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PARTE PRIMA TEMI GENERALI E FONTI CAPITOLO I Il Diritto del Lavoro.

Definizione, Evoluzione storica e Tendenze attuali


1. Ambito e Definizione del Diritto del Lavoro
Il diritto del lavoro ha origini, relativamente recenti (ultimi decenni dell800), che risalgono all'avvento dell' industrializzazione ed al conseguente impiego di masse di lavoratori nelle fabbriche. Le relative regole sono dunque nate a tutela della parte debole del rapporto di lavoro e, pi precisamente, a tutela del lavoratore dipendente. questo il motivo per il quale quando si paria di diritto del lavoro si fa riferimento a quel complesso di regole riguardanti il lavoro dipendente e, innanzitutto, il lavoro dipendente nell'industria (Lavoro Subordinato). Per converso, il Diritto del Lavoro non riguarda il Lavoro autonomo. Col tempo, per, accaduto che anche alcune figure di lavoratori autonomi, ritenute deboli e meritevoli di protezione (come gli agenti di commercio), abbiano beneficiato dellapplicazione mirata di alcune norme lavoristiche, o comunque a contenuto protettivo. In sostanza, lambito soggettivo del diritto del lavoro, pur rimanendo concentrato sul lavoro subordinato, ha comunque teso ad allargarsi, attraendo alcune categorie di lavoratori non subordinati. Tradizionalmente, dallambito della disciplina era escluso anche il Lavoro alle dipendenze delle P.A. e ci perch si riteneva che alla natura pubblicistica del datore di lavoro ed alla funzione del pubblico dipendente dovesse corrispondere una diversa fonte normativa del rapporto di lavoro nonch una diversa competenza giurisdizionale, devoluta al TAR, ossia devoluta allo stesso giudice chiamato a giudicare gli atti della P.A. Ma, con il d.lgs. 29/1993, e con altri che sono seguiti, il dogma pubblicistico stato superato, e si realizzata la contrattualizzazione (o privatizzazione) del lavoro pubblico. Oggi le norma attuative del Processo di Privatizzazione del Pubblico Impiego sono contenute nel d.lgs. 165/2001, tuttora interessato da innumerevoli modifiche ed integrazioni. Allinterno dei confini, pur nobili, il diritto del lavoro si ripartisce tradizionalmente fra un Diritto del Lavoro in senso stretto (il diritto del rapporto individuale di lavoro subordinato) e il Diritto Sindacale (il diritto dei rapporti collettivi, che regola i sindacati, il contratto collettivo, lo sciopero, le rappresentanze dei lavoratori in azienda). Risale ad epoca pi recente un ulteriore ampliamento dellambito della materia, acquisendo una crescente importanza, in seno ad essa, la normativa del mercato del lavoro, ossia di quello spazio ove si incontrano, o dovrebbero incontrarsi (in un mercato ben funzionante), domanda e offerta di lavoro. Siffatto allargamento dipende dalla maggiore attenzione riservata ai meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro, anche e soprattutto in vista di una pi efficace

protezione dei cittadini disoccupati, nonch di coloro che neppure tentano di inserirsi nel mercato del lavoro.

2. Le premesse stanche del diritto del lavoro: la Rivoluzione industriale.


I principi di libert affermati dalla Rivoluzione francese favorirono tra l'altro la libert e l'iniziativa imprenditoriale, la libera contrattazione e, con esse, lo sviluppo, progressivo e rapido, della rivoluzione industriale. Il diritto del lavoro ha preso avvio dagli sconvolgimenti economici prodotti dalla Rivoluzione Industriale. Questultima fu promossa dalla Borghesia, la quale aveva vitale bisogno di libert (Libert economica), per potersi affrancare dalle maglie ormai logore dellEconomia Feudale. Libert significava liberazione dai "lacci e laccioli" delle vecchie corporazioni, ma anche astensione dello Stato da regolamentazioni dirigistiche dell'attivit economica. Ma dalle trasformazioni economiche scaturirono anche grandi sconvolgimenti sociali; infatti, la produzione industriale, pur avvalendosi dei progressi tecnologia, era comunque imprescindibile dall'impiego di una mano d'opera pi o meno qualificata. Le prospettive e le aspirazioni collegate all'impiego nell'industria provocarono un massiccio esodo dalle campagne e la formazione di una nuova classe sociale, la cosiddetta classe operaia, (contrapposta alla classe dirigente imprenditoriale) che solo attraverso specifiche leggi avrebbe potuto ottenere un'adeguata protezione della sua posizione contrattuale debole.

3. La nascita del sindacalismo.


La nuova classe dirigente, cio la parte datoriale del rapporto di lavoro composta da imprenditori e capitalisti, non vedeva di buon occhio la formazione di organizzazioni capaci d tutelare interessi contrapposti ai propri e, quindi, di diminuire la loro posizione predominante nella disciplina del contratto individuale di lavoro. Tale posizione forte era determinata da una serie di fattori concorrenti quali: a) l'assenza di una legislazione protettiva della parte contraente debole; b) un'offerta di lavoro di gran lunga superiore alla domanda; c) l'assenza di associazioni di categoria capaci di creare compattezza, e con essa, forza nella parte contrattuale debole; d) il basso livello culturale della classe lavoratrice dipendente. Sul nascere, pertanto, il sindacalismo incontr forti opposizioni, anche negli ambienti politici, che m Francia si manifestarono addirittura con la repressione penale. Il fenomeno, tuttavia, attesa la sua rilevanza sociale, non poteva lasciare indifferente il legislatore ne poteva restare estraneo all'ambiente politico, infatti: in Inghilterra il sindacalismo diede vita ad un partito politico, il Labour Party (partito dei lavoratori, attuali laburisti), mentre in altri paesi, come l'Italia, le massime organizzazioni sindacali avevano connotazioni ed orientamenti politici ben evidenti. Il sindacalismo nasceva, comunque, con due principali finalit di tutela della classe lavoratrice dipendente: quella della contrattazione collettiva e quella dell'organizzazione di forme di assistenza a favore di lavoratori bisognosi. Lassociazionismo sindacale and formandosi in vari modi: talvolta con riferimento alla particolare professionalit o mestiere e talaltra con riferimento al settore di lavoro.

Il punto di forza del sindacato - il sistema, cio, attraverso il quale il sindacato poteva contrastare il potere della classe dirigente - era solo lo sciopero, ossia l'astensione dal lavoro, causando in tal modo gravi danni economici all'imprenditore. Inizialmente lo sciopero era penalmente perseguito e, in Italia, solo col codice Zanardelli del 1889 tale forma di protesta dei lavoratori venne resa tollerabile e, tuttavia, senza lasciare lo scioperante indenne da responsabilit civile per il danno causato con la sua astensione dal lavoro.

4. Il back ground politico del diritto del lavoro.


Quella che veniva in tutta evidenza con la nascita del sindacalismo era la cosiddetta "questione sociale", che aveva, quale elemento fondamentale, il diritto al lavoro. Con essa il diritto al lavoro andava ad aggiungersi ai principali diritti di libert e di propriet sanciti dalla Rivoluzione francese. Il diritto al lavoro era il diritto di soddisfare bisogni e le esigenze di vita proprie e della propria famiglia, producendo con il lavoro il reddito a tal fine necessario. Sul piano ideologico, pertanto, diverse furono le direzioni e la relativa influenza sullo sviluppo sociale. Da un lato, infatti, si andavano affermando le teorie marxiste, che pur interessandosi dei diritti del lavoratore volevano, sostanzialmente, una riforma dello stato rifondato sulle ceneri della borghesia e della propriet industriale; dallaltro, invece, prendevano piede altre teorie che intravedevano soluzioni pi moderate di adattamento e di progressiva riforma della societ, senza alcun bisogno di un traumatico abbattimento di un modello statuale per sostituirlo con un altro. Si assisteva, in pratica, nei paesi europei, alla nascita del socialismo nelle sue varie espressioni ed articolazioni, anche allontanandosi dal pensiero marxista il cui vero obiettivo era la riforma dello stato e non l'affermazione dei diritti del lavoratore.

5. Il diritto del lavoro delle origini.


II riconoscimento legale del sindacalismo e delle sue azioni non era sufficiente a risolvere la situazione del lavoratore dipendente che in sede contrattuale restava assoggettato alla posizione forte del datore di lavoro. Quel ch'era necessario, in pratica, era il riequilibrio delle posizioni contrattuali tra lavoratore e datore di lavoro e ci sarebbe stato possibile soltanto intervenendo con norme imperative ed inderogabili in materia di contratto individuale di lavoro, imponendo determinati obblighi al datore di lavoro e, al tempo stesso, precludendo al lavoratore la stipula di contratti individuali per esso peggiorativi rispetto alle nuove norme. In tal modo, ossia con atti normativi specifici, il diritto del lavoro andava a formarsi con carattere di specialit rispetto al diritto privato (essendo quest'ultimo governato dal carattere dispositivo, ossia dalla facolt delle parti di derogarvi concordemente), regolando con proprie norme, inderogabili, quel particolare rapporto contrattuale che il rapporto di lavoro.

6. Il ventennio fascista.
Con l'avvento del fascismo si ebbe un radicale cambiamento istituzionale nei confronti del sindacato, la cui sopravvivenza era subordinata alla sua compatibilit col regime corporativo. Non di meno in tale periodo vi furono numerose innovazioni legislative che sostanzialmente realizzavano gli obiettivi sindacali.

Sul fronte sindacale, in particolare, la Confndustria, rappresentante la parte datoriale, riconosceva alle organizzazioni sindacali fasciste il monopolio della rappresentanza sindacale, cos eliminando di fatto i preesistenti sindacati rossi (socialisti e comunisti) e bianchi (moderati e cattolici) ed ottenendo, altres, l'eliminazione delle "commissioni sindacali interne", ossia delle rappresentanze sindacali aziendali Il governo, dal canto suo, si riserv la facolt di legittimare un solo sindacato - cosa che fece - a condizione che questo fosse rappresentativo di almeno il 10% dei lavoratori della categoria interessata e purch "compatibile" col regime corporativo, ossia col comune intento di realizzare gli obiettivi di governo. In tal modo veniva messo fuori gioco il primo grande sindacato costituitosi nel 1906 su impulso del partito socialista: la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro). La legittimazione di un unico sindacato di gradimento del governo port, non di meno, all'affermazione della contrattazione collettiva quale fonte normativa del rapporto di lavoro dipendente, non derogabile se non a favore del lavoratore. Le innovazioni normative del ventennio fascista videro l'abolizione dello sciopero e, con esso, della serrata, il miglioramento delle norme a tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli e delle lavoratrici madri nonch in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro ed in materia di assistenza previdenza (con l'istituzione dellINPS). La legislazione del ventennio fascista culmin col codice civile del 1942 nel quale fece la comparsa la definizione di "lavoro subordinato", che and a sostituire la preesistente ed ormai inadeguate definizione di "locazione d'opera" di cui al primo codice del 1865. Il grande merito della disciplina del contratto di lavoro, contenuta nel codice, fu altres quello di applicarsi indifferentemente, per la prima volta, a tutte le categorie di lavoratori subordinati. Si realizz, in tal modo, una "storica" unificazione normativa del regime giuridico del lavoro subordinato.

7. Il diritto del lavoro repubblicano: dalla Costituzione allo Statuto dei lavoratori.
Dopo la seconda guerra mondiale, una volta abolite le strutture sindacali corporative, si ricostitu il movimento sindacale riunitosi nella CGIL, unico grande sindacato preesistente. Tale unit, per, dur poco ed alla spaccatura politica, tra forze socialiste e comuniste e forze moderate e cattoliche, fece eco la spaccatura sindacale e dalla CGIL, di ispirazione social-comunista, si staccarono la CISL, di ispirazione cattolica, e la UIL, di ispirazione repubblicano-socialista. Sul piano normativo un nuovo impulso allo sviluppo di un diritto del lavoro venne dalla Costituzione che, pur esaltando i diritti del lavoratore, non era di per se sufficiente a disciplinare la materia, per cui tale compito tornava nelle mani del legislatore. Le prime innovazioni si ebbero negli anni '50 del secolo scorso, ma fu negli anni '60 che, con la partecipazione dei socialisti al governo, si ebbero significative riforme a tutela dei lavoratori dipendenti. Tra queste si ricordano: la legge n. 1369 del 1960, sul divieto di interposizione nell'impiego di mano d'opera, finalizzata a contrastare il fenomeno del caporalato; la legge n. 230 del 1962, limitativa delle assunzioni a tempo determinato e perci introduttiva del principio della stabilit del rapporto di lavoro;

la legge n. 604 del 1966, limitativa della facolt di licenziamento. Gli anni 70 hanno visto una sempre maggiore partecipazione sindacale, anche a livello aziendale con la ricostituzione delle commissioni interne, risentendo favorevolmente di fenomeni di forte contestazione politica e sociale. Ed in tale clima di contestazione, caratterizzata dalla nascita di forze extraparlamentari di sinistra e da episodi di estremismo violento, che vide la luce la legge 20 maggio 1970, n. 300, nota come Statuto dei diritti dei lavoratori (di seguito pi semplicemente Statuto), portatrice di significative riforme a tutela del sindacato e dei lavoratori, introduttiva, tra l'altro, del procedimento giudiziario speciale di cui allart. 28 sulla repressione della condotta antisindacale. Alla legge n. 300 del 1970 fecero seguito altri importanti provvedimenti legislativi tra i quali vanno ricordati: la legge n. 1204 del 1971, sulla tutela delle lavoratrici madri; la legge n. 533 del 1973, sul procedimento processuale speciale in materia di controversie di lavoro; la legge n. 903 del 1977, sulluguaglianza nel lavoro tra luomo e la donna. Altre particolari riforme riguardarono la protezione dei salari attraverso listituto cosiddetto della scala mobile (ossia della contingenza per il settore privato, e dellindennit integrativa speciale, per il settore pubblico), consistente nell'automatico adeguamento dei salari al crescere dell'inflazione. Tale istituto, caratterizzante l'autonoma dei salari rispetto all'andamento dell'economia del paese, sarebbe stato poi abolito a partire dal 1992.

8. Il diritto del lavoro della crisi: gli anni '80.


Negli anni '70 s'era affermata l'indipendenza dei salari rispetto all'andamento dell'economia del paese e la classe lavoratrice godeva dei relativi benefici, ossia della dinamica salariale ottenuta in sede contrattuale ma a tutto discapito di un'economia che avrebbe rette a tale situazione finch stabile. Tale stato di grazia non era destinato a durare. Infatti la crisi petrolifera, conseguente al conflitto tra arabi ed israeliani del 1973, ebbe forti ripercussioni sull'economia di tutti i paesi industrializzati, i quali si trovarono obbligati a forti cambiamenti caratterizzati da interventi statali a favore dell'occupazione ma con una pesante contropartita, e cio con la nascita di una sorta di neocorporativismo, o contraffazione trilaterale, consistente nella partecipazione del governo alla politica del lavoro, con una sua forte ingerenza nelle scelte che fino ad allora erano il frutto di relazioni sindacali indifferenti rispetto alla politica economica di governo. Le relative soluzioni, mirate a sostenere l'economia del paese, cominciarono a colpire gli aspetti pi garantisti del rapporto di lavoro dipendente, frutto di conquiste sindacali che, per, consentivano eccessi non tollerabili in una fase congiunturale, ed il sindacato dovette rassegnarsi a fare qualche passo indietro. Si pensi alla materia delle retribuzioni e in particolare alla Scala Mobile; questultima era un sistema di adeguamento automatico delle retribuzioni al costo della vita, di tal che le retribuzioni restavano in parte protette dalle ripercussioni economiche dei momenti congiunturali. Tale sistema stato abolito nel 1992 al termine di un periodo sperimentale di modifica iniziato nel 1986.

Tali soluzioni, frattanto, furono possibili solo con una cosciente partecipazione del sindacato che in tal modo and ad assumere un ruolo pi politico che sindacale e per ci stesso non esente da conflitti interni e spaccature con la pi intransigente CGIL, faticosamente ricostruite, che rispecchiavano le diverse posizioni delle forze politiche.

9. La crisi del diritto del lavoro: gli anni '90.


Alla crisi economica degli anni '80, che mise in crisi il diritto del lavoro in termini di contenimento delle istanze sindacali, fece seguito la crisi dello stesso diritto del lavoro, negli anni '90, che mise in discussione la sua stessa ragion d'essere. Alcuni aspetti della globalizzazione ed i cambiamenti della politica interna e della politica estera tesisi necessari nella prospettiva di entrare in Europa, hanno posto in secondo piano il protezionismo che il diritto del lavoro intende garantire a favore del lavoratore dipendente. Le inversioni di tendenza imposte dall'apertura ai mercati internazionali, dall'ingresso in Europa, dall'invasione di prodotti di importazione realizzati a costi inferiori grazie all'impiego di mano d'opera priva della stessa protezione di cui gode il lavoratore nazionale, si sono concretizzate in scelte legislative che privilegiano l'iniziativa imprenditoriale e la massima flessibilit a discapito di soluzioni garantiste della stabilit del posto di lavoro. Le disposizioni di legge emanate in quel periodo presupponevano, dunque, una maggiore flessibilit nella domanda, attraverso forme diversificate, ed una pari flessibilit dell'offerta di lavoro, a discapito della stabilit del posto di lavoro. Tale cambiamento, segnato da importati disposizioni di legge quali quella sui licenziamenti collettivi e la mobilit (legge n. 223 del 1991) ha evidenziato l'esigenza di una nuova regolamentazione del diritto del lavoro che, tuttavia, non doveva tradursi in una deregolamentazione, ossia nella negazione dell'essenza stessa del diritto del lavoro quale normativa speciale che tenesse distinto il rapporto di lavoro dagli altri rapporti contrattuali contemplati dal diritto comune. Pertanto alla maggiore flessibilit ed al maggior margine di manovra riconosciuto alle imprese non corrisponde una pari diminuzione dei diritti del lavoratore dipendente bens una flessibilit delle prestazioni e dell'offerta di lavoro adeguate ai tempi ed all'andamento del mercato secondo modelli non pi compatibili con l'assetto protezionista e collettivizzato degli anni '60. I criteri di flessibilit caratterizzanti il radicale cambiamento del primi anni del nuovo millennio hanno visto l'ingresso del privato nella gestione del mercato del lavoro (intermediazione della mano d'opera), la nascita del lavoro interinale, lo sviluppo delle collaborazioni coordinate e continuative (L'impiego di tali nuove forme di lavoro, prima riservato al solo settore privato, stato recentemente esteso al settore pubblico con la legge n. 133 del 2008). .

10. Il libro bianco e le politiche del lavoro del governo Berlusconi


Con l'ingresso in Europa si accentuata l'attenzione sul mercato del lavoro e sulle politiche del lavoro e, quindi, sulla prospettiva di realizzare assetti normativi, in materia di lavoro, coerenti con gli obiettivi comunitari e con gli impegni assunti in sede comunitaria dagli stati membri. In ambito europeo stata ipotizzata una politica intesa a stimolare i mercati del lavoro, con l'obiettivo di dare impulso alla produzione di reddito ed all'economia, e, tuttavia, lasciando agli stati membri la concreta attuazione delle relative iniziative.

Pur nel comune intento di incrementare il tasso di occupazione, i programmi delle forze politiche si sono ispirati a posizioni diverse e si sono diversamente indirizzati: il centrosinistra si ispirato a posizioni pi conservatrici delle conquiste sindacali (modello renano) mentre il centro-destra si ispirato a soluzioni pi progressiste (modello americano), essendo favorevole ad introdurre forti cambiamenti nel mercato del lavoro. Tali innovazioni sono state realizzate col governo Berlusconi il cui programma venne presentato, nel 2001, con il Libro bianco sul mercato del Lavoro. Questo venne elaborato da Marco Biagi, giuslavorista che aveva collaborato col governo D'Alema, nell'intento di trovare soluzioni alternative, in materia di mercato del lavoro, che favorissero le ripresa economica del paese senza pregiudicare le conquiste sindacali degli anni addietro. Il Libro bianco ipotizzava profonde riforme in materia di mercato del lavoro sia strutturali, consentendo l'ingresso del privato nella gestione del mercato del lavoro, sia contrattuali, prevedendo forma di lavoro flessibile. In particolare, con esso si sosteneva la necessita di spostare lattenzione alla protezione del mercato del lavoro, piuttosto che alla protezione del rapporto di lavoro, con lintroduzione di norme meno protettive del rapporto di lavoro in termini di stabilit ma offerenti maggiori prospettive di reimpiego del lavoratore rimasto disoccupato. Il programma del Libro bianco stato tradotto in numerosi provvedimenti legislativi ispirati ai citati criteri di flessibilit e meno attenti al consenso sindacale, quali i decreti legislativi: n. 368 del 2001, sul rapporto di lavoro a tempo determinato; n. 66 del 2003, sugli orari di lavoro; n. 276 del 2003, sul mercato del lavoro.

11. Le prospettive del modello sociale europeo.


Se innegabile la necessit di una revisione del diritto del lavoro in direzione di una maggiore flessibilit, tale flessibilit non deve costituire l'obiettivo primario ne deve risolversi nel sostanziale annullamento della ragion d'essere del diritto del lavoro, ossia della sua funzione protettiva di determinati diritti e di determinati valori che caratterizzano la cultura occidentale europea. Ecco che gli attacchi alle conquiste sociali vengono anche dall'esterno, ossia da quei paesi emergenti che non vedono di buon occhio la conquiste sociali che fanno parte della nostra cultura e che costituiscono un serio pericolo per la loro economia.

CAPITOLO II Diritto del Lavoro e Scienze Sociali


1. Introduzione.
Il diritto oggi considerato una scienza sodale, in quanto espressione della societ per la quale esso vige, del suo livello culturale e della sua evoluzione. In fase di studio e principalmente in sede di interpretazione del diritto occorre, pertanto, avere in considerazione l'evoluzione della societ e, con essa, di quei fattori esterni all'ordinamento giuridico che con esso interagiscono in maniera pi o meno intensa. Dunque, il diritto del lavoro, in quanto scienza sociale, in stretta relazione con altre scienze sociali che studiano le pi significative espressioni della societ: dall'economia alla sociologia alla filosofia.

2. L'economia.
Una delle scienze che entra necessariamente in relazione col diritto del lavoro senz'altro quella economica. I relativi rapporti, tuttavia, sono particolarmente delicati a causa dei diversi valori fondamentali. L'economia, infatti, ha quale valore fondamentale quello dell'allocazione ottimale delle risorse in un determinato mercato, mentre il diritto del lavoro ha quale valore fondamentale quello della tutela della parte debole del mercato del lavoro. L'economia del lavoro quella branca dell'economia che studia il mercato del lavoro ossia il mercato nel quale la merc scambiata il lavoro umano. Il mercato del lavoro, tuttavia, non pu equipararsi ad un qualsiasi altro mercato nel quale si raggiunge un equilibrio tra domanda e offerta, in quanto l'offerta non pu tendere al ribasso quando la domanda si ritrae; il diritto del lavoro perci definito antieconomico, in quanto non rispetta la legge di mercato di tendenza all'equilibrio ed , anzi, caratterizzato da un'incidenza programmatica sui meccanismi di mercato, tesa allo squilibrio, determinata dalla contrattazione collettiva e dalle leggi di tutela del rapporto di lavoro. Va perci respinta la teoria che un mercato del lavoro lasciato a se stesso, ossia non protetto, nel quale, cio, non vi siano minimi salariali invalicabili, risolverebbe il problema dell'occupazione (ovvero della disoccupazione) sol perch l'accettazione di minori retribuzioni aumenterebbe la domanda. Una tale ipotesi stata smentita dai fatti. Scienza economica e diritto del lavoro devono tuttavia convivere e non detto che la posizione conflittuale, determinata dai differenti valori di base, non possa invece contribuire per uno sviluppo positivo di entrambe le scienze.

