali e abilità tecniche condivise. Un individuo
può acquisire conoscenza tacita relazionandosi con altri senza l’intervento del linguaggio,
attraverso l’imitazione, l’osservazione e la pratica. In ambito economico, l’on the job
training si avvale dello stesso principio. Fondamentale per l’acquisizione di conoscenza
tacita è l’esperienza: senza una forma di esperienza condivisa è difficile che una persona
riesca ad entrare nel processo di pensiero di un’altra. Il semplice trasferimento di
informazione, infatti, avrà poco senso se slegato dalle emozioni che vi si associano e dai
contesti definiti nei quali le esperienze condivise si radicano.
La socializzazione non riguarda solo gli individui appartenenti all’impresa ma può
verificarsi anche con soggetti esterni, ad esempio, l’interazione con i clienti prima dello
sviluppo del prodotto e dopo la sua introduzione sul mercato costituisce un processo
interminabile di condivisione di conoscenza tacita e di creazione di idee di miglioramento.

L’esteriorizzazione: dalla conoscenza tacita alla conoscenza esplicita


L’esteriorizzazione rappresenta un processo di creazione nel quale la conoscenza
tacita diviene esplicita assumendo forma di metafora, analogia, concetto, ipotesi o
modello. E’ il processo messo in atto da una persona che tenta di concettualizzare
un’immagine esprimendone l’essenza attraverso il linguaggio. Le espressioni linguistiche
sono spesso inadeguate, incoerenti ed insufficienti, ma sono proprio le differenze e i divari
tra immagini ed espressioni linguistiche che servono a promuovere la riflessione e
l’interazione fra gli individui stessi. L’esteriorizzazione è innescata da dialoghi e discussioni
collettive: metafore o analogie intriganti, ad esempio, risultano efficaci nell’alimentare il
coinvolgimento diretto delle persone in un processo creativo; in ambito aziendale tale

40
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modalità di conversione è tipica della creazione dei concetti di prodotto. Secondo Nonaka
e takeuchi l’esteriorizzazione costituisce, più delle altre modalità di conversione, la chiave
di creazione della conoscenza, perché crea concetti nuovi ed espliciti a partire dalla
conoscenza tacita, e ciò può avvenire in modo concreto ed efficace grazie alla sequenza
metafora-analogia-modello. La metafora rappresenta un modo di percepire e cogliere
intuitivamente un oggetto immaginandone simbolicamente un altro; consiste in un
meccanismo di comunicazione in grado di riconciliare discrepanze di significato e
connettere concetti mentalmente anche molto distanti tra loro, quali idee astratte e
rappresentazioni concrete. Questo processo cognitivo-creativo continua mano a mano che
l’individuo pensa alle somiglianze fra concetti e avverte una disarmonia, un’incoerenza o
una contraddizione nel loro legame, giungendo così spesso alla scoperta di nuovi
significati o alla formazione di nuovi paradigmi. L’analogia, dal canto suo, riduce l’ignoto
sottolineando – attraverso il noto – la “comunanza” che lega cose diverse e riesce ad
armonizzare le contraddizioni intrinseche della metafora. Essa consente così di superare il
divario che separa l’immagine dal modello logico. Una volta creati, infatti, i concetti espliciti
possono dare origine a modelli. In essi non dovrebbe esservi spazio per le contraddizioni e
tutti i concetti e le proposizioni dovrebbero essere espresse in una forma sistematica,
secondo una logica ispirata a principi di coerenza.

La combinazione: da una conoscenza esplicita ad un’altra


La combinazione è un processo di sistematizzazione di concetti in un sistema di
conoscenze ed implica la combinazione di corpi di conoscenza esplicita fra loro distinti. Gli
individui scambiano e combinano conoscenze attraverso vari mezzi: documenti, incontri,
conversazioni telefoniche, reti informatiche di comunicazione. La nuova conoscenza viene
creata riconfigurando le informazioni esistenti attraverso lo smistamento, l’aggiunta, la
combinazione e la categorizzazione di conoscenza esplicita. Nelle imprese, tale modalità
di conversione può essere osservata nella scomposizione e nella traduzione operativa
delle vision d’impresa, dei concetti economici e di prodotto attuata dal management
intermedio che svolge un ruolo decisivo nel creare nuovi concetti attraverso la diffusione di
informazioni e conoscenze codificate. A livello del top management di un’organizzazione, il
processo si realizza attraverso la combinazione e l’integrazione in concetti generali come
la vision, con concetti di medio raggio come i prodotti; l’integrazione fa assumere un nuovo
significato ai “grandi concetti”.

L’interiorizzazione: dalla conoscenza esplicita alla conoscenza tacita


La fase che conclude il ciclo della creazione di conoscenza è quella
dell’interiorizzazione, che consiste nel tradurre concretamente le conoscenze esplicite in
conoscenze tacite. Si tratta di un concetto strettamente collegato a quello di
apprendimento attraverso l’azione. Quando le esperienze maturate tramite le modalità di
socializzazione, dell’esteriorizzazione e della combinazione vengono interiorizzate nelle
basi di conoscenza tacita dell’individuo sottoforma di know-how tecnico o modelli mentali
condivisi, allora queste diventano beni utili. Affinché la creazione di conoscenza
organizzativa abbia luogo, deve verificarsi una socializzazione della conoscenza tacita
accumulata a livello individuale ad altri membri dell’organizzazione, socializzazione che dà
avvio ad un nuovo ciclo della spirale della creazione di conoscenza.
La conversione della conoscenza esplicita in tacita è facilitata quando la prima è
verbalizzata o rappresentata graficamente in documenti, manuali e storie. Tramite la
documentazione gli individui riescono ad interiorizzare la loro esperienza, arricchendo così
la loro conoscenza tacita; inoltre documenti e manuali permettono la trasmissione di
conoscenza esplicita ad altri soggetti, aiutandoli a vivere le esperienze altrui in forma
indiretta, ovvero a ri-esperirle.
Per la riuscita di un processo di interiorizzazione, l’ampliamento dell’ambito di

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esperienza concreta ha importanza decisiva, tuttavia non sempre è richiesta la
riesperienza reale delle esperienze altrui. Nella misura in cui, ad esempio, la lettura o
l’ascolto di una storia di successo fa percepire ad alcuni membri dell’organizzazione il
contenuto di realtà e l’essenza della vicenda, l’esperienza avvenuta nel passato può
tradursi per essi in un modello mentale tacito. Quando tale modello viene condiviso dalla
maggioranza dei membri dell’organizzazione, la conoscenza tacita entra a far parte della
cultura organizzativa.
Ciascuna modalità di conversione crea un contenuto di conoscenza diverso (Fig. 13).

Fig. 13. – Il contenuto di conoscenza nelle varie modalità di conversione.

Conoscenza tacita A Conoscenza esplicita

Socializzazione Esteriorizzazione
Conoscenza tacita conoscenza simpatetica Conoscenza concettuale
DA
Interiorizzazione Combinazione
Conoscenza esplicita Conoscenza operativa Conoscenza sistemica

Fonte: Nonaka, Takeuchi, 1997.

La socializzazione produce “conoscenza simpatetica”, modelli mentali e abilità tecniche


condivise. L’output dell’esteriorizzazione è la “conoscenza concettuale”: ad esempio un
nuovo concetto di prodotto, al quale si è giunti mediante l’utilizzo di metafore ed analogie.
La combinazione dà origine a “conoscenza sistemica”, ne sono esempi i prototipi o le
nuove tecnologie dei componenti. L’interiorizzazione produce “conoscenza operativa”
relativa alla gestione dei progetti, al processo produttivo, all’utilizzo di nuovi prodotti e
all’implementazione delle politiche organizzative. Tali contenuti di conoscenza
interagiscono tra loro dando vita ad una vera e propria spirale della conoscenza, ovvero
un processo continuo e dinamico di interazione tra conoscenza tacita ed esplicita, che
prende forma a partire dai mutamenti fra modalità distinte di conversione di conoscenza,
innescate a propria volta da numerosi fattori scatenanti. La modalità di socializzazione
solitamente prende avvio dalla costruzione di un “campo” di interazione che faciliti la
condivisione delle esperienze e dei modelli mentali di coloro che vi partecipano. La
modalità di esteriorizzazione è innescata da un dialogo o dalla riflessione collettiva, in cui
l’utilizzo di metafore ed analogie aiuta i membri del team a formulare conoscenze tacite,
nascoste che altrimenti sarebbero difficili da comunicare. La modalità di combinazione è
attivata dalla “messa in rete” di conoscenze di nuova creazione e di conoscenze
consolidate provenienti da altri settori dell’organizzazione e nella cristallizzazione di queste
in prodotti, servizi o sistemi di gestione innovativi. L’interiorizzazione, infine, è innescata
dall’apprendimento attraverso l’esperienza.
In definitiva, l’organizzazione non può creare da sola conoscenza. Il fondamento della
creazione di conoscenza organizzativa è costituito dalla conoscenza tacita individuale:
l’organizzazione quindi deve essere in grado di far circolare la conoscenza tacita creata e
accumulata a livello individuale. Quindi, Nonaka e Takeuchi con l’espressione “spirale
della conoscenza” indicano il processo attraverso il quale la conoscenza tacita, fatta
circolare, viene ampliata “organizzativamente” attraverso le quattro modalità di
conversione esaminate e cristallizzata a livelli ontologici superiori. L’interazione tra
conoscenza tacita ed esplicita diviene sempre più ampia a mano a mano che si procede
lungo la scala ontologica; il processo a spirale di creazione della conoscenza, quindi,
muove dal livello individuale e prosegue coinvolgendo comunità sempre più ampie di

42
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interazione, attraversando i confini di settore, di dipartimento di divisione e
dell’organizzazione stessa. La conoscenza che parte dal contesto individuale per poi
ritornarvi non è uguale a sé stessa, ma si trasforma lungo il processo di conversione, si
arricchisce dell’esperienza di più individui, delle conoscenze esplicite dell’organizzazione,
dei saperi che provengono dall’esterno e ad ogni ciclo si rinnova continuamente
coinvolgendo sempre più persone ed ambienti diversi.

1.2. La diffusione e lo sviluppo delle competenze idiosincratiche

Non ogni conoscenza tacita è valida e generativa di “nuovo valore”, ma se non si crea
una interazione agevole le persone non saranno spinte a condividere nuove idee e
concetti. Competizione tra le persone, comportamenti di sfiducia e scarso rispetto
reciproco come anche squilibri nelle informazioni che si danno e si ricevono, atteggiamenti
di rifiuto delle responsabilità, minacciano l’efficacia del processo di creazione della
competenza.

Il contesto sociale in cui le persone operano può sostenere il processo di creazione del
sapere da due diversi punti di vista: (1) come “fertilizzatore” delle capacità individuali e (2)
come ambito in cui le persone possono elaborare i significati delle conoscenze e, quindi,
produrre sistemi di “comprensione”. I processi di sostegno della creazione di competenza
sono perciò orientati in tre direzioni fondamentali:
a) Creare contesti facilitanti per l’emergere di nuove competenze;
b) Promuovere condizioni e ruoli per la diffusione di sapere implicito;
c) Sostenere il confronto e l’apertura rispetto alle conoscenze esterne
disponibili.
A questo proposito Nonaka e Takeuchi, relativamente alla loro teoria della creazione di
competenza organizzativa11, indicano cinque condizioni che la promozione della spirale di
competenza richiede al livello organizzativo12:
1. intenzionalità;
2. autonomia;
3. fluttuazione e caos creativo;
4. ridondanza;
5. varietà.

Intenzionalità
La spirale delle competenze è avviata dall’intenzionalità organizzativa, che può definirsi
come l’aspirazione dell’organizzazione al raggiungimento dei propri obiettivi.
Normalmente, in impresa, gli sforzi di acquisire l’intenzionalità prendono la forma di una
strategia, che consiste essenzialmente nello sviluppo della capacità organizzativa di
acquisire, creare, accumulare e sfruttare competenza. La criticità che deriva dalla
formulazione di una strategia di questo tipo è quella di concettualizzare una vision relativa
al tipo di competenza da sviluppare e nel dare ad essa una veste operazionale in un
sistema manageriale capace d’implementarla. L’intenzionalità organizzativa costituisce il
criterio più importante per valutare la veridicità di ciascun elemento della competenza.
Senza di essa non è possibile stabilire il valore di un’informazione o di una conoscenza
percepita o creata. A livello organizzativo, l’intenzionalità è spesso espressa dagli

11
Nonaka e Takeuchi si riferiscono solo alla creazione di conoscenza organizzativa. In questa trattazione,
però, i knowledge workers sono stati considerati come portatori di competenze individuali dalla cui sinergia
scaturiscono le competenze organizzative.
12
Cfr. adattamento da I. Nonaka, H. Takeuchi, op. cit., 1995.

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standard o dalle vision, che possono pertanto essere utilizzati per valutare e giustificare la
conoscenza creata. L’intenzionalità è quindi necessariamente intrisa di valori.
Per creare competenza le organizzazioni economiche non possono affidarsi
unicamente al pensiero e ai comportamenti individuali, questi vanno riorientati e promossi
favorendo impegni collettivi, è necessario alimentare il coinvolgimento dei propri
dipendenti, e ciò avviene con la formulazione e proposta di un’intenzionalità organizzativa.

Autonomia
La seconda condizione è l’autonomia. A livello individuale, tutti i membri
dell’organizzazione dovrebbero agire, per quanto consentano le circostanze, in modo
autonomo. Permettendo ciò, l’organizzazione stessa può accrescere la probabilità di
generare opportunità inattese: è infatti da individui autonomi che nascono idee originali, si
diffondono nel gruppo e divengono infine concetti organizzativi. Un’organizzazione che
permette ai suoi membri di auto-organizzarsi ha maggiori probabilità di conservare
flessibilità nell’acquisizione, coinvolgendo persone rappresentative delle diverse attività
organizzative.

Fluttuazione e caos creativo


La terza condizione organizzativa è quella di fluttuazione e di caos creativo, che
stimola l’interazione fra l’organizzazione e il contesto esterno. La fluttuazione è differente
dal caos totale ed è definibile come una situazione di “ordine privo di ricorsività”, di ordine
cioè che segue uno schema difficilmente prevedibilie. Adottando un atteggiamento di
apertura nei confronti dei segnali ambientali, le imprese possono sfruttare l’ambiguità, la
ridondanza e il rumore in esse presenti, allo scopo di migliorare il loro patrimonio di
competenze. L’ingresso della fluttuazione in un’organizzazione “rompe” la routine, le
abitudini e i quadri cognitivi di riferimento dei suoi membri. Prendendo come spunto gli
studi condotti da Winograd e Flores13, Nonaka e Takeuchi osservano che periodiche
fratture producono nella percezione umana un’interruzione dei modi di essere abituali.
Quando, infatti, ci si confronta con eventi di questo tipo, si ha la possibilità di riconsiderare
il proprio pensiero e il proprio punto di vista abituale, mettendo in dubbio la validità degli
atteggiamenti di fondo che si hanno nei confronti del mondo. Un processo siffatto richiede
all’individuo un profondo coinvolgimento personale. Una fluttuazione nel contesto innesca
una frattura all’interno dell’organizzazione, a partire dalla quale è possibile creare nuova
conoscenza. Il caos si genera naturalmente allorché l’impresa si confronta con una crisi
reale, ma può altresì essere generato intenzionalmente, ad esempio attraverso il tentativo
di un leader di evocare una “sensazione di crisi” fra i membri dell’organizzazione, con la
proposta di obiettivi di sfida. Il caos prodotto intenzionalmente, il “caos creativo”, fa
crescere la tensione e incentra l’attenzione degli individui sul compito: identificare il
problema in questione e risolvere la situazione di crisi. Tuttavia, i benefici del “caos
creativo” si manifestano solo se i membri dell’organizzazione sono in grado di riflettere
sulle azioni che compiono, altrimenti la fluttuazione tende a ingenerare caos “distruttivo”.
La questione è ben espressa da Schon: “quando si riflette mentre si agisce, si divente
ricercatori in ambito pratico. Non si dipende più dalle categorie teoriche e tecniche
stabilite, ma si costruisce una nuova teoria del caso singolo” (Schon, 1983, p. 68).

La ridondanza
La ridondanza è la quarta condizione che favorisce l’avvio della spirale della
competenza, anche se il termine può suonare non positivo perché richiama concetti di
sovraccarico e duplicazione informativa. Con questo termine Nonaka e Takeuchi si
riferiscono a quell’informazione che va al di là delle richieste operative immediate dei
13
Cfr. T. Winograd, F. Fklores, “Understanding Computers and Cognition: A New Foundation for Design
Reading”, Addison-Wesley, MA, 1996.