3. La sociologia.
Un'altra disciplina che va ad intersecarsi col diritto del lavoro la sociologia e, pi precisamente, la sociologia giuridica. La sociologia la scienza che studia i fenomeni e le manifestazioni tipiche della vita associata e ne trae le sue leggi generali. Ebbene il diritto del lavoro nato innanzitutto quale diritto sindacale ed immaginabile che questo, prima di raggiungere una qualsiasi forma di regolamentazione, stato caratterizzato da una forma spontanea di comportamento collettivo in un determinato contesto sociale. Diritto del lavoro e sociologia sono, dunque, in stretta correlazione e diverse branche della sociologia vanno ad intersecarsi col diritto del lavoro, quali, ad esempio: la sociologia industriale, che studia i fenomeni legati all'industrializzazione e al suo impatto con lambiente esterno; la sociologia dell'azienda, che studia la conformazione, l'organizzazione e le relazioni interne dell'azienda; la sociologia dell'organizzazione che studia il funzionamento delle organizzazioni, ivi comprese quelle dimpresa; la sociologia del lavoro che studia le variazioni del valore, dellorganizzazione e della qualit del lavoro in differenti settori produttivi; la sociologia del mercato del lavoro, che studia le dinamiche della domanda e dell'offerta di lavoro.

4. La filosofia.
I principi di libert e di eguaglianza, esaltati dall'illuminismo e dalla Rivoluzione francese, hanno portato all'affermazione dei diritti dell'uomo e di quei valori che costituiscono il fondamento della nostra cultura occidentale; i diritti di libert e i diritti umani quali diritti fondamentali dell'uomo libero. Il diritto del lavoro portatore degli stessi valori e concorre al progresso della nostra societ e, tuttavia, l'uomo ed i diritti che esso considera non sono quelli del cittadino qualunque bens quelli dell'uomo lavoratore i cui diritti vengono, talvolta, in contrapposizione con la libert altrui. Nel diritto del lavoro l'eguaglianza che ha preso il sopravvento sulla libert e tale eguaglianza, ove non sia realizzata spontaneamente, deve essere resa concreta dallintervento dell'uomo o delle istituzioni.

CAPITOLO III La Costituzione


1. La Costituzione.
La Costituzione repubblicana, in vigore dal primo Gennaio 1948, costituisce le fondamenta del nostro ordinamento giuridico. Essa considerata la norma della concordia in quanto realizzata col concorso e col consenso di tutte le forze politiche, le stesse che immediatamente dopo avrebbero dato luogo ai conflitti tipici del nostro sistema politico (componenti Cattoliche, LaicoRepubblicane e Socialcomuniste). La Costituzione ha una sua importanza non solo giuridica, quale norma fondamentale portatrice dei principi generali cui l'ordinamento deve costantemente ispirarsi, bens anche storica, in quanto essa ha accompagnato tutti i cambiamenti dello staro liberale in stato di diritto e, quindi, in stato sociale. Coerentemente con la Costituzione vanno perci lette le norme che caratterizzano la nostra evoluzione e l'evoluzione della societ e del diritto, ed dalla stessa Costituzione che prendono vita diritti umani ulteriori rispetto a quelli di libert: il diritto al lavoro, il diritto alla previdenza, il diritto all'assistenza, il diritto ad una giusta retribuzione. Il diritto del lavoro ha, quindi, un fondamento costituzionale e la collettivizzazione del rapporto di lavoro ed il suo fine di tutela della posizione del lavoratore dipendente si pongono a pieno titolo quali norme attuative della Costituzione. I Principi Fondamentali posti dalla Costituzione in tema di lavoro sono i seguenti: Art. 1: LItalia una Repubblica Democratica, fondata sul lavoro Art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalit, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidariet politica, economica e sociale. Art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignit sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sodale, che, limitando di fatto la libert e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. EGUAGLIANZA FORMALE. Art. 4: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere d svolgere, secondo le proprie possibilit e la propria scelta, una attivit o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della societ DIRITTO DEL LAVORO. Art. 35: La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.

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Riconosce la libert di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero TUTELA DEL LAVORO Art. 41: L'iniziativa economica privata libera. Non pu svolgersi in contrasto con la utilit sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libert, alla dignit umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perch l'attivit economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a firn sociali LIBERT DI INIZIATIVA ECONOMICA.

2. Fondata sul lavoro (Art. 1 e 4 Cost.)


All'art. 1 la Costituzione precisa che l'Italia una Repubblica democratica fondata sul lavoroo. Al successivo art. 4 la stessa Costituzione sancisce il riconoscimento del diritto al lavoro4, il che enfatizza l'importanza del lavoro e senza alcuna distinzione, ma il riconoscimento del diritto e l'impegno a far s che tale diritto sia effettivo non significa che lo Stato si sia assunto lonere di assicurare ad ognuno un posto di lavoro. E' significativa, invece, la precisazione di cui al secondo comma dell'art. 4, laddove statuito il dovere del cittadino di svolgere un'attivit lavorativa, a sua scelta, al fine di concorrere al progresso della societ. Una libera scelta, dunque, secondo le proprie capacit professionali ma anche un obbligo finalizzato al progresso della societ. La norma costituzionale lascia in tal modo vedere un legame diretto tra lavoro e progresso della societ e finalizza il lavoro non solo al sostentamento del lavoratore e della sua famiglia bens al progresso materiale e spirituale della societ. Essa, quindi, individua nel lavoratore cos ricollegandosi all'art. 1 - il principale artefice del progresso della societ e pone altres le basi per un diritto del lavoro, giacch conferisce al legislatore ordinario il compito di attuare i principi ivi sanciti, di garantire le condizioni per rendere effettivo l'esercizio del diritto al lavoro e di rimuovere ostacoli e disparit in tal senso ostative.

3. I diritti inviolabili (Art.2 Cost.)


L'art. 2 della Costituzione sancisce il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove egli svolge la sua personalit5, e per formazioni sodali devono intendersi tutti i contesti tipici della nostra societ quali, anche, il mondo del lavoro. Ci significa che il cittadino considerato titolare di diritti inviolabili non solo come singolo ma anche come soggetto che assume una sua qualificazione in base alla posizione sociale; quindi lindividuo anche titolare di diritti correlati alla sua posizione di lavoro in quanto nell'azienda, sia privata che pubblica, egli esplica la sua personalit. Oltre a sancire diritti, lart. 2 richiede l'adempimento "dei doveri inderogabili di solidariet politica, economica e sociale". Ci si inserisce perfettamente nella logica sociale che pervade la Carta. Al dovere di solidariet possono essere ricondotti, infatti, lo stesso dovere dell'imprenditore di occuparsi, a vari livelli, della condizione dei propri dipendenti, nonch quello di finanziare, attraverso il pagamento dei contributi obbligatori, i trattamenti previdenziali destinati ai lavoratori.

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4. L'eguaglianza formale (Art. 3 Ico. Cost.)


L'art. 3 della Costituzione, sulla scia dei principi di eguaglianza affermati dalle rivoluzioni francese ed americana, con la statuizione secondo la quale tutti i cittadini hanno pari dignit sociale e sono eguali davanti alla legge, ha sancito lo stesso principio in termini di parit di trattamento. Tale principio, tuttavia, cos come affermato dalla Corte costituzionale, presuppone un divieto di disparit di trattamento di situazioni eguali ma un pari divieto di parit di trattamento di situazioni disuguali. Un tale principio, calato nel mondo del lavoro, si traduce in un obbligo di non discriminazione del lavoratore a causa della sua diversit di sesso, condizione sociale, convinzioni religiose o altro e altres presuppone un diverso trattamento, in tal caso pi favorevole, nei confronti dei soggetti in posizione di diversit e di sostanziale svantaggio rispetto ad altri, quali le donne e i disabili.

5. L'eguaglianza sostanziale (Art. 3 IIco. Cost.)


Il secondo comma dell'alt. 3 della Costituzione va oltre la dichiarazione di principi di cui al primo comma dello stesso articolo6 statuendo, in particolare, che la Repubblica ha il compito di rimuovere quanto sia di ostacolo al pieno sviluppo della persona umana e, quindi, quanto sia di ostacolo all'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale dello Stato. Pertanto all'obbligo di solidariet che l'art. 2 pone in capo al cittadino, corrisponde anche l'obbligo dello Stato di rimuovere gli ostacoli che impediscono al cittadino "diverso" di rendere effettiva, col lavoro, la sua solidariet. Il diritto del lavoro perci inteso come attuativo della norma costituzionale sia per quanto attiene alla parit di trattamento di situazioni uguali (contrattazione collettiva), sia per quanto attiene alla disparit di trattamento a favore di situazioni di svantaggio personale (norme a favore della donna lavoratrice, dei disabili, della maternit, ecc.).

6. Il diritto del lavoro (Art. 4 Cost.)


L'art. 4 la stessa Costituzione sancisce il riconoscimento del diritto al lavoro ed impone allo Stato di garantire le condizioni a che tale diritto sia effettivo. La norma, tuttavia, di natura programmatica e non precettiva e, pertanto, non impone allo Stato di assicurare un posto di lavoro a tutti ma solo di rimuovere gli ostacoli che impediscano, anche solo a determinate categorie di cittadini, di svolgere un'attivit lavorativa secondo le capacit e nel rispetto della libert di scelta.

7. La tutela del lavoro.


L'ari 35 della Costituzione statuisce, al primo comma, che la Repubblica tuteli il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, in tal modo ricollegandosi all'art. 1, laddove afferma che l'Italia una repubblica fondata sul lavoro, ed allart. 4, dove si afferma il diritto al lavoro, e, tuttavia, con riferimento al mondo del lavoro in tutte le sue espressioni e non soltanto a quello subordinato.

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8. La libert di iniziativa economica.


L'art. 41 della Costituzione sancisce, al primo comma, la libert di impresa, nel senso che ognuno libero di svolgere un'attivit economica, ma il secondo comma precisa che tale libert non pu estrinsecarsi in attivit che siano in contrasto con Futilit sociale ne siano in danno della sicurezza, della libert e della dignit umana. La norma costituzionale riguarda, pertanto, pur sempre il lavoro ma palesemente riferita a quello di natura imprenditoriale che pone in posizione subordinata rispetto alle altre espressioni del mondo del lavoro, in tal modo confermando l'orientamento del costituente a favore del lavoro subordinato.

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CAPITOLO IV Diritto Sociale Comunitario


1. Genesi e sviluppo del diritto sociale comunitario.
La competenza normativa della Comunit europea spazia in tutti i campi che in un modo o in un altro hanno a che fare col progresso e lo sviluppo economico dei paesi membri e, pertanto, il diritto del lavoro rientra a pieno titolo in tale competenza. In ambito Comunitario il Diritto del Lavoro corrisponde a quella parte del Diritto che prende il nome di Diritto Sociale Comunitario; tuttavia, la competenza di questultimo riguarda prevalentemente l'aspetto sociale e, quindi, quella parte del diritto del lavoro con esso pi attinente, quali l'occupazione, la formazione, il mercato del lavoro, la tutela della sicurezza, ccc., mentre gli aspetti pi direttamente inerenti al rapporto di lavoro, quali le retribuzioni, l'esercizio del diritto di sciopero, ecc., restano di competenza esclusiva degli stati membri. La Comunit Europea, istituita col Trattato di Roma del 1957, nasce come organizzazione internazionale inizialmente denominata Mercato comune europeo (MEC), poi Comunit economica europea (CEE) ed infine Comunit Europea (CE), a sua volta facente parte dellUnione Europea (UE), con la finalit di favorire il rilancio dell'economia, dei paesi membri, gravemente compromessa dagli eventi bellici del XX secolo. Il Trattato di Roma conteneva, tra le altre, due clausole fondamentali per il rilancio dell'economia dei paesi europei innanzitutto sul piano commerciale: a) la libera circolazione dei lavoratori; b) la parit di trattamento retributivo tra uomini e donne sul lavoro. In presenza di tali norme, l'incidenza del diritto comunitario sul diritto interno fu inevitabile e la normativa comunitaria in ambito sociale stata sempre pi copiosa, al punto che non v' norma interna, in materia di lavoro, che non abbia alle spalle una direttiva comunitaria. L'originaria finalit della Comunit Europea sarebbe poi approdata al pi ambizioso obiettivo di realizzare una confederazione di stati sempre pi allargata ma con un'ottica di progressiva aggregazione ed avvicinamento degli ordinamenti interni degli stati mmbri, prospettiva dalla quale non resta escluso il mondo del diritto del lavoro.

2. I diritti sociali fondamentali.


La Fonte Primaria del Diritto Sociale Comunitario il Trattato Istitutivo della Comunit. Questultimo ha una fisionomia diversa da quella delle Costituzioni Nazionali; infatti, pur essendo un atto di natura statutaria, al pari di una costituzione, disciplina i vari aspetti dei rapporti interni e delle competenze degli organi comunitari ma non i principi fondamentali comuni per gli stati membri che pertanto, per essi, sono rimasti quelli delle singole costituzioni. Una tale funzione normativa avrebbe dovuto svolgerla la Costituzione- europea la cui entrata in vigore, dall1.11.2006, stata impedita dalla mancata ratifica da parte della Francia e dell'Olanda. La mancata approvazione della costituzione europea ha impedito la nascita di un atto normativo vincolante per tutti gli stati mmbri della Comunit europea nel quale fossero

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sanciti i diritti fondamentali, bench tali diritti siano bene o male contemplati nelle singole costituzioni. A tale carenza per certi versi sopperisce la Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 7.12.2000 che, pur essendo una semplice dichiarazione, ritenuta vincolante dalla Corte di giustizia europea. La Carta proclama i diritti di uguaglianza e di tutela dei soggetti in posizione di svantaggio ed ritenuta vincolante per effetto del rinvio di cui all'art. 134 del Trattato CE; la norma comunitaria, infatti, obbliga gli stati mmbri ad attenersi ai principi inerenti ai diritti sociali fondamentali, di tal che dritti proclamati dalla Carta di Nizza vengono in tutti rilievo pur essendo contenuti in una mera dichiarazione. V', dunque, un rinvio che rende operativa la Carta di Nizza pur in assenza di una costituzione che la faccia diventare norma a tutti gli effetti. Dal canto suo la Costituzione europea, al di l della sua mancata approvazione, non stata esente da critiche anche da parte di quelli che l'avrebbero voluta. E infatti taluni l'avrebbero voluta pi incisiva, con ci ignorando le diversit esistenti tra gli stati e la conseguente necessit di attestarsi a livelli, pi bassi, compatibili con tali diversit; altri l'hanno invece vista come una caparbia conservazione di valori tutti europei.

3. Il quadro istituzionale comunitario.


L'art. 136 del Trattato CE quello che introduce il capitolo sociale, ossia quella parte del trattato dedicata al diritto sociale (del lavoro). Esso indica, quali obiettivi comunitari in tale ambito: la promozione dell'occupazione; il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro; la parificazione del progresso; la protezione sociale; il dialogo sociale; lo sviluppo delle risorse; la lotta allemarginazione. Per la realizzazione di tali fini la Comunit e gli stati mmbri devono mettere in atto misure che tengano conto degli obiettivi programmati e che, tuttavia, non perdano di vista l'obiettivo primario della competitivit economica. Nel disciplinare la competenza comunitaria, dunque, il trattato pone in tutto rilievo i diritti del lavoratore presentandosi in tal senso come norma programmatica - ma non mette in secondo piano l'aspetto economico, cosiddetto mercantilistico, che caratterizza le origini del diritto comunitario. La normativa comunitaria in materia di lavoro altres coerente col criterio della sussidiartela, dallo stesso trattato previsto, secondo il quale la Comunit interviene soltanto quando la sua azione possa essere pi incisiva ed efficace di quella dei singoli stati. Dal canto loro le iniziative comunitarie, che si realizzano principalmente in forma di direttiva, tanto sono pi efficaci quanto pi per la relativa adozione sia previsto il criterio della maggioranza in luogo di quello dell'unanimit (che pu avere effetti paralizzanti a causa del voto contrario di un unico stato membro).

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Lart. 137 del Trattato individua in tal modo la relativa competenza: a) le materie per le quali possono essere adottate direttive assunte a maggioranza qualificata sono: miglioramento dell'ambiente di lavoro ai fini della sicurezza e della salute dei lavoratori; condizioni di lavoro; informazione e consultazione dei lavoratori; integrazioni; parit tra uomo e donna; b) le materie per le quali le direttive devono essere assunte all'unanimit sono: sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori; protezione dei lavoratori nei casi di risoluzione del rapporto di lavoro; rappresentanza collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro; condizioni di impiego dei lavoratori extracomunitari; c) le materie di competenza esclusiva degli stati mmbri sono: retribuzioni; diritto di associazione; diritto di sciopero; diritto di serrata.

4. Le norme comunitarie
La prima fonte comunitaria Fatto costitutivo della stessa Comunit Europea, ossia il Trattato di Roma del 1957. Una volta ratificato il trattato, gli stati mmbri sono immediatamente soggetti alle norme ivi previste e, per l'effetto, sono altres soggetti ai regolamenti comunitari che hanno efficacia immediata rispetto al diritto interno, in quanto entrano immediatamente a far parte dell'ordinamento interno degli stati mmbri e prevalgono sulle leggi ordinarie degli stessi. Ci non avviene per le direttive comunitarie, comunque vincolanti, cui, non di meno si riconosce in taluni casi un'efficacia immediata, che richiedono uno specifico provvedimento di attuazione, anche amministrativo, che inserisca la norma comunitaria nel diritto interno. La direttiva latto pi frequentemente adottato dal Consiglio europeo, a maggioranza qualificata od anche all'unanimit, su proposta dalla Commissione e previa consultazione del Parlamento. Tale atto normativo non immediatamente efficace ma e vincolante per gli stati mmbri, cui assegna i fini da conseguire con i provvedimenti attuativi di essa ed il termine entro il quale tali provvedimento devono essere adottati. Prima dell'adozione del provvedimento attuativo della direttiva ad essa comunque riconosciuta una immediata efficacia verticale, nel senso che il soggetto destinatario della norma comunitaria pu agire contro lo stato inadempiente pretendendo lapplicazione della direttiva e con diritto anche al risarcimento del relativo danno, purch la direttiva sia chiara e precisa nelle sue finalit, ossia purch essa abbia i requisiti della norma internazionale di tipo self-executing. Con l'Accordo di Maastricht sulla politica sociale stata altres istituzionalizzata la partecipazione sindacale al processo di formazione delle direttive, a tal fine stabilendo che il Consiglio, prima di adottare direttive inerenti a materie di diritto sociale comunitario, deve consultare le associazioni sindacali al livello europeo con le quali pu stipulare accordi collettivi che, tuttavia, non sono vincolanti.

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5. Le nuove frontiere dell'azione comunitaria.


In epoca pi o meno recente ci si resi conto, in ambito europeo, della necessit di migliorare il coordinamento delle politiche occupazionali e a tal fine stato elaborato un programma, detto "Strategia europea per l'occupazione", che prevede una relazione annuale da parte di ciascuno stato sui risultati conseguiti in materia di occupazione, s da consentire agli altri stati di seguire le soluzioni di maggior successo. Tale strategia si allontana dalla generica finalit di armonizzazione delle normative interne, mirando, invece, ad un'azione di coordinamento che si fonda sull'indicazione di criteri guida per l'azione comune. La politica occupazionale europea ora fondata sui seguenti obiettivi fondamentali: a) promozione della occupabilit puntando sulla formazione, e, quindi, con l'impegno ad investire sulla formazione di professionalit adeguate al progresso tecnologico; b) adattabilit dell'offerta all'andamento del mercato attraverso forme di lavoro flessibile; c) incentivazione dell'imprenditoria; d) pari opportunit e agevolazioni per soggetti e categorie in posizione di svantaggio.

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CAPITOLO V Fonti Nazionali


1. La concertazione.
In un ordinamento di diritto' positivo la fonte primaria del diritto pur sempre la legge, ma ci non significa che la sua formazione avvenga esclusivamente nelle aule parlamentari. Nella predisposizione dei testi di legge aventi una certa incidenza in ambito sociale, infatti, si affermata la prassi della concertazione, ossia della previa consultazione delle parti sociali (cio i sindacati) al fine di ottenere un consenso non necessario ma significativo relativamente a decisioni aventi ripercussioni sociali. Non di rado il governo ha fatto ricorso alla concertazione e in particolar modo nei casi in cui i provvedimenti legislativi da adottare erano di tipo congiunturale e perci richiedevano sostanziali limitazioni, pi o meno intense, a quelle che erano ritenute conquiste sindacali irrinunciabili ma ormai incompatibili con gli obiettivi di ripresa economica, quale, ad esempio, il meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni al rincaro del costo della vita (cosiddetta scala mobile). La concertazione ha, tuttavia, pregi e difetti; essa, infatti, se da un lato registra il pi ampio consenso delle parti sociali, che in tal modo concorrono responsabilmente alle scelte di governo - ovvero della parte datoriale - assicurandone la stabilit e l'accettazione da parte dei lavoratori rappresentati, dall'altro, se spinta oltre, rischia di spostare il potere legislativo dalla sede naturale a quella delle relazioni sindacali in quanto l'eccessivo peso dato alla parte sindacale si trasforma in un'ingerenza della stessa nelle scelte di governo e ad una sostanziale abdicazione dei poteri propri di quest'ultimo a favore della prima. La concertazione, che dal canto suo si talvolta conclusa col dissenso di alcune componenti della parte sindacale, in nessun caso prevede la conclusione di un accordo ne il governo, ove accordo ci sia, vincolato. all'esito dello stesso. La concertazione e una prassi e non una regola, salvo che per quella parte del diritto del lavoro riguardante il pubblico impiego, per il quale invece una regola ben definita nell'ambito delle relazioni sindacali.

2. La legge statale.
Non esiste alcuna differenza tra la procedura di formazione delle leggi "lavoristiche" e quella valevole in via generale. Esiste peraltro una forte tendenza all'impiego di strumenti alternativi alla legge, quali: a) decreti legge: a causa delle risicate maggioranze parlamentari che imperavano nella Prima repubblica, e della conseguente difficolt dei governi di allora di far passare leggi in materia economico-sociale, si instaur la prassi di normare attraverso decreti legge che, non essendo poi convertiti dal Parlamento, venivano continuamente reiterati. Tale prassi fu bocciata dalla Corte Costituzionale che sanc, in via di principio, il divieto di reiterazione dei decreti legge; b) decreti legislativi: a seguito dello stop ai decreti legge, la prassi si evoluta nella direzione di un rinnovato utilizzo dei decreti legislativi, facendosi approvare dal Parlamento da parte dei governi leggi delega molto ampie, spesso ai limiti del

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contrasto con l'art. 76 Cost., in quanto carenti di principi e criteri direttivi sufficientemente specifici. Tutte i principali provvedimenti in materia di lavoro degli ultimi dieci anni sono state elaborate con questa tecnica (da ultimo, il d.lgs. n.66 del 2003, di riforma della disciplina dell'orario di lavoro, e il d.lgs. n. 276 del 2003, di riforma del mercato del lavoro). Il grave rischio che il baricentro del potere legislativo ne risulti squilibrato, e in particolare che il governo si appropri. indebitamente, di prerogative spettanti al Parlamento.