44
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membri dell’organizzazione, una sovrapposizione intenzionale di informazioni circa le
attività del business, le responsabilità manageriali e l’organizzazione nel suo complesso. Il
verificarsi della creazione di competenza organizzativa richiede la condivisione dei concetti
elaborati da un individuo o da un gruppo da parte di altre persone, che possono non
averne un bisogno immediato. In particolare, la condivisione di informazioni ridondanti
promuove la condivisione di conoscenza tacita, in ragione della capacità delle persone di
avvertire ciò che gli altri stanno tentando di formulare. La ridondanza è particolarmente
importante in fase di sviluppo dei concetti di prodotto, quando è decisivo di poter
esprimere le immagini radicate nella conoscenza tacita. In questa fase, infatti,
l’informazione ridondante permette ai singoli di invadere i rispettivi ambiti funzionali e di
offrire consigli e nuove informazioni a partire da punti di vista diversi. Si determina in tal
modo, una sorta di “apprendimento per intrusione” nella sfera di percezione di ciascun
individuo. Condividere informazioni aggiuntive, inoltre, aiuta le persone a capire la loro
collocazione all’interno dell’organizzazione, tale processo a sua volta serve a controllare la
direzione del pensiero e dell’azione individuale. La ridondanza di informazione offre cosi
all’organizzazione un meccanismo di autocontrollo utile per mantenere la rotta prefissata.
La ridondanza può causare effetti collaterali non desiderabili. L’aumento della quantità di
informazione da elaborare può provocare un fenomeno di sovraccarico informativo,
l’abbassamento dell’efficienza operativa può causare un aumento dei costi del processo di
creazione di conoscenza, almeno di quelli di breve periodo. E’ importante quindi
individuare un punto di equilibrio tra creazione di informazione ed elaborazione della
stessa, come è utile a lenire gli effetti negativi della ridondanza, chiarire il luogo all’interno
dell’organizzazione dove poter collocare le informazioni e immagazzinare le conoscenze.

Varietà minima richiesta


La quinta e ultima condizione è la varietà minima richiesta. Perché un’impresa possa
far fronte alle sfide poste dal contesto, deve armonizzare la propria diversità interna con la
varietà e complessità esterne. I membri dell’organizzazione possono rispondere al mutare
delle circostanze se possiedono la varietà necessaria, che può essere accresciuta
combinando le informazioni in modo diverso, più flessibile più rapido, e concedendo ad
ogni settore dell’azienda le stesse possibilità di accesso all’informazione. Per ottenere la
varietà massima, ogni membro deve godere dell’accesso più rapido possibile,
minimizzando cioè i passaggi, alla più ampia gamma informazione possibile. Nello studio
delle imprese giapponesi più innovative, Nonaka e Takeuchi hanno maturato l’avviso che
lo sviluppo di una struttura organizzativa piatta e flessibile, caratterizzata dalla
interconnessione tra le diverse unità attraverso una rete informativa è un modo per
rispondere alla complessità del contesto. Il rinnovo frequente della struttura organizzativa
o la rotazione a ciclo rapido del personale rappresentano anch’esse soluzioni in grado di
aiutare a rispondere ai problemi più sfaccettati e alle fluttuazioni inattese del contesto.

2. Le determinanti del comportamento individuale


Come osservato, la teoria di Nonaka e Takeuchi legittima il problema della
progettazione microrganizzativa perché - al fine di valorizzare le competenze core –
occorre indirizzare i comportamenti degli individui che ne sono espressione.

In effetti, ogni essere umano agisce, interpreta e modifica la realtà attraverso il proprio
comportamento. Ed è proprio il comportamento – insieme alle attività operative svolte - la
variabile fondamentale da cui partire per riprogettare la microstruttura di
un’organizzazione, dove con il termine microstruttura si intendono “quelle strutture di base
componenti un soggetto organizzativo (un’impresa, un ente pubblico, un’associazione

45
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volontaria, un’istituzione educativa, ecc.) di cui concorrono a realizzare i processi operativi:
ossia, le microstrutture sono le organizzazioni operative che hanno il compito di «fare le
cose»” (Costa, 1997, p. 663). In esse si fanno ricomprendere sia le unità organizzative di
base - costituite da più persone o da gruppi di persone - che le “unità di operazione” svolte
da singoli individui.14

Quindi, al fine di progettare la microstruttura di un’organizzazione, si rende necessario


indirizzare il comportamento individuale, a sua volta funzione di due microvariabili:
A) la persona in quanto tale;
B) il contesto in cui si muove.

Comportamento = f (persona x contesto)

A) La persona

La prima categoria comprende:


1. la personalità dell’individuo (valori, immagine di sé, etc.);
2. le competenze;
3. la motivazione.

1. La personalità

Per quanto attiene al concetto di personalità, come è noto, nel linguaggio comune
viene utilizzato secondo diverse accezioni. Nel contesto di riferimento, però, “il termine
personalità indica l’insieme relativamente stabile delle caratteristiche psicologiche di una
persona, ossia un modello duraturo di caratteristiche che definiscono l’unicità di una
persona e che influenzano il modo con cui essa interagisce con gli altri e con l’ambiente”
(Tosi, 2002, p. 4).
In tale logica, il concetto di personalità è utile per interpretare e gestire molte situazioni
organizzative: in particolare, la personalità è un fattore fondamentale nelle dinamiche
motivazionali individuali e di gruppo, nonché nella gestione dei conflitti interpersonali. Su
questo tema, d’altro canto, si ritornerà in seguito.
In generale, però, esiste un modello dinamico della personalità, che affronta il
problema dell’adattamento della personalità individuale al contesto lavorativo. Tale
modello parte dal presupposto secondo il quale, gli obiettivi personali si muovono e si
mescolano agli obiettivi organizzativi, generando complessità perché non è detto esista lo
stesso tipo e livello di commitment15 per tutti i partecipanti al gruppo. Nella fattispecie,
all’interno di un’organizzazione si possono ravvisare tre tipologie di personalità:
1. l’organizzativista. Si tratta di quei soggetti che si identificano totalmente sia con il posto
di lavoro sia con l’organizzazione per la quale lavorano: i loro obiettivi personali
coincidono con quelli dell’impresa;
2. il professionista. Il professionista è un soggetto che vive per il “suo” lavoro
indipendentemente dall’organizzazione per cui svolge la mansione. Egli si identifica
con il contenuto del task e con il miglioramento delle proprie competenze. In ogni caso,

14
Cfr. Giovanni Costa, Nacamulli Raoul (a cura di), “Manuale di Organizzazione Aziendale”, Volume 2, “La
Progettazione Organizzativa”, Torino, Utet Libreria, 1997, pp. 662-663.
15
«Il commitment organizzativo è il grado con cui una persona si identifica con un’organizzazione e si sente
in sintonia con essa, in relazione a tutti i fattori che influenzano la sua attività lavorativa, intesi sia come il
lavoro in sé nell’organizzazione, sia come tutti i fattori esterni all’organizzazione che sono in “competizione”
con il livello di commitment sul lavoro» cit. in Heny L. Tosi e altri, “Comportamento Organizzativo: Persone,
Gruppi e Organizzazioni”, Egea, Milano, 2002, p. 320.

46
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pur non immedesimandosi totalmente con le finalità dell’organizzazione, le rispetta e
contribuisce a perseguirle;
3. l’indifferente. Coerentemente con la teoria motivazionale di Herzberg16, il soggetto
indifferente è orientato al soddisfacimento dei cosiddetti “fattori igienici” e, quindi,
all’ottenimento di una retribuzione mensile per il proprio sostentamento, nonostante
non si identifichi in alcun modo con il fine organizzativo verso cui la sua azione è
finalizzata. In tale circostanza, non generano motivazione né il lavoro in quanto tale, né
l’organizzazione per cui si presta la propria opera.

Dalla descrizione emerge come, passando dalla personalità organizzativista alla


personalità indifferente, aumentino i costi di gestione perché si riduce il riconoscimento
della gerarchia organizzativa e, quindi, l’acquiescenza all’autorità. La maggiore
complessità legata all’indirizzare comportamenti diversi verso un unico obiettivo – ovvero il
benessere dell’organizzazione - può essere fronteggiata in parte ricorrendo all’azione della
cultura organizzativa, quale collante per creare coesione sociale, e in parte analizzando la
dinamica del processo di subordinazione della volontà individuale alla volontà collettiva.
Anche tali aspetti verranno approfonditi in itinere.

2. Le competenze

Come accennato in precedenza, ogni persona è definibile anche in termini di profilo di


competenze. Con il termine “competenze” si indica ciò che rende una persona capace di
svolgere efficacemente determinate attività, ovvero di manifestare specifici comportamenti
efficaci.

In dettaglio, le competenze sono costituite da tre elementi:


1. le conoscenze (il sapere);
2. le esperienze (il saper fare);
3. le capacità (il saper essere).
In particolare, le capacità "non sono comportamenti, ma si esprimono attraverso i
comportamenti” (Levati, 1997, p. 59).

Queste tre componenti sono legate sistemicamente e nella loro simbiosi risiede la
possibilità per ogni individuo di rispondere efficacemente alle attese di ruolo definite
dall’organizzazione. Tale aspetto ha una rilevanza fondamentale perché la copertura
efficace di ogni posizione organizzativa è legata ad uno specifico profilo di competenze.

Nel contesto in questione, però, il focus d’indagine si concentra sul concetto di


capacità, quale micro-variabile della dimensione “competenze”.
Le capacità sono le caratteristiche profonde, il nocciolo duro della personalità di un
individuo: “sono la dotazione iniziale che permette di eseguire con successo una
determinata prestazione, quindi la possibilità di riuscita nell’esecuzione di un compito o, in
termini più vasti, di una prestazione lavorativa” (Levati, 1997, p. 28). Qualificano il modo di
essere, di pensare, di relazionarsi con gli altri – rendendo la persona più o meno
predisposta a determinati tipi di attività.

Le capacità sono raggruppate in tre diverse aree:


A) area intellettuale/cognitiva, in cui sono compresi i tratti della personalità che
identificano il modo di “intelligere” la realtà;

16
Cfr. Frederick Herzberg, Bernard Mausner, Barbara Bloch Snyderman, “The Motivation to Work”, John
Wiley, New York, 1959.

47
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B) area realizzativa, in cui afferiscono le modalità con le quali una persona agisce e
modifica la realtà;
C) area relazionale, che raccoglie le capacità che presiedono ad un’efficace gestione
dei rapporti sociali.
Per un maggiore grado di dettaglio, si veda l’allegato al termine della trattazione.

Le capacità sono la dimensione principale della variabile competenze, perché mentre


le conoscenze e le esperienze possono essere acquisite, esse sono difficilmente
modificabili: o si possiedono o non si possiedono.
La loro peculiarità risiede nel fatto che - essendo palesi solo attraverso il
comportamento agito - da un punto di vista della trasferibilità e, quindi, della loro diffusione
e valorizzazione, rientrano nella conoscenza tacita, ovvero in quel sapere difficilmente
formalizzabile e trasmissibile se non attraverso l’on the job training, la socializzazione - il
contatto diretto con chi possiede quelle specifiche capacità - e, quindi, il buon esempio.

3. La motivazione

La motivazione, infine, è l’insieme dei motivi ad agire - guidati da processi cognitivi ed


emotivi - in relazione a diversi obiettivi ed interessi. E’ data dalle energie che sono profuse
per il perseguimento del “progetto di vita” personale, ricordando che lo sforzo può essere
intensificato solo per un breve periodo di tempo, mentre la direzione può essere gestita nel
lungo periodo.

Motivazione = sforzo x “direzione” (progetto di vita)

Pertanto, la motivazione non è altro che la “rielaborazione che ogni persona fa


dell’immagine di sé e del proprio progetto di vita, come insieme di criteri che orientano le
scelte di fronte alle occasioni che si presentano” (Levati, 1997, p. 41).
Si può affermare, in concreto, che la motivazione “è l’elemento che permette la messa
in moto, che trasforma un insieme di capacità, esperienze, conoscenze in competenze
applicate e finalizzate” (Levati, 1997, p. 40): la prestazione.

La prestazione lavorativa, quindi, è funzione di due fattori:


1. la motivazione;
2. le competenze.

Prestazione = f (motivazione x competenze)

Alla luce di queste nuove affermazioni, ne consegue che “le capacità sono espressione
di attitudini che hanno trovato condizioni esterne (conteste) ed interne (motivazione)
favorevoli al loro manifestarsi in comportamenti o più nello specifico nella prestazione
lavorativa” (adattamento da Levati, 1997, p. 28).

In termini operativi, in particolare, lavorare sulla motivazione per orientare la


prestazione significa rispettare i seguenti quattro principi:
1. Bridging or interactive communication of context: ogni lavoratore è unico. Ne
consegue che sarà necessario differenziare le modalità per motivare il personale in
funzione delle esigenze. Occorre comunicare al personale il loro contributo
soprattutto in caso di variazioni del contesto ambientale interno e/o esterno. “The
leadership challenge is to communicate and re-communicate the context in which

48
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the work is embedded. Knowledge workers can decide how best to get the job done
in the face of new realities and the unfolding big picture”.
2. Blending different knowledge workers into complementary teams: nessun
lavoratore possiede le competenze necessarie per la totale comprensione di un
incarico urgente e complesso. Quindi, il lavoro è svolto prevalentemente in team di
progetto dove le competenze dei lavoratori sono selezionate ma fuse insieme per il
perseguimento dell’obiettivo.
3. Balancing directed guidance and empowered delegation: il personale vuole
essere guidato e non gestito. Necessita, pertanto, di parametri strategici (di
contesto e di progetto) e comportamentali per poi poter operare autonomamente.
4. Binding knowledge workers to the organizational community: si devono
guidare i lavoratori - attraverso brainstorming e feedback - verso lo sviluppo
continuo delle loro competenze in funzione delle esigenze di contesto.
(adattamento da Baharami, 2005).

“The aligning orientation-based entities and the supervisory tilt of traditional enterprises
differ in three board areas: exercising control by providing “context”, clear parameterrs
and critical round-rules: treating knowledge workers in a peer-to-peer framework; and
recognizing of emotional, not only financial and intellectual, drivers in motivang
knowledge workers” (Baharami, 2005).

Infine, un ulteriore elemento che può giocare un ruolo fondamentale nel determinare la
prestazione è dato dal contesto lavorativo o più in generale, dalle condizioni in cui si
svolge la vita lavorativa.

B) Il contesto

“Il contesto consiste in un insieme di elementi che conferiscono ad una situazione uno
specifico significato e che, come tale indirizza la scelta dei comportamenti attuabili. In
questo senso il contesto agisce con una funzione che potremmo definire in generale
maieutica, permettendo all’attitudine di esprimersi in capacità, sotto la specifica forma di
opportunità di esercizio, e alla capacità di confluire, insieme agli altri elementi, in
competenza, sotto la specifica forma di opportunità oggettiva” (Levati, 1997, p. 41).

Quindi, sintetizzando:

Comportamento = f [(competenze x motivazione) x contesto]

All’interno del contesto rientrano:


1. la posizione organizzativa ricoperta;
2. il ruolo;
3. gli strumenti e le risorse a disposizione per svolgere la propria attività;
4. il capo (lo stile di leadership);
5. il sistema di incentivazione e di gestione delle persone;
6. le regole, le norme, le procedure;
7. la cultura organizzativa;
8. il clima organizzativo;
9. etc.

A questo punto è opportuno riprendere l’equazione che esprime il comportamento


individuale e scomporla nelle varie micro-componenti di cui si è parlato nelle pagine
precedenti:

49
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Comportamento = f [(competenze x motivazione) x contesto]


Comportamento = f [(conoscenze; esperienze; capacità x motivazione) x contesto]

È’ facile constatare che ’organizzazione è efficace quando c’è allineamento fra le


prestazioni individuali e le aspettative dell’organizzazione, ovvero il profilo di competenze
atteso per il ruolo specificatamente considerato.

2.1. La gestione delle competenze

Alla luce di quanto emerso, il nodo centrale del KM è la valorizzazione del sapere
esistente al fine di produrre - attraverso forme organizzative, sociali e cognitive appropriate
- nuove competenze e processi produttivi supportati da sistemi technology oriented
congruenti.
L’organizzazione, quindi, diventa un deposito di competenze, che – in questa
prospettiva – è allo stesso tempo:
a. conoscenza ovvero prodotto da archiviare, accessibile, facilmente recuperabile e
fruibile dal personale aziendale a qualsiasi livello. Si pensi ai dati e alle informazioni
presenti in un’organizzazione;
b. “knowing”, processo interattivo/biunivoco di creazione e condivisione di competenze
che nasce dall’interazione sociale.
Secondo tale impostazione, il patrimonio di un’organizzazione non coincide solo con la
mera somma delle conoscenze prodotte (documenti, relazioni, dati), ma è identificabile
con l’insieme delle competenze che generano tali conoscenze, traducendole in
prodotti/servizi e risultati.
Ne consegue che la costruzione di un sistema di KM deve partire dalle esigenze dei
“clienti” interni, lette alla luce degli obiettivi dell’organizzazione. Ciò significa mappare la
competenza esistente. A tale fine, si rende necessario comprendere in maniera dettagliata
il ciclo di gestione delle competenze affinché possa essere adattato alle diverse esigenze
organizzative.
In generale, un normale si articola in due momenti principali (Fig. 14):
Fig. 14. - Un ciclo«normale» di gestione delle competenze
- Filtrare
- Codificare (edit)
Scegliere un’unità di analisi e - Collegare
creare strumenti di raccolta - Dare un senso
- Ritenere

Organizzare

Mappare Distribuire

Acquisire - Facilitare l’accesso


- Canalizzare
- Indirizzare

Perfezionare Utilizzare

Rendere possibile il
perfezionamento della Rendere possibile la
competenze esistenti ricontestualizzazione delle
competenze esistenti

50
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1) La mappatura delle competenze, ovvero la ricerca del “tesoro nascosto”!

“E’ nascosto in posti speciali (…): a volte su un’isola, a volte in casse fradicie alla base del
tronco di un vecchio albero morto, proprio là dove l’ombra cade a mezzanotte; ma per lo più sotto
il pavimento di case stregate… Il tesoro resta sepolto per molto tempo e arrugginisce tutto. Poi, un
giorno, qualcuno trova un vecchio foglio di carta ingiallita che spiega come trovarlo… Ci vuole
quasi una settimana per decifrare quella carta perché è tutta piena si segni e di geroglifici”. (Mark
Twain)

Si intercettano le competenze individuali per poi progettare il processo di creazione di


conoscenza - o meglio - competenza organizzativa.

2) L’organizzazione delle competenze mappate: la definizione delle Comunità di


pratiche, “ovvero aggregazioni di più profili professionali che condividono luoghi di utilizzo
e produzione di competenze” (cit. da Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report
finale”, 2001). Come già visto, queste possono essere costruite formalmente o
informalmente secondo diverse logiche: area professionale, funzionale, geografica, etc..
Lo step successivo è quello di definire - per ciascuna Comunità di pratiche - il modello
delle competenze necessario alla stessa per l’esercizio del proprio ruolo professionale.
L’insieme dei modelli di competenze afferenti alle diverse Comunità sarà -
successivamente - il presupposto per stabilire i contenuti offerti dal Knowledge System.
Nello specifico, l’operazione di base dell’organizzazione delle competenze mappate è
la codificazione della conoscenza identificata, intesa come la possibilità o meno che
l’informazione che trasmette conoscenza possa essere compressa in un messaggio, in un
codice per favorirne la diffusione a quanti più individui possibili: “spostare le conoscenze
da un livello individuale ad un livello d’impresa” (Turati, 2002, p. 11) per creare valore.

Tale processo può avvenire in almeno tre modalità distinte:

1. attraverso il riutilizzo di conoscenza esistente, rendendo così possibili guadagni di


efficienza (una volta noto come si analizzano certi problemi, si prendono certe decisioni,
si svolgono certe attività ecc. non occorre replicare il processo di ricerca) e di efficacia
(una conoscenza valicata consente di analizzare meglio i problemi, di prendere meglio le
decisioni e di svolgere attività in modo più coerente con gli obiettivi);
2. attraverso il raffinamento della conoscenza esistente, rendendo così possibili innovazioni
incrementali nei prodotti, nei servizi, nei processi di analisi e decisione e nel modo fare;
3. attraverso la ricombinazizone della conoscenza esistente, rendendo così possibili
innovazioni incrementali.

Fonte: Turati, 2002, p. 6.

Dopo le due fasi precedenti, il KS deve verificare il grado di diffusione della


competenza intercettata (Tabella 3) e favorirne un ulteriore trasferimento
Nello specifico, riepilogando, in funzione delle competenze idiosincratiche identificate,
si determinano delle scale che misurano i diversi gradi di possesso delle conoscenze e
delle capacità richieste – senza dimenticare il livello di motivazione: si va dal livello base di
ingresso nell’organizzazione (junior) fino ai livelli più qualificati (senior). In questo modo è
possibile strutturare l’offerta formativa sui singoli in relazione “all’Area Professionale di
riferimento, al ruolo esercitato e al livello di specializzazione collegato” (cit. da Cantieri,
“Knowledge Management nella PA. Report finale”, 2001).
Successivamente il KS deve favorire:
1. la ricontestualizzazione della competenza esistente e il relativo perfezionamento;
2. l’acquisizione della competenza perfezionata per poi procedere di nuovo alla
mappatura dell’as is e progettare il to be al fine di ottenere un durevole vantaggio
competitivo.
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Tabella 3. – Esempio di applicazione del modello delle competenze

Competenze
Intensità richiesta
richieste
Junior Senior
0 1 2 3 4 5
Ad esempio in
materia di
diritto, utilizzo
Di base di strumenti Nulla Scarsa Sufficiente Media Alta Massima
informatici,
lingue
straniere.
Specifiche per
comunità
Conoscenze professionale,
tecnico- Disciplinari legate al Nulla Scarsa Sufficiente Media Alta Massima
professionali settore e al tipo
di attività
svolta.
Conoscenze
legate
all’esercizio del
Di ruolo ruolo (ad Nulla Scarsa Sufficiente Media Alta Massima
esempio
project
management).

Capacità di comprensione del


contesto e visione
strategica; capacità di
generare innovazione,
legata alla propensione
Capacità
all'aggiornamento continuo, Nulla Scarsa Sufficiente Media Alta Massima
Intellettuali
alla capacità di
intraprendere azioni e progetti
innovativi coerenti con il
disegno
strategico.

Per i ruoli manageriali:


capacità legate alla gestione
Capacità delle risorse umane e
Nulla Scarsa Sufficiente Media Alta Massima
Manageriali assegnate, all’utilizzo
efficiente degli strumenti, al
raggiungimento degli obiettivi.

Capacità legate all’esercizio


delle attività nel contesto
dell’organizzazione, come:
Capacità
team-building, negoziare Nulla Scarsa Sufficiente Media Alta Massima
Relazionali
contributi da altri, attivare reti
di relazioni interne e esterne
all’organizzazione.
Motivazione Nulla Scarsa Sufficiente Media Alta Massima
Fonte: adattamento da Cantieri, “Knowledge Management nella PA. Report finale”, 2001.

52
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Per perseguire tali finalità, deve offrire:
- l’affiancamento di servizi di tipo tradizionale (formazione in aula, seminari e convegni,
tutorship operativa, studio personale) con servizi di tipo innovativo (e-learning, data
mining, etc);
- servizi che vengono forniti attraverso: (a) i canali della comunicazione faccia-faccia
(servizi di affiancamento, coaching, docenza in aula, riunioni, ecc.), (b) i canali della
comunicazione via web (corsi on line, database, e-library, e-conference, ecc.), (c)
un’ampia gamma di supporti dal cartaceo (libri, documenti, giornali, procedure, ecc.)
all’informatico (e-book, banche dati, corsi on line, forum, ecc.).
In definitiva, knowledge economy non significa solo codificare le competenza core
dell’organizzazione per replicare nel tempo successi, ma implica rendere il processo di
gestione del capitale intellettuale più fluido sia nella fase di creazione che di fruizione e
scambio dello stesso.

L’obiettivo è migliorare la qualità della vita delle persone che ne fruiscono, ovvero:
• permettere alle persone di trovare rapidamente ciò che cercano, anticipando il loro
fabbisogno di verifica della coerenza tra la natura dei problemi da risolvere e le
soluzioni disponibili;
• garantire un’elevata qualità della conoscenza captata;
• favorire un’adeguata ricontestualizzazione della conoscenza intercettata.
Ciò implica che un adeguato sistema di Knowledge Management deve possedere
alcune caratteristiche specifiche:
- semplificare i processi di inserimento, codificazione, catalogazione e aggiornamento
della conoscenza;
- garantire la qualità della conoscenza resa disponibile (selezionare la qualità delle
idee e delle soluzioni che vengono catalogate e diffuse);
- facilitare il processo di incontro tra domanda ed offerta di conoscenza;
- eliminare le inefficienze del processo di fruizione della conoscenza, ad esempio
eliminando le inefficienze nel processo di ricerca, di validazione e di
ricontestualizzazione della conoscenza esistente.17

D’altronde, la creazione di valore dalla conoscenza esistente è un procedimento


complicato perché è funzione della sua trasferibilità: un processo di gestione della
conoscenza sarà tanto più efficace quanto più sarà in grado di rendere la conoscenza
esistente comprensibile ad un platea più vasta, favorendone – pertanto – il riutilizzo.

17
Cfr. Carlo Turati, Dino Ruta Cataldo, prefazione di Anna Grandori, op. cit., 2002, pp. 12-13.

53
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2.2. La progettazione del contesto organizzativo

Proprio in relazione al ruolo esercitato dal contesto e alla posizione che in esso
occupano gli individui coinvolti nel processo di creazione di competenze, Doz e Santos
hanno evidenziato l’importanza di due condizioni: la condivisione del posizionamento
(collocation) e la condivisione del contesto (co.setting)18. Secondo i due autori la presenza
di queste due condizioni garantisce che la gestione della competenza non sia legata
esclusivamente al casuale verificarsi di eventi scatenanti. La condivisione della stessa
location, ossia la contemporanea presenza in uno spazio in un determinato momento,
garantisce agli individui co-located di condividere medesimi linguaggi, storia, cultura,
istituzioni, tecnologie e cosi via. La seconda condizione implica la condivisione degli
elementi riferiti al contesto nel quale si realizza l’interazione tra le persone (Fig. 15).

In condizioni di posizione coincidente e di estrema condivisione del contesto, gli


individui si conoscono reciprocamente, s’incontrano in maniera sia programmata che
casuale ed instaurano comunicazioni faccia a faccia, realizzano proficue interazioni,
osservano e comprendono i discorsi e i comportamenti gli uni degli altri, si coordinano
efficacemente attraverso il mutuo adattamento e le loro azioni s’innescano senza
incertezze e in modi congruenti, inoltre, aggiungono gli autori, la “base collettiva di
conoscenza” e il complesso dei processi e delle routine organizzative migliora grazie alla
condivisione delle esperienze, un’intesa e ripetuta socializzazione, infatti, consente la
condivisione della conoscenza, sia essa codificata o meno. Anche se una situazione di
collocation comporta un’elevata probabilità d’incontro e una ricorrente “azione di risposta”
e implica la condivisione del contesto fisico, essa non è in grado, da sola, di assicurare
un’esatta comprensione né l’assenza di equivoci in presenza di “input ambigui”19. Cosi
aggiungendo alla condivisione del luogo quella del contesto, la condizione di co-setting
consente l’utilizzo di un linguaggio (verbale e non) comune e quindi un’elevata probabilità
di reciproca comprensione.

Fig. 15. – La casualità della gestione della conoscenza

Casualità crescente

D&D
Dispersione
Differente Differenziazione

Contesto Simile

C&C
Collocation & Virtual
Co-setting collocation
Uguale

Uguale Vicina Distante

18
Cfr. Y. L. Doz, Santos J., “On the Management of Knowledge: from Thetrasparency of Collocation and co-
setting to the Quandary of Dispersion and Differentiation”, Working Paper, Insead, 1997.
19
Cfr. K. E. Weick, P. Van Order, “Organizing on a Global Scale: A Research and Teaching Agenza”,
Human Resources Management, n° 29, 1990, pp. 49-61.

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Più forte è la condivisione della posizione e del contesto, più implicita e meno visibile
sarà la gestione della competenza. Il grado di collocation cambia in relazione alle variabili
tempo e distanza. Lo stato di “condivisione virtuale della posizione” si manifesta in
condizione di dispersione geografica e/o sfasamento temporale ma in presenza,
comunque, di un contesto condiviso (distant but yet near).

Se è vero che condizioni oggettive possono agevolare i meccanismi di creazione di


competenza, anche gli atteggiamenti individuali, contribuiscono ad amplificare o a
soffocare determinati contesti “facilitanti”.

Von Grogh ha introdotto il concetto di care nel processo di creazione di competenza20 .


L’autore parte dalla considerazione che un’efficace creazione di competenza si incontra
con la difficoltà di capire a fondo le difficoltà di capire a fondo le modalità attraverso cui i
membri di un’impresa si relazionano gli uni agli altri. Da qui la necessità di stabilire innanzi
tutto buone relazioni, costruttive e feconde, tra le persone, in modo da velocizzare i
processi di comunicazione e agevolare la condivisione della conoscenza detenuta da
ognuno. Una volta stabilite siffatte relazioni, l’impresa deve concedere ai suoi membri la
fiducia e la libertà di soddisfare i propri bisogni e le proprie aspirazioni e la concreta
possibilità di esplorare nuovi territori, che possono consistere in nuovi mercati, nuovi
clienti, nuovi prodotti, nuove tecnologie.

Secondo Von Grogh, care è:


 Qualcosa che la maggior parte degli esseri umani può riferire in virtù della propria
storia personale; una profonda attenzione e/o un sentimento di preoccupazione e
d’interesse; to care, in questo senso, significa aiutare qualcuno ad apprendere, ad
aumentare la propria consapevolezza degli eventi importanti e delle loro
conseguenze, a curare una propria personale creazione di conoscenza mettendo in
condivisione le proprie intuizioni.
 Un particolare comportamento da tenere nelle relazioni interpersonali che può
essere sintetizzato in cinque dimensioni rilevanti: fiducia reciproca, empatia attiva,
concreta possibilità di ottenere un aiuto, indulgenza nel giudizio e coraggio.

Le relazioni organizzative spaziano da condizioni di high-care a quelle di low-care; in


virtù dell’intensità e della misura del care, i processi di creazione di competenza in azienda
differiranno considerevolmente (Fig. 16).

Fig.16. – L’orientamento adottato nella costruzione del sapere

Processo di creazione della competenza


Individuale Sociale
Basso Orientamento Orientamento allo
all’accaparramento scambio
Contesto facilitante
Alto Orientamento alla Orientamento a
condivisione crescere insieme

In termini di conoscenza, in particolare, di fronte a bassi livelli di care tra membri


dell’organizzazione, ogni individuo tenterà di catturare, “accaparrarne”, tendendo a
massimizzare le proprie competenze con un atteggiamento egoistico piuttosto che cercare
di condividerle volontariamente con gli altri individui. Tale modalità di azione si presenta
naturalmente quando la singola persona viene lasciata agire esclusivamente in base ai
20
Cfr. G. Von Krogh, “Care in Knowledge Creation”, California Management Review, n° 40, Spring, 1998,
pp. 133-159.

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propri dispositivi, viene destinata una limitata attenzione ai suoi bisogni ed è scarso l’aiuto
che può aspettarsi dai suoi colleghi. Tuttavia, questa situazione può indurre a dare meno
rilevanza agli ostacoli ed a sviluppare ed applicare le proprie metodologie in modo da
raggiungere un obiettivo con pieno successo, un percorso per prova ed errore consente di
apprendere quali metodi funzionano e quali no, di arrivare ad una buona comprensione
personale del compito da seguire e di guadagnare una notevole quantità di conoscenza
tacita adattata ai metodi utilizzati (si pensi, per esempio, ad uno studente che lavora
isolato sviluppando un proprio metodo di apprendimento ). Resta il fatto che i tentativi
individuali di presentare nuove idee, concetti o prototipi si scontreranno con il severo
giudizio e l’atteggiamento brusco e austero degli altri partecipanti al processo.