3. La competenza legislativa regionale.


Prima della riforma del Titolo V della Costituzione, ad opera della legge n. 3 del 2001, non vi era dubbio circa la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di lavoro. Con la Riforma sono stati previsti 3 diversi ambiti di Competenza Legislativa: a) Esclusiva dello Stato, es. la Politica Estera (Art.117 co.2 Cost.); b) Concorrente tra Stato e Regioni, con competenza Statuale in ordine alla delineazione dei Principi Fondamentali, e normativa di attuazione lasciata alle Regioni (Art. 117 co.3 Cost.); c) Residuale delle Regioni, in tutte le materie non ricomprese nelle categorie sub a) e b) (Art.117 co.4 Cost.). Dunque, dopo la Riforma, si era ritenuto che la competenza legislativa in materia di lavoro potesse rientrare in quella residuale delle regioni; ci in quanto l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, cos come riformato dalla legge n. 3 del 2001, ad esse attribuisce la competenza in materia di tutela e sicurezza del lavoro. Un tale orientamento stato smentito dalla Corte costituzionale che ha fatto leva, a tal proposito, sulla previsione di cui allo stesso art. 117, secondo comma, lettere l) e m), laddove si individua la competenza esclusiva dello Stato in materia, rispettivamente, di ordinamento civile, del quale certamente fa parte il diritto del lavoro, e di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, nei quali ultimi rientrano oltre al Diritto alla Salute e allIstruzione, anche i Diritti nei confronti di soggetti pubblici o privati che si legano alla condizione di lavoratore.

4. Il regolamento.
Il peso dei regolamenti governativi in materia di diritto del lavoro sempre statoassai scarso. Esso cresciuto soltanto in epoca recente, in funzione di esecuzione e specificazione della normativa legale: accaduto, infatti, che le leggi abbiano spesso fatto rinvio a regolamenti, la cui adozione prevista, da parte o del governo nella sua collegialit (d.P.R.), o del Presidente del Consiglio dei Ministri (d.P.C.M.), o di singoli ministri (d.m.). Un recente esempio rinvenibile, ancora una volta, nel d.lgs. n. 276 del 2003. La crescente produzione regolamentare degli ultimi anni ha accentuato, pertanto, il gi rilevato (e denunciato) spostamento del baricentro normativo dal Parlamento al governo. Non sempre, fra l'altro, i margini lasciati al regolamento riguardano aspetti di mero dettaglio.

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5. Le Autorit indipendenti.
Trattasi di organismi istituiti nella legislazione recente, onde assolvere varie funzioni di regolazione di aspetti delicati del mercato, ad es. Authority per le telecomunicazioni, o quella per la privacy. Quest'ultima, in particolare, ha una notevole importanza nel campo del diritto del lavoro, in quanto i provvedimenti dell'Autorit garante concernono spesso problemi legati alla tutela della privacy dei lavoratori subordinati. Peraltro, tra le Autorit indipendenti merita una segnalazione particolare la "Commissione di garanzia per l'attuazione della legge 12 giugno 1990 n. 146", istituita dalla legge omonima, con l'attribuzione di un'importante serie di compiti afferenti alla disciplina ed alla gestione degli scioperi nei servizi pubblici essenziali.

6. Il Contratto Collettivo
Nel diritto italiano, il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) il contratto stipulato a livello nazionale con cui le organizzazioni rappresentative dei lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro (o un singolo datore) predeterminano congiuntamente la disciplina dei rapporti individuali di lavoro (cosiddetta parte normativa) e alcuni aspetti dei loro rapporti reciproci (cosiddetta parte obbligatoria). Nel settore del pubblico impiego stipulato tra le rappresentanze sindacali dei lavoratori e l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), che rappresenta per legge l'Amministrazione Pubblica nella contrattazione collettiva. La banca dati ufficiale tenuta dal Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (CNEL), che gestisce tra l'altro un archivio elettronico di tutti i CCNL (correnti e passati) liberamente scaricabili. La Contrattazione Collettiva, pur non potendosi considerare fonte normativa, ha, non di meno, unessenziale funzione normativa in senso materiale e, pertanto, verr trattata separatamente nel Capitolo VIII.

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PARTE SECONDA IL DIRITTO SINDACALE CAPITOLO VI Organizzazione e Azione Sindacale


1. Il Diritto Sindacale
Il diritto sindacale quella parte del diritto del lavoro che si identifica con le norme che vanno a disciplinare le relazioni sindacali, la contrattazione collettiva e lo sciopero.

2. I sindacati.
Il sindacato nasce come associazione finalizzata a tutelare i lavoratori ad esso aderenti e dei quali assume, pertanto, la rappresentativit in sede contrattuale. La forma pi antica di sindacalismo il sindacalismo di mestiere, che il frutto dell'aggregazione di lavoratori accomunati dal fatto di svolgere un medesimo mestiere. Il sindacato di mestiere sorto nell'Ottocento in riferimento ai mestieri pi importanti e qualificati dell'epoca (le aristocrazie operaie), gli unici che potevano aspirare ad un peso negoziale nei confronti degli imprenditori. Tali sindacati sopravvivono, oggi, nei cosiddetti sindacati professionali, rappresentativi di lavoratori appartenenti ad una determinata categoria professionale; questi ultimi sorgono quando categorie di lavoratori (di tipo intellettuale, o comunque in possesso di un'alta qualificazione professionale: macchinisti, insegnanti, controllori di volo, piloti, medici ospedalieri, etc.), insoddisfatti del modo in cui sono considerati dal sindacalismo generale, si associano in organizzazioni separate allo scopo di difendere meglio i propri Interessi. Con lindustrializzazione e la collettivizzazione del rapporto di lavoro si invece affermato il sindacato di industria, rappresentativo dei lavoratori appartenenti alla stessa azienda (in tal caso di grandi dimensioni), ed il sindacato di categoria, rappresentativo di tutti i lavoratori operanti in un determinato settore produttivo (es.: metalmeccanici) o dei servizi (es.: dipendenti degli enti locali), a prescindere dall'azienda di appartenenza e dal livello professionale. Nell'esperienza italiana, il sindacato di categoria si interseca, senza entrarvi in contrasto ma anzi essendo complementare ad esso, con il modello del sindacalismo confederale. La confederazione (CGIL, CISL e UIL su tutte) un'associazione che raggruppa i lavoratori, accomunati da una medesima identit politico sindacale. Essa si articola anche in diramazioni territoriali (nel caso della CGIL, ad es., le Camere del lavoro). Data l'origine "politica" del sindacalismo italiano, la confederazione nata prima del sindacalismo di categoria. La confederazione, in virt della generalit dell'ambito cui si riferisce, il sindacato dotato della maggiore caratterizzazione "politica", ed , come tale, il protagonista della concertazione.

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Essa ha anche, ovviamente, una legittimazione negoziale, che si esplica negli accordi interconfederali (o, in caso di concertazione, trilaterali), e proprie diramazioni a livello territoriale. In contrapposizione ai sindacati di categoria dei lavoratori si sono poi formati i sindacati degli imprenditori che con i primi stipulano i contratti collettivi (es. Federmeccanica, Confindustria ecc.).

3. LAzione Sindacale
Il Sindacato esercita la sua azione in rappresentanza del lavoratore e a tutela del rapporto di lavoro dello stesso. L'azione sindacale, ovvero la partecipazione del sindacato alla formazione delle norme in materia di rapporto di lavoro si svolge secondo i modelli delle cosiddette relazioni sindacali e, principalmente, attraverso la concertazione e la contrattazione. La concertazione presuppone una partecipazione del sindacato alle scelte del governo o, comunque, della parte datoriale, ed finalizzata a raggiungere il pi ampio consenso ma non obbliga l'altra parte ad assecondare le eventuali istanze sindacali. La contrattazione si svolge invece sulle materie ad essa demandate, con l'obiettivo di raggiungere un accordo, ed ha nello sciopero l'unico mezzo di pressione. Importante poi la partecipazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti alla gestione delle imprese, la quale pu realizzarsi tramite una gamma di istituti, accomunati dal fatto di comportare un coinvolgimento dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti in alcuni processi decisionali delle imprese.

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CAPITOLO VII Sindacato e Ordinamento


1. Libert o Regolazione?
Un tema molto dibattuto per il diritto del lavoro quello riguardante la disciplina del diritto sindacale, e cio se essa debba essere stabilita dalla Legge (Regolazione) oppure se in tale ambito debba regnare la massima autonomia di organizzazione e di regolamentazione (Libert). In linea di principio il diritto sindacale, per la sua stessa natura, dovrebbe essere lasciato al dominio dell'autonomia collettiva e, tuttavia, in un ordinamento di diritto positivo, come il nostro, il diritto sindacale non pu non avere nella legge un qualche riferimento, giacch la libert assoluta non una regola, ed anzi potrebbe comportare unanomia del Sistema. Tuttavia nel nostro Ordinamento, l'organizzazione sindacale non ha una disciplina di legge. Al di la dellart. 39 della Costituzione, che statuisce la libert di costituire associazioni sindacali, e al di l dello Statuto dei lavoratori, che statuisce le libert sindacali, le modalit formative e quindi organizzative delle associazioni sindacali sostanzialmente demandata agli statuti interni delle stesse associazioni.

2. La libert sindacale.
L'art. 39 della Costituzione sancisce, al primo comma, la libert della organizzazione sindacale, intendendosi, come tale, la libert di costituirsi in forma associata per l'esercizio di attivit e per l'assunzione di iniziative dirette alla tutela di interessi connessi all'attivit lavorativa. La libert sindacale , dunque, una libert pi ampia rispetto a quella di associazione cui all'art. 18 della stessa Costituzione, giacch quest'ultima incontra i limiti posti dalla stessa norma consistenti nel divieto di costituire associazioni finalizzate ad attivit vietate dalla legge penale - mentre l'associazionismo sindacale, in quanto finalizzato alla tutela del lavoratore, non incontra limiti. Titolare della libert sindacale , ovviamente, il lavoratore dipendente, pur se tale libert riconosciuta, in linea di principio, anche allimprenditore il quale pu a sua volta costituirsi in associazioni sindacali. La libert sindacale sancita dall'ari 39 ha diversi aspetti. Primo tra essi quello della libert da qualsiasi norma che autorizzi la formazione di organizzazioni sindacali o che autorizzi l'esercizio della relativa attivit, in tal modo superando il corporativismo del previgente regime fascista secondo il quale era il governo a decidere con quale sindacato intrattenere relazioni, delegittimando, in tal modo, i sindacati non graditi. Libert sindacale intesa, dunque, come libert di associarsi, per i fini propri del sindacato, senza aver bisogno dal previo consenso da parte di chicchessia. L'associazionismo sindacale, intanto, non fine a se stesso: l'associazione sindacale si forma, infatti, con una finalit attiva e cio per il concreto esercizio, specie in sede contrattuale, della sua rappresentativit.

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Libert sindacale significa, dunque, esercizio delle prerogative e delle funzioni sindacali. Ma la libert sindacale ha anche - con riferimento al singolo - aspetti per cos dire "negativi", nel senso che libert sindacale anche libert dal sindacato, ossia libert di non aderire ad alcun sindacato od anche di dissociarsene. 3. Le norme legislative di tutela della libert sindacale. Nella tutela delle libert sindacali una pietra miliare stata posta dalla legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei diritti dei lavoratori), il cui art. 14 ha rafforzato il principio costituzionale della libert di associazione e di attivit sindacale gi previsto dallArt.39 Ico. Cost., stabilendone l'esercizio anche nei luoghi di lavoro (cos ripristinando le commissioni sindacali interne abolite in epoca fascista). Il successivo art. 15 pone il divieto di atti discriminatori sanzionando con la nullit ogni atto che condizioni l'assunzione di un lavoratore o ne determini il mutamento di mansioni o la modifica della posizione di lavoro od anche il licenziamento in relazione alla sua affiliazione o meno ad un sindacato oppure alla sua partecipazione ad attivit sindacali. A tal fine lart.28 dello stesso Statuto introduce un procedimento giudiziario speciale per la repressione della condotta antisindacale, fermo l'onere della prova a carico dell'attore, col quale viene annullato ogni atto o patto discriminatorio. Gli atti discriminatori sanzionabili ai sensi dell'art. 15 non sono soltanto gli atti diretti a colpire un soggetto, in relazione alla sua posizione sindacale, o intesi a precludere l'esercizio delle libert sindacali bens anche quelli che conferiscono privilegi a favore di quelli che non aderiscono ad associazioni sindacali o alle relative iniziative (Trattamenti Economici Collettivi discriminatori). A tale nonna collegata la previsione dell'art. 17 che vieta la costituzione di sindacati di comodo, ossia di sindacati sostenuti o addirittura finanziati dalla parte datoriale e ad essa pi vicini al fine di concludere con essi trattative sostanzialmente unilaterali in tal modo aggirando l'obbligo del confronto con i sindacati realmente rappresentativi.

4. L'art. 39, seconda parte, e la sua mancata attuazione.


L'ari 39 della Costituzione sancisce, al primo comma, il diritto della libert sindacale ma subito dopo prevede - o, per lo meno, presuppone - la formazione di norme regolatrici della formazione e del funzionamento delle associazioni sindacali che, sostanzialmente, istituzionalizzano il sindacato legittimandolo alla contrattazione, ossia alla formazione di quelle norme, valide erga omnes, aventi la forma del contratto ma l'anima della legge (siccome previste da fonte primaria). La seconda parte dell'art. 39 prevede, in particolare, che il sindacato debba registrarsi e che debba dotarsi di un atto costitutivo, di natura statutaria, che ne regolamenti il funzionamento interno. Di fatto nessun sindacato ha accettato tali regole che, invero, sostituivano quelle corporative del regime fascista riproponendole con una veste democratica. Non di meno l'omessa registrazione, da un lato, e l'assenza di una regolamentazione di legge sulla formazione e sul funzionamento del sindacato, dall'altro, non ne hanno delegittimato lesistenza ne il ruolo ne l'esercizio delle relative libert, essendo a tal fine sufficiente la prima parte dell'art. 39. Intanto la registrazione, che era finalizzata ad evitare il ripetersi di situazioni analoghe a quelle del regime fascista, venne letta esattamente al contrario, nel senso che nessuna

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della maggiori associazioni sindacali e specialmente la CISL vide di buon occhio una qualsiasi forma di controllo centrale. Nel regime fascista, infatti, era legittimato ad agire un solo sindacato e solo quello riconosciuto di suo gradimento da parte del governo. La sola registrazione, ai sensi dellart. 39, avrebbe invece consentito a qualsiasi sindacato di essere presente e di operare, senza il previo consenso di chicchessia, e, tuttavia, essa venne comunque vista come una sorta di limitazione della libert sancita dal primo comma. Intanto la conservazione di una posizione di massima libert sindacale, sulla base del solo principio sancito dal primo comma dell'art. 39, ed il mancato assoggettamento alle regole della seconda parte dello stesso art. 39 nonch l'assenza di una legislazione attuativa di tale seconda parte hanno un rovescio della medaglia di tutto rilievo, in quanto, in particolare, a causa della mancata attuazione della seconda parte dell'art. 39 il sindacato non legittimato a stipulare contratti collettivi validi erga omnes, ossia verso tutti gli appartenenti alla categoria di riferimento e col carattere di unicit tipico degli atti normativi.

5. La teoria dell'ordinamento intersindacale e il ricorso al diritto privato.


La non attuazione della seconda parte dell'ari. 39 della Costituzione non ha impedito al sindacato di esistere ne di operare, cosi dando vita alla cosiddetta costituzione materiale, suppletiva di quella parte rimasta inattuata, e ad un autonomo ordinamento sindacale, ossia a quel complesso di regole che ha guadagnato una sorta di giuridicit per consuetudine, ossia per la ripetitivit di comportamenti e procedure. In mancanza di una istituzionalizzazione coerente col dettato costituzione ed in assenza di regole attuative, il sindacato non ha acquisito quella personalit giuridica voluta dall'ari-. 39 e, conseguentemente, i suoi atti, ossia i contratti da esso sottoscritti, non ha la vincolativit della legge, restando essi atti di diritto comune disciplinati dal codice civile.

6. La natura giuridica dell'associazione sindacale.


La non attuazione della seconda parte dell'alt. 39 ha perci privato il diritto del lavoro di quella rilevante parte regolante con norme statuali di cui il nostro ordinamento non pu fare a meno la formazione e l'organizzazione interna delle associazioni sindacali, obbligando, a tal fine, a far riferimento, in via suppletiva, al codice civile. E il ricorso al codice civile necessario fin da subito ai fini della qualificazione giuridica del sindacato il quale, in mancanza di una sua registrazione e, con essa, della sua istituzionalizzazione, deve essere ricondotto alla categoria delle associazioni non riconosciute, in quanto non costituite con atto pubblico, cui il codice civile dedica gli articoli dal 36 al 38. Il ricorso all'art. 36 c.c. per lo meno sufficiente a conferire al sindacato la soggettivit giuridica, pur in assenza di una personalit giuridica riservata alle associazioni riconosciute. Per effetto di tale soggettivit giuridica, il sindacato pu altres stare in giudizio in persona di coloro ai quali gli assodati abbiano conferito la rappresentanza legale e cio in persona di quelli che abbiano la presidenza o comunque la direzione dell'asso dazione. Quale associazione non riconosciuta il sindacato ha altres un fondo comune costituito dai contributi degli associati e dai beni con essi acquistati, sul quale pu rivalersi il terzo

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creditore, mentre gli associati rispondono personalmente delle obbligazioni assunte in nome e per conto dell'associazione.

CAPITOLO VIII Il Contratto Collettivo


1. La Tipicit del Contratto Collettivo
Il contratto collettivo un contratto stipulato tra soggetti collettivi, ossia tra soggetti rappresentativi di categorie contrapposte; il contratto collettivo di lavoro il contratto stipulato tra sindacati, rappresentanti dei lavoratori di quella determinata categoria o azienda, e sindacati o altri organismi (come l'ARAN, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle amministrazioni pubbliche) rappresentanti degli imprenditori o, comunque, della parte datoriale. Il contratto collettivo di lavoro pu essere stipulato a livello nazionale od anche a livello di azienda, ove ci sia previsto. Il Contratto Collettivo un Contratto Nominato dallOrdinamento Giuridico, ma privo di una Tipicit Giuridica a livello di Disciplina. Infatti, la legge non contiene una disciplina giuridica di tale contratto, atteso che gli articoli da 2067 a 2081 del codice civile, che erano deputati a ci, sono oggi ritenuti decaduti o comunque inapplicabili, a motivo della loro genesi "corporativa". In particolare, lArt.2067 c.c. deve ritenersi abrogato per effetto della soppressione dell'ordinamento corporativo, disposta con R.D.L. n. 72/1943, e della soppressione delle organizzazioni sindacali fasciste, disposta con D.Lgs. Lgt. n. 369/1944. Tuttavia, il contratto collettivo trae la sua tipicit dall'art. 1322 c.c., sull'autonomia contrattuale, e dall'art. 39 della Costituzione. La norma codicistica, in particolare, statuisce la libert delle parti di determinare il contenuto del contratto, nei limiti posti dalla legge, anche al di fuori di una specifica disciplina, purch diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico, ed innegabile che gli interessi dei lavoratori siano meritevoli di tutela. La norma costituzionale sancisce, invece, la Libert Sindacale e, con essa, la libert di stipulare contratti collettivi.

2. Le Funzioni
La Funzione generale del Contratto Collettivo quella di tutelare gli interessi dei lavoratori rappresentati; tale funzione si articola in alcune Funzioni pi specifiche (Funzione Normativa e Funzione Obbligatoria). Funzione Normativa: tale funzione fa riferimento al fatto che il contratto collettivo ha l'obiettivo di dettare le "norme" che dovranno valere per una serie indeterminata di contratti individuali di lavoro subordinato. In questo modo, il contratto collettivo si inserisce dall'esterno, come fonte eteronoma (al pari della legge), nel contenuto dei singoli contratti di lavoro rientranti nell'ambito di efficacia del contratto collettivo. Cos, quando il contratto collettivo determina il regime dell'orario di lavoro, l'ammontare dei riposi, la misura della retribuzione spettante ad un lavoratore adibito a determinate mansioni ecc., il contenuto delle previsioni collettive in questione, vale per le parti individuali.

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Funzione Obbligatoria: ad essa assolvono quelle previsioni del Contratto Collettivo (Clausole Obbligatorie) che istituiscono diritti e obblighi valevoli per e tra gli stessi soggetti collettivi. Le Clausole Obbligatorie sorgono sia dal lato degli Imprenditori, sia da quello dei Lavoratori. Come esempio di Obblighi "imprenditoriali", vale menzionare le varie tipologie di obblighi di informazione, in virt dei quali i sindacati degli imprenditori, o le stesse imprese, si impegnano ad informare i sindacati dei lavoratori circa una serie di questioni concernenti le condizioni del mercato, le strategie d'impresa, le eventuali ristrutturazioni in programma, etc. Come es. di Obblighi dei Lavoratori sono evocabili le clausole di "pace sindacale", grazie alle quali un sindacato si impegna a non proclamare scioperi in un determinato periodo. Il problema delle clausole obbligatorie di come assicurarne l'effettiva osservanza. In teoria, la parte lesa pu intentare un'azione di responsabilit contrattuale dinanzi al giudice ordinario onde richiedere il risarcimento dei danni derivanti dall'inadempimento contrattuale (art. 1218 c.c.); ma trattasi di un rimedio quasi per nulla utilizzato, poich ai sindacati interessano, di massima, non i successi giudiziali o i ristori patrimoniali, ma i risultati concreti sul terreno delle relazioni sindacali. Pi concreta la possibilit di utilizzare lo speciale procedimento giudiziario di repressione della condotta antisindacale, previsto dall'ari. 28 dello Statuto dei lavoratori. Ma ad esso potr farsi ricorso soltanto qualora la violazione della clausola obbligatoria sia stata perpetrata dall'impresa, unica legittimata passiva nel procedimento in discorso, e non dal sindacato degli imprenditori.

3. La disciplina.
Il principale problema rimasto irrisolto, in conseguenza della non attuazione della seconda parte dell'alt. 39 della Costituzione, quello della disciplina del contratto collettivo e, pi precisamente, della determinazione della sua efficacia, tenuto conto dell'assenza di regole. Intanto, in presenza di una serie di elementi caratterizzanti la contrattazione collettiva (soggetti abilitati, vincolativit per i contraenti, contenuto normativo, ecc.), indubbio che i contratti collettivi costituiscano fonte normativa di natura sostanziale, atipica, sintomatica della tendenza astensionista del legislatore nel rispetto del principio di libert. Una specifica disciplina invece prevista dal d.lgs. n. 165 del 2001 per i contratti del pubblico impiego.