Quando il processo riveste una dimensione sociale, ogni membro di un team tratta
conoscenza con gli altri partecipanti. L’operazione è semplice quando ha per oggetto
conoscenza esplicita. Se essa invece è tacita, occorre innanzitutto che venga resa
esplicita prima che i partecipanti possano esprimere il valore (i ritorni attesi) e decidere
cosa “scambiare”. In presenza di un ridotto livello di care, i membri dell’organizzazione per
dimostrare la propria competenza tecnica quale misura del loro valore per l’azienda,
esprimono la conoscenza esplicita nella maniera più legittima: concetti chiaramente
definiti, argomenti “a prova di pallottola”, dati e informazioni validi e riutilizzabili, e cosi via.
In tal modo non viene rilevato neanche il più piccolo ostacolo incontrato durante il
processo di apprendimento. La condivisione di conoscenza tacita, che come si è visto,
richiede l’uso di linguaggi non convenzionali, analogie e metafore, è notevolmente
ostacolata dalla presenza di scarsa fiducia ed indulgenza e di una irrisoria forza di
coraggio tesa alla sperimentazione.
In un contesto in cui il care è presente in misura elevata, ogni individuo concede,
conoscenza nella stessa misura in cui da altri riceve a sua volta aiuto. L’ambiente, in
questo caso, svolge un ruolo di rapporto e l’obiettivo del processo di apprendimento
diviene ottenere il massimo “effetto leva” dalla conoscenza altrui. Sussiste un impegno
reciproco nell’aiutare gli altri ad ottimizzare il risultato della propria performance e, quindi,
a condividere conoscenza. Ogni persona può sperimentare molto più liberamente lo
sviluppo di soluzioni in merito al proprio incarico.

In presenza di un contesto estremamente facilitante, e quando la creazione di


conoscenza matura a livello sociale, Von Grogh utilizza il termine indwelling, che significa
risiedere, abitare, essere continuamente presente. Nel senso da lui attribuito, indwelling è
“l’impegno a perseguire un’idea, un’esperienza, un concetto”. Per cui, in siffatte condizioni,
gli individui saranno in grado di dar vita a una nuova conoscenza tacita e a condividerla,
cosi da costituire la base per la creazione di nuovi concetti di prodotto o di servizio. I
singoli membri dell’organizzazione tenderanno a riconoscersi e sentirsi partecipi di un
risultato che trascende il prodotto individuale.

Nonaka e Konno hanno individuato il concetto di Ba per esprimere il luogo ideale in cui
le condizioni organizzative “facilitanti” possono trovare il loro dispiegamento21. Il Ba per
essere definito come uno “spazio condiviso” che stimola l’emergere di relazioni sociali tra
gli individui e getta le fondamenta alla creazione di conoscenza. Questo spazio può essere
fisico (un ufficio), virtuale (e-mail, teleconferenze), mentale (esperienze condivise, idee,
ideali), o una possibile combinazione di questi. Ciò che differenzia questo luogo
dall’ordinaria interazione tra individui è proprio il concetto di creazione di conoscenza: il Ba
fornisce una piattaforma per far progredire la conoscenza individuale e/o collettiva che
integra tutte le informazioni a ciò necessarie in una prospettiva trascendentale. I due
21
Cfr. I. Nonaka, S. Konno, “The Concept of Ba in Knowledge Creation”; California Management Review,
vol. 40, 3, 1998, pp. 40-54.

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motori lo definiscono come “il mondo dove l’individuo realizza se stesso quale parte di un
ambiente dal quale dipende la sua vita”.
Il Ba esiste a molti livelli (individuale, di gruppo, organizzativo) e questi livelli possono
essere connessi formando, cosi, un grande Ba che Nonaka e Konno chiamano basho.
Cosi come il Ba degli individui è il team, quello dei team è l’organizzazione, mentre il
Ba dell’organizzazione è l’ambiente di mercato. Il Ba è di fondamentale importanza per la
creazione di competenza organizzativa, ma questo processo creativo è amplificato quando
tutti i diversi Ba convergono in basho. Agire in un Ba significa capire ed andare oltre i
propri confini attuando un’esplorazione necessaria per la realizzazione di quella “magica
sintesi” di razionalità e intuito che genera la creatività. La conoscenza è intangibile,
illimitata e dinamica. Ci sono quattro tipo di Ba che corrispondono ai quattro stadi del
modello di creazione della conoscenza – che nel nostro caso diventa modello di creazione
della competenza – elaborato da Nonaka e Takeuchi, ciascuno dei quali offre la
piattaforma per realizzare modalità di conversione di competenze individuali in
competenze organizzative. La combinazione dei processi è rappresentata in Fig. 17.: ogni
Ba supporta un particolare tipo di processo di conversione ed accelera, spingendolo verso
l’alto, il processo di valorizzazione e creazione di competenze.

Fig. 17. – I quattro tipi di Ba

Faccia a Socializzazione Ba Esteriorizzazione Ba Pari a pari


faccia
Originating Interacting
Ba Ba

Exsercising Ba Cyber Ba
Situato Gruppo a
Exsercising Cyber gruppo
Ba Ba

L’originating Ba è il luogo dove gli individui condividono sensazioni, sentimenti,


emozioni, esperienze e modelli mentali. Da questo contesto emergono amore, cura,
fiducia, impegno. Da qui comincia il processo di creazione di competenza e la modalità di
conversione di quella esistente è - per dirla alla Galbraith - la socializzazione. In
particolare, esperienze pratiche e confronti faccia a faccia sono la chiave per il
trasferimento di capacità e conoscenza tacita.
L’interacting Ba è costruito consapevolmente selezionando soggetti con il giusto mix di
conoscenze, esperienze e capacità specifiche per la creazione di team di progetto,
taskforce o team funzionali. Due processi operano congiuntamente: gli individui
condividono i modelli mentali con gli altri e - al tempo stesso - riflettono sui propri. E’ il
luogo dove, attraverso il dialogo e l’uso di metafore, la conoscenza tacita diventa esplicita
e, pertanto, è legato alla modalità di esternalizzazione.
Il cyber Ba è un luogo di interazione in un mondo virtuale invece che in uno spazio e
tempo reali. Qui si realizza il processo di combinazione tra le informazioni e la conoscenza
esistenti; i nuovi concetti vengono sistematizzati nel sistema di conoscenze
dell’organizzazione. La combinazione è supportata in maniera pi+ù efficiente negli
57
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ambienti collaborativi che utilizzando le tecnologie dell’informazione, come reti on line,
group-ware, documentazioni automatiche e database.
L’exercising Ba supporta la fase di interiorizzazione, facilitando la conversione della
conoscenza esplicita in tacita soprattutto attraverso la formazione. L’addestramento è
focalizzato e consiste in primo luogo in esercizi continui e simulazioni che mettono alla
prova i modelli certi, spingendo l’apprendimento al di là di questi. Piuttosto che attraverso
l’insegnamento tradizionale, l’apprendimento deriva da un processo continuo di auto-
perfezionamento attraverso l’on the job training e la partecipazione attiva.
L’interiorizzazione è cioè incrementata dall’applicazione di conoscenza esplicita a casi
concreti o simulati.

Per la riuscita del processo di creazione di nuova competenza, infine, oltre ai fattori già
considerati, va sottolineato lo sviluppo dei “ruoli di riferimento” nel trasferimento dei modelli
di comportamento, ovvero delle capacità e della conoscenza esplicita. Von Krogh, Nonaka
e Ichijo sostengono che la capacità di agevolare la costruzione di nuovo sapere è frutto di
energia, impegno e costanza nel tempo. Essi hanno evidenziato l’importanza dei c.d.
“attivisti delle competenze”, ossia di una “persona, un gruppo o un dipartimento a cui
venga affidata la responsabilità specifica di energizzare e coordinare gli sforzi tesi alla
creazione di conoscenza nell’impresa”22. Tre sono gli obiettivi fondamentali che con
questa innovazione si vogliono raggiungere: (1) dare avvio e concentrare l’attenzione sulla
diffusione della competenza esistente e sulla creazione di nuova, (2) ridurre i tempi e i
costi necessari per il processo di creazione, (3) potenziare e diffondere le iniziative di
creazione di nuova competenza.
Gli attivisti svolgono tre funzioni critiche:
1) fungono da catalizzatori. In primis, lavorando liberamente all’interno
dell’organizzzione e raccogliendo la voce dei suoi membri attraverso i differenti livelli e
confini organizzativi, loro sono esposti ad un’elevata varietà di nuovi dati, idee, intuizioni,
opportunità, interrogativi e problemi. Dopo aver raccolto questi segnali, gradualmente
elaborano dei processi scatenanti, ossia definiscono il cosa, il come, il dove, il quando e il
perché degli input raccolti e, successivamente, li indirizzano alla funzione, reparto o
posizione che è deputata a raccogliere e sviluppare le nuove informazioni;
2) fungono da connettori. E’ plausibile che in un contesto d’impresa organizzato in
modo da facilitare le occasioni per l’avvio di una nuova spirale di competenza, si manifesti
il problema della frammentazione con cui iniziative diverse possano cercare di affermarsi.
Idee su nuovi prodotti e servizi, differenti modalità di produzione, nuovi modi di concepire e
praticare l’attività di controllo e così via. A quest’obiettivo sarà teso l’impegno degli
attivitsti, che dovranno assumersi la responsabilità di produrre delle mappe condivise di
cooperazione e connettere le iniziative laddove la “fertilizzazione” incrociata può condurre
ad economie di scala o di scopo nel processo di creazione della conoscenza;
3) sono “mercanti” di previsioni. Gli attivisti dovranno lottare contro la miopia che
caratterizza la creazione della conoscenza. Il loro compito sarà di comprendere il
contributo di ogni microcomunità allo sviluppo dell’intera organizzazione e di indagare
come le singole iniziative possano effettivamente modificare il posizionamento strategico
dell’impresa.

E’ evidente l’analogia tra la figura dell’attivista e il ruolo dell’intersectional hub: gli


intersectional hubs sono degli attivisti particolari, con una sfera d’azione più ampia.

Von Krogh, Nonaka e Ichijo precisano che il knowledge activism non riguarda l’attività
di controllo, ma è legato alla possibilità di agevolare il processo di creazione di
22
Cfr. adattamento G. Von Krogh, I. Nonaka, K. Ichijo, “Develop the Knowledge Activists”, Harvard Business
review, vol. 15, ottobre, 1997, pp. 475-483.

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conoscenza. Io suo obiettivo principale è quello di assicurare un’autoconnessione tra le
iniziative, non crearle.

2.3. Processi e modalità di apprendimento

Alla luce di quanto visto fino ad ora, per (a) valorizzare e trasferire le competenze
idiosincratiche individuate e (b) sviluppare nuove competenze volte ad ottenere e/o
consolidare il vantaggio competitivo nel tempo, occorre progettare un intervento formativo
integrato, ovvero basato su diversi metodi formativi.
In generale, con il termine formazione si intende quella leva di Gestione del Personale
definibile come “l’insieme dei criteri che regolano i processi per lo sviluppo e
l’adeguamento delle competenze professionali e manageriali degli operatori aziendali e dei
loro comportamenti, garantendo e accrescendo la necessaria coerenza tra il modello di
management e le esigenze impresse dall’ambiente/mercato di riferimento” (Paneforte,
2002, p. 261).
In realtà, la formazione non è una leva una tantum, ma un processo continuo con
l’obiettivo di generare, sviluppare e mantenere nel lungo periodo competenze professionali
e manageriali coerenti con la cultura organizzativa. La formazione non è nient’altro che
un’attività finalizzata a produrre apprendimento e l’organizzazione - indipendentemente da
quale essa sia - apprende tramite i suoi attori. “Le organizzazioni crescono e si sviluppano
se si sviluppano i loro attori. […] Rappresenta così un punto d’incontro fra le potenzialità e
i bisogni dell’individuo e le potenzialità e i bisogni dell’organizzazione, fra il sapere
individuale […] e il sapere organizzativo. […] Le organizzazioni apprendono quando i
gruppi acquisiscono nuove competenze e concretizzano, nei risultati, azioni visibili che
derivano dall’apprendimento: per realizzare apprendimento nelle organizzazioni occorre
quindi sviluppare capacità e conoscenze che devono però essere condivise; si devono
creare infatti le condizioni favorevoli per realizzare un collegamento organico e non
casuale fra apprendimento individuale e trasferimento al gruppo e all’organizzazione”
(Autieri, 1998, pp. 164, 165).

Tabella 4.- Task e obiettivi della formazione

1. Gestire il processo di trasformazione delle caratteristiche professionali (abilità,


conoscenze, informazioni, atteggiamenti) delle risorse umane coerenti con gli
obiettivi dell’impresa, le tendenze del mercato del lavoro, le motivazioni del
personale.
2. Salvaguardare e incrementare il valore del capitale umano anche in senso
prospettico (employability).
3. Rendere coerenti le politiche di addestramento e formazione con le altre politiche
del personale (in particolare con reclutamento e selezione, sistema di ricompense,
sviluppo del personale)
4. Costruire coerenze, compatibilità e interazioni tra i processi di apprendimento
organizzativo (organization learnign), che presidianole competenze distintive
dell’impresa e i processi di apprendimento individuale.
5. Presidiare i valori di riferimento (professionali, culturali, ecc.) dell’impresa.

Fonte: Costa, 1997, p. 264.

In linea di massima, il presupposto degli interventi formativi è dato dai cambiamenti


ambientali sia di natura esogena che endogena, perché implicano l’esigenza di adottare
nuovi strumenti e nuove metodologie di sviluppo e di gestione. L’humus generato dai
cambiamenti rende la formazione lo strumento imprescindibile per presidiare i processi di

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trasmissione del sapere, di riqualificazione delle risorse umane, di crescita professionale e
di sviluppo della cultura manageriale. In sintesi, la formazione è la conditio sine qua non
per diffondere e valorizzare le competenze idiosincratiche esistenti all’interno di
un’organizzazione, creando i presupposti per svilupparne di nuove e gettare le basi per
ottenere un vantaggio competitivo durevole nel tempo – magari anticipando le tendenze
del mercato in un processo di enactment dello stesso.

Proprio in tale logica, quindi, occorre analizzare le fasi in cui si articola il processo
formativo che – nello specifico – sono quattro:
1. analisi del fabbisogno formativo;
2. progettazione dell’intervento formativo;
3. attuazione dell’azione promossa;
4. valutazione dei risultati.

L’analisi del fabbisogno formativo coincide con la fase di indagine di bisogni da


soddisfare e lacune da colmare in riferimento alle aree di preparazione individuale.
Generalmente in questa fase gli attori coinvolti sono il committente, il formatore e i capi
diretti dei partecipanti. In particolare, il formatore - dopo aver ascoltato le necessità
avvertite dal committente – ne verifica l’attendibilità e mostra le possibili soluzioni
(corredate dal piano dei costi e dei tempi) che la formazione potrebbe fornire in merito.
Successivamente, il committente e il fornitore progetteranno insieme un’azione
formativa coerente con le necessità riscontrate. Una volta identificati gli obiettivi di
apprendimento, ciò si traduce nell’esplicitare i contenuti che consentono di perseguire
quegli obiettivi e scegliere le modalità di trasmissione più consone per quel sapere. Nella
fattispecie, non è detto che il formatore scelto sia necessariamente anche il docente. Può
accadere che - qualora le necessità reali siano diverse da quelle “avvertite” dal
committente - il formatore proponga un altro docente reperito all’interno dell’azienda o
all’esterno, ma sempre in grado di assicurare il risultato di apprendimento atteso.

Analisi dei bisogni

Progettazione dell’intervento

Realizzazione dell’intervento

Valutazione dei risultati

Attività di feedback

Fig.18. – Il processo di formazione (Fonte: Autieri, 1998, p. 169.)

Dopo aver individuato il percorso formativo più adeguato per i risultati che si vogliono
ottenere, occorre tradurlo in pratica, ovvero è necessario applicare i metodi individuati e
riadattarli in funzione delle esigenze che mano a mano si presenteranno – senza però mai
perdere di vista lo scopo finale dell’intervento. E’ in questa fase che la relazione si fa più
intensa, perché entrano in gioco anche i partecipanti. Quindi, si ha una relazione a tre:
formatore – docenti – partecipanti. Dovrebbe essere presente anche il formatore – qualora

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diverso dal docente – perché deve attivare opportune azioni di monitoraggio al fine di
monitorare sia la coerenza dei contenuti sviluppati con le finalità richieste dal committente
sia il relativo apprendimento da parte dei partecipanti.
Infine, nella valutazione dei risultati, la finalità ultima è quella di verificare (a) l’avvenuto
apprendimento da parte dei fruitori dell’attività formativa e (b) l’effettiva applicazione delle
competenze acquisite in ambito organizzativo. In questo step, tutti gli attori sono chiamati
in causa: “il docente certifica l’apprendimento dei partecipanti, i partecipanti sono in grado
di impiegare le competenze acquisiste, i capi di utilizzare le nuove competenze dei
collaboratori, il formatore valuta il docente, il committente valuta i risultati complessivi
dell’investimento formativo” (Autieri, 1998, p. 171).

ANALISI DEI BISOGNI PROGETTAZIONE

PROCESSO

VALUTAZIONE DEI INTERVENTI


RISULTATI FORMATIVI

Fig. 19. – Formazione «a risposta» (Fonte: Autieri, 1998, p. 169.)

ANALISI DEI BISOGNI PROGETTAZIONE

SISTEMA

VALUTAZIONE DEI INTERVENTI


RISULTATI FORMATIVI

Fig. 20. – Formazione «a programma» (Fonte: Autieri, 1998, p. 169.)

Mentre fino all’inizio degli anni ottanta si parlava di formazione episodica, senza un
disegno strategico e di continuità, a partire dagli anni novanta si inizia a dare la giusta
importanza alla formazione quale sistema in cui la valutazione dei risultati e l’analisi dei
bisogni non sono due eventi lontani nel tempo (Fig.19), ma un momento inscindibile.
Infatti, si inizia a considerare il risultato raggiunto tramite la prima tranche di intervento
formativo e successivamente si programma il to be, nella logica della formazione
permanente (Fig.20).
Nella prospettiva descritta, quindi, ogni volta che si intende realizzare un intervento
formativo entrano in gioco tre variabili: (1) gli obiettivi, (2) le persone, (3) le strutture.
Gli obiettivi discendono direttamente dall’analisi dei bisogni: rappresentano il gap
esistente tra le competenze richieste per coprire un determinato ruolo – ovvero svolgere
specifiche attività – e quelle effettivamente possedute dal soggetto che ricopre la
61
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posizione e, quindi, esegue le suddette attività. Le persone sono coloro che risultano
coinvolti a vario titolo dall’intervento formativo, dai committenti ai fruitori dello stesso. Le
strutture, invece, coincidono con quanto necessario tecnicamente ed organizzativamente
per rendere operativa l’iniziativa di formazione e poterne valutare concretamente i risultati.
Le tre variabili descritte creano un vero e proprio sistema di intervento formativo, in
quanto sono legate da interdipendenza complessa: l’analisi dei bisogni determina gli
obiettivi formativi che – a loro volta – sono il presupposto per progettare l’intervento
formativo e, quindi, individuare le strutture per poter sviluppare le persone. A partire dal
matching tra i risultati raggiunti e gli obiettivi prefissati, si ridefiniscono le finalità e si
innesca un circolo virtuoso di valorizzazione delle competenze esistenti e di creazione di
nuove – nella logica della formazione continua. Ne discende, pertanto, che le altre due
caratteristiche di quello che abbiamo definito il sistema formativo sono (1) la contingenza e
(2) la coerenza. Per contingenza si intende la capacità del sistema di adattarsi alla
situazione specifica e all’evoluzione della stessa. La coerenza, invece, afferisce alla
capacità di porre in essere interventi in linea con le necessità emerse dalla situazione
contingente.
La logica della formazione continua implica l’adozione di una politica del personale
oculata, in base alla quale si verifica costantemente la rispondenza tra le persone che
operano all’interno dell’organizzazione e i profili professionali che vengono ritenuti di
successo dalla stessa. Allo stesso tempo, però, occorre considerare che l’efficacia di un
investimento formativo sarà tanto più elevata quanto più alla formazione verranno
affiancate le altre leve gestionali, strutturali e tecnologiche necessarie per la soluzione dei
problemi emersi.

Alla luce della panoramica delineata, la fase principale – dopo l’analisi dei bisogni – è
la progettazione dell’intervento formativo.
In generale la progettazione prevede la programmazione del mix di attività che si
vogliono impostare per il raggiungimento dell’obiettivo formativo. A tale proposito, esistono
due approcci che costituiscono un continuum della progettazione:
1. l’approccio ingegneristico;
2. l’approccio fenomenologico.

Tabella 5. – Progettazione formativa: due approcci.


Meccanicistico Fenomenologico
Iperrazionalità Iperspontaneità
Massima standardizzazione Minima standardizzazione
Rigidità assoluta Ramificazione casuale
Sequenzialità rigida Soggettivazione del processo

Fonte: adattamento da Lipari, 1987.

L’approccio ingegneristico prevede un modello di progettazione rigido, articolato nelle


cinque fasi già descritte, ovvero: (1) analisi delle condizioni del contesto, (2) analisi dei
bisogni di formazione, (3) definizione degli obiettivi, (4) sviluppo del piano didattico, (5)
valutazione dei risultati. Queste fasi costituiscono i passaggi obbligati lungo i quali si
snodano le azioni del progettista, dando vita ad una vera e propria procedura vincolante.

La prospettiva fenomenologia, invece, implica una progettazione fuori dagli schemi


logici e cronologici dell’approccio meccanicistico. In effetti, la progettazione assume le
caratteristiche di un processo di interazione tra gli attori coinvolti. Non ci sono confini rigidi:
si delineano a mano a mano che l’azione progettuale si snoda in funzione delle esigenze
emergenti.
62
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I modelli descritti, come accennato, sono i poli estremi di un continuum. “In generale,
emerge una tendenza nella prassi ad adottare processi di azione progettuale orientati alla
soluzione di problemi contingenti, che rifiutano le certezze assolute del modello
ingengneristico e il relativismo altrettanto assoluto del modello fenomenologico,
assumendo una dimensione ed un atteggiamento nei confronti della progettazione
organizzativa fortemente pragmatica” (Serio, p. 198).

Alla luce della panoramica delineata e in termini di metodi formativi è possibile fare una
distinzione in funzione di cinque categorie:

1) Trasferimento “uno a uno”: Tra le modalità di trasferimento “uno a uno”, i metodi di


maggiore efficacia si ravvisano nel coaching e nel mentoring (training “on the job”
progettato intorno alle learning histories – accennato nelle pagine precedenti).

2) Formazione tradizionale a sua volta suddivisibile in:


a) formazione d’aula;
b) autoapprendimento.

3) Formazione multimediale (E-learning, etc.): sia la formazione multimediale che


quella tradizionale rientrano nel trasferimento “uno a molti”.

4) Socializzazione: trasferimento “molti a uno”. Alle modalità “molti a uno” afferiscono le


varie forme di socializzazione professionale ricondotte sotto la denominazione di gruppi di
pari: le forme di socializzazione cui si fa riferimento possono essere spontanee oppure
indotte tramite diversi meccanismi (spazio) e/o ruoli organizzativi – primo fra tutti il
referente.

5) Esistono poi, le modalità di utilizzo “molti a molti” in cui ricadono i gruppi di


discussione ed i forum. In questi casi, il trasferimento di competenze è affidato sia a
modalità di comunicazione tradizionali (seminari, riunioni e quant’altro), sia a modalità che
prevedono l’uso della intranet e di internet.

Tra le cinque metodologie indicate, le principali sono la formazione d’aula tradizionale


e la formazione multimediale.

La formazione d’aula tradizionale è una modalità di apprendimento indiretta, in quanto


l’apprendimento stesso viene veicolato attraverso un docente, che – a sua volta – po’
avvalersi di diversi metodi didattici:
A) Lezione. Attraverso la lezione, un docente trasmette ai discenti una serie di
informazioni e concetti rispetto ai quali la platea non ha conoscenze specifiche. Ciò
richiede un tipo di coinvolgimento passivo, ovvero di ascolto, anche se generalmente
l’esposizione viene integrata da supporti multimediali che consentono di migliorare la
chiarezza espositiva, canalizzando l’attenzione degli uditori.
B) Esercitazione. Nell’esercitazione i discenti devono svolgere – individualmente o in
piccoli gruppi – un compito secondo le modalità e le istruzioni impartite dal docente.
C) In basket. Si tratta di una prova strutturata - generalmente individuale - che
sollecita la risoluzione di uno o più problemi in un lasso di tempo ristretto con
imprevisti. L’aspetto peculiare è che il partecipante deve prendere una decisione per
ogni problema sottopostogli. Di solito, la risoluzione dei problemi viene richiesta
attraverso comunicazioni scritte: il basket, infatti, è il contenitore della corrispondenza!
Tale strumento, quindi, permette di analizzare in profondità la capacità di

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organizzazione ed analisi dell’individuo e – allo stesso tempo – focalizza l’attenzione
sulla capacità di gestire lo stress e le priorità.
D) Metodo dei casi. E’ un metodo formativo in cui si descrive una situazione
aziendale che deve essere analizzata e che richiede la presa di decisioni.
Generalmente coinvolge un piccolo gruppo di persone che dopo l’analisi discutono in
seduta plenaria dei problemi emersi e delle decisioni da prendere: l’obiettivo è guidare
al problem solving.
E) Incident. E’ una variante del metodo dei casi in cui si individua il testimone
aziendale di un incidente realmente accaduto. Il gruppo di partecipanti deve risolvere il
problema emerso, ma per farlo deve fare un supplemento d’indagine intervistando con
domande mirate il testimone. Gli incidenti dispiegano la loro migliore efficacia nello
sviluppo delle capacità di analisi, di raccolta delle informazioni e di diagnosi dei
problemi.
F) Brainstorming. Nel brainstorming si chiede ai partecipanti di indicare le soluzioni
per risolvere un problema dato, così come vengono in mente senza censure né
ripensamenti.
G) Business game. Si tratta di una simulazione della conduzione strategica di
un’azienda nel lungo periodo, in cui i partecipanti interpretano i diversi gruppi di
direzione delle aziende in gioco nello scenario competitivo. I partecipanti devono
prendere decisioni di business e devono regolarsi in funzione di quanto deciso dagli
altri gruppi.
H) Role playing. Il role play è una situazione simulata in cui il partecipante (o i
partecipanti) e uno o più interlocutori interpretano un ruolo con un obiettivo da
raggiungere. Tale metodo sollecita la dimensione relazionale al fine di raggiungere un
obiettivo, permettendo di stimolare la capacità di gestione dello stress, la leadership, la
negoziazione e la comunicazione.
I) Dinamica di gruppo. Si tratta di una o più situazioni didattiche destrutturate o
semi-strutturate in cui i membri del team devono risolvere un problema e il loro
comportamento viene osservato dal docente. Di solito questa tipologia di intervento è
mirata su aree d’intervento specifiche, quali relazione, negoziazione e leadership. Si
pone l’obiettivo di migliorare la capacità di controllo delle reazioni personali e altrui
(Quaglino, 1985).
J) Action learning. Nell’action learning si affida all’allievo un progetto di cambiamento
organizzativo, in modo tale da permettergli di acquisire competenze nuove provenienti
dall’esterno e – al tempo stesso – rielaborare quelle già possedute.
K) Metodi riflessivi. Tali metodi hanno la finalità di aiutare ad abbattere le procedure
difensive che ogni soggetto costruisce intorno ai propri modelli mentali, impedendo
qualsiasi processo di apprendimento.
Passando dalla semplice lezione alle dinamiche di gruppo, l’attenzione si sposta dai
contenuti ai processi.

D’altronde, il trasferimento di competenze e di valori può avvenire anche in forma


indiretta, ovvero attraverso l’osservazione e la sperimentazione sul lavoro. In tale
circostanza, si parla di on the job training. Tale strumento è particolarmente efficace
perché è utile sia ai fini dell’apprendimento individuale - essendo modulabile in funzione
delle caratteristiche della persona - sia al fine di trasmettere e mantenere il patrimonio di
competenze organizzative e l’insieme di valori che definiscono i comportamenti
dell’organizzazione stessa. Allo stesso tempo, però, la sua efficacia è vincolata ad alcuni
fattori:
1. il background culturale e professionale dell’allievo;
2. dall’organizzazione del lavoro, dal tipo di capo e anche dall’orientamento della
stessa organizzazione allo sviluppo delle professionalità. Quest’ultimo aspetto

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afferisce al modo e all’intensità con cui sono seguiti gli stadi di sviluppo della
professionalità, attraverso rotazioni, inserimenti graduali e programmati, etc.23

A partire dagli anni ’90, però, l’introduzione di tecnologie di connessione più friendly e
meno costose, una diffusa e maggiore alfabetizzazione dello strumento informatico e la
necessità di incrementare gli interenti formativi presso le organizzazioni aprono la strada
alla diffusione dell’e-learning: “il learning realizzato per mezzo delle tecnologie che
connettono alla rete e permettono di accedere alle risorse della stessa […] è la modalità
attraverso la quale soggetti connessi alla rete producono, socializzano e dividono
conoscenze” (Varanini, 2002). Con lo sviluppo di tale metodologia, d’altro canto, la
formazione deve affrontare nuove sfide perché devono essere modificati i sistemi di
erogazione delle azioni formative, ma non solo. In effetti, per gestire la formazione
multimediale devono essere ripensati i criteri di analisi dei bisogni, di progettazione e
valutazione perché la mole delle informazioni da gestire aumenta notevolemente.

Gli strumenti a supporto dell’e-learning sono molteplici e possono essere classificati in


due macrocategorie:

1. gli strumenti di comunicazione sincrona;


2. gli strumenti di comunicazione asincrona.

Gli strumenti di comunicazione sincrona consentono lo scambio simultaneo delle


informazioni tra due o più persone, ricreando in un ambiente virtuale il setting tipico della
formazione d’aula e, quindi, il rapporto tra discente e docente. In questa categoria
ricadono la chat e la videoconferenza. La conversazione tramite chat permette lo scambio
di informazioni in tempo reale indipendentemente dalla collocazione geografica. La
videconferenza, oltre a permettere una comunicazione in tempo reale, consente di vedere
il volto degli interlocutori connessi in quel momento: si può ricorrere alla videoconferenza,
però, solo per sessioni brevi e focalizzate. Sia in caso di chat che di videoconferenza, si
riducono le costrizioni di tempo e l’investimento tecnologico richiesto all’utente è modesto.

Gli strumenti di comunicazione asincrona permettono una comunicazione differita,


ovvero il rapporto tra docente e discente non avviene in tempo reale, permettendo di
gestire in modo personale l’organizzazione e il tempo dedicato allo studio. Tra gli strumenti
di comunicazione asincrona rientrano cd-rom e ipertesti, e-mail e mailing list, newsgroup e
web forum.

Il cd-rom non è nient’altro che “un’infrastruttura che trasporta fisicamente immagini


digitali e dati fissati per un intervallo di tempo” (Serio, p. 208). L’ipertesto, invece, è un
insieme dei documenti di varia natura collegati tra di loro da una struttura logica che
permette all’utente di scegliere le parti di contenuto da privilegiare: costituisce, pertanto,
un percorso di formazione guidato, garantisce un apprendimento sequenziale ed
incrementale anche perché permette di depositare l’informazione e riutilizzarla o
approfondirla all’occorrenza.
L’e-mail, invece, è lo strumento più usato in assoluto nei sistemi di interazione virtuale
perché stimola il dialogo e consente la personalizzazione della comunicazione. L’e-mail
viene usata per lo scambio di messaggio fra docente e discenti, al fine di ricevere ed
inviare testi file, etc. “Dal meccanismo semplice delle mail, è possibile creare delle vere e
proprie liste di indirizzi mail (mailin list). Le mailing list fanno parte dei sistemi di

23
Cfr. Giovanni Costa, 1997, “Economia e Direzione delle Risorse Umane”, Torino, Utet Libreria, pp. 270-
271.

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comunicazione one to many. Al di là degli aspetti tecnologici, le mailing list necessitano di
un moderatore e la loro diffusione è filtrata nei modi e nei contenuti” (Serio, p. 209).

Infine, il forum - spesso chiamato anche newgroup o conferenze - non è altro che un
gruppo di discussione on line su un argomento specifico: è un luogo di consultazione e il
suo utilizzo è funzione dell’interesse dell’argomento del forum. Non viene attivato, quindi,
da una mail come nel caso delle mailing list. Spesso è dotato anche di una newletter per
aggiornarlo rispetto alle novità prodotte dai vari membri.

Tabella 6. – Confronto dei due processi formativi

Formazione tradizionale E-learning


• Indipendenza
• Assenza di vincoli
spazio-temporali
• I costi diminuiscono al
• Comunicazione frontale crescere del numero degli
docente-allievo, allievo- studenti
allievo • Uniformità
Vantaggi • Simultaneità dei tempi dell’insegnamento su tutti i
di risposta e chiarimento in discenti
tempo reale • Funzione coerente con
i propri ritmi di
apprendimento
• Valutazione formativa
• Anytime, Anywhere,
Anyone
• Situazione controllata • Alti investimenti
• Vincoli spazio-temporali • Oggetto della
• Costi crescenti al formazione
Svantaggi
crescere dei partecipanti • La relazione docente-
• Corsi unici discente mediata e differita
• Valutazione sommativa • La formazione come
evento sociale e simbolico

Fonte: Boldizzoni, 1998, p. 204.