3.1 I Soggetti
In linea di principio non esiste una previa individuazione dei soggetti abilitati a stipulare i contratti collettivi e, pertanto, a ci abilitata qualsiasi associazione sindacale; al riguardo emblematico il fatto che uno dei pi importanti contratti collettivi, quello dei metalmeccanici, non stato sottoscritto dalla FIOM-CGIL che il sindacato maggiormente rappresentativo della categoria, ma soltanto da FIM e UILM. Un'eccezione in tal senso venne introdotta col protocollo Ciampi del 23 luglio 1993, relativamente alla contrattazione decentrata (aziendale, di secondo livello), che si svolge sulle materia ed essa demandate dalla contrattazione nazionale (di primo livello); a tale

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contrattazione sono abilitati esclusivamente gli organismi sindacali interni alle aziende, i cui mmbri sono individuati attraverso specifiche procedure di tipo elettorale, ed i sindacati firmatari degli accordi nazionali. Un'altra eccezione costituita dai contratti cosiddetti di solidariet, che producono effetti solo se stipulati da determinati sindacati, con la conseguenza che i contratti di tale natura stipulati da sindacati diversi da quelli previamente individuati non hanno un'efficacia legale, e per questo essi saranno privi degli effetti (intervento, a sostegno del reddito dei lavoratori coinvolti, della Cassa integrazione guadagni) discendenti, esclusivamente, dalla fattispecie legale.

3.2 L'ambito di applicazione.


Salvo che per il pubblico impiego, per il quale sono stati istituiti appositi comparti di contrattazione collettiva (ministeri, sanit, scuola, regioni ed enti locali, enti pubblici non economici, ecc.), l'ambito di applicazione dei contratti collettivi sostanzialmente libero, nel senso che la sua definizione demandata alle parti nell'ambito della loro autonomia contrattuale. L'ambito di applicazione di un contratto collettivo a tal fine individuato nella prima parte del contratto collettivo, laddove viene dalle parti precisato a quale categoria di lavoratori esso si applica. A titolo di esempio, nel contratto nazionale metalmeccanico si legge: "Il presente contratto si applica agli stabilimenti appartenenti tradizionalmente al settore metalmeccanico, destinati alla produzione, lavorazione dei metalli, alle costruzioni nelle quali il metallo ha la prevalenza, fabbricazioni di manufatti con parti metalliche e agli stabilimenti affini". Segue un'elencazione di settori e di industrie che vengono considerati dal contratto parte del settore metalmeccanico, fra cui: l'industria siderurgica, l'industria automobilistica, l'industria aeronautica, l'industria elettromeccanica e elettronica, l'industria meccanica generale, le fonderie e il settore dei cantieri navali. L'ampio margine di autonoma lasciato alla contrattazione collettiva non esclude la stipula di accordi interconfederali, validi per tutte le categorie di lavoratori, ne esclude la stipula di accordi con sindacati di mestiere che talvolta si sovrappongono a quelli di categoria; in tale ultima ipotesi sorge l'ulteriore problema di dover individuare quale dei due contratto sia quello prevalente: se quello del settore produttivo del quale fa parte l'impresa o quello della professione del lavoratore. Tale dilemma non ricorre per i contratti aziendali il cui ambito di efficacia circoscritto alla singola azienda ed ai lavoratori da essa dipendenti.

3.3.1 LEfficacia Soggettiva


L'ambito di applicazione di un contratto collettivo riguarda lefficacia astratta del contratto stesso, ma il problema che si pone, immediatamente dopo, quello dell'efficacia concreta, ossia della individuazione dei soggetti che ne restano vincolati (Efficacia Soggettiva). II contratto stipulato da opposte rappresentante sindacali e, pertanto, ai fini della sua efficacia soggettiva, fin dagli anni '50 del secolo scorso, il relativo principio stato ricavato dal codice civile sulla base dell'istituto della rappresentanza (art. 1387 e ss. cc.), in forza del quale gli effetti giuridici di determinati atti posti in essere da un rappresentante sono

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imputati direttamente ad un altro soggetto (rappresentato), nel cui nome e interesse essi sono stati compiuti (art. 1388 c.c.). Sta di fatto che se un'impresa, in linea di principio, pu aderire ad un'associazione sindacale del tutto estranea al suo ambito di attivit, altrettanto vero che il lavoratore pu non essere affiliato al sindacato di categoria o, addirittura, ad alcun sindacato. Ne consegue che l'adesione dell'azienda ad un sindacato del tutto estraneo al suo settore produttivo determinerebbe l'applicazione, ai suoi dipendenti, di un contratto pertinente a tutt'altra categoria e, parimenti, il lavoratore potrebbe vedersi applicato un contratto che il sindacato cui aderisce non ha stipulato. La rappresentanza sindacale in sede contrattuale va perdo intesa come rappresentanza della sintesi degli interessi dei lavoratori della categoria, a prescindere dall'adesione o meno di essi al sindacato e senza determinare nei loro confronti alcun vincolo; a tal proposito si tiene conto che la delega sindacale (sottoscritta quale adesione al sindacato) tutt'altra cosa rispetto al mandato ad agire in nome e per conto di cui all'ari 1387 c.c. con efficacia vincolante per il rappresentato, ai sensi del successivo art 1388. E' perdo essenziale che un'azienda abbia aderito al sindacato rappresentativo della categoria imprenditoriale, affinch ai suoi dipendenti si applichino i contratti collettivi da esso stipulati, ed altrettanto necessario che il lavoratore, se non iscritto al sindacato dei lavoratori che ha stipulato il medesimo contratto, ne accetti l'applicazione.

3.3.2 L'estensione giurisprudenziale dcllefficacia soggettiva.


La problematica conseguente alla necessit di un legame di rappresentanza, ai fini dellefficacia soggettiva del contratto, non di poco conto, in quanto sia l'impresa sia il lavoratore possono non aderire ad alcun sindacato al fine si sottrarsi agli obblighi derivanti dalla contrattazione collettiva. In tale ipotesi la giurisprudenza ha elaborato diverse soluzioni a seconda dei casi. In particolare: Al fine di stendere lefficacia giuridica del Contratto Collettivo anche ai lavoratori non iscritti ad alcun Sindacato, la giurisprudenza ha affermato il principio in basa al quale sufficiente che sia iscritto il datore di lavoro, affinch il Contratto valga anche a favore del lavoratore non iscritto. Dunque, supponendo che la FIAT sia iscritta e loperaio no, la giurisprudenza afferma che se loperaio, pur non affiliato, chiede che il contratto metalmeccanico gli venga applicato dalla FIAT, ha diritto a tale applicazione. Nel caso in cui lazienda non abbia aderito ad alcun Sindacato, la giurisprudenza ha dato rilievo al Principio dellApplicazione Costante, in base al quale se un'azienda non aderente ad alcun sindacato abbia di fatto applicato i-contratti collettivi di categoria, essa non pu esimersi dal continuare a farlo. Nel caso di assoluta indipendenza del lavoratore rispetto al sindacato, la Corte di cassazione, con espresso rinvio allart. 36 della Costituzione, specie in materia retributiva, ha ritenuto in ogni caso applicabile il contratto di categoria, cos riconoscendogli una sorta di efficacia erga omnes, sul presupposto che nessuno meglio del sindacato pu stabilire - sia pure in sede contrattuale - quali siano i termini di tutela degli interessi dei lavoratori di quella categoria. stata questa la via italiana al "salario minimo", che ha consentito di predisporre una soglia minima di tutela in favore di tutti i lavoratori, ivi compresi quelli di aree

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ed imprese non sindacalizzate, e di consolidare, ad un tempo, il tasso di effettivit del contratto collettivo di categoria.

3.3.3 I contratti collettivi stipulati dai sindacati rappresentativi.


Sempre in tema di efficacia soggettiva, occorre rivolgere uno sguardo finale a quella tipologia di contratti collettivi stipulabili da sindacati fomiti di certi requisiti di rappresentativit. In linea di principio non c' limite ai contratti che le parti possono decidere di stipulare ne c' un limite ai sindacati che tali contratti possono stipulare ed eventuali conflitti tra sindacati vengono risolti con la logica dei rapporti di forza. Il legislatore per lo pi rimasto estraneo a tale situazione ma in alcuni casi, per evitare le negative conseguenze di un tale ampio margine di autonomia, al criterio della rappresentanza ha affiancato quella della rappresentativit, a tal fine stabilendo che gli accordi sindacali su determinate materie dovessero essere stipulati dai sindacati "maggiormente rappresentativi" ovvero "comparativamente pi rappresentativi" e, tuttavia, senza stabilire - salvo che per il pubblico impiego - i criteri o i parametri per individuare la maggiore rappresentativit. La stipulazione di accordi cui sarebbero abilitati i soli sindacati maggiormente rappresentativi non risolve il problema dell'applicazione dell'accordo ad un lavoratore iscritto ad un sindacato "non rappresentativo" che in linea di principio pu opporsi all'applicazione dell'accordo nei suoi confronti per difetto di rappresentanza.

3.4 Contratto Collettivo e Contratto Individuale


Il contratto individuale di lavoro il contratto stipulato tra il datore di lavoro ed il lavoratore; esso disciplina quel particolare rapporto secondo la volont delle parti. Il contratto collettivo di lavoro e il contratto che disciplina il rapporto di lavoro di una determinata collettivit di lavoratori e, pertanto, dei lavoratori aventi una determinata professionalit o appartenenti ad una determinata categoria od anche, per i contratti decentrati, appartenenti ad una determinata azienda. Il contratto collettivo pone regole generali, nel suo ambito di applicazione, cui devono uniformarsi i contratti individuali, cosi fissando un limite al di sotto del quale ne limprenditore ne il lavoratore possono fissare le condizioni di lavoro. Sotto tale aspetto al contratto collettivo riconosciuta una funzione di tipo pubblicistica, al pari di qualsiasi disposizione di legge che dall'esterno si inserisce nei rapporti tra le parti imponendo determinate regole.

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3.5 I livelli e i contenuti.


La contrattazione collettiva si svolge nellambito del sistema delle relazioni sindacali per il quale, in buona sostanza, non esistono regole specifiche. Nell'evoluzione del detto sistema si passati da una contrattazione operante esclusivamente a livello nazionale (anni '50) alla graduale affermazione del decentramento della fase contrattuale (anni 90) con la previsione di un ambito di contrattazione di secondo livello, grazie al protocollo Ciampi del 23 luglio 1993 col quale furono introdotte regole concordate ma non vincolanti finalizzate a dare una sorta di disciplina alla contrattazione collettiva. In particolare il protocollo, tuttora valido: definisce le procedure e i tempi per la contrattazione, stabilendo la presentazione di piattaforme dalle quali parte il negoziato e la disdetta degli accordi con un certo termine di preavviso rispetto alla naturale scadenza; stabilisce la durata degli accordi contrattuali in 4 anni per la parte normativa e 2 per la parte economica, di tal che per ogni tornata contrattuale si ha un contratto quadriennale normativo e, al suo interno, due contratti biennali economici; prevede l'erogazione di benefici economici predeterminati nella misura con riferimento al tasso di inflazione programmato nel caso di ritardo nel rinnovo dei contratti collettivi (indennit di vacanza contrattuale); prevede la sospensione di ogni iniziativa unilaterale a cavallo della scadenza dei contratti di lavoro (clausola di raffreddamento dei conflitti) la cui violazione determina sanzioni a carico della parte inadempiente; ridisciplina l'ambito della contrattazione decentrata, che resta subordinata alla contrattazione nazionale e limitata alle materie cui essa demanda. Il protocollo Ciampi, pur essendo finalizzato a disciplinare un ambito che necessita di regole, non ha soddisfatto tale esigenza in quanto costitutivo di vincoli che si inquadrano nelle relazioni sindacali ma non hanno natura giuridica e che, in quanto tali, sono stati disattesi da ambo le parti.

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CAPITOLO IX Contratto Collettivo e Legge


1. Relazioni e Conflitti
La Legge e il Contratto Collettivo sono le 2 grandi e principali fonti del Diritto del Lavoro. In un ordinamento di diritto positivo, come il nostro, la legge, quale fonte normativa, mantiene il primato, ma la contrattazione collettiva, protetta dallart. 39 della Costituzione, ha una valenza non inferiore alla legge. Se esistesse una norma regolante i rapporti tra la legge e la contrattazione collettiva essa sarebbe certamente una norma fondamentale in quanto risolutrice delle eventuali situazioni di contrasto tra tali fonti normative. Ma una norma del genere non esiste e, pertanto, non cosa facile accertare, di volta in volta, quale norma prevalga rispetto all'altra, tenuto altres conto che entrambe le fonti, siccome direttamente collegate all'evoluzione della societ ed alleconomica del paese, sono in continua evoluzione. Sul punto s' pronunciata la Corte costituzionale al cui controllo di legittimit sfuggono gli atti normativi diversi dalla legge, come i contratti collettivi - affermando che il legislatore non pu invadere, espropriandola, la sfera di competenza esclusiva della contrattazione collettiva.

2. Concorso di fonti.
Allo stato, dunque, le diverse fonti del diritto del lavoro convivono e, al di l dei casi in cui esse disciplinano autonomamente e separatamente fattispecie specifiche, spesso concorrono a disciplinare la stessa materia ed anche lo stesso istituto mediante rinvio. Sono, infatti, molteplici i casi in cui la legge delinea la fattispecie costitutiva di un diritto demandando, attraverso clausole di rinvio, al contratto collettivo la definizione in dettaglio dello stesso istituto (Funzione di Specificazione). Con tale sistema ognuna delle fondi normative mantiene la sua autonomia dall'altra, senza invadere l'altrui competenza, e, al tempo stesso, il legislatore da un lato ed il sindacato dall'altro mantengono il controllo di una determinata materia, specie quando essa vede le parti in posizioni contrapposte. L'esempio classico quello in cui la legge delinea la fattispecie costitutiva (lan) di un certo diritto, e lascia la fissazione del quantum al contratto collettivo. un modello ben presente al codice civile: l'art. 2110 co. 2, ad esempio, non determina il periodo di tempo per il quale il lavoratore autorizzato a rimanere assente da lavoro in quanto affetto da malattia (periodo di comporto), ma delega tale determinazione ai contratti collettivi, ovviamente diversi da categoria a categoria. Oltra alla classica Funzione di Specificazione, importante risulta la Funzione Autorizzatoria svolta dal Contratto Collettivo.

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Tale stato il caso in cui il legislatore, nell'intaccare il modello standard del rapporto di lavoro che quello a tempo indeterminato e perci caratterizzato dalla stabilit introducendo forme di lavoro flessibile, ne ha demandato la disciplina di dettaglio alla sede contrattuale, cos recuperando la partecipazione attiva del sindacato su un argomento che lo vedeva tradizionalmente di diverso avviso.

La contrattazione assume, in tal caso, una funzione autorizzatoria perch, una volta posta la norma di legge, il contratto che ne determina la concreta attuazione; dunque, autorizzazione necessaria, visto che dal punto di vista della condizione giuridica, le forme di Lavoro Flessibile sono meno favorevoli per i lavoratori.

3. Il conflitto fra legge e contratto collettivo: il modello rigido.


Se la legge, da un lato, ed il contratto collettivo, dall'altro, disciplinano lo stesso istituto, non detto che le due fonti normative siano in posizione conflittuale. Quando, invece, tale posizione di contrasto sussiste, occorre individuare la norma prevalente. Il criterio tradizionalmente utilizzato nel diritto del lavoro quello Rigido, che riconosce il carattere imperativo e perci inderogabile - alla norma di maggior favore ed il carattere dispositivo e perci derogabile alla norma che prevede obblighi a carico del lavoratore dipendente. Ne consegue che la norma applicabile non sempre l'una o laltra ne quella in ultimo introdotta nell'ordinamento bens quella che rispetto all'altra meglio realizza i fini di tutela degli interessi del lavoratore. La inderogabilit delle norme lavoristiche di maggior favore determina, ai sensi dell'ari 1418 c.c., la nullit delle clausole contrattuali da esse difformi in peius. Non escluso, infatti, che la contrattazione collettiva, normalmente orientata in melius, introduca clausole peggiorative magari in cambio di altre concessioni. La nullit colpisce, ovviamente, le sole clausole difformi e non l'intero contratto.

4. Il conflitto fra legge e contratto collettivo: il modello flessibile.


In contrapposizione al modello rigido, orientato alla prevalenza della lex favorabilis, si andato affermando un modello flessibile, secondo il quale sono ipotizzabili, nelle situazioni conflittuali, soluzioni diverse o, comunque, non necessariamente in melius e sempre pi spesso il legislatore ha introdotto nonne accompagnate dalle precisazione che esse non possono essere derogate dalla contrattazione collettiva. Infatti il modello rigido impone al sindacato di puntare a tutti i costi ad obiettivi migliorativi, pur se controproducenti sotto altri aspetti, cos precludendogli una valutazione circa quanto effettivamente sia meglio per il lavoratore, anche facendo retromarcia su determinate posizioni.

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CAPITOLO X Lo Sciopero
1. Sciopero e Teorie Sociali
Il prioritario fine dell'attivit sindacale il contratto, ossia la formazione, con atti di natura pattizia, di regole a favore del lavoratore. Agli interessi dei lavoratori si contrappongono gli interessi della parte datoriale la quale, finch trovasi in posizione si supremazia, pu anche decidere di non addivenire ad alcun accordo approfittando della sua posizione contrattuale forte. Lo sciopero il mezzo utilizzato per raggiungere il fine. L'interruzione, con lo sciopero, dell'attivit produttiva, arreca all'imprenditore un danno economico che aumenta con il prolungarsi dell'astensione dal lavoro, cos esercitando nei suoi confronti la pressione necessaria per costringerlo ad addivenire ad un accordo di natura contrattuale. Lo sciopero , dunque, l'unico mezzo attraverso il quale il lavoratore consegue la pari dignit, rispetto all'imprenditore, proclamata dall'art. 3 della Costituzione. Ed proprio con la Costituzione, all'art. 40, che listituto dello sciopero ha ottenuto il massimo riconoscimento in termini di diritto da esercitarsi nei modi stabiliti dalla legge. E' evidente che lo sciopero sintomatico di una situazione conflittuale e, pertanto, esso ha una rilevanza sociale laddove nell'ambito della societ sussistano differenze di classe e forme di governo che tali differenze consentano. Questa forma di lotta sociale, infatti, non pensabile in societ primitive ne in regimi comunisti. Lo sciopero, nato come forma di lotta di classe, per diventato strumento di pressione anche politica e, quindi, quale mezzo per raggiungere fini diversi da quelli contrattuali e, pur tuttavia, danneggiando lincolpevole imprenditore e non la vera controparte della protesta. Con la maggiore partecipazione del sindacato alla vita politica, il ricorso alla sciopero si notevolmente ridotto, in quanto le parti hanno assunto comportamenti cooperativi piuttosto che conflittuali, ed proprio tale maggiore partecipazione che ha indotto ad utilizzare lo sciopero per fini politici anzich contrattuali. La rilevanza sociale dello sciopero stata attestata dal riconoscimento dello stesso quale diritto costituzionale; tale diritto altres riconosciuto al datore di lavoro, con la serrata, ma con diverse conseguenze economiche in quanto in tale ipotesi il lavoratore non perde il diritto alla retribuzione. Il diritto di sciopero espressione del costituzionalismo sociale, ossia della posizione assunta dal costituente a favore della classe lavoratrice. L'esercizio del diritto di sciopero talvolta si ripercuote principalmente in danno dell'utenza: il caso dello sciopero dei lavoratori del terziario, la cui astensione dal lavoro

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comporta disagi agli utenti ed un danno del tutto relativo alla parte datoriale. Pertanto, al fine di salvaguardare i diritti dell'utenza, non meno importanti di quelli dei lavoratori, stante la previsione di cui all'art. 40 della Costituzione, che non esclude una disciplina legale dello sciopero, sono state emanate leggi dispositive della garanzia dei servizi pubblici essenziali in occasione degli scioperi, consistenti nel divieto di astensione dal lavoro per un numero stabilito di addetti ai servizi pubblici dei quali deve assicurarsi la continuit (legge n. 146 del 1990).

2. La disciplina giuridica dello sciopero.


Nell'ordinamento giuridico italiano lo sciopero ha assunto connotazioni diverse, nel tempo, passando da una posizione di illecito di rilievo penale a quella, diametralmente opposta, di diritto costituzionalmente garantito. In origine, in seno all'Unit d'Italia, vigendo il codice penale sardo, lo sciopero era considerato reato ed erano punibili sia gli scioperanti sia gli stessi sindacati. In presenza di un fatto di rilievo penale le conseguenze sotto il profilo civile erano scontate. Col codice Zanardelli del 1889 lo sciopero non fu pi considerato un reato ma rimaneva un illecito sotto il profilo civilistico in termini di inadempimento contrattuale dell'obbligo di prestare attivit lavorativa. Durante il regime fascista lo sciopero, col codice Rocco, assunse nuovamente rilievo penale; infatti lart.502 prevedeva il reato di sciopero (e di serrata) per fini contrattuali, cio effettuato al fine di ottenere migliori condizioni di lavoro. Dunque, nel corso degli anni, lo Sciopero stato qualificato in 3 modi: Sciopero Reato: lo sciopero era considerato un illecito punito sia penalmente che civilmente. Tale concezione si avuta al tempo dellUnit dItalia col Codice Sardo, e si poi riproposta allepoca del Fascismo col Codice Rocco. Sciopero Libert: lo Sciopero costituiva un comportamento consentito sul piano generale e dunque veniva tollerato dallOrdinamento Penale; tuttavia esso costituiva un illecito civile in quanto era considerato come inadempimento in seno al rapporto di lavoro. Tale concezione fu introdotta dal Codice Zanardelli del 1889. Sciopero Diritto: lo Sciopero costituiva un diritto nel rapporto di lavoro, quindi non costituiva illecito ne penale e ne civile. Tuttavia, in un dato Ordinamento, lo sciopero non riceve necessariamente ununica qualificazione giuridica; ci accade anche in Italia, dove anche se la concezione predominante quella di Sciopero Diritto, sopravvivono nicchie di Sciopero Libert e persino di Sciopero Reato.

3. Lo sciopero come diritto. La statuizione di cui all'art. 40 della Costituzione, secondo il quale il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano, di per s sufficiente a qualificare lo sciopero come un diritto anche in assenza di una disciplina di legge. Lo Sciopero si pone come: a) Diritto di Libert nei confronti dello Stato, vietando a questultimo di reprimerlo penalmente con iniziative legislative (salvo casi eccezionali);

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b) Diritto Soggettivo nei confronti del datore di lavoro, vietando a questultimo ogni
azione risarcitoria per inadempimento contrattuale. Altri orientamenti hanno qualificato il diritto allo sciopero come: a) Diritto Soggettivo Potestativo avente ad oggetto la sospensione concertata della prestazione di lavoro per la tutela di un interesse collettivo; al suo esercizio corrisponde, come in ogni diritto potestativo (che comporta il potere di produrre un effetto giuridico nella sfera giuridica di un altro soggetto) una posizione di soggezione del datore di lavoro. b) Diritto Fondamentale della persona; infatti lo sciopero costituisce uno dei principali strumenti di emancipazione dei lavoratori dallo stato di disuguaglianza sociale in cui essi versano, e, conseguentemente, di sviluppo della loro personalit.