In particolare, però, come emerge dalla Tabella 7, sia la formazione d’aula tradizionale
che quella virtuale ricadono nella creazione di percorsi di crescita guidati. Quindi, il mix tra
apprendimento individuale e apprendimento guidato è fondamentale perché ricorrendo
solo a percorsi predefiniti si rischia di alimentare una dipendenza molto forte, togliendo alle
persone sia capacità che voglia di costruirsi.

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Tabella 7. – Formazione tradizionale versus formazione multimediale.

Caratteristiche E-learning/Formazione a distanza Formazione tradizionale

Spazio comune Formazione Consultazione o


Videoconferenza Aula virtuale Tutoring
(socializzazione) d’aula autoapprendimento

Sincrona e
Erogazione Sincrona/asincrona Sincrona Sincrona Asincrona Asincrona
asincrona

Trasferimento e
Trasferimento Trasferimento
Informativo- sviluppo di Assistenza
Obiettivo formativo di nozioni e di nozioni e Informativo
direttivo nozioni e specifica
competenze competenze
competenze

Relazione Pochi a molti Uno a pochi Pochi a pochi Uno a uno = =

Audio Messaggi,
Immagini e audio docente, Messaggi e documenti e Percorsi
Canali e strumenti Ricerche guidate
relatori supporti e documenti comunicazione guidati
applicazioni diretta

Interattività Media Elevata Elevata Massima Media Minima

Personalizzazione Bassa Elevata Massima Massima Elevata Media

Contestualizzazione Media Media Elevata Massima Massima Massima

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2.4. La gestione della comunicazione interna

Le persone appartengono contemporaneamente a più gruppi, assimilandone schemi


mentali, processi cognitivi, cultura e pregiudizi. In questo modo si vengono a creare
molteplici linguaggi che - pur presentando un comune denominatore - si differenziano in
funzione delle esperienze vissute. In tale logica, nel momento in cui avviene la
trasmissione di un messaggio - e quindi di competenze - da un soggetto A ad un soggetto
B, si possono verificare tre situazioni principali:
1. B è d’accordo con il suo interlocutore e, quindi, ne conferma il messaggio;
2. B rifiuta il messaggio di A, nel senso che ritiene che le affermazioni di A siano
errate;
3. B disconferma il messaggio di A. E’ il caso più complesso di disallineamento tra le
percezioni degli interlocutori, in quanto il ricevente del messaggio non dà un giudizio
sulla verità o sulla falsità delle affermazioni del suo interlocutore, ma arriva addirittura a
negarne il ruolo di mittente.24
Il rifiuto e la disconferma del messaggio avvengono per la mancata consapevolezza da
parte del ricevente delle percezioni sensoriali e degli schemi cognitivi del mittente. Tale
fenomeno è meglio conosciuto con il nome di “impenetrabilità” (Watzlawick, 1971, p. 80):
un’interazione efficace, infatti, si può avere solo se ognuna delle parti in gioco si accorge e
comprende il “punto di vista dell’altra”.
A questo punto non resta che indagare cosa si intende per “punto di vista dell’altro”, in
modo tale da identificare i fattori che causano profondi misundertsanding e, quindi,
disfunzioni organizzative.
In generale, l’effettiva comprensione delle percezioni sensoriali passa attraverso diversi
elementi:
1. la reale condivisione del linguaggio sia nella dimensione verbale (numerica), che
non verbale (analogica);
2. la consapevolezza della disomogeneità di orientamenti nello svolgimento della
mansione assegnata.
Nel proseguo del paragrafo, si esamineranno nel dettaglio questi due aspetti.
La comunicazione verbale è inevitabilmente accompagnata da elementi afferenti al
linguaggio non verbale. In particolare, i segnali che l’organismo invia possono essere
suddivisi in cinque categorie principali:25
1. l’atteggiamento, ovvero la postura che l’individuo assume in un dato momento e
l’insieme dei movimenti che cambiano o modificano la posizione del corpo;
2. la mimica, ossia tutti i fenomeni che si possono osservare sul volto di una persona;
3. la gestualità, con la quale si fa riferimento ai movimenti delle braccia, delle mani o
ad altre azioni quali l’aprire una porta o spegnere una sigaretta;
4. la distanza assunta rispetto agli altri o i movimenti atti a modificarla in termini di
allontanamento o avvicinamento;
5. il tono di voce, in cui si annoverano tutti i fenomeni che appaiono evidenti nel modo
in cui un individuo parla, come il ritmo, il volume, la melodia del discorso.
Uno dei problemi maggiori in fatto di comunicazione è che le persone non sono quasi
mai consapevoli di affiancare a messaggi numerici anche segnali non verbali, non
riuscendo a gestire la comunicazione in una logica integrata.
Per tale motivazione, purtroppo, spesso si verifica una vera e propria distorsione non
solo tra quanto comunicato e quanto recepito dal destinatario del messaggio, ma anche
tra quanto comunicato e quanto il mittente voleva effettivamente comunicare.

24
Cfr. P. Watzlawick, J. H. Beavin, d. D. Jackson, “Pragmatica della Comunicazione Umana. Studio dei
Modelli Interattivi, delle Patologie e dei Paradossi”, Edizioni Astrolabio, Roma, pp. 74-76.
25
Cfr. F. Marcolin, op. cit., 1998, pp. 95-122.

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Figura 21. - L’effetto di distorsione.

Fonte: Del Mare Giorgio, 1990, p. 59.

In termini di comunicazione, quindi, l’effetto di distorsione (Figura 21.) è funzione di tre


cause principali:
1. il contenuto del messaggio analogico può essere “abbigliato” in modi molto diversi
tra loro e, spesso, del tutto incompatibili. Ciò può causare l’insorgere di una
controversia interpersonale sul significato degli elementi della comunicazione
analogica. Infatti, non di rado accade che ognuno dei soggetti coinvolti nell’interazione
comunicativa attribuisca alle componenti del linguaggio non verbale un significato
molto diverso (e soprattutto in linea con la propria opinione) sia della natura della
relazione che del soggetto con cui sta interagendo. Ne è un esempio tipico l’offerta di
un dono: il destinatario del regalo potrebbe giudicarlo come una dimostrazione
d’affetto, come un modo per contraccambiare un dono precedentemente fatto o anche
come un tentativo di corruzione.26 O ancora “se una persona sottoposta a
interrogatorio impallidisce, trema, suda e balbetta – quale significato numerico si può
dare a questi messaggi analogici? Può darsi che siano una prova definitiva di
colpevolezza, ma può anche darsi che si tratti soltanto del comportamento di un
innocente (sotto l’incubo di essere sospettato di un delitto) che si rende conto che si
possa interpretare la sua paura come un segno di colpevolezza” (Watzlawick, 1971, p.
89);
2. l’incongruenza tra i segnali verbali e non verbali trasmessi ed interpretati. Nella
fattispecie, quando ciò che viene detto verbalmente è accompagnato da segnali del
corpo che ne confermano e rafforzano il contenuto, allora si verifica una
corrispondenza fra i due tipi di segni: chi parla viene percepito come “trasparente” e
sarà in grado di convincere il suo interlocutore della bontà della sua tesi o dell’onestà
delle sue affermazioni. Al contrario, rilevando segnali del corpo che lascino intendere
che ciò che viene detto non sia sincero (es. sguardo che, invece di rivolgersi
all’interlocutore, si perde nel vuoto), si verificherà una contraddizione tra i due tipi di
indicazioni e chi parla susciterà disagio, incredulità o sospetto nel suo interlocutore;
3. un ulteriore errore che si commette è quello di considerare, nella maggior parte dei
casi, la comunicazione analogica come trasmissiva di un messaggio denotativo,
indipendentemente dal contenuto della comunicazione verbale. In realtà, come afferma
Bateson (1964), i messaggi non verbali rimandano a proposte per definire le regole

26
Cfr. P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson, op. cit., 1971, p. 89.

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future alla base di una relazione: è compito dell’interlocutore comprendere il valore
intrinseco di quelle proposte, ossia la verità o la falsità delle stesse.27 Tale fenomeno è
generato da una vera e propria dispersione di informazione che, durante il processo di
comunicazione, si acutizza anche per effetto di orientamenti cognitivi e culture
individuali differenti.

In effetti, ogni essere umano ha una propria personalità, che - insieme alla
motivazione, alle competenze e al contesto in cui agisce - influisce sul proprio
comportamento: essendo tali elementi combinabili in infiniti modi differenti tra di loro, ne
deriva che esistono numerose tipologie di orientamenti nello svolgimento delle diverse
attività lavorative. In ogni caso, gli orientamenti di base, a loro volta scomponibili in ulteriori
dimensioni,28 sono due:29
1. orientamento al task/ai risultati. Si concentra l’attenzione sullo svolgimento del
compito e, quindi, sulle attività di pianificazione, controllo e valutazione dei risultati;
2. orientamento alle persone. Il soggetto trae la sua soddisfazione dal benessere e
dallo sviluppo dei propri collaboratori.

In particolare, nello svolgimento delle attività aziendali, si possono trovare a lavorare


insieme soggetti con atteggiamenti che possono essere tra loro:
a) conformi e, quindi, non creare conflitti;
b) debolmente affini;
c) totalmente incompatibili, generando profonde conflittualità interne.30
(Tabella 8.)

Tabella 8. – La correlazione tra gli orientamenti e il rischio di distorsione.

Rischio di distorsione in fase


Orientamenti
di percezione del messaggio
1. affini  basso
2. debolmente affini  medio
3. non affini  alto

In questo ultimo caso, è evidente come si configurino maggiori difficoltà di dialogo tra
gli interlocutori con la necessità di ricorrere a strumenti di integrazione volti a
massimizzare le occasioni di interazione.
Per perseguire tale obiettivo, ai più conosciuti meccanismi di integrazione interna, si
affianca - coerentemente con il concetto di co-setting di Doz e Santos (Par.2.1.) - l’aspetto
spaziale, in quanto sussiste una perfetta corrispondenza tra la disposizione dei
complementi d’arredo e le varie reti di comunicazione.

In generale, le soluzioni in termini di organizzazione spaziale sono molteplici e


diverse (Fig.22):
1. One-size-fits all. Ambiente appropriato per organizzazioni con attività omogenee o
che vogliono rinsaldare i comuni valori culturali.

27
Cfr. P. Watzlawick, J. H. Beavin, d. D. Jackson, op. cit., 1971, p. 90.
28
Cfr. R. E. Quinn, “Beyond Rational Management: Mastering the Paradoxes and Competing Demands of
High Performance”, Business and Management Series, Jossey Bass, San Francisco, 1990. Cfr. K. S.
Cameron, R. E. Quinn, “Diagnosing and Changing Organizational Culture: Based on the Competitive Values
Framework”, Wesley Series on Organization Development, Addison Wesley, Massachussets, 1999.
29
Cfr. A. Rugiadini, op. cit., 1979, pp. 276-277.
30
Cfr. A. Grandori, “Teorie dell’Organizzazione. Ecologia delle Popolazioni, Apprendimento Adattivo,
Progettazione Razionale”, Edizioni Giuffrè, Milano, 1984.

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2. Fixed typologies. Vi ricorrono le organizzazioni che desiderano supportare una
moderata diversità di attività, consentendo alle persone un moderato controllo della
loro postazione.
3. Mandatory specialization. Questa soluzione prevede la creazione di spazi adibiti
al lavoro di team non prevedibile anticipatamente.
4. Mass customization. La soluzione standardizzata è diffusa presso le aziende che
vogliono offrire un ridotto controllo della propria workstation: gli uffici hanno tutte le
medesime caratteristiche.
5. Configurable categories. E’ una soluzione che permette ai lavoratori di scegliere
come lavorare, perché si possono spostare i complementi d’arredo.
6. Modular made-to-order. Si usa presso quelle organizzazioni con elevate esigenza
di lavoro in team anche se scarsamente prevedibile, garantendo un moderato grado
di scelta nella definizione del proprio ambiente lavorativo.
7. Mass personalization. Alta possibilità di personalizzazione, ma bassa predicibilità
delle esigenze.
8. Individualized segmentation. Alta possibilità di personalizzazione e moderata
predicibilità delle esigenze.
9. One-size-fits-one. Ogni lavoratore può progettare come desidera il proprio spazio
di lavoro in funzione delle proprie esigenze.

Fig. 22. – Tipologie di workstation in funzione al grado di scelta dei lavoratori e del
grado di predicibilità delle loro esigenze di teamwork.

Modular
High

Mandatory One-size-fits-
Degree of Segmentation

made-to-
specialization one
order
Moderate

Fixed Configurable Individualized


typologies categories segmentation

One-size-fits- Mass Mass


Low

all customization personalization

Low Moderate High

Degree of Choice
E’ pur vero, però, che l’ambiente lavorativo - come già in parte accennato - deve
favorire la socializzazione e dovrà, quindi, essere strutturato in modo tale da permettere la
configurazione di una rete di comunicazione decentrata, perché più adatta a favorire la
vicinanza e il confronto tra le persone, consentendo la “familiarizzazione” di linguaggi ed
atteggiamenti eterogenei, propri anche della diversa collocazione professionale.

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Fig. 23. – “Ufficio ad osso per cani”

Legenda:

α, ε, Ω, ω: leader di ogni singolo gruppo

= singoli individui in ogni teamwork;

= flussi di comunicazione verbale e non verbale bidirezionali.

= tavoli: non devono essere necessariamente rotondi. Possono essere anche di altre
dimensioni: l’importante è che vengano disposti in modo da ricreare un modello di
comunicazione a rete decentrata;

α + β + γ + ω: squadra

In generale, lo spazio dovrebbe essere flessibile per permettere ai lavoratori di


spostarsi, favorendo la spontanea formazione di teams.

Ciò può implicare, ad esempio, la destinazione di un unico spazio a teams appartenenti


a famiglie professionali o a funzioni differenti, disponendo i complementi d’arredo in modo
che ogni gruppo occupi una specifica “area personale”, avendo, però, la possibilità di
interagire con gli altri teams, per convogliare le energie verso gli obiettivi organizzativi nel
loro complesso. La possibile rappresentazione della soluzione prospettata è quella
delineata dall’ufficio open space a “osso per cani”, evidenziato nella Figura 23, che – a sua

72
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volta – rientra nella tipologia Mass Personalization. In questo esempio, in ogni zona agli
angoli - definibile come “isola funzionale” - è possibile collocare ognuno dei teams
interdipendenti che, nella loro dialetticità gerarchica, costituiscono una squadra.
Sia la formazione d’aula tradizionale che quella multimediale permettono
all’organizzazione di valorizzare e trasferire le competenze idiosincratiche individuate,
ricorrendo alla condivisione di adeguati spazi fisici.

2.5. Dall’apprendimento individuale a quello organizzativo

L’obiettivo sia della formazione che della cultura è quello di favorire il passaggio di
competenze individuali al resto dell’organizzazione, facendole divenire competenze
organizzative. Tale passaggio implica gestire un vero e proprio processo di cambiamento
organizzativo. Argyris e Schon31, infatti, definiscono il cambiamento organizzativo come un
processo di natura dialettica, all’interno del quale si verificano episodi di apprendimento e
di fallimento ad apprendere. Le organizzazioni sono coinvolte in una transazione continua
con i loro ambienti, interno ed esterno, che mutano continuamente in risposta sia alle forze
esterne sia alle azioni organizzative; inoltre gli obiettivi, i fini e le norme organizzative sono
sempre molteplici e parzialmente contrastanti. Da queste condizioni di vita organizzativa
derivano dei processi dialettici in cui situazioni organizzative problematiche danno luogo
ad un’indagine organizzativa – posizione e risoluzione del problema – che crea a sua volta
nuove situazioni problematiche all’interno delle quali entrano in gioco nuove incoerenze e
incongruenze. Queste si manifestano caratteristicamente nel conflitto intra-organizzativo. I
modi con cui l’organizzazione risponde a tali conflitti producono ulteriori trasformazioni
della sua situazione problematica.
E’ nel contesto di tali processi, ai quali Argyris e Schon si riferiscono usando
l’espressione “dialettica organizzativa”, che ha luogo l’apprendimento organizzativo.
“Buona dialettica” è l’espressione usata per descrivere i processi di indagine organizzativa
che assumono la forma dell’apprendimento double-loop. Nella fattispecie, il processo di
comunicazione “double loop” è un processo di comunicazione a due vie - detto anche
transazionale. Si caratterizza per la trasmissione contemporanea, sia da parte
dell’emittente che del ricevente, di messaggi volti a fornire un feedback in relazione
all’efficacia della comunicazione in corso, ovvero in merito alla coerenza tra l’intenzione
comunicativa della fonte e quanto realmente compreso ed accettato da parte del
destinatario. Il ricorso a tale tipologia di processo comunicativo è auspicabile qualora il
contenuto dei messaggi inviati sia di difficile comprensione o presenti rischi di distorsione
da parte della fonte o semplicemente dello stesso destinatario. Ne discende che si ricorre
ad una processo di comunicazione double loop qualora si vogliano “ridurre le distanze” tra
i soggetti coinvolti, per meglio permettere loro di cogliere la comunicazione sia nella sua
componente verbale che non verbale. Con il termine “ridurre le distanze”, si vuole
semplicemente significare che la comunicazione a due vie consente di minimizzare la
distanza tra gli interlocutori, passando dalla distanza sociale a quella personale. La zona
personale inizia “mano che ci si allontana dal corpo” (Marcolin, 1998, p. 119): tale confine
non è preciso, ma versatile e varia da individuo ad individuo e da cultura a cultura. Le
distanze personali si aggirano da 45cm a 120cm e permettono di cogliere interamente il
viso del proprio interlocutore. Si tratta di situazioni che si stabiliscono facilmente tra parenti
ed amici stretti e che consentono, ad esempio, la stretta di mano e la discussione di
argomenti di carattere personale, basandosi anche su una moderata forza della voce.32

31
Cfr. C. E. Argyris, D. A. Schon, “Organizational Learning: a Theory of Action Perspective”, Addison
Wesley, Reading, Mass, 1978.
32
Cfr. F. Marcolin, “Il Silenzio Impossibile. Psicologia del Comunicare in Modo Efficace”, Edizioni GB,
Padova, 1998, 1998, p. 119.