4. Titolarit
L'indeterminatezza dell'art. 40 della Costituzione (dovuta dallutilizzo dellimpersonale si esercita) ha alimentato dubbi circa l'individuazione del soggetto titolare del diritto di sciopero. L'iniziale orientamento dava per scontato che titolare del diritto fosse il lavoratore dipendente ma tale orientamento stato smentito dalla Corte costituzionale con la dichiarazione di illegittimit della norma penale (art. 506) che vieta la serrata alle piccole industrie ed agli esercizi commerciali, di tal che il diritto di sciopero deve essere riconosciuto a qualsiasi lavoratore. In ordine alla titolarit del diritto di sciopero in capo all'associazione sindacale, si sono sviluppate due diverse tesi. La prima vuole titolare del diritto l'associazione sindacale sul presupposto che, essendo il sindacato preposto alla tutela degli interessi di lavoratori, ad esso spetterebbe il diritto di azionare lo sciopero nell'esercizio delle sue funzioni. E tuttavia, pur se lo sciopero normalmente proclamato dall'asso dazione sindacale, pur sempre il lavoratore che lo attua, anche non aderendo al sindacato che ha proclamato lo sciopero e, in estrema ipotesi, anche contro la volont del sindacato. Ecco che ha poi prevalso la seconda ipotesi, che vede titolare del diritto il singolo lavoratore il quale, tuttavia, non pu esercitare tale diritto singolarmente, non essendo ammissibile uno sciopero individuale. Lo sciopero, pertanto, stato configurato come diritto individuale ad esercizio collettivo e non si esclude che tale diritto sia esercitato anche contro il diverso avviso del sindacato. Lo sciopero, pertanto, sfugge a qualsiasi forma di governo e neanche le clausole contrattuali con le quali il sindacato si impegna alla "pace sindacale" possono impedire ai lavoratori di azionare il diritto di sciopero. Un'eventuale violazione di tali clausole pu quindi dare luogo soltanto a conseguenze sul piano dell'ordinamento intersindacale (ad es. a sanzioni per gli iscritti che si siano ribellati all'impegno assunto dal sindacato), o produrre, al massimo, una responsabilit contrattuale dell'associazione dei lavoratori nei confronti della contrapposta associazione imprenditoriale, o direttamente dell'imprenditore. In entrambi i casi, sono sanzioni prive di qualsiasi forza deterrente, il che spiega perch l'esperienza delle clausole di pace, e in generale del governo sindacale del conflitto, non abbia sinora registrato successi significativi.

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L'unica forma di governo dello sciopero rappresentata dalla legge n. 146 del 1990, con la quale, in presenza di interessi di terzi meritevoli di tutela, sono state introdotte norme di regolamentazione dello sciopero, che impongono altres, alle associazioni sindacali, la stipula di accordi per lindividuazione dei servizi pubblici essenziali e per la determinazione delle modalit di attuazione degli scioperi senza pregiudicare la continuit di tali servizi.

5. Lo sciopero come fatto.


Attesa l'autonomia con la quale il singolo lavoratore pu esercitare il diritto di sciopero, l'ulteriore problema riguarda l'individuazione del fatto giuridico che possa qualificarsi tale. Tradizionalmente per sciopero si intende l'astensione collettiva dal lavoro e, tuttavia, l'aspetto collettivo deve intendersi soddisfatto pur in presenza di due soli scioperanti. Il concetto di Astensione dal lavoro comprende anche quei comportamenti positivi che l'esperienza ha dimostrato essere strettamente collegati con l'effettiva possibilit di esercizio del diritto (attivit di propaganda e proselitismo, cortei interni, pubbliche manifestazioni, picchettaggio), e a condizione che essi non travalichino in altri illeciti, come spesso accaduto, ad esempio, in relazione a episodi di "blocchi stradali". Ne segue che le forme di agitazione sindacale che non assumano tale carattere. sostanziandosi in una prestazione non regolare del lavoro, fuoriescono dall'ambito dello sciopero e dalla copertura costituzionale: tornano, pertanto, a configurare inadempimenti. Dunque, sulla base di tale orientamento non pu qualificarsi sciopero qualsiasi altra forma di protesta che si manifesti non con lastensione dal lavoro bens con una presenza non collaborativa, quale la rinuncia a prestazioni accessorie, allo straordinario, alla reperibilit, ecc. Tradizionalmente, quindi, per sciopero si intende la sola astensione dal lavoro ma largamente accettata l'idea che sia sciopero tutto quanto la prassi sociale dimostra di considerare tale.

6. Finalit.
Per definizione la finalit dello sciopero quella dell'autotutela di un interesse collettivo, il che, pertanto, ne individuerebbe i limiti, nel senso che l'astensione dal lavoro di una determinata categoria di lavoratori, che a tal fine sopportano un sacrificio economico in quanto non vengono retribuiti (a differenza di quel che avviene con la serrata) finalizzata ad ottenere miglioramenti collettivi, e non individuali, o, quanto meno, a tutelare gli interessi dei lavoratori appartenenti alla categoria. Ma lo sciopero non stato utilizzato per soli fini contrattuali bens anche per solidariet o per fini, sostanzialmente politici e, ancora, per fare pressione sulla pubblica autorit invadendone la sfera di autonomia. Da tali circostanze discende l'esigenza di individuare i limiti interni del diritto di sciopero e, quindi, i casi in cui, superando tali limiti, si incorre negli estremi dell'illecito o, addirittura, del reato penale. Una sorta di casistica di motivi leciti e non contenuta nel codice penale Rocco che, criminalizzando tutti i tipi di sciopero e di serrata, ha offerto alla Corte costituzionale l'occasione per censurare le nonne illegittime e, al tempo stesso, di lasciare in vita quelle riguardanti i casi in cui lo sciopero punibile come reato.

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La Corte costituzionale, in particolare, ha dichiarato incostituzionali tutte le norme penali che criminalizzano lo sciopero, sostanzialmente ammettendo la legittimit di qualsiasi forma e finalit dello sciopero, ivi compreso quello attuato per solidariet o per fini politici, ma ha lasciato fuori, confermandone la punibilit, le azioni di sciopero di tipo sovversivo, ossia dirette ad impedire l'esercizio di "poteri legittimi nei quali si esprime la sovranit popolare". Pertanto, se talune forme di astensione dal lavoro non sono esenti da azioni di responsabilit, altre non sono esenti dall'incriminazione per violazione di norme penali.

7. Modalit.
Lo sciopero, quale astensione dal lavoro, pu essere attuato in vari modi. La forma classica quella della semplice astensione collettiva dal lavoro, per un periodo di tempo continuativo, da cui deriva pari danno per il lavoratore, che perde la retribuzione, e per l'imprenditore, che perde la produzione. Nell'esperienza italiana sono state invece organizzate forme di sciopero (Anomale) tali da arrecare un maggior danno all'imprenditore e, quindi, tali da determinare un minor sacrifcio per il lavoratore, quali lo sciopero a singhiozzo o a scacchiera, determinanti una sostanziale inattivit dei lavoratori ancorch in servizio. Tali forme di sciopero hanno riproposto il problema inerente ai limiti di liceit dello sciopero oltre i quali esso si configura come danno ingiusto. Negli anni '50 e '60 del secolo scorso, la giurisprudenza era unanime nel ritenere illegittime le forme di sciopero in discorso, sulla base di una teoria del "danno ingiusto" che presupponeva l'esistenza di "limiti intrinseci" del diritto di sciopero, e che invocava, a sostegno, i principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.). In pratica, si riteneva che questi scioperi fossero illegittimi perch fonte di un danno ulteriore e pi grave (per disorganizzazione dell'azienda, spreco di energie e di materie prime, corresponsione di retribuzioni per prestazioni non rese o scarsamente utilizzabili, etc.) di quello necessariamente inerente ai mancati utili dovuti alla momentanea sospensione dell'attivit lavorativa dei suoi dipendenti, ed a sua volta compensato o limitato dal mancato pagamento della retribuzione agli scioperanti. Contro tale giurisprudenza si erano indirizzate, da tempo, le severe critiche della dottrina, da sempre netta nel ribadire come, essendo lo sciopero rivolto a procurare il maggior danno possibile alla controparte, dalla consistenza del danno arrecato all'impresa non si potesse trarre alcuna implicazione di illegittimit dello sciopero. Ne si riteneva possibile invocare, in contrario, i principi di correttezza e buona fede, che operano quando il contratto operante, e non, invece, quando ne legittimamente sospesa l'attuazione. Sul punto intervenuta la Corte di cassazione che con la Sent. 711/1980 ha sostanzialmente affermato la liceit di qualsiasi forma di sciopero ma, al tempo stesso, ha introdotto il criterio nuovo della differenziazione tra interruzione della produzione ed interruzione della produttivit, stabilendo, in proposito, che non illecito lo sciopero che arreca un maggior danno alla produzione per effetto del modo in cui esso viene organizzato ed attuato mentre illecito lo sciopero che danneggia irreparabilmente l'azienda nella sua capacit produttiva.

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Dunque, sono del tutto leciti anche gli scioperi anomali, purch non vadano a danneggiare la capacit produttiva dellazienda, e cio la possibilit per limprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica.

8. Effetti dello sciopero sul rapporto di lavoro.


L'astensione dal lavoro per sciopero non da luogo ad inadempimento contrattuale da parte del lavoratore, il quale, tuttavia, in relazione alla natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, con la mancata prestazione perde il diritto alla retribuzione commisurata alla durata del periodo di astensione. Se pacifico che il lavoratore scioperante non ha diritto alla retribuzione, il problema si pone nei casi in cui allo sciopero sia contrapposta la serrata, con la messa in libert di quelli che non hanno scioperato o che sono di servizio tra uno sciopero e laltro. In tale ipotesi il lavoratore ha comunque diritto alla retribuzione, in quanto egli disponibile ad effettuare la prestazione lavorativa che gli e impedita dall'azione dell' imprenditore. Cosa diversa , invece, la disponibilit del lavoratore in fasi durante le quali la relativa prestazione impedita o resa soltanto inutile dallo sciopero effettuato da altri. In tal caso il datore di lavoro esonerato dal retribuire tali lavoratori, ancorch presenti.

9. Effettivit del diritto di sciopero e reazioni del datore di lavoro.


Lesistenza, costituzionalmente garantita, del diritto di sciopero, preclude non soltanto allo Stato, ma anche al datore di lavoro, di impedirne in qualsiasi forma lesercizio. Il diritto di sciopero, sancito dall'ari 40 della Costituzione, altres protetto dallo Statuto, laddove sancita la repressione di ogni azione o attivit antisindacale avvalendosi della speciale procedura di cui all'art. 28 dello stesso Statuto. L'imprenditore, quindi, non pu vietare lo sciopero ne porre in essere alcuna attivit intesa a scoraggiarlo ne pu penalizzare gli scioperanti e, viceversa, premiare non scioperanti senza incorrere negli estremi della discriminazione. Il divieto di forme di reazione all'esercizio del diritto di sciopero altres sancito dalla recente legislazione (d.Igs. n. 368 del 2001, d.igs. n. 276 del 2003) che vieta allimprenditore di avvalersi di forme di lavoro flessibile per sostituire i dipendenti scioperanti. Prima di allora la giurisprudenza era gi orientata a ritenere illegittimo il reclutamento di lavoratori non scioperanti (crumiraggio esterno) e legittimo l'affidamento ai non scioperanti delle mansioni degli scioperanti (crumiraggio interno) al fine di limitare i danni dello sciopero.

10. Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. La disciplina.


Lo sciopero attuato nell'ambito dei servici - e, in particolare, di servizi pubblici essenziali ha la caratteristica di arrecare danno all'utenza di tali servizi, pi che all'amministrazione o all'impresa esercente, cosi limitando diritti non meno importanti del diritto di sciopero. La libert di sciopero nell'ambito dei servici pubblici essenziali, esercitata con sempre maggiore intensit a partire dagli anni '80 del secolo scorso, ha favorito la costituzione di sindacati di mestiere la cui astensione dal lavoro era sufficiente a paralizzare attivit molto pi ampie di quelle direttamente svolte dai lavoratori da essi rappresentati (controllori di volo, casellanti delle ferrovie, primari ospedalieri) e cos capaci di strappare alla controparte accordi per essi sempre pi vantaggiosi.

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In tali casi l'esercizio del diritto di sciopero ha altres comportato linaccettabile limitazione di diritti altrui cui s' dovuto porre inevitabilmente rimedio. Un primo tentativo, risoltosi in modo sostanzialmente fallimentare, stato effettuato con la previsione di codici di autoregolamentazione adottati dai sindacati e da essi stessi disattesi. Pertanto quale unica alternativa non rest che il ricorso alla legge infine approvata il 12 giugno 1990, col n. 146, e con la prospettiva, non di meno, di mantenere un sostanziale equilibrio tra diritto di sciopero ed altri diritti e di non realizzare una regolamentazione tale da determinare una sostanziale negazione del diritto di sciopero. Ai fini suddetti, la legge n. 146 del 1990 precisa che quel che va rispettato il contenuto essenziale dei diritti altrui e non quello genericamente inteso, atteso che in tale ipotesi verrebbe a determinarsi un sostanziale soffocamento del diritto di sciopero a favore di altri diritti. Essa, pertanto, innanzitutto elenca m via non esaustiva i servizi ritenuti essenziali e quindi stabilisce, in parte direttamente ed in parte mediante rinvio alla contrattazione collettiva, le modalit con le quali i servizi essenziali devono essere garantiti. L'individuazione dei servizi essenziali effettuata con riferimento ai diritti, meritevoli di tutela, cui i medesimi servici sono rivolti, quali il diritto alla vita, alla salute, all'ambiente, all'istruzione, alla retribuzione, alla libera circolazione, ecc., pertanto tali servizi sono, per esempio, la sanit, l'igiene, la protezione civile, la scuola, ecc. La legge n. 146 procedimentalizza lo sciopero stabilendo un previo tentativo di soluzione bonaria del conflitto, fallito il quale lo sciopero pu essere proclamato col preavviso di almeno 10 giorni, salvo non si tratti di azioni a difesa dell'ordine costituzionale o di azioni di protesta per gravi eventi lesivi dell'incolumit e della salute dei lavoratori, ossia in presenza di circostanze nelle quali l'efficacia della protesta direttamente collegata alla sua immediatezza. La stessa legge impone, poi, un regime di rarefazione degli scioperi, stabilendo che lo stesso sindacato non pu proclamare uno sciopero prima di aver effettuato quello proclamato precedentemente (rarefazione soggettiva) ne pi sindacati possono proclamare pi scioperi nello stesso servizio se non a distanza di un certo lasso di tempo l'uno dall'altro (rarefazione oggettiva). La regolamentazione demandata alla contrattazione collettiva quella riguardante l'individuazione delle unit lavorative attraverso le quali assicurare i servizi essenziali.

11. La Commissione di garanzia.


La Commissione di garanzia, istituita con la legge n. 146 del 1990, unautorit autonoma, istituita a livello centrale, preposta alla vigilanza sulla corretta attuazione della stessa legge n. 146. Essa svolge importanti compiti di vigilanza, di coordinamento ed anche sostitutivi delle parti inadempienti. La Commissione, infatti, promuove l'adozione di codici di autoregolamentazione e di regole contrattuali attuative delle disposizioni della stessa legge e nel caso di inerzia o inadempienza delle parti, essa stessa prima propone e poi adotta direttamente un provvedimento di regolamentazione dell'effettuazione degli scioperi in modo tale che siano assicurati i servizi pubblici essenziali.

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La Commissione promuove, inoltre, il componimento bonario delle situazioni conflittuali per evitare, ove possibile, l'effettuazione degli scioperi e vigila sull'osservanza della relative regole. La Commissione, infine, comunica ai competenti organi amministrativi situazioni di assenza della garanzia dei servizi pubblici essenziali affinch questi, ove non lo facciano di propria iniziativa, adottino provvedimenti impositivi dell'osservanza delle misure necessario per la salvaguardia di diritti costituzionalmente garantiti, ivi compreso il differimento o lastensione dalleffettuazione degli scioperi.

12. Le sanzioni.
L'inosservanza delle regole riguardanti la proclamazione degli scioperi, l'effettuazione degli stessi e l'organizzazione della garanzia dei servizi pubblici essenziali da luogo a sanzioni rispettivamente individuali, nei confronti dei lavoratori, collettive, nei confronti delle associazioni sindacali, ed amministrative, nei confronti dei legali rappresentanti delle amministrazioni e delle imprese. Le sanzioni individuali sono adottate nei confronti dei lavoratori che si astengono dal lavoro bench inseriti nei turni di lavoro attraverso i quali deve essere garantita la continuit del servizio pubblico ritenuto essenziale. La sanzione di natura disciplinare (multa, sospensione dal servizio) e viene comminata all'esito del relativo procedimento e in nessun caso pu comportare il licenziamento. Le sanzioni collettive sono comminate alle associazioni sindacali inadempienti; esse consistono, in via graduale nella sospensione dei permessi sindacali, nella sospensione dell'erogazione dei contributi sindacali mediante prelievo dalle buste paga e nella esclusione dalla trattative per un lasso di tempo non inferiore a due mesi. Le sanzioni amministrative, di natura pecuniaria, sono comminate al legale rappresentante dell'amministrazione o dell'impresa che non abbiano fatto il possibile per garantire losservanza della legge. L'apparato sanzionatorio completato dalla cosiddetta precettazione, attuata col provvedimento amministrativo adottato dal Presidente del consiglio dei ministri o dal ministro, per le questioni di livello nazionale, ovvero dal Prefetto, per le questioni di rilevanza territoriale, col quale l'autorit amministrativa, in presenza di un pregiudizio grave ed imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati, ordina la non astensione dal lavoro con gravi sanzioni nel caso di inosservanza. Il provvedimento di precettazione pu essere impugnato al TAR entro 7 giorni.

13. Lo Sciopero dei Lavoratori Autonomi


Il diritto di astenersi dal lavoro riconosciuto a tutti, anche ai lavoratori autonomi. In ogni caso il diritto di sciopero dei lavoratori autonomi implicitamente riconosciuto dalla legge n. 83 del 2000 che ha esteso a tale categoria di lavoratori le norme delle legge n. 146 del 1990. In particolare, data la mancanza di sindacati e di contratti collettivi, la Commissione di garanzia promuove l'adozione, da parte delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate, di codici di autoregolamentazione, sottoposti

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poi al giudizio di idoneit della stessa Commissione, e sostituiti, in caso di inattivit delle parti o di non idoneit dei codici medesimi, da regolamentazioni provvisorie sempre adottate dalla Commissione. I codici di autoregolamentazione debbono contenere un termine di preavviso non inferiore a dieci giorni, l'indicazione della durata e delle motivazioni dell'astensione, ed assicurare in ogni caso un livello di prestazioni compatibile con il soddisfacimento del contenuto essenziale dei diritti della persona messi in pericolo dall'astensione. In caso di violazione, le associazioni e gii organismi rappresentativi dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori sono soggetti a sanzione amministrativa. Tali soggetti, infine, sono sottoposti, al pari dei lavoratori subordinati, alla disciplina in tema di precettazione.

CAPITOLO XI Rappresentanza Sindacale in Azienda


1. Le Rappresentanze dei lavoratori in azienda (profili strutturali)
Il sindacato, ai fini della effettivit della sua rappresentativit, ha sempre avuto tutto l'interesse ad essere il pi vicino possibile al lavoratore nel suo ambiente di lavoro. E' per questo che il sindacato ha sperimentato la costituzione di forme di rappresentanza sui posti di lavoro e, quindi, la formazione di organismi abilitati anche alla stipula di contratti aziendali. In Europa il problema che si subito posto in ordine alla formazione delle rappresentanze sindacali aziendali stato quello del loro collegamento verso l'altro o verso il basso, ossia della scelta tra un organismo che fosse rappresentativo del sindacato, come promanandone dello stesso, ovvero del lavoratore, in quanto espressione di una scelta democratica. In tale ambito in Gran Bretagna si affermato il sistema cosiddetto del canale unico, con la previsione di una rappresentanza aziendale che fosse espressione del sindacato nazionale (Shop Steward). In Francia e in Germania si e invece affermato il sistema cosiddetto del canale doppio, secondo il quale le rappresentanze aziendali vengono elette dai lavoratori di quella azienda i quali, pertanto, possono anche indirizzare le loro scelte verso sindacati diversi da quelli maggiormente rappresentativi o che abbiano il maggior peso politico a livello nazionale, con la conseguenza che i contratti aziendali restano esenti da qualsiasi forma di controllo o ingerenza dei sindacali nazionali. Il sistema di rappresentanza sindacale adottato in Italia stato, inizialmente, una via di mezzo tra il canale unico (adottato in Gran Bretagna) ed il canale misto (adottato in Germania e in Francia), in quanto prevedeva la formazione delle rappresentanze sindacali aziendali (RSA) elette dai lavoratori dell'azienda ma nell'ambito dei sindacati rappresentativi. Tuttavia, col tempo, il sistema delle RSA ha dimostrato le sue pecche, soprattutto sul versante della mancata previsione di meccanismi di democrazia sindacale, capaci di garantire che gli organismi in questione fossero effettivamente l'espressione della volont dei lavoratori rappresentati. per questo che tale regola stata abrogata a seguito di apposito referendum, nel 1993, ed essa fu sostituita da un accordo interconfederale istitutivo della rappresentanza

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sindacale unitaria (RSU) composta per 2/3 da soggetti scelti dai lavoratori con sistemi di tipo elettorale e per 1/3 da soggetti scelti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (Sistema del Canale misto). Nel Pubblico Impiego la RSU nata nel 1998 ed interamente eletta dai lavoratori.

2. La Rappresentanza Sindacale Aziendale (RSA)


La formazione di organismi sindacali a livello aziendale prevista dall'art. 19 dello Statuto, il quale a tal proposito prevede un sistema misto rispetto a quello del canale unico, sul modello inglese, e rispetto a quello del doppio canale, sul modello adottato da altri paesi europei. Il modello misto, infatti, prevede si l'iniziativa dal basso, come per il doppio canale, ma con riferimento ai sindacati rappresentativi a livello nazionale, come per il canale unico, cos escludendo fino allaccordo interconfederale del 1993 - una rappresentanza aziendale di tipo elettivo e magari del tutto estranea ai maggiori sindacati. Nella sua originaria formulazione lart. 19 subordinava la formazione di rappresentanze sindacali aziendali alla presenza, in alternativa, di due diversi requisiti: le RSA, infatti, ancorch costituite su iniziativa dei lavoratori dell'azienda, dovevano essere espressione dei sindacali confederali maggiormente rappresentativi oppure 'di sindacati ad essi affiliati e comunque firmatari di contratti collettivi nazionali o provinciali, cos escludendo una rappresentativit che fosse espressione delle istanze aziendali ed altres escludendo qualsiasi rilevanza a quei sindacati che, pur avendo concluso contratti a livello aziendale, non fossero in possesso dei predetti requisiti. Dunque, la norma cos formulata, escludeva dalla formazione delle RSA quei sindacati diversi da quelli maggiormente rappresentativi, comportando cos una violazione del Principio di Libert Sindacale. Inoltre, un secondo problema, come gi segnalato, riguardava la mancata previsione di meccanismi di democrazia sindacale. Si giunse cos ad una riforma del sistema; riforma che proceduta in 2 direzioni: a) Autoriforma, che si concreta nel passaggio dalle RSA alle RSU (vedi paragrafo successivo); b) Modifica dellart.19 con referendum popolare (abrogativo) del 1995, che comport la facilitazione dellaccesso alla costituzione di RSA. In particolare, requisito essenziale non era pi quello della maggiore rappresentativit, ma lavvenuta sottoscrizione dei contratti collettivi applicabili allazienda stessa. Quindi, la formazione di RSA venne consentita, pur sempre su iniziativa dei lavoratori dell'azienda, nell'ambito delle associazioni sindacali che avessero sottoscritto i contratti collettivi li applicabili. A tal proposito la giurisprudenza ha precisato, per evitare la formazione di sindacati di comodo, che per sottoscrizione di contratti collettivi si intende non la semplice firma per adesione bens la partecipazione effettiva alle fasi negoziali che hanno dato luogo al contratto collettivo. Tuttavia, pur scaturendo da tale modifica, un ampliamento delle condizioni richieste per costituire una RSA, di fatto, per, lo sconvolgimento non stato drammatico, in quanto quasi sempre i sindacati firmatari sono, di fatto, i sindacati maggiormente rappresentativi.

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3. La rappresentanza sindacale unitaria (RSU).


Col protocollo Ciampi del 23 luglio 1993 era altres prevista la contrattazione di secondo livello, ossia a livello aziendale, perci demandata ad organismi sindacali istituiti a livello di singola azienda. Nel dicembre dello stesso anno 1993, le maggiori confederazioni sindacali ed i sindacati degli imprenditori stipularono un accordo interconfederale col quale stabilirono la formazione di un nuovo organismo di rappresentanza sindacale a livello aziendale: la RSU (rappresentanza sindacale unitaria). I mmbri di tale organismo sono per 2/3 eletti dai lavoratori dell'azienda e per 1/3 designati dalle associazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi nazionali di categoria (Sindacati esterni); le elezioni si svolgono a scrutinio segreto, con procedure molto simili alle normali elezioni degli organi politici, sulla base di liste elettorali presentate dai sindacati firmatari dei contratti collettivi e i seggi vengono assegnati col sistema proporzionale. La RSU non determina l'abrogazione dell'art. 19 St.lav. Poich, tuttavia, non avrebbe senso che vi fossero contemporaneamente, in una certa unit produttiva, RSA e RSU, le associazioni sindacali firmatarie dell'accordo del 1993 hanno concordato che. nel momento in cui "entra" nel sistema della RSU, partecipando alla relativa competizione elettorale tramite la presentazione di liste, un'associazione sindacale "rinuncia" a costituire una RSA. Una volta costituita, la RSU "eredita" tutti i diritti sindacali e di partecipazione dei quali era terminale la RSA. La possibilit di costituire RSA permane, tuttavia, in capo ad associazioni sindacali che non abbiano preso parte alla RSU, purch siano dotate del requisito di rappresentativit previsto dallart. 19 St.lav. In tale caso, in un'unit produttiva potrebbe aversi la contemporanea presenza d una o pi RSA e della RSU. Non v' dubbio che tale meccanismo pi democratico di quello precedente, ma la presenza della riserva "del terzo" consente ovviamente di condizionare con una certa facilit il gioco delle maggioranze. Per quanto riguarda il Pubblico Impiego, la RSU nata nel 1998 a seguito di accordi quadro tra le associazioni sindacali rappresentative e lARAN.

4. Le rappresentanze dei lavoratori in azienda. Profili funzionali.


La previsione di un organismo sindacale di azienda costituisce il presupposto per l'esercizio di una serie di diritti e prerogative sindacali nonch di determinate funzioni sindacali presso la singola azienda. In particolare: a) I diritti sindacali. Il Titolo III dello Statuto dedicato all'attivit sindacale ed ai diritti dei rappresentanti sindacali, aziendali e non, nonch dei singoli lavoratori ma con riferimento ad attivit tipicamente sindacali. In particolare: Lart. 19 prevede la costituzione delle RSA; lart. 20 prevede il diritto di assemblea, ossia la libert di riunirsi per discutere su materie di interesse sindacale o, comunque, inerenti al rapporto di lavoro; il diritto di assemblea illimitato se esercitato al di fuori dell'orario di servizio; se esercitato

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durante l'orano di servizio, limitato a 10 ore annue retribuite, mentre non sono retribuite le ore eccedenti tale limite; lart. 21 prevede la facolt di indire referendum su materie inerenti all'attivit sindacale; lart. 22 prevede una sorta di protezione a favore dei rappresentanti sindacali (RSA) stabilendo, in particolare, che essi non possono essere trasferiti se non col previo consenso dell'associazione sindacale di appartenenza; si tratta di una garanzia aggiuntiva a quella prevista in generale, per il trasferimento dei lavoratori, dall'art. 2103 c.c., e che mira ad evitare che possano esservi trasferimenti discriminatori o ritorsivi a danno dei dirigenti in discorso. Lart.23 prevede permessi sindacali retribuiti dei quali possono fruire i sindacalisti interni per svolgere attivit sindacale; diritto al permesso ha natura di diritto potestativo, da esercitarsi tramite una "comunicazione" da inviarsi per iscritto al datore di lavoro, di regola 24 ore prima, tramite la RSA. Lart.24 prevede permessi sindacali non retribuiti dei quali possono fruire i sindacalisti interni per partecipare a contrattazioni, convegni e congressi sindacali; anche in questo caso il diritto potestativo, e la comunicazione scritta deve essere inviati! al datore di lavoro, di regola, 3 giorni prima, tramite la RSA Lart. 30 prevede permessi retribuiti dei quali possono fruire i dirigenti sindacali e, quindi, quei lavoratori che abbiano una tale qualifica nell'ambito del sindacato cui appartengono, a prescindere dalla posizione da essi rivestita in azienda; Lart.25 prevede il diritto di affissione, ossia il diritto di pubblicizzare, in appositi spazi, notizie e comunicati di interesse sindacale; Lart.26 prevede la raccolta di contributi sindacali; Lart.27 impone al datore di lavoro di rendere disponibile un locale per le riunioni degli organismi sindacali ogni qualvolta ne venga fatta richiesta; nelle aziende con pi di 200 dipendente, invece, tale locale deve essere reso disponibile in modo permanente. Tutti diritti sindacali sono di natura potestativa e, pertanto, il relativo esercizio subordinato alla semplice comunicazione, col preavviso di volta in volta stabilito, e non ad una previa autorizzazione. b) La contrattazione aziendale. Le RSA e le RSU sono soggetti sindacali a rutti gli effetti e, pertanto, possono stipulare contratti collettivi sulle materie demandate a tale livello di contrattazione, la cui efficacia limitata alla singola azienda. La contrattazione nazionale stabilisce ambiti, modalit e limiti della contrattazione aziendale. c) La partecipazione alla gestione delle imprese. Oltre alla funzione contrattuale, H sindacato altres chiamato a partecipare alla gestione dell'azienda secondo i vari modelli di relazioni sindacali. I modelli prevalenti in Italia e dunque i Diritti spettanti ai lavoratori sono: Diritto di Informazione: secondo il quale il datore di lavoro ha l'obbligo di informare il sindacato sulle iniziative riguardanti determinate materie; Diritto di Consultazione: secondo la quale il datore di lavoro ha l'obbligo di sentire il sindacato prima di adottare determinate iniziative.

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Ulteriori Modelli (Diritti) di Relazioni Sindacali, non diffusisi in Italia, e comportanti una partecipazione pi diretta dei lavoratori, sono: diritti di codecisione: comportanti l'attribuzione agli organismi di rappresentanza e/o ai sindacati di un vero e proprio diritto di veto su certe materie, definibili soltanto attraverso un accordo; diritti di cogestione: in base ai quali rappresentanti dei lavoratori sono presenti negli organi di gestione delle imprese, come il consiglio di amministrazione o quelli d vigilanza, cosi da poter esercitare (pur non avendo la maggioranza) una funzione di controllo ad alto livello. Complessivamente, quindi, sono prevalenti nel nostro ordina- mento i diritti "deboli" di partecipazione, non comportanti la necessit ma, al massimo, prospettanti l'opportunit di accordi con l'interlocutore sindacale. Ci non toglie che essi siano stati, e siano, di grande utilit nel favorire la maturazione delle relazioni sindacali in senso cooperativo, ivi comprese le relazioni di natura contrattuale.

5. Il procedimento per la repressione della condotta antisindacale.


Il complesso dei diritti sindacali tutelato dall'alt. 28 dello Statuto, il quale prevede uno speciale procedimento per la repressione di quel comportamento illegittimo qualificato come "condotta antisindacale". La nozione di condotta antisindacale non di natura tipologica bens teleologica; non vi , infatti, una descrizione specifica della condotta che possa qualificarsi antisindacale mentre si intende tale qualsiasi azione posta in essere dal datore di lavoro per ostacolare o impedire l'esercizio di diritti sindacali nonch ogni azione discriminatoria od anche persecutoria intesa a colpire un lavoratore in relazione alla sua posizione sindacale. La condotta antisindacale , dunque, un comportamento illegittimo specifico per cui la sua repressione avviene attraverso un procedimento specifico davanti al giudice del lavoro. In particolare, qualora ritenga che si sia verificato un comportamento antisindacale, l'organismo locale dell'associazione sindacale nazionale che vi abbia interesse, pu ricorrere al giudice del lavoro del luogo ove il comportamento stato posto in essere. Questi, entro 2 giorni dalla proposizione della domanda, convocate le pani e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente fa violazione, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti da esso provocati. Il decreto ha, come si vede, un contenuto tipico rivolto all'effettivo ripristino dello status quo ante, anche se non sempre questa finalit ha modo di dispiegarsi effettivamente, tutte le volte in cui gli effetti della condotta si siano ormai esauriti (in tali casi il decreto ha, nella sostanza, un contenuto di "accertamento", a valere come dissuasione da future analoghe violazioni). L'inosservanza del decreto integra gli estremi penali di cui all'art. 650 del c.p. quale inosservanza dei provvedimenti dell'autorit. inoltre prevista la Pubblicazione della relativa Sentenza Penale di Condanna.

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PARTE TERZA IL MERCATO DEL LAVORO CAPITOLO XII I Servizi per lImpiego
1. La tutela del lavoratore nel Mercato del Lavoro.
Il diritto del lavoro non riguarda solo le vicende del rapporto di lavoro bens anche la delicata fase della costituzione del detto rapporto. Esso riguarda, in pratica, anche il cosiddetto mercato del lavoro e la sua recente profonda trasformazione. La delicatezza del problema e la diffidenza nei confronti di intermediari privati (il cui compito quello di favorire lassunzione), diffidenza giustificata da pratiche di sfruttamento della mano d'opera, hanno indotto il legislatore ad orientarsi per un monopolio pubblico del mercato del lavoro. Tale monopolio ha avuto attuazione attraverso gli uffici di collocamento preposti alla gestione dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro. Di tale sistema, tuttavia, s' dovuto rilevare il sostanziale fallimento ancor pi intollerabile in un'epoca in cui il paese non pu permettersi, per motivi economici, una politica di conservazione di strutture inefficienti nonch protezionista del rapporto di lavoro. La politica del lavoro si perci orientata pi verso la protezione del mercato del lavoro, con l'introduzione di forme flessibili, cos puntando alla professionalizzazione piuttosto che alla stabilit del posto di lavoro.

2. Il collocamento ordinario. Declino e caduta del monopolio pubblico.


Dopo la prima guerra mondiale, in Italia, per esprimere gli abusi dei mediatori, le associazioni sindacali cercarono in vario modo di assumere il controllo del collocamento della manodopera. La nascita del monopolio pubblico nel mercato del lavoro dovuta alla legge n. 264 del 1949, istitutiva di un enorme struttura pubblica articolata in quelli che vennero

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denominati uffici di collocamento; con al stessa legge veniva altres vietata - e penalmente sanzionata - l'intermediazione privata tra domanda e offerta di lavoro. Gli uffici di collocamento tenevano liste, distinte per professionalit, nelle quali dovevano iscriversi i lavoratori in cerca di occupazione. L'azienda che avesse voluto reclutare dei lavoratori, doveva rivolgersi all'ufficio di collocamento il quale avviava al lavoro quelli che si trovavano nelle liste della professionalit richiesta, in ordine di graduatoria (chiamata numerica) e solo in rare eccezioni, come per gli impiegati, era possibile un avviamento al lavoro del lavoratore scelto dall'imprenditore senza tener conto dell'ordine di graduatoria (chiamata nominativa); in tal modo le aziende si vedevano assegnati dei lavoratori iscritti nelle liste delle diverse professionalit sulla sola base delle loro dichiarazioni e, pertanto, senza che nessuno ne avesse accertato la reale professionalit ne il livello della stessa. Il sistema, bench inteso a distribuire equamente prospettive di lavoro, aveva non pochi difetti e, ci nonostante, stato mantenuto in piedi pur in presenta di una facile e diffusissima elusione delle relative regole. In particolare, vera una possibilit di eludere legalmente il meccanismo, attraverso il passaggio diretto da azienda ad azienda: difatti un lavoratore, invece di dimettersi o di essere licenziato e di riscriversi nelle liste di collocamento, attendendo che arrivasse il suo turno, poteva transitare da un'azienda ad un'altra, sulla base di contatti diretti fra le stesse, previa la mera concessione di un nulla-osta da parte dell'ufficio di collocamento. pur vero che erano previste sanzioni, anche penali, per chi violasse la normativa, ma, col tempo, esse erano divenute sempre pi lettera morta. Cominci cosi la serie delle modifiche legislative. In un primo tempo, ci si limitati ad ampliare il numero dei casi nei quali si poteva proporre una richiesta nominativa, piuttosto che numerica. Ci per venire incontro alla pressante richiesta delle imprese di non dover procedere ad assunzioni al buio, visto che, fra laltro, lufficio non controllava leffettiva esistenza dei requisiti professionali dichiarati dal lavoratore in cerca di lavoro. Ma un primo vero tentativo di riforma venne attuato con la legge n. 56 del 1987, attraverso il decentramento delle funzioni e la creazione di apparati regionali (Commissioni Regionali per lImpiego). Il risultato, pero, m per niente soddisfacente. Una prima svolta decisiva la si ebbe con la legge n. 608 del 1996, con la quale venne abolita la richiesta numerica - e, sostanzialmente, anche quella nominativa, ove consentita prevedendo la sola comunicazione dell'assunzione, una volta avvenuta, all'ufficio di collocamento, il quale in tal modo assumeva, nel mercato del lavoro, il ruolo di semplice spettatore. Gli uffici di collocamento restarono, quindi, organismi tenuti alla sola registrazione dei dati e senza alcuna possibilit di gestire il mercato del lavoro, e l'inutilit di tale funzione fu il pretesto per decretarne l'abolizione. Determinante in tal senso fu una sentenza della Corte di giustizia europea del 1997 che, su ricorso di un'azienda italiana, la Job Centre, sentenzi l'incompatibilit del monopolio pubblico italiano del mercato del lavoro col Trattato di Roma istitutivo della Comunit europea per violazione della libert di concorrenza.

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All'azienda italiana in questione era stata negata l'iscrizione dal Tribunale di Milano in quanto il suo statuto prevedeva l'esercizio di un'attivit di intermediazione, ossia un'attivit ancora vietata dalla legge n. 264 del 1949. La sentenza della Corte diede in tal modo una spinta decisiva in direzione del superamento del monopolio pubblico del mercato dal lavoro con l'apertura ai privati del medesimo mercato, tenuto anche conto della fallimentare esperienza della sistema pubblico.

3, La concorrenza pubblico-privato: dal d.lgs. n. 469 del 1997 al d.lgs. n. 276 del 2003.
La sentenza della Corte di giustizia europea Job Centre del 1997 decretava lincompatibilit del monopolio statale in materia di mercato del lavoro in quanto contrario alle norme sulla libera concorrenza. Da essa ha preso vita il processo di riforma iniziato col d.lgs. n. 469 del 1997 introduttivo di due fondamentali innovazioni, e cio: a) il trasferimento delle funzioni degli uffici di collocamento dallo Stato alle Regioni che a loro volta l'avrebbero decentrato alle Province dopo la riforma costituzionale del 2001; b) la legalizzazione dell'intermediazione privata il cui esercizio era subordinato al rilascio di un'autorizzazione amministrativa. Circa il punto sub a): Con la riforma del Titolo V della Costituzione con L.3/2001, lo Stato manteneva solo una funzione di indirizzo e di coordinamento della politica del lavoro, mentre la relativa competenza legislativa veniva decentrata alle Regioni. Queste ultime avrebbero poi attuato un ulteriore decentramento a livello provinciale, con l'istituzione dei Centri per l'impiego in sostituzione degli uffici di collocamento e con l'obiettivo di fornire varie forme di assistenza a favore di chi fosse in cerca di un'occupazione, la Regione coordina tali Centri dallalto, attraverso una Commissione Tripartita composta da rappresentanti pubblici e delle parti sociali. Circa il punto sub b): Sul piano dell'apertura ai privati, tuttavia, la legge non ebbe buoni risultati in quanto non permetteva di svolgere contemporaneamente attivit di intermediazione e di somministrazione di lavoro. Ma il processo di riforma continuato.

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Con riguardo al collocamento pubblico, da segnalare il d.lgs. 21 aprile 2000 n. 181, modificato dai d.lgs. 19 dicembre 2002 n. 297. Esso ha dettato i principi fondamentali di indirizzo per l'esercizio della potest legislativa in materia da parte delle Regioni. Tale Riforma ha determinato: l'abolizione delle liste di collocamento e, con esse, della chiamata numerica; la previsione di nuove modalit di accertamento dello stato di disoccupazione; l'introduzione dell'obbligo di denuncia contestuale dell'assunzione anche per i rapporti di lavoro non subordinato (bens parasubordinato) quali le collaborazioni coordinate e continuative ed i lavori a progetto. Si giunti, infine, ad un'ulteriore riforma del regime del collocamento privato, tramite il pi volte evocato d.lgs. n. 276 del 2003, come ritoccato dal d.lgs. 11 ottobre 2004 n. 251, una delle cui linee di intervento stata quella dell'ulteriore rivisitazione della disciplina che prevede i presupposti e le condizioni di svolgimento dell'attivit di collocamento da parte dei privati. In particolare tale Riforma ha previsto: labolizione del vincolo di oggetto sociale esclusivo per le agenzie di lavoro somministrato, di tal che le stesse avrebbero potuto esercitare anche altre attivit, ivi compresa quella di intermediazione, inerenti al mercato del lavoro. A tale ultimo scopo stato istituito un albo, presso il Ministero del lavoro, diviso in 5 sezioni, cui devono iscriversi le agenzie che intendono esercitare attivit di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale, prevedendo un regime unico di autorizzazione, nel senso che le agenzie del lavoro possono svolgere una o pi delle dette attivit. Le agenzie possono operare anche sulla base di un'autorizzazione provvisoria, ottenuta per silenzio-assenso col decorso di 60 giorni dalla domanda di iscrizione all'albo, che diventa definitiva dopo due anni. Le dette agenzie sono soggette a tutte le norme in materia di tutela della riservatezza dei dati personali e, con esse, a quelle che vietano discriminazioni nell'avviamento al lavoro; ad esse, in particolare, fatto divieto di assumere informazioni sulla posizione personale dei lavoratori in materia di credo religioso, sesso, politica, origini etniche e nazionali, ecc. Un'ultima importante innovazione, connessa al progresso tecnologico, la sostituzione del fallimentare SIL (Sistema Informativo del Lavoro) con una Borsa continua nazionale del lavoro, ossia con una banca dati telematica attraverso la quale ognuno pu acquisire informazioni tali da agevolare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro.

4. Il collocamento obbligatorio dei disabili.


Per particolari categorie esistono forme di collocamento, diverse da quelle ordinarie e tuttora gestite in regime di monopolio pubblico, che tengono conto della particolare condizione del soggetto da introdurre nel mondo del lavoro. L'ordinamento, in particolare, prevede forme di collocamento obbligatorio, o mirato, a favore dei disabili al fine di consentirne l'inserimento nel mondo del lavoro in attivit compatibili col proprio stato. La normativa speciale in materia ispirata ai principi costituzionali di uguaglianza (art. 3) e di diritto dei disabili all'avviamento professionale (art. 38). Coerentemente con tali principi la legislazione in materia impone l'obbligo, a carico dei datori di lavoro pubblici e privati di collocare al lavoro i soggetti appartenenti a

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determinate categorie ed iscritti in apposite liste tenute dai centri per l'impiego. La previgente normativa, recata dalla legge n. 482 del 1968, stata sostituita dalla legge n. 68 del 1999 che ha introdotto le seguenti innovazioni: a) i soggetti aventi diritto al collocamento obbligatorio sono individuati nelle seguenti categorie: disabili con un grado di inabilit superiore al 45%; invalidi per lavoro con un grado di inabilit superiore al 33%; orfani e coniugi superstiti di deceduti per causa di lavoro, guerra o servizio o in conseguenza dell'invalidit riportata per tali cause e soggetti assimilati, quali, in ultimo, anche le vittime del terrorismo e della criminalit organizzata; b) l'obbligo di avere in servizio un determinato numero di disabili e di appartenenti alle categorie protette, assumendo di volta in volta le unit necessarie a garantire la cosiddetta "quota di riserva", stato cos ridimensionato: nessuna unit per le imprese occupanti fino a 15 dipendenti; una unit per le imprese occupanti da 16 a 35 dipendenti; due unit per le imprese occupanti da 36 a 50 dipendenti; il 7% dell'organico in servizio per le imprese occupanti pi di 50 dipendenti;

c) la scelta dei soggetti da avviare al lavoro avviene per chiamata numerica, sulla base
di apposite liste, tenuto conto dell'idoneit del soggetto alle mansioni da svolgere; in alcuni casi previsto ravviamento nominativo o la stipula di convenzioni per una diversa modalit o tempistica di avviamento al lavoro; d) la procedura di avviamento avviene sulla base di apposita denuncia che il datore di lavoro deve obbligatoriamente inoltrare al Centro per l'impiego con cadenza annuale (entro il 31 gennaio di ciascun anno), affinch questo possa verificare i mutamenti d'organico e l'osservanza dei relativi obblighi inerenti al collocamento obbligatorio; a tal fine prevista l'obbligatoriet della denuncia annuale, cui attribuita una funzione di contestuale richiesta di avviamento al lavoro di disabili a copertura del contingente dovuto; l'omessa denuncia da luogo a pesanti sanzioni ma non consente al Centro per l'impiego di procedere all'avviamento al lavoro d'ufficio. Le norme sul collocamento obbligatorio non incontrano il maggior favore da parte delle imprese, giacch esse si vedono assegnare unit lavorative di accertata minore capacit lavorativa. Se, da un lato, la condizione di disabile e di minore capacit lavorativa non presupposto di minore capacit produttiva, perch un disabile pu essere utilizzato in modo ottimale in mansioni che non risentono della sua condizione, per altro verso non sono escluse, successivamente all'assunzione, verifiche intese ad accertare il grado di effettiva utilizzazione del disabile; all'esito di tali accertamenti, laddove sussistano condizioni di incompatibilit, temporanea o permanente, il disabile pu essere temporaneamente sospeso dal servizio, con privazione della retribuzione, od anche licenziato per giusta causa.

5. La libert di circolazione dei lavoratori in ambito comunitario.


L'appartenenza alla Comunit Europea ha determinato laccettazione del principio della libera circolazione, cui consegue il diritto dei cittadini comunitari di rispondere alle offerte di lavoro in qualsiasi stato membro, di tal che, a tal fine, i cittadini degli stati

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membri sono a tutti gli effetti equiparati ai cittadini italiani. Tale diritto altres protetto dal divieto, cos confermato, di ogni discriminazione, nell'avviamento al lavoro, fondata sulla nazionalit di origine. Ci potrebbe implicare la non spettanza di unanaloga libert in assenza di occasioni di lavoro effettive, ma la Corte di giustizia europea ha interpretato in modo estensivo tale diritto facendovi derivare l'ulteriore diritto di stabilirsi in un paese membro ancor prima di aver trovato un'occupazione e, in particolare, per tutto il periodo necessario a cercarne una.