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Il raggiungimento della buona dialettica, affermano gli autori, esige il
deuteroapprendimento organizzativo, il quale richiede che i membri dell’organizzazione
riflettano e indaghino sul loro sistema d’apprendimento organizzativo e sul suo effetto
sull’indagine organizzativa.

In particolare, Argyris e Schon affermano che esistono unità individuali e


sovraindividuali che intrattengono tra loro rapporti interdipendenti, circolari. Quando
entrano in gioco l’imbarazzo o la minaccia, questi rapporti interagiscono cosi da creare
processi di apprendimento limitato che si autoalimentano: “Ti troverai nei guai se cerchi di
cambiare. […] Questa è un’eredità di vecchia data”.
Affinché possa aver luogo l’apprendimento double loop a qualunque livello
dell’organizzazione, si devono interrompere i processi che si autoalimentano, modificando
le prassi organizzative usate per gestire le condizioni di errore (teoria in uso) e, quindi, le
convizioni radicate all’interno dell’organizzazione. Tale modifica è, ovviamente, molto
lenta: richiede tempo e il punto di partenza è la cultura organizzativa.

In particolare, se si vogliono superare le forze che inibiscono l’apprendimento double


loop è necessario un sistema d’apprendimento alternativo, che non può evolversi
spontaneamente ma richiede interventi, guidati da esperti che conoscono queste tendenze
a sanno trattarle innescando appropriate modalità d’indagine tra gli attori, capaci di avviare
l’organizzazione verso il sistema d’apprendimento in cui sono presenti forme di doble loop
e deutero learning. Il nuovo sistema d’apprendimento avrà lo status di un evento raro.
La creazione di un nuovo sistema d’apprendimento richiede l’esistenza di mappe delle
condizioni comportamentali che possono assecondare questo passaggio, e di appropriate
euristiche che forniscano definizioni operative per l’azione. Il nuovo sistema
d’apprendimento avrà variabili regolative opposte a quelle precedenti: in particolare, si
fonderà sull’informazione valida, la scelta libera e informata, l’impegno interiore. Ogni
azione importante conforme al nuovo modello è valutata in base alla misura in cui aiuta gli
attori coinvolti a generare informazioni valide e utili (compresi i sentimenti pertinenti), a
condividere il problema in un mondo che conduca all’indagine produttiva, a risolvere il
problema in modo che resti risolto e a farlo senza ridurre il livello attuale dell’efficacia nella
risoluzione dei problemi. Le strategie comportamentali, pertanto, richiedono che si
condivida il potere con chiunque abbia competenze e un ruolo significativo nella decisione
di implementare l’azione in questione. La definizione del compito e il controllo
sull’ambiente sono condivisi con tutti gli attori pertinenti. Ci si oppone alla pratica di salvare
la propria o l’altri faccia in quanto la si giudica un’attività difensiva e contraria
all’apprendimento. Se si devono compiere azioni volte a salvare la faccia, allora vanno
pianificate insieme alle persone interessate.
Tra i suggerimenti per passare dalle competenze individuali alle competenze
organizzative basandosi sull’apprendimento double loop troviamo la forza di una visione
condivisa. I leader devono avere la capacità di mantenere una visione condivisa del futuro
che si cerca di creare. Ogni azienda che raggiunge il successo, lo fa fissando obiettivi,
valori e missioni che siano profondamente condivisi in tutta la struttura, in modo da legare
assieme i singoli intorno ad un’identità e a un senso di destino comune. L’errore che fanno
molti capi è quello di avere visioni personali che non vengono tradotte in visioni condivise
che possano galvanizzare un’organizzazione. Spesso la visione condivisa di un’azienda è
imperniata sul carisma di un leader o su una crisi che temporaneamente galvanizza tutti.
Invece, se libera di scegliere, la maggior parte delle persone decide di perseguire un
obiettivo elevato, non soltanto durante le crisi, ma sempre. Laddove vi sia una visione
genuina, non solo una “visione dichiarata”, gli individui eccellono ed apprendono, non
perché si dice loro di farlo, ma perché vogliono farlo. La pratica della visione condivisa
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implica la capacità di fare venire in superficie le “immagini del futuro” condivise, che
promuovono un impegno genuino e volontario, non l’acquiescenza.
Nella stessa logica si colloca l’apprendimento di gruppo. I gruppi possono imparare. In
diversi campi dell’attività umana, nello sport, nelle scienze, nelle aziende, vi sono esempi
di come l’intelligenza del gruppo superi l’intelligenza dei singoli membri e di come i gruppi
sviluppino capacità straordinarie di azione coordinata. Quando i gruppi stanno
effettivamente apprendendo, i singoli membri crescono più rapidamente di quanto sarebbe
successo altrimenti. La disciplina dell’apprendimento di gruppo comincia con il dialogo, la
capacità dei membri di un gruppo di mettere in mora le ipotesi precedenti e passare ad un
genuino “pensare in comune”. La disciplina del dialogo comporta anche apprendere come
riconoscere nei gruppi i modelli di interazione che compromettono l’apprendimento. I
modelli difensivi sono spesso profondamente radicati nel modo in cui un gruppo funziona,
se non vengono riconosciuti, essi compromettono l’apprendimento. Per Senge
l’apprendimento di gruppo è vitale perché egli afferma, nelle organizzazioni moderne le
unità basilari di apprendimento sono i gruppi, non i singoli; a meno che non siano i gruppi
ad apprendere, l’organizzazione non può farlo.
In particolare, per poter riprodurre le competenze di successo, diffondendole e
sviluppandole nel tempo occorre partire dalle routine organizzative definibili: “a routine is
an executable capability for repeated performance in some context that has been learned
by an organization in response to selective pressures” (Cohen, 1996, p. 683).
La capacità di riprodurre le proprie routine porta all’impresa vantaggi di tipo economico,
cognitivo ed organizzativo. Riprodurre le routine organizzative dal punto di vista
economico e cognitivo è opportuno in quanto i costi derivanti dallo sviluppare ex novo un
insieme di competenze già posseduto e che si è rivelato soddisfacente, sono maggiori in
genere dei costi generati dalla diffusione all’interno dell’impresa, di queste conoscenze.
Dal punto di vista organizzativo la scelta di riprodurre routine già funzionanti all’interno
dell’impresa è un elemento importante per la riduzione dell’incertezza sul comportamento
degli attori nei rapporti sia verso l’interno sia verso l’esterno. La capacità di riprodurre le
proprie routine rappresenta quindi una risorsa fondamentale per l’impresa; diffondere,
però, questo tipo di capacità e conoscenze presenta insidie e numerosi problemi:
1. Una parte delle conoscenze incorporate nelle routine organizzative è tacita ed è la
base per ottenere un vantaggio competitivo durevole. Se un’impresa è in grado di
basare la sua competitività su conoscenze difficilmente imitabili e non verbalizzabili,
i suoi concorrenti non saranno in genere in grado di appropriarsi di queste
conoscenze. Al fine di diffondere all’interno dell’organizzazione le routine, però, è
necessario codificarla attraverso regole esplicite per renderne più semplice la
riproduzione in altri contesti.
2. Il contesto è determinante per l’attivazione delle routine organizzative in quanto
consente al soggetto o ai soggetti coinvolti di riconoscere la presenza delle
condizioni nelle quali la routine può essere attivata con successo. Inoltre, induce gli
attori ad adottare un comportamento routinizzato, eliminando quelle zone di
incertezza riguardo alle variabili in gioco che costringerebbero ad attivare un
processo di ricerca di condotte alternative. Quindi per diffondere le routines occorre
definire – sia in termini fisici che sociali – le caratteristiche del contesto di
riferimento. Per contesto fisico si intende la dimensione spaziale sia in termini di
localizzazione dell’attività lavorativa (luogo dove si trova l’ufficio), sia con riferimento
che definiscono lo spazio stesso (il lay-out, etc.). Il contesto sociale, invece, attiene
all’insieme delle relazioni che gli attori instaurano tra colleghi con clienti, fornitori ed
altri soggetti rilevanti per l’attività d’impresa e il particolare linguaggio che gli attori

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apprendono per effetto dell’interazione. Il contesto, però, è dato dal combinato
disposto sia degli elementi fisici che sociali.
3. Esiste una forte dipendenza sia tra il modo in cui si consolidano le pratiche
organizzative e il modo in cui la formalizzazione di tali pratiche viene attuata, sia
nell’evoluzione delle pratiche stesse. Il processo di “scoperta” delle pratiche che
vengono in un secondo momento accettate e diffuse, prima nel gruppo locale e poi
- attraverso la formalizzazione - nel gruppo più allargato è fortemente dipendente
dalla storia delle pratiche che le hanno precedute33.
4. La taciteness di parte delle conoscenze incorporate nelle routine si riflette su un
aspetto che ha un impatto molto forte sull’organizzazione dell’impresa. Si tratta
della forma distribuita delle conoscenze immagazzinate nelle routine organizzative.
Le conoscenze tacite impediscono una perfetta comunicazione delle informazioni,
inoltre i limiti cognitivi dei singoli costituiscono un ostacolo insormontabile ad
un’azione individuale pienamente consapevole e deliberata a causa della paura
“ortogonale” della conoscenza. Si ammetta di poter considerare un’attività come
perfettamente routinizzata attraverso regole esplicite o implicite a livello individuale.
Il coordinamento delle azioni dei singoli richiede per essere perfettamente
routinizzato che ciascun individuo tenga conto di tutte le possibili reazioni degli altri
attori ad un’azione o ad un particolare stimolo che si verifica, inclusi errori e conflitti.
Al crescere del numero degli attori coinvolti, il numero degli elementi da considerare
cresce esponenzialmente. Considerare gli individui capaci di interiorizzare sotto
forma di regole condizione-azione l’intero insieme delle possibilità, è chiaramente
poco realistico. Quando il repertorio parziale di regole di coordinamento
internalizzate dagli individui fallisce, questi inizieranno qualche forma di
esplorazione delle alternative e, attraverso l’apprendimento, tenderanno a trovare
nuove soluzioni, ovvero a costruire e ad imparare nuove regole. Le regole di
coordinamento, dunque, non sono poi dissimili dalle altre regole condizione/azione.
Le routines, quindi, vengono implementate dall’azione combinata e coordinata di
più individui. Le modalità di coordinamento necessarie per un’azione routinizzata
sono esse stesse fondate su una forma di conoscenza tacita e distribuita.
5. La routinizzazione delle attività ha effetto sulle modalità di apprendimento, di
comportamento e di ricerca di soluzioni a livello dei singoli attori e
dell’organizzazione nel suo complesso. Secondo Zamarian esistono delle meta
routines in grado di governare processi di scelta complessi che prevedono
l’adozione di routine di livello gerarchico inferiore e che godono delle stesse
proprietà delle routine. Le routines di ordine superiore servono come punto di
riferimento e di attivazione per routine di ordine inferiore

In termini pratici, inoltre, esistono altre due modalità per riprodurre competenze di
successo:
a) “i luoghi della memoria”. Le routine sono insiemi di regole che strutturano il
comportamento e che le organizzazioni memorizzano in luoghi metaforici:
- le memorie dei singoli individui;
- il codice di comunicazione o il linguaggio almeno parzialmente condiviso. In effetti,
lo sviluppo di capacità individuali all’interno del gruppo e il processo di costituzione di un
codice condiviso tra gli attori sono processi mutuamente adattivi. Il linguaggio condiviso
che nasce all’interno dell’organizzazione funziona da interfaccia e da collante tra le
competenze individuali e le capacità dimostrate dal gruppo nel suo insieme.

33
Cfr. J. G. March, “Exploration and Exploitation in Organizational Learning”, Organization Science, II, 1,
1991, pp. 71-87.

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b) gli artefatti, che costituiscono uno degli elementi che permette l’affermarsi e il
diffondersi di comportamenti routinizzati all’interno dell’impresa Una routine
organizzativa viene replicata con maggiore successo se è stata codificata
esplicitamente attraverso artefatti quali manuali operativi e software, ovvero Standard
Operating Procedures. Le procedure formali, in effetti, sono in grado di “portare”le
pratiche considerate migliori.34

Allo stesso tempo, però, il sotfware di gestione può essere interpretato come una delle
fonti del linguaggio organizzativo. Da un lato la conoscenza del “gergo” del sistema
software condiziona il modo in cui gli attori producono e si scambiano informazioni,
dall’altro la presenza di tale artefatto contribuisce alla formazione di un senso di
partecipazione ai processi organizzativi attraverso le sue valenze simboliche.

3. Altre modalità di sviluppo delle competenze idiosincratiche


Oltre quanto descritto fino ad ora, per sviluppare nuove competenze a partire da quelle
esistenti occorre fare perno anche su due “strumenti di formazione atipici e indiretti”:

A) La cultura organizzativa. La coerenza evolutiva delle risorse presenta un legame con


la cultura dell’organizzazione. Quindi, per sostenere nel tempo la competitività d’impresa
occorre ridefinire progressivamente la cultura, facendo in modo che i valori e gli assunti di
base rispecchino indirettamente le nuove competenze richieste dal mercato oppure
influenzino il mercato stesso con la creazione di competenze non ancora richieste ma ad
elevato valore aggiunto.
In relazione alla cultura organizzativa, tra gli elementi chiave per l’apprendimento
emerge la formalizzazione delle learning histories, ovvero (come già accennato) “storie
professionali strutturate” - una sorta di testimonianze - in cui si riepiloga la struttura delle
competenze che si è rivelata di successo per svolgere il ruolo.
B) Il sistema premiante. Deve essere strutturato in modo tale da premiare comportamenti
coerenti con le nuove competenze richieste, al fine di innescare un circolo virtuoso tramite
l’apprendimento vicario, ovvero il “buon esempio”!

3.1. Cultura aziendale

Schein definisce la cultura organizzativa come “un insieme di assunti di base –


inventati, scoperti o sviluppati da un gruppo determinato quando impara ad affrontare i
propri problemi di adattamento con il mondo esterno e di integrazione al suo interno – che
si è rivelato così funzionale da essere considerato valido e, quindi, da essere indicato a
quanti entrano nell’organizzazione come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in
relazione a quei problemi” (Schein, 1990, p. 35).

In generale, per meglio comprenderla, occorre considerarla come un fenomeno


multilivello35, dato che si caratterizza per:
A) i contenuti intrinseci ovvero i “valori basilari della coalizione dominante” (Tosi, 2002, p.
385);
B) gli artefatti (Fig. 24).
34
Cfr. M. Zamarian (2002), “Le Routine Organizzative. Percorsi di Apprendimento e Riproduzione”, Torino,
Utet Libreria.
35
Cfr. E. H. Schein, M. Decastri (a cura di), “Cultura d’Azienda e Leadership. Una prospettiva Dinamica”,
Guerini & Associati, Milano, 1990, p. 39 (ed. or. – E. H. SCHEIN, “Organizational Culture and Leadership”,
London, San Francisco, 1985).