6. L'accesso al lavoro dei cittadini extracomunitari.


Sul piano normativo, anche a livello costituzionale, non esiste alcuna particolare disciplina circa l'impiego di lavoratori extracomunitari a favore dei quali esiste, invece, il generalizzato divieto di discriminazione. L'assunzione di lavoratori extracomunitari va perdo considerata sotto altro aspetto e cio in relazione alla regolarit della loro presenza sul territorio nazionale, essendo essa presupposto indispensabile per la costituzione di un rapporto di lavoro. La presenza sul territorio nazionale di extracomunitari in cerca di un'occupazione stata inizialmente considerata in termini di ordine pubblico e con scarso rilievo dell'aspetto lavoristico. Il d.igs. n. 268 del 1998 ha confermato il riconoscimento, in favore dello straniero, di tutti diritti fondamentali della persona umana estendendo a suo favore il riconoscimento dei diritti civili riconosciuti al cittadino italiano, purch regolarmente soggiornante. L'utilizzazione dello straniero mediante un regolare rapporto di lavoro perci subordinata alla regolarit del soggiorno. A tal fine necessario il rilascio di apposito permesso cui provvede, oggi, lo Sportello unico per limmigrazione istituito (con la legge Bossi-Fini} presso le Prefetture, a riconferma dell'esigenza di un controllo centrale sui flussi di immigrazione. Il permesso di soggiorno viene rilasciato ove sussistano, tra l'altro, determinate condizioni, e cio: a) innanzitutto necessaria l'esistenza di un contratto di lavoro; a tal fine la richiesta avanza dal datore di lavoro col quale il contratto stipulato; l'efficacia del contratto immediata; b) va poi dimostrata l'esistenza di un alloggio presso il quale l'extracomunitario abitualmente dimori; c) il datore di lavoro, infine, deve impegnarsi al pagamento delle spese per il rientro in patria dell'extracomunitario.

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Il permesso concesso per la durata del contratto ii quale, dal canto suo, non pu eccedere la durata massima del permesso che, per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, di due anni. Qualora il rapporto di lavoro si interrompa prima della scadenza del permesso di soggiorno, l'extracomunitario resta iscritto, fino a tale data, in apposite liste formate presso i Centri per l'impiego. La normativa attuale in materia quella di cui alla legge n. 189 del 2002 (detta BossiFini) che tra l'altro prevede il contingentamento dei flussi di immigrazione per mantenerne il controllo; in tal modo il governo che periodicamente stabilisce quanti permessi di soggiorno per lavoro possano essere concessi ad extracomunitari, cos limitandone, correlativamente, l'immissione sul mercato del lavoro.

PARTE QUARTA I CONTRATTI DI LAVORO CAPITOLO XIII Il Lavoro Subordinato


1. La tutela del lavoratore nel Mercato del Lavoro.
Il diritto del lavoro tratta, per tradizione, il solo lavoro subordinato, essendo esso nato per tutelare quella parte del rapporto contrattuale economicamente pi debole ed in posizione di svantaggio rispetto all'imprenditore, proprietario delle risorse produttive. Al rapporto di lavoro dipendente si riferisce, pertanto, quasi tutta la legislazione giuslavoristica, mentre le altre forme di rapporto di lavoro hanno la loro disciplina nelle disposizioni di legge che le prevedono. Il rapporto di lavoro innanzitutto un contratto le cui parti sono, secondo la previsione di cui all'ari. 2094 c.c.: il lavoratore, da un lato, che offre la sua prestazione lavorativa, manuale o intellettuale; l'imprenditore, dall'altro, che tenuto a remunerare la prestazione in misura pari alla qualit e quantit della stessa e nei modi e termini stabiliti dalla contrattazione collettiva e dalle altre norme in materia. Il contratto di natura sinallagmatica, a prestazioni corrispettive, per cui mancando l'una viene meno l'obbligo dell'altra. La figura dell'imprenditore, quale parte del rapporto contrattuale, da intendersi riferita a qualsiasi datore di lavoro e non, in via esclusiva, all'imprenditore; ne consegue che il

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rapporto di lavoro subordinato non esclusivamente quello instaurato con un imprenditore bens con qualsiasi altro datore d lavoro, sia privato che pubblico. Al fine di equiparare all'imprenditore qualsiasi altro datore di lavoro, sufficiente il generico rinvio di cui allart. 2239 c.c.. Per quanto attiene al rapporto di pubblico impiego, invece, il rinvio addirittura espresso, ad opera dell'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. La figura del lavoratore dipendente e gli elementi identificativi di un rapporto di lavoro dipendente sono rinvenibili nell'art. 2094 c.c. secondo il quale prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore. Pertanto solo le situazioni di lavoro che presentano tali caratteristiche possono qualificarsi come rapporto di lavoro dipendente; negli altri casi si avranno, invece, le varie forme di lavoro autonomo e non subordinato. Gli elementi identificati del rapporto di lavoro subordinato sono, dunque: a) l'obbligo di collaborare "nell'impresa"; esso presuppone che il lavoratore partecipi alla realizzazione degli scopi dell'impresa e non di quelli propri o di soggetti diversi dall'impresa nella quale lavora; b) la prestazione di lavoro "alle dipendenze" dell'imprenditore; il che indicativo della posizione del lavoratore che, in tal caso, non autonoma ne esposta ai rischi dell'impresa che ricadono, invece, tutti sull'imprenditore; c) l'assoggettamento della prestazione alla direzione dell'imprenditore"; a conferma della posizione non autonoma del lavoratore bens sottoposta alle direttive altrui ed anche alle regole di organizzazione interna dell'impresa. Invero le altre forme di rapporto di lavoro hanno diversi tratti comuni col rapporto di lavoro subordinato. Infatti una forma di collaborazione sussiste sempre tra prestatore d'opera ed imprenditore, ma il lavoratore autonomo non inserito nell'organizzazione dell'impresa e, in ogni caso, non vincolato alle direttive dell'imprenditore nei confronti del quale ha solo obblighi di risultato. L'altro elemento comune la remunerazione della prestazione che, al di l della diversa forma, in ogni caso dovuta salvo non si tratti di lavoro gratuito o familiare.

2. L'indagine giudiziale della subordinazione.


La maggiore tutela che l'ordinamento prevede a favore del lavoro subordinato il motivo per il quale le parti dal rapporto contrattuale hanno opposti interessi in ordine al riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Un rapporto di lavoro subordinato presuppone, infatti, maggiori obblighi a carico del datore di lavoro e, correlativamente, maggiori tutele a favore del prestatore d'opera. L'indagine in tal senso, non semplice, parte dalla volont contrattuale e dal nomen iuris dalle parti attribuito al contratto e prosegue, poi, con riferimento al contenuto formale del contratto stesso e, quindi, al contenuto effettivo della prestazione lavorativa che resta in ogni caso quello prevalente. La volont delle parti certamente significativa purch espressa nell'ambito della legge e non al d fuori di essa.

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Le norme in materia di rapporto di lavoro sono, infatti, di tipo imperativo e non dispositivo, sicch le parti non possono di comune accordo derogare a tali norme stabilendo che un rapporto di lavoro - che di fatto o di tipo subordinato - sia regolato da norme diverse da quelle per esso previste dallordinamento. perci innanzitutto irrilevante il nomen iuris dalle parti dato al contratto quando il contenuto dello stesso sia con esso non coerente, nel senso che pur qualificando il rapporto contrattuale in modo diverso da quello del lavoro subordinato, le relative clausole sono invece indicative del rapporto di subordinazione. Se cos non fosse, la parti potrebbero facilmente mascherare un contratto di lavoro dipendente - eludendo tutte le nonne regolatrici di tale tipo di rapporto semplicemente attribuendo al detto rapporto un nomen diverso da quello del rapporto di lavoro subordinato, ancorch le relative clausole siano quelle tipiche di tale tipo di rapporto. Per altro verso un contratto di lavoro pu ben essere provvisto dei requisiti della coerenza formale - tra denominazione e contenuto per poi risultare difforme dalla reale situazione di fatto. Per tale motivo l'accertamento dell'esistenza o meno di un rapporto di lavoro subordinato e esperito con prioritario riferimento alle situazione di fatto e, pi in particolare, all'accertamento delle presenza degli elementi in tal senso fondamentali della subordinazione, della remunerazione periodica e della organizzazione eteronoma della prestazione lavorativa, tutti sintomatici del rapporto di lavoro subordinato.

3. La certificazione.
Il contratto di lavoro un contratto per il quale prevista la forma scritta. Il contratto di lavoro subordinato quello maggiormente protetto dall'ordinamento e, quindi, maggiormente oneroso per l'imprenditore. Dalla qualificazione del contratto o dal suo contenuto potrebbe risultare che il rapporto di lavoro non sia di tipo subordinato ma solo sul piano formale mentre la prestazione di fatto caratterizzata da tutti gli elementi di cui allart. 2094 c.c. e perci sufficienti a qualificare il rapporto di lavoro come rapporto di lavoro di tipo subordinato. Al fine di ridurre il contenzioso inerente allaccertamento del contratto di lavoro subordinato, l'art. 76 d.lgs. n. 276 del 2003 prevede una procedura di certificazione, secondo la quale le parti congiuntamente possono chiedere a determinati organismi dalla stessa norma individuati (enti bilaterali, universit, direzioni provinciali del lavoro) la certificazione o, meglio, la dichiarazione circa la qualificazione del suo rapporto di lavoro. La certificazione ha validit giuridica verso terzi, relativamente alla qualificazione del contratto, fino a quando non sia diversamente stabilito dall'autorit giudiziaria. Infatti avverso la certificazione, che si qualifica atto amministrativo, ammesso il ricorso al TAR, per eccesso di potere, od anche al giudice ordinario, per difformit della prestazione di fatto rispetto a quanto pattuito col contratto e coerentemente con esso certificato dal competente organo.

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CAPITOLO XIV I Lavori non Subordinati


1. Il difficile equilibrio delle Tutele e la prospettiva dello Statuto dei lavori
La previsione di tutta una serie di tutele riservate, tuttavia, esclusivamente al lavoratore dipendente, ha fatto sorgere il problema circa l'estensione delle stesse tutele al lavoratore autonomo, vieppi in presenza della maggiore diffusione delle forme di lavoro flessibile, atteso che il lavoratore autonomo, pur in assenza di una dipendenza funzionale dall'imprenditore, trovasi spesso in una posizione di "dipendenza economica" dallo stesso, allorquando trae tutto il suo reddito da quell'unico rapporto di lavoro per di pi precario. Sul punto sono stati formulati diversi progetti sostanzialmente riconducibili alle seguenti 3 ipotesi: a) estensione al lavoratore autonomo di tutte le tutele previste per il lavoratore subordinato; b) estensione al lavoratore autonomo soltanto dei principali diritti previsti per il lavoratore subordinato; c) avvicinamento della condizione dei lavoratori autonomi a quella dei lavoratori subordinati prevedendo l'estensione a favore dei primi di un nucleo fondamentale di diritti gi riconosciuti ai lavoratori subordinati, bilanciandone il costo con la riduzione di alcune tutele a favore di questi ultimi. In tale ultima direzione si mosso il d.lgs. n. 276 del 2003.

2. Il lavoro autonomo.

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La figura del lavoratore autonomo si differenzia da quella del lavoratore subordinato in quanto la sua prestazione autonomamente organizzata, cio organizza autonomamente il suo lavoro ed ha nei confronti del committente solo un obbligo di risultato. L'art. 2222 c.c. definisce lavoratore autonomo quella persona che "si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servigio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente". Le parti del rapporto contrattuale sono, quindi, il lavoratore autonomo, da un lato, ed il committente dell'opera o del servizio, dall'altro. La disciplina del rapporto, essendo esclusivamente codicistica, di natura dispositiva ed , pertanto, lasciata alla libera scelta delle parti, a differenza del rapporto di lavoro subordinato soggetto a norme di natura imperativa e perci inderogabili.

3. Le collaborazioni coordinate e continuative.


Una particolare forma di lavoro autonomo quella della collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co), la cui caratteristica quella di avere molti aspetti in comune col rapporto di lavoro subordinato, tanto da farla qualificare non proprio come lavoratore autonomo bens come lavoro "parasubordinato". La sostanziale differenza tra il lavoratore subordinato ed il collaboratore coordinato e continuativo sta nel fatto che la prestazione di quest'ultimo svolta sotto il "coordinamento" del committente, anzich sotto la direzione dell'imprenditore, che costituisce, tutto sommato, una forma pi blanda di direzione. Nel resto il rapporto di lavoro molto simile a quello del lavoro subordinato cui l'evoluzione normativa lo ha gradatamente avvicinato. La collaborazione coordinata e continuativa ha fatto la sua apparizione con la legge n. 533 del 1973 il cui ari. 1, modificando l'art. 409 del codice di procedura civile, istituiva lo speciale rito processuale per le controversie di lavoro riservato, tra l'altro, "ai rapporti di agenda, di rappresentane commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una presta'none di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato". La figura tipica del collaboratore coordinato e continuativo quella dell'agente di commercio per il quale, oltre alla contrattazione collettiva, sono previste forme di tutela minime ma tipiche del rapporto di lavoro subordinato, come la contribuzione previdenziale presso la speciale cassa ENASARCO. Con la riforma del sistema previdenziale attuata con la legge n. 335 del 1995, l'obbligo contributivo all'INPS stato esteso a tutte le altre forme di collaborazione coordinata e continuativa e peraltro ponendo il relativo onere per i 2/3 a carico del committente e per la restante parte a carico del collaboratore. Pi di recente, sono stati previsti l'obbligo di iscrivere i collaboratori all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, nonch le stesse modalit di corresponsione della retribuzione (busta paga), e soprattutto di prelievo dell'imposta sul reddito tramite ritenuta alla fonte, gi in atto per i lavoratori dipendenti. Malgrado il progressivo aggravio dei costi sopportati per la loro utilizzazione, il numero dei collaboratori coordinati continuativi andato crescendo nel periodo recente, e ci perch la collaborazione coordinata e continuativa presenta molteplici aspetti vantaggiosi per il committente datore di lavoro. In particolare:

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il collaboratore non ha diritto a ferie, ad assistenza per malattia ne a trattamento di fine rapporto; non vi contrattazione collettiva regolante il rapporto la cui disciplina, pertanto, lasciata alla libera scelta delle partirla.

4. Il lavoro a progetto o a programma.


La fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa stata disciplinata col d.lgs, n. 276 del 2003, il cui art. 61 ne ha previsto la riqualificazione in "lavoro a progetto o a programma". La disposizione di legge prevede, espressamente, che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all'art.409, n. 3, del codice di procedura civile devono essere riconducibili ad uno o pi progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore. La nuova disciplina, intesa a contenere il dilagante fenomeno delle collaborazioni fasulle, dietro le quali si nascondono rapporti di lavoro subordinato di fatto, ha perci previsto che la disattenzione dell'obbligo di indicare, nel contratto, lo specifico progetto o programma che il collaboratore si impegna a realizzare, determina la qualificazione del rapporto quale rapporto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato con effetto dalla sua costituzione. Sono esenti da tali disposizioni alcune particolari figure di collaboratori nonch i collaboratori occasionali la cui prestazione non supera i 30 giorni all'anno e, comunque, non produce reddito per pi di 5.000 euro. La nuova disciplina introduce, altres, ulteriori forme di tutela per il collaboratore, quali: il requisito della forma scritta del contratto e l'obbligatoriet di alcune clausole; il diritto ad una retribuzione commisurata alla qualit e quantit del lavoro svolto; il diritto ad un periodo di sospensione del rapporto, ancorch non retribuita, per malattia o infortunio od anche per maternit, senza che il committente possa risolvere il rapporto; il diritto alla proroga del contratto per 180 giorni nel caso di maternit; il diritto alla tutela della salute e della sicurezza a norma del d.lgs. n. 626 del 1994 (ora d.lgs. 81 del 2008). Dal punto di vista della durata, il contratto deve essere obbligatoriamente contrassegnato da un termine finale, anche derivato per relationem dalla realizzazione del progetto o dall'esecuzione del programma. Le vecchie collaborazioni coordinate e continuative a tempo indeterminato (le pi flessibili di tutte, essendo sempre possibile il recesso del committente, al massimo dietro il rispetto di un termine di preavviso) non sono, quindi, pi legittime. In quanto a termine, il contratto si risolve automaticamente al momento della realizzazione del progetto o del programma. Ve, comunque, anche la possibilit di un recesso del committente prima della scadenza del termine; ci, anzitutto, in caso di giusta causa, e con il mero rispetto di un termine di preavviso.

5. Il lavoro associato. 58

Il lavoro associato quella particolare forma di rapporto di lavoro secondo la quale da un lato c' il committente (datore di lavoro) e dall'altra c' l'associazione i cui componenti sono i prestatori d'opera a favore del committente ma sono al tempo stesso datori di lavoro di se stessi. Dunque, la prestazione lavorativa diversa da quella di tipo subordinato pu essere svolta anche all'interno di contratti di tipo associativo e perci "orizzontali". L'esempio tipico e quella della cooperativa di produzione e lavoro nell'ambito della quale il lavoratore anche socio, ossia imprenditore in quota parte. A favore di questa categoria di lavoratori gi da tempo sono state estese alcune tutele tipiche del rapporto di lavoro subordinato (tutela della maternit, contribuzione previdenziale obbligatoria, ecc.). Dei contratti associativi fa altres parte il contratto di associamone in partecipazione, previsto e disciplinato dall'art. 2549 e seguenti c.c. Lassociazione in partecipazione quella particolare forma di lavoro associato secondo la quale l'associazione costituita dal datore di lavoro e dal prestatore di lavoro che col primo si associa. In tal caso il prestatore di lavoro non viene remunerato come lavoratore subordinate bens partecipando agli utili dell'impresa in misura proporzionale al suo apporto lavorativo. La partecipazione alle perdite, viceversa, eventuale, in quanto pu essere esclusa dalle parti con un apposito accordo.

CAPITOLO XV Il Lavoro Esterno


1. Le Esternalizzazioni
L'impresa pu realizzare la propria produzione con l'impiego della prestazione lavorativa di: a) lavoratori dipendenti; b) lavoratori autonomi; c) lavoratori di altre imprese cui abbia appaltato la realizzazione di beni o servizi. Questa terza ipotesi quella della cosiddetta esternalizzazione di un servizio o di un segmento produttivo che viene dato in appalto ad un'altra impresa la quale vi provvede con i propri dipendenti, cos escludendo ogni rapporto tra l'imprenditore principale ed il lavoratore che, tutto sommato, lavora per quest'ultimo pur dipendendo da altri. L'impresa, infatti, per realizzare la sua produzione dispone di due diverse soluzioni: vi provvede in proprio in tutto e per tutto, secondo il modello fordiano; o mantiene solo la produzione cosiddetta strategica, ossia quella della parte principale del prodotto, appaltando ad altri la produzione di beni accessori, secondo il modello post-fordiano. Nella prima ipotesi lunico aspetto positivo quello di avere sotto controllo lintero ciclo produttivo, limitando il ricorso allesterno solo per l'approvvigionamento di materie prime. Ci significa che l'impresa deve munirsi di tutte le professionalit necessarie, con scarsa possibilit di specializzare una moltitudine di fasi produttive diverse.

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Nell'altra ipotesi limpresa mantiene la produzione della parte strategica del prodotto principale appaltando ad altre imprese la produzione di parti accessorie del bene principale od anche la realizzazione di servizi collaterali; in tal modo l'impresa principale non avr tutte le problematiche inerenti alla gestione di personale che lavora alla sua produzione ma dipende da altri, ossia da imprese satelliti, sulle quali ricadranno, per esempio, anche i cali produttivi derivanti da una contrazione della domanda e le ripercussioni sull'occupazione. Questa seconda ipotesi presenta poi l'aspetto produttivo della maggiore specializzazione che l'impresa pu conseguire se concentrata sulla realizzazione di un'unica parte del prodotto.

2. Il trasferimento di azienda.
Lesternalizzazione di una parte dell'attivit produttiva pu avvenire in diversi modi; uno di questi l'appalto di un servizio o della produzione di un bene, nel senso che l'azienda, anzich provvedervi m proprio, da il relativo incarico ad un'altra impresa; un altro modo e quello che comporta la cessione di una parte della propria azienda ad un'altra, ossia il trasferimento di un segmento della propria attivit produttiva e, con essa, anche delle risorse ad esso dedicate, ivi compreso il personale dipendente. La fattispecie regolata dall'art. 2112 c.c., come modificato dall'art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, che agevola i processi di esternalizzazione ed introduce nuove norme a tutela dei lavoratori coinvolti in tali processi. La norma prevede, innanzitutto, che le relative regole si applicano sia al trasferimento in toto dell'azienda sia al trasferimento di parte (ramo) di essa (co.5). In proposito va precisato che il trasferimento di azienda o di impresa da considerarsi tale se resta di fatto inalterata la finalit produttiva della stessa, per cui non sfuggono all'applicazione delle relative regole quei trasferimenti organizzati proprio per eluderle e per determinare condizioni di minor favore per il personale. Nel caso di trasferimento di una parte soltanto dell'azienda peraltro con la prospettiva di riacquistare dal cessionario il prodotto prima realizzato in proprio tale parte deve essere funzionalmente autonoma. Tuttavia, mentre in passato tale autonomia doveva essere "preesistente al trasferimento", ossia avere un riscontro reale nell'organizzazione aziendale anteriore a detto trasferimento, la novella del 2003 ha soppresso il requisito della "preesistenza", ritenendo sufficiente che il ramo d'azienda sia identificato come tale, dal cedente e dal cessionario, al momento del trasferimento. Si tratta di una previsione mirante a favorire le Esternalizzazioni. A protezione della posizione del lavoratore, che viene trasferito unitamente allattivit produttiva, la norma prevede, innanzitutto, che detto trasferimento non pu essere motivo di licenziamento, nel senso che il trasferimento dell'azienda non pu avvenire correlativamente alla riduzione dell'organico che dovrebbe essere con essa trasferito ne a condizione che ci avvenga, di tal che il cessionario obbligato ad acquisire l'intero personale gi destinato dal cedente all'attivit produttiva ceduta (art.2112 co.4). Il lavoratore, inoltre, mantiene i diritti acquisiti ed i crediti vantati all'atto del trasferimento (co.1), che pu rivendicare verso il cessionario, il quale obbligato in solido col cedente (co.2), e mantiene il diritto a vedersi applicare i contratti collettivi vigenti

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all'atto del trasferimento, salvo che nell'azienda cessionaria non trovino applicazione contratti collettivi diversi (co.3). Il linea teorica, pertanto, il trasferimento pu dar luogo a reformatio in peius, nel senso che il lavoratore pu vedersi applicare fin da subito un contratto peggiorativo rispetto a quello applicategli nella posizione di provenienza; ove una tale ipotesi possa realmente verificarsi, col contratto aziendale che, in genere, viene scongiurata o comunque graduata una reformatio in peius. La tutela a favore del lavoratore consiste, altres, nell'inserimento dell'eventuale trasferimento dell'azienda tra le materie oggetto di relazioni sindacali, prevedendo l'obbligo della previa informazione e consultazione dei soggetti sindacali competenti; la disattenzione di tali norme pu costituire presupposto per un ricorso per condotta antisindacale, ai sensi dell'art. 28 dello Statuto, ma non pu impedire che il trasferimento sia effettuato.

3. Gli appalti.
Se quella del trasferimento di un ramo dazienda rappresenta la prima fase del processo di esternalizzazione, la seconda fase ha come obiettivo quelli di riacquisire all'azienda il prodotto dell'attivit oggetto di decentramento. Ci avviene, in genere, tramite la stipulazione di contratti di appalto fra l'impresa gi titolare dell'attivit e quella che ha acquisito la gestione della stessa: in virt di tale contratto, l'appaltatore si obbliga a fornire, "con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio" (art. 1655 c.c.), l'opera o il servizio gi prodotti all'interno. Quando si parla di lavoratore in appalto si fa riferimento alle due diverse ipotesi di impiego di un lavoratore che dipende da un'azienda appaltatrice di un servizio per conto di un altro, e cio all'ipotesi in cui il lavoratore, dipendente della ditta appaltatrice, lavori presso di essa ovvero presso l'appaltante. Nel primo caso non v'e alcuna differenza con qualsiasi altro rapporto di lavoro. Invece nella seconda ipotesi, cio nel caso in cui l'azienda appaltatrice svolga il suo servizio utilizzando i propri lavoratori presso l'azienda appaltante, il lavoratore ha diritto allo stesso trattamento, se pi favorevole, riservato ai lavoratori dell'azienda appaltante (L.1369/1960). La previsione in tal senso finalizzata ad evitare appalti di comodo fatti per applicare condizioni di minor favore attraverso l'affidamento ad altri di una lavorazione che fatta in proprio costerebbe di pi. Al fine di eliminare il disincentivo normativo alle operazioni di esternalizzazione, tale norma stata abrogata dal d.lgs. n. 276 del 2003 il quale, a tutela del lavoratore dell'impresa appaltatrice ha previsto un regime di solidariet secondo il quale nel caso di sua inadempienza nei confronti dei medesimi lavoratori essi possono rivalersi nei confronti della ditta appaltante.

4. Il divieto di interposizione.
L'appalto contraddistinto dal fatto che l'appaltatore, ai sensi dell'art. 1655 c.c., deve essere provvisto di mezzi propri per lo svolgimento in piena autonomia di un determinato servizio. Laddove tali condizioni non esistono, l'appalto solo finalizzato a mascherare un rapporto di lavoro dipendente.

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L'appalto di un servizio per conto di un'impresa pu talvolta mascherare un appalto di manodopera, nel senso che l'impresa appaltatrice del tutto fittizia e svolge una mera funzione di interposizione tra l'imprenditore appaltante ed il lavoratore, ricavandone un utile. Si consideri l'esempio di un'impresa che faccia ricorso ad un servizio di facchinaggio interno, e stipuli a tal fine un contratto di appalto: se gli addetti a tale servizio rispondono alla loro datrice di lavoro, che ne organizza effettivamente le prestazioni, siamo di fronte ad un appalto autentico, e si applica la disciplina analizzata nel paragrafo 3. Qualora, invece, tali addetti, pur facendo il loro mestiere di facchini, vengano diretti da un capo-reparto dell'impresa appaltante, o se, addirittura, vengano utilizzati anche per integrare l'organico di tale impresa, e pertanto in modo fungibile rispetto ai dipendenti interni, non si di fronte ad un appalto ex art. 1655 c.c., bens ad mera una fornitura o somministrazione di manodopera (si parla spesso, in modo atecnico, di un appalto di manodapera), e quindi ad un'interposizione del datore d lavoro puramente formale (l'appaltatore fasullo di opera o servizio) in un rapporto che, di fatto, intercorre fra i lavoratori e il datore di lavoro reale (l'appaltante). Per porre fine a siffatte forme di caporalato, l'art. 1 della legge n. 1369 del 1960, introdusse l'assoluto divieto di appalto di mano d'opera e di intermediazione nellassunzione di mano d'opera fornendo, altres, gli elementi individuativi della illiceit di tali situazioni nella parte in cui stabiliva che "E' considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fomite dallappaltante, quand'anche per il loro uso venga corrisposto un compenso allappaltante". La violazione di tale norma, siccome imperativa, determinava la nullit dei contratti d'appalto e dei contratti di lavoro stipulati con la ditta appaltatrice ed i lavoratori da essa dipendenti erano considerati a tutti gli effetti dipendenti dellutilizzatore. A tal fine, tuttavia, occorreva dimostrare la sostanziale inesistenza dell'impresa appaltatrice e resistenza di una subordinazione di fatto rispetto all'imprenditore appaltante. A tal fine, in particolare, occorreva dimostrare che l'impresa appaltatrice era priva degli elementi di cui all'art.1655 c.c. caratterizzanti l'appalto, e cio: propri mezzi, capitali, attrezzature ed organizzazione. Allo stesso fine era altres decisiva la presenta di una subordinazione di fatto del lavoratore alle direttive dell'imprenditore appaltante nonch il suo impiego in mansioni uguali a quelle del personale da esso dipendente. La direziono del prestatore d'opera da parte dell'imprenditore, se da un Iato dimostrava l'inesistenza del rapporto di lavoro subordinato tra questo e l'appaltatore o l'intermediario, per altro verso dimostrava l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato di fatto con l'utilizzatore. Il d.lgs. n. 276 del 2003, nellabrogare la legge n. 1369 del 1960, ha sostanzialmente confermato, allart. 29, l'illiceit dell'appalto di prestazioni di lavoro quando l'impresa appaltatrice sia priva degli clementi. identificativi dell'appalto ai sensi dell'art. 1655 c.c., ed ha istituito, all'art. 20, quella forma di intermediazione legale denominata "contratto di somministrazione".

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CAPITOLO XVI Il Lavoro Somministrato


1. Dalla fornitura di lavoro temporaneo alla Somministrazione di lavoro
Il divieto di appaltare manodopera, sancito dall'art.1 della legge n. 1369 del 1960, rispondeva al principio storico secondo il quale "il lavoro non una merce". La disposizione di legge rendeva illecita qualsiasi forma di appalto di manodopera attraverso la quale venivano sostanzialmente eluse tutte le tutele tipiche previste per il lavoratore dipendente. La convinzione che una modifica del mercato del lavoro con l'introduzione dell'appalto di manodopera avrebbe avuto riflessi positivi sull'economia, diede luogo alla legge n. 196 del 1997 (Legge Treu), istitutiva del lavoro interinale e, sostanzialmente, di una forma legale di appalto di manodopera caratterizzato dall'esistenza di un duplice rapporto contrattuale; uno tra l'utilizzatore e l'appaltatore, l'altro tra l'appaltatore ed il prestatore di lavoro. Quest' ultimo, in particolare, pur prestando servizio sotto la direzione dellutilizzatore, costituisce un rapporto di lavoro subordinato con l'appaltatore e in tal modo acquisisce il diritto alle tutele di legge in materia di rapporto di lavoro subordinato ed il diritto a vedersi applicare le norme stabilite dalla contrattazione collettiva. Il costo contrattuale dellappalto determinato dal costo contrattuale del lavoratore con l'aggiunta di un utile per l'impresa appaltatrice. Gli aspetti positivi del lavoro interinale che ha determinato l'ingresso del privato nel mercato del lavoro, ponendo fine al monopolio Statale, stanno nel fatto che lutilizzatore

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risparmia tempi e costi per una selezione, ha la garanzia della continuit delle prestazione, in quanto l'appaltatore si impegna a sostituire le unit assenti, risparmia, infine il periodo di prova ed alla fine del rapporto pu anche assumere presso di s, a tempo indeterminato, il lavoratore la cui professionalit stata verificata sul campo. Il d.lgs. n. 276 del 2003 ha definitivamente rimosso ogni ostacolo all'appalto di manodopera, abrogando la legge n. 1369 del I960, ribattezzando il lavoro interinale in "contratto di somministrazione di lavoro" ed introducendo 3 fondamentali innovazioni: a) la riscrittura della normativa che regola le agenzie di somministrazione, inserita nel pi ampio alveo di quella sulle agenzie del lavoro; b) la ridefinizione dei presupposti di accesso all'istituto; c) la legalizzazione della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato.

2. Il contratto di somministrazione di lavoro.


Il contratto di somministrazione di lavoro il contratto stipulato tra lutilizzatore ed il somministratore, in forza del quale i lavoratori somministrati, dipendenti del somministratore, svolgono la propria attivit nell'interesse e sotto la direzione ed il controllo dellutilizzatore. In buona sostanza il contratto di somministrazione quella forma di utilizzazione del prestatore di lavoro che in altri tempi avrebbe determinato la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato direttamente con l'utilizzatore. Il d.lgs. n. 276 del 2003 non esclude l'appalto di servizi, disciplinato dall'art.29, caratterizzato dall'esistenza di un'impresa che utilizzi mezzi e capitali propri ed abbia una sua organizzazione, e tuttavia esso legalizza le varie forme di intermediazione da un lato disciplinando le attivit delle agenzie per il lavoro e, dall'altro, stabilendo in quali casi possa farsi ricorso al lavoro somministrato. Le agenzie del lavoro sono innanzitutto sottoposte ad un regime di previa autorizzazione amministrativa. A tal proposito il d.lgs. n. 276 del 2003 ha istituito un apposito albo, presso il Ministero del lavoro, eliminando i vincoli di oggetto sociale esclusivo per le agenzie di somministrazione, nel senso che le agenzie del lavoro possono ora svolgere indistintamente una o pi delle attivit di: somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione di personale, supporto alla ricollocazione professionale. L'albo articolato in 5 sezioni alle quali si iscrivono, rispettivamente: a) le agenzie abilitate a svolgere tutte le attivit di cui all'art. 20, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003; b) le agenzie abilitate a svolgere una soltanto delle attivit di cui all'art.20, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003; c) le agenzie di intermediazione; d) le agenzie di ricerca e selezione del personale; e) le agenzie di supporto per la ricollocazione professionale. Il ricorso ai contratti di somministrazione di lavoro sono dalla legge limitati a situazioni a carattere temporaneo o eccezionale, al pari delle altre causali di impiego di forme di lavoro flessibile. La durata del contratto di somministrazione, pertanto, esclusivamente a termine, essendo stata espressamente abolita (con la legge finanziaria del 2008 n247/2007) l'ipotesi del contratto di somministrazione a tempo indeterminato.

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Il rapporto contrattuale del lavoratore (prestatore) con lazienda somministratrice (agenzia) pu essere sia a termine che a tempo indeterminato. Normalmente il lavoratore da somministrare viene assunto dell'azienda somministratrice in occasione e per la durata del contratto di somministrazione; nel caso in cui questi abbia con lazienda somministratrice un contratto di pi lunga durata (indeterminato), resta a cario della stessa per tutto il periodo durante il quale non venga impiegato presso un utilizzatore, con diritto ad una indennit di disponibilit pari al 20% della normale retribuzione. Le agenzie che si iscrivono all'albo devono essere in possesso dei determinati requisiti. L'iscrizione avviene prima in via provvisoria e poi, dopo 2 anni, in via definitiva. La somministrazione di lavoro a tempo indeterminato ammessa per le attivit elencate all'art. 20, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003. La somministrazione di lavoro a tempo determinato, comunque esclusa per la sostituzione di lavoratori in sciopero, ammessa "a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attivit dell'utilizzatoere". Tale precisazione, riportata al successivo comma 4, porta a concludere che per attivit ordinarie diverse da quelle elencare al comma 3 - ferma l'apertura finale a tutti i casi previsti dalla contrattazione collettiva - non ammessa la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato.

I requisiti di forma del contratto di somministrazione (tanto a tempo indeterminato quanto a tempo determinato) sono dettati dall'art. 21, il cui primo comma stabilisce che esso sia stipulato in forma scritta, e debba contenere una serie di elementi ivi specificati (fra le quali compresa quella del "numero" dei lavoratori da somministrare, ma non anche quella dei "nomi".

3. Il rapporto di lavoro somministrato.


Il rapporto tra il prestatore ed il somministratore un rapporto di lavoro subordinato a tutti gli effetti. Il contratto di lavoro in genere stipulato in occasione di un contratto di somministrazione e, tuttavia, non necessariamente ne segue la durata. Nel contratto di somministrazione, infatti, non vanno indicati i nominativi dei lavoratori impiegati ma solo le unit. Nulla impedisce, pertanto, che pi lavoratori siano impiegati, in periodi distinti e consecutivi, a copertura di un contratto di somministrazione di pi ampia durata rispetto al periodo di utilizzazione individuale. Viceversa nulla impedisce che il lavoratore stipuli con l'agenzia un contratto di lavoro a tempo indeterminato per essere poi impiegato in somministrazioni a tempo determinato, restando a disposizione dell'agenzia per i restanti periodi durante i quali ha diritto ad una indennit di disponibilit di misura non inferiore al 20% della retribuzione base. Le norme a tutela del lavoratore, ancorch non dipendente dallutilizzatore, rimangono sostanzialmente invariate in forza di un contratto di lavoro dipendente comunque esistente. Il lavoratore, in particolare, ha diritto al trattamento economico non inferiore a quello

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spettante ai dipendenti dellutilizzatore che svolgano uguali mansioni. Il rapporto diretto tra utilizzatore e lavoratore sta nelle modalit di impiego di quest' ultimo, che avviene secondo le direttive del primo, e per quanto attiene alle norme sulla sicurezza che l'utilizzatore tenuto ad applicare, in tal caso, anche nei confronti di dipendenti non suoi. Nel resto il rapporto di lavoro gestito in tutto e per tutto dal somministratore, anche per quanto attiene agli aspetti disciplinari. Al termine della somministrazione, lutilizzatore pu assumere alle sue dirette dipendenze il lavoratore somministrato; al tal proposito, infatti, la norma dispone la nullit di tutte le clausole che impediscano una tale ipotesi, salvo che il somministratore non si sia riservata l'esclusivit del rapporto con il lavoratore pattuendo una adeguata indennit. Come negli appalti, prevista la responsabilit solidale tra utilizzatore e somministratore nel caso di inadempienze m materia retributiva e contributiva. Il lavoratore pu dunque rivalersi sullutilizzatore per suoi crediti retributivi e contributivi. In tale ipotesi, intanto, l'utilizzatore non fa altro che pagare direttamente al lavoratore e per il lavoratore le stesse somme altrimenti dovute al somministratore nell'ambito del canone contrattuale.

4. Le sanzioni.
La violazione delle norme regolanti la somministrazione di lavoro da luogo a sanzioni, anche penali, e determina la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra utilizzatore e prestatore. Per il contratto di somministrazione, in particolare, prevista la forma scritta, mancando la quale il lavoratore considerato a tutti gli effetti dipendente dellutilizzatore. In tutti gli altri casi di irregolarit, ad es. quando la somministrazione stata effettuata da impresa non regolarmente autorizzata; ha riguardato un numero di lavoratori eccedente quello indicato in contratto; stata effettuata con violazione dell'obbligo di valutazione dei rischi inerenti alla salute ed alla sicurezza dei lavoratori, e di adozione delle consequenziali misure di prevenzione; stata effettuata al di fuori dei termini temporali previsti nel contratto ecc., il lavoratore pu chiedere al giudice la costituzione del rapporto di lavoro a tempo determinato, ferme restando le sanzioni amministrative, di natura pecuniaria, a carico sia del somministratore che dellutilizzatore. Inoltre sono previste sanzioni di natura penale, sia a carico dell'utilizzatore che a carico del somministratore, quando essi siano abusivi o irregolari, nel caso di sfruttamento di minori e quando la somministrazione sia stata posta in essere per eludere norme di legge inderogabili o norme contrattuali. Per qualunque altro vizio, tanto genetico quanto funzionale (ad es. per inadempimenti commessi dal somministratore o dall'utilizzatore, relativamente ai loro rispettivi obblighi contrattuali), non prevista una specifica sanzione civile, fatti per salvi, ovviamente,

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l'ordinario rimedio dell'azione di responsabilit contrattuale.

PARTE QUINTA I RAPPORTI DI LAVORO SUBORDINATO CAPITOLO XVII Contratti di Lavoro e Autonomia Individuale
1. LIntegrazione Eteronoma del Contratto di Lavoro
Il contratto individuale di lavoro, pur rientrando nel novero degli atti bilaterali che normalmente sono espressione della volont delle parti, lascia invece ai contraenti uno scarso margine di autonomia in quanto regolato da norme estranee al rapporto o comunque superiori ad esso. Il contratto di lavoro , pertanto, un contratto ad integrazione eteronoma che deve sottostare, ai sensi dell'art. 1374 c.c., alle leggi regolanti il rapporto di lavoro nonch alle norme della contrattazione collettiva. Tali norme si inseriscono nel rapporto tra le parti, a protezione della parte contraente debole, ossia del lavoratore, formando quel complesso di regole cui devono obbligatoriamente uniformarsi i contratti individuali. Lo stato di soggezione del contratto individuale alla legislazione del lavoro ed alla contrattazione collettiva tale che, ove tali norme mutino nel tempo, il contratto di lavoro, ancorch antecedente al mutamento, automaticamente adeguato a tali norme. In altre parole non sussistono, in tale ipotesi, i cosiddetti diritti quesiti per cui, quand' anche le nuove norme prevedano modificazioni in peius, il rapporto di lavoro non resta esente dai

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relativi effetti.

2. Imperativit e inderogabilit delle norme legali e collettive.


L'integrazione eteronoma del contratto individuale non opera solo nel senso di colmare i vuoti, ai sensi dell'ari 1374 c.c., ed inserendo nel rapporto quelle clausole derivanti direttamente da fonti superiori inderogabili, bens anche nel senso di precludere clausole contrattuali, ancorch definite di comune accordo tra le parti, che siano difformi dalla normativa soprastante al rapporto. La prevalenza della legge rispetto alle clausole contrattuali assolutamente indiscutibile. Tale prevalenza prevista dall'ari 1418 c.c. , il cui primo comma sancisce la nullit di ogni clausola contrattuale contraria a norme imperative, quali sono, appunto, quelle in materia di lavoro. In tale ipotesi, ai sensi del secondo comma dell'art. 1419 c.c., le clausole difformi alla legge sono automaticamente sostituite da quelle legali. Da ci consegue la derogabilit delle norme imperative in materia di lavoro solo se a favore del lavoratore. Tali norme, infatti, stabiliscono la misura minima delle garanzie e delle tutele a favore dei lavoratori, misure minime al di sotto delle quali non possono andare ne i datori di lavoro ne gli stessi lavoratori, e, pertanto, non precludono la pattuizione di clausole migliorative rispetto alle dette misure minime. La norma codicistica, in particolare, vieta le deroghe peggiorative per il lavoratore ma non anche quelle migliorative. A ci consegue l'inderogabilit dei diritti del lavoratore e, viceversa, la derogabilit dei suoi doveri, ossia dei diritti del datore di lavoro. La stessa cosa avviene nel rapporto tra contratto individuale e contrattazione collettiva, in forza dell'art. 2077 c.c., secondo il quale le clausole dei contratti individuali difformi dalle clausole della contrattazione nazionale sono da esse sostituite di diritto, salvo che non siano di maggior favore per il lavoratore. Anche in tale ipotesi, la deroga ammessa in senso migliorativo ed esclusa in senso peggiorativo, anche se il contratto individuale stato stipulato prima dei contratti collettivi con i quali contrastano. La norma codicistica, tuttavia, di natura corporativa, improntata cio ad una concezione pubblicistica del contratto collettivo, sicch taluni hanno messo in dubbio la sua applicabilit ai contratti collettivi post-costituzionali che restano di diritto comune in conseguenza della non attuazione della seconda parte dell'art. 39 della Costituzione e, per altro verso, si discute anche dell'eccessiva limitazione dell' autonomia individuale.

3. Rinunce e transazioni su diritti del lavoratore.


In presenza di norme imperative e di norme contrattuali anch'esse non derogabili, le eventuali clausole del contratto individuale di lavoro da esse difformi sono nulle ed improduttive di effetti. La rigidit del sistema priverebbe le parti di una bench minima autonomia e se il lavoratore riceve da tale sistema una protezione ad ampio raggio, non resta esclusa

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l'ipotesi che egli possa rinunciare ad alcuni suoi diritti e non perch costrettovi dalla controparte bens nell'esercizio dell'autonomia che in tal senso il medesimo sistema consente. L'art. 2113 c.c. sancisce infatti l'invalidit (annullabilit), ma non la nullit, di rinunce e transazioni che abbiano ad oggetto diritti del lavoratore. La norma codicistica, al di l della funzione protezionista della normativa di settore, non esclude che il lavoratore possa rinunciare o transigere su alcuni suoi diritti e non esclude che tali rinunce o transazioni conservino l'effetto voluto, giacch prevede che tale invalidit non ricorre quando rinunce e transazioni avvengano in sede di conciliazione o di componimento bonario di controversie di lavoro. A tal proposito, intanto, lo stesso art. 2113 c.c. prevede che lazione tesa ad ottenere l'invalidit di rinunce e transazioni debba essere intentata, con un qualsiasi atto idoneo a manifestare la volont in tal senso del lavoratore e non necessariamente con un ricorso al giudice, nei 6 mesi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro ovvero, se la rinuncia o la transazione risalgono ad una data successiva alla cessazione, entro 6 mesi da tale data. Il termine di 6 mesi ivi previsto di natura decandenziale, nel senso che se l'azione non viene avviata prima della scadenza, il lavoratore perde ogni diritto ad agire. Esso comunque fissato al di fuori del rapporto di lavoro, sul presupposto che in costanza di rapporto di lavoro il lavoratore trovasi in una posizione di soggezione, anche psicologica, nei confronti della pi forte parte datoriale, e non esclude che il lavoratore decida di non avvalersene. In tale ultima ipotesi la rinuncia o la transazione sui propri diritti da parte del lavoratore conserva la sua efficacia e le relative clausole non sono pi invalidabili. Non di meno eventuali rinunce e transazioni possono dispiegare una certa efficacia anche quando l'azione sia stata avviata nei termini e prosegua normalmente. Se, infatti, la questione portata alla cognizione del giudice, ben ipotizzabile una sentenza di condanna, ma se la questione si esaurisce in sede conciliativa, le rinunce possono anche restare in parte operanti. Lo stesso art. 2113 c.c., infatti, con espresso rinvio agli articoli 185, 410 e 411 c.p.c., stabilisce che non sussiste invalidit per quelle rinunce o transazioni accettate in fase di conciliazione di una controversia di lavoro. L'invalidit, in particolare, non ha luogo quando le rinunce o le transazioni siano stipulate: a) con l'assistenza di associazioni sindacali; b) davanti alla Commissione provinciale di conciliazione; c) davanti al giudice; d) davanti alle Commissioni di certificazione di cui allart. 76 del d.lgs. n.276 del 2003, ai sensi dellart. 82 dello stesso decreto legislativo.

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CAPITOLO XVIII Rapporti di Lavoro: Modello Tipico e Figure Speciali


1. La frammentazione della disciplina standard
Per anni s' ritenuto che il modello tipico del rapporto di lavoro fosse esclusivamente quello instaurato tra un imprenditore privato