77
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A) Contenuti intrinseci
Con riferimento ai contenuti intrinseci - ovvero i contenuti che soggiacciono a
qualunque azione posta in essere dall’organizzazione - i due elementi di cui si deve dare
una primaria definizione sono:36
 i valori (il rispetto delle persone, la collaborazione, etc.), ovvero le convinzioni
partecipate tra i soggetti, gli elementi espressamente accettati, che possono derivare
spontaneamente dall’agire organizzativo oppure possono essere definiti in funzione dei
fini da perseguire. Indipendentemente dalla loro origine, assurgono a guida delle azioni
degli individui stessi;
 gli assunti impliciti/di base, ossia gli elementi inconsci che non solo determinano il
modo di pensare, sentire, comportarsi, ma indagano (a) il rapporto dell’organizzazione
con l’environment, (b) le definizioni della realtà e (c) le relazioni interpersonali. Si tratta
del livello più profondo della cultura perché inconscio, ovvero del quale i membri
dell’organizzazione non hanno spesso una chiara consapevolezza.37 Gli assunti di
base generano nel tempo dei sistemi complessi di convinzioni - difficilmente
modificabili - perché si articolano e si combinano variamente tra di loro.

Fig. 24. – I livelli di cultura e le loro interazioni.

Artefatti e creazioni
Tecnologia Visibili ma spesso non
Arte decifrabili
Modelli comportamentali visibili e udibili

Valori
Livello più alto di
Verificabili nell’ambiente fisico
consapevolezza
Verificabili solo con il consenso sociale

Assunti di base
Rapporto con l’ambiente
Dati per scontati
Natura di immobili, tempo e spazio
Invisibili
Natura della natura umana
Inconsapevoli
Natura dell’attività umana
Natura delle relazioni umane

Fonte: Schein, 1990, p. 40.

B) Manifestazione esterna
La cultura per consolidarsi e diffondersi - favorendo l’identificazione sociale tra i
dipendenti di un’organizzazione in generale e, nello specifico, tra i membri di un gruppo di
lavoro - necessita di strumenti di manifestazione esterna, denominati anche artefatti. In
generale, i contenuti intrinseci della cultura - valori e assunti impliciti - sono espressi
principalmente in termini di credenze o miti.
I miti, spesso riferiti ai membri dell’organizzazione,38 sono le storie narrate di cui si
conserva memoria e che hanno influito sull’evoluzione ideologica o sull’acquisizione di
credenze. In generale, si tratta di racconti basati su eventi reali che circolano con
frequenza tra i dipendenti dell’impresa, in modo tale da metterne al corrente anche i

36
Cfr. E. H. Schein, M. Decastri (a cura di), op. cit., 1990, pp. 41-43.
37
Cfr. G. Bonazzi, “Storia del Pensiero Organizzativo”, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 399.
38
Cfr. R. D’anna, “Caratteri e Problemi di Progettazione della Struttura Organizzativa”, Giappichelli, Torino,
2004, p. 48.

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neoassunti, facendo fluire delle informazioni sull’organizzazione, e, consequenzialmente,
influenzando la percezione del correlato clima organizzativo.

In ogni caso, tra gli artefatti più diffusi si trovano anche:39

1. le espressioni visibili, governabili al fine di rinforzare i valori e facilitarne sia la


trasformazione in assunti impliciti sia la relativa assimilazione da parte dei soggetti
organizzativi. In generale, sono riconducibili ad elementi come l’ambiente fisico
dell’organizzazione (arredamento degli uffici e simili), il modo di vestire dei suoi
membri, nonché gli atteggiamenti manifestati nei contatti esterni;
2. i rituali, ovvero espressioni più complesse volte ad interpretare e a sancire, con la loro
ripetitività, il consolidarsi delle ideologie culturali. I riti e le cerimonie ne costituiscono i
principali eventi simbolici che rinforzano - grazie al loro carattere di evento speciale - la
condivisione di determinati valori ed ideali, creando tra essi e gli altri soggetti aziendali
quasi una sorta di vincolo affettivo. Un esempio sono i “riti di passaggio” (Gagliardi,
1995, p. 216), volti a facilitare la transizione dei dipendenti verso nuove posizioni
organizzative e, quindi, nuovi ruoli sociali;
3. gli eroi, ovvero personalità dotate di adeguata visibilità e durevolmente legate
all’organizzazione, le cui azioni - diventate ormai storie o leggende - risultano coerenti
con i principi ai quali si ispira la condotta del gruppo medesimo;
4. le reti di comunicazione culturale, ossia i canali informali di divulgazione delle
informazioni - tra cui le icone e i simboli - utilizzati per trasmettere i valori e per
informare i lavoratori sugli eventi della vita dell’impresa.

A questo punto si rende necessario indagare quale sia lo scopo della cultura, ossia gli
orientamenti che essa persegue.40

Nello specifico, assolve due funzioni critiche.

Innanzitutto, realizza l’integrazione dei processi aziendali al fine di garantire


l’adattamento e la sopravvivenza dell’organizzazione nel tempo.41 Ciò si traduce
nell’“integrare i membri in modo che essi sappiano come relazionarsi gli uni agli altri,
sviluppando un’identità collettiva (che li aiuti) a lavorare insieme in modo efficace” (Daft,
2001, p.331). Inoltre, supporta “l’organizzazione nel suo processo di adattamento
all’ambiente esterno”(Daft , 2001, p. 331) e successivamente nel suo percorso di
enactment dello stesso, determinando il modo in cui l’impresa si relaziona ad entità
esterne e consentendole di rispondere rapidamente alle richieste dei clienti o alle azioni
dei competitors. La cultura, quindi, permette agli individui – quasi come fosse un vero e
proprio collante – di condividere aspettative reciproche e comprendersi, raggiungendo un
accordo implicito sul modo corretto di pensare e fare le cose.42

Dopo aver analizzato quali sono le componenti della cultura e i fini da essa perseguiti,
è necessario descriverne il processo di formazione, un processo in movimento legato sia
alla teoria sociodinamica - ovvero alla fenomenologia dei gruppi - sia alla teoria della
leadership. Il luogo di origine della cultura - come già accennato - è il gruppo con tutte le
caratteristiche connesse. Ciò accade perché il team si staglia come l’arena in cui – a

39
Cfr. P. Gagliardi, “Le Imprese come Culture: Nuove Prospettive di Analisi Organizzativa”, Isedi, Torino,
1995, p. 212. Cfr. L. Daft, “Organizzazione Aziendale”, Apogeo, Milano, 2001, pp. 332-334.
40
Cfr. R. D’anna, op. cit., 2004, p. 47.
41
Cfr. E. H. Schein, M. Decastri (a cura di), op. cit., 1990, p. 71.
42
Cfr. M. Bortoloso Cassani (a cura di), “L’Inconscio Organizzativo: Analisi del Controtransfert Istituzionale”,
Guerini e Associati, Milano, 1993.

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fronte di problemi significativi da affrontare – si scoprono soluzioni nuove e di successo
che diventano oggetto di apprendimento da parte dei membri e che permettono
l’adattamento del gruppo e dell’organizzazione all’ambiente esterno. Ne consegue che,
essendo la cultura il risultato finale della ripetizione di un successo, è una variabile in
continuo movimento perché non è possibile utilizzare una soluzione all’infinito, dato che i
problemi mutano nel tempo e sono necessarie soluzioni diverse dalle precedenti. In
questo modo nasce una vera e propria tensione connessa alla dicotomia tra la
conservazione degli assunti legati all’esperienza precedente e la necessità di un loro
adattamento alla variabilità ambientale. Il soggetto che assume il ruolo di protagonista
nella gestione di questa tensione è il leader/knowledge manager43 che:

[…] durante i periodi di continuità (…) ha un ruolo di garante delle regole del gioco
e della coesione sociale. In tali momenti la leadership è fortemente orientata alla
difesa della cultura da possibili deviazioni e deve assicurare la coerenza dei
messaggi che esprimono in vario modo il sistema dei valori aziendali. In altro modo
il leader è responsabile della funzione “ansiolitica” della cultura: i comportamenti
conformi alle regole sociali tendono a essere ripetuti automaticamente, non per la
loro razionalità ed efficacia, ma per la loro capacità di dare tranquillità e di
rassicurare (“si è sempre fatto così, perché non dovrebbe andare bene anche
questa volta”). […]

Fonte: Decastri Maurizio in Schein E. H., 1990, op. cit.

Tale fenomeno si verifica perché, “sebbene i concetti che la costituiscono possano


provenire da ogni luogo all’interno dell’organizzazione, generalmente (la cultura
organizzativa) prende vita grazie ad un fondatore/leader che ne elabora e mette in pratica
gli assunti fondamentali attraverso una filosofia, un comportamento, un’azione o una
strategia di business” (Daft Richard, 2001, op. cit., p. 331). Il leader veicola la cultura
creando una visione delle mete fondata sui valori organizzativi, in modo tale che i
dipendenti possano percepirla come corretta ed interiorizzarla. A tal fine, deve ovviamente
procedere alla diffusione della visione stessa non solo tramite adeguati processi di
comunicazione, ma anche attraverso il buon esempio, fino ad istituzionalizzarla ricorrendo
ai sistemi e alle politiche aziendali.

In questa logica, l’azione della leadership può essere rivolta anche alla promozione e al
sostegno di processi di cambiamento organizzativo, dato che il leader si staglia come
l’unico soggetto atto a promuovere trasformazioni, assumendo un comportamento
deviante. Ciò accade perché, all’aumentare dello status attribuito ad un soggetto aumenta
anche la credibilità che gli viene riconosciuta, tanto da permettergli di mettere in
discussione le consolidate regole e norme del gruppo.

[…] Nell’azienda letta come collettivo e come aggregazione di energie sociali, il


leader perde la sua connotazione di “capo classe” attento ai processi formali, alle
regole e all’efficienza, e diviene il punto di riferimento per le strategie collettive,
colui che attiva la “forza” e la focalizza verso gli obiettivi aziendali. Il ruolo
principale che gli è assegnato riguarda i momenti di riorientamento: il leader è
l’unico personaggio aziendale abilitato alla creazione e al governo della
discontinuità e si trova ad avere la responsabilità di “vedere” il cambiamento e di
“prendere per mano” il gruppo per portarlo verso nuovi assetti strategici e
organizzativi. […]

43
Cfr. E. H. Schein, M. Decastri (a cura di), op. cit., 1990, pp. 157-158.

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Fonte: Decastri Maurizio in Schein E.H., 1990, op. cit.

Alla luce di quanto detto - in caso di riorientamento - il leader deve essere in grado di
sviluppare il sentimento di appartenenza al gruppo e all’organizzazione attraverso la
“ridefinizione cognitiva” 44 dei valori e degli assunti di base della cultura organizzativa. Per
“ridefinizione cognitiva” si intende la capacità del leader di attribuire ai valori esistenti un
nuovo significato rispetto a quello conosciuto fino a quel momento, nonché la capacità di
introdurre ex novo nuove concezioni, nuovi assunti impliciti e nuovi valori…passando per
le espressioni visibili ovvero per gli artefatti.

Ciò implica l’introduzione di nuovi miti, riti, simboli collegati con i valori che si intendono
diffondere e coerenti anche con il nuovo modello di competenze che si vuole diffondere e
sviluppare a supporto degli stessi. La finalità ultima è la creazione di un’unica identità
organizzativa, realizzando un’efficace integrazione interna che consenta di portare a buon
fine il processo di cambiamento in atto.

3.2. Il sistema premiante

La politica premiante costituisce un punto di forza per valorizzare il contributo del


capitale umano attraverso l'apprendimento continuo, la crescita professionale e
certamente tramite un sistema incentivante condiviso dai responsabili di area e - in
un'ottica di trasparenza e coinvolgimento - conosciuto da tutti i collaboratori.

D’altronde, non esiste una politica premiante valida per tutte le stagioni, ma possiamo
elencare dei principi guida alla sua progettazione:
- valutazione delle prestazioni e dei risultati conseguiti;
- garanzia di coinvolgimento di tutto il personale anche mediante turnazione;
- l'incentivazione non è predeterminata in misura fissa ma è variabile in virtù
degli obiettivi assegnati e della disponibilità di finanziamento;
- applicazione selettiva degli incentivi da parte dei responsabili funzionali;
- garanzia di equità e di meritocrazia nell'applicazione della politica premiante.

Nella fattispecie, “il sistema premiante può essere definito come l’insieme delle variabili
e delle loro connessioni volte a produrre riconoscimenti equi e motivanti nei riguardi delle
persone attive all’interno dell’organizzazione” (Paneforte, 1995, p. 306).
E’ costituito dai seguenti sottosistemi:
1) il sub-sistema di carriera;
2) il sottosistema retributivo.
Il sottosistema di carriera attiene alla componente “soft” dell’organizzazione, ovvero
alla valorizzazione e allo sviluppo delle persone attraverso la strutturazione di possibili
sentieri di carriera all’interno della struttura organizzativa.
Il sottosistema retributivo, al contrario, è la componete “hard” che afferisce ai
presupposti e ai fattori che determinano l’articolazione delle ricompense da parte
dell’azienda nei confronti del personale.

Le due dimensioni delineate operano secondo una logica complementare in quanto


sono rivolte a soddisfare tutti e tre gli aspetti che contraddistinguono il rapporto di lavoro:
1. lo scambio economico, prestazione versus remunerazione;

44
Cfr. Decastri Maurizio in Schein Edgar H., 1990, op. cit., p. 307.

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2. lo scambio psicologico in termini di benefici/contributi e, pertanto, di aspettative
reciproche;
3. il rapporto di appartenenza in quanto membri dell’organizzazione.

[…] Nel rapporto di scambio considerato coesistono dunque elementi specificati,


quali appunto il contratto economico-giuridico, ed altri elementi riconducibili alle
aspettative delle due parti. Questi elementi non sono scritti, ma il loro valore è
parimenti essenziale nel quadro del funzionamento e sviluppo dell’organizzazione,
con specifico riguardo alla motivazione e alla partecipazione delle persone. […]

Fonte: Paneforte, 1995, p. 308.

Nello specifico, il sistema retributivo contribuisce a soddisfare il bisogno degli individui


connesso allo scambio economico, mentre il sistema di carriera soddisfa la dimensione
psicologica. La necessità di appartenenza è soddisfatta in uguale misura da entrambi gli
strumenti.

[…] Sul piano dei meccanismi operativi adottati dalle realtà organizzative sono stati
messi a punto un gran numero di modelli, metodi e procedure che, interagendo
reciprocamente, contribuiscono a legare in modo complesso il sistema retributivo
allo sviluppo delle carriere. […]

Fonte: Paneforte, 1995, p. 308.

Per quanto riguarda la progettazione del sistema di carriera, occorre che vengano
rispettati i seguenti principi chiave:
1. monitorare continuamente le competenze, le potenzialità e le motivazioni delle
persone dell’organizzazione;
2. definire ed aggiornare continuamente le opportunità di carriera derivanti dalle
politiche di sviluppo aziendale e dalle scelte strategiche di innovazione e cambiamento.
L’errore peggiore che si potrebbe commettere è quello di far fare carriera alle persone
solo in base al perseguimento degli obiettivi prefissati senza considerare il possesso di
competenze (anche latenti) alla copertura della nuova posizione organizzativa.
Invece, la politica retributiva - in coerenza con quanto detto in precedenza - deve
basarsi sui seguenti criteri:
1) Coerenza esterna: L'azienda deve applicare una politica delle retribuzioni coerente
rispetto a quella praticate sul mercato del lavoro, al fine raggiungere una certa
competitività anche nell'applicazione degli stipendi. Per questo motivo, con indagini di
mercato, viene monitorata la posizione degli stipendi, per capire dove l'azienda si dirige,
soprattutto rispetto alle aziende che operano nello stesso settore.
2) Coerenza interna: La politica retributiva viene applicata nel rispetto dell'organigramma
aziendale e cercando di mantenere allineate le retribuzioni di figure omogenee per ruolo
ed esperienza. In particolare, la retribuzione sarà composta da due elementi:
1. la retribuzione fissa – connessa alla criticità della posizione all’interno
dell’organizzazione;
2. la retribuzione variabile legata alla performance del titolare della posizione stessa e,
in particolare, all’allineamento del comportamento agito con quello atteso
dall’organizzazione.

[…] Il sistema retributivo risulta efficace quando armonizza la remunerazione (ossia


l’insieme della retribuzione e delle altre componenti del sistema retributivo) con le

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esigenze di equità interna e di competitività con il mercato esterno di riferimento.
[…]

Fonte: Paneforte, 1995, p. 317.

Alla luce di quanto descritto, discende che gli elementi oggetto di valutazione della
prestazione - da cui scaturiscono le conseguenze in termini di carriera e di retribuzione
variabile - dovranno essere coerenti con i comportamenti che si richiedono al personale e
con le competenze che si intendono diffondere, valorizzare e sviluppare.

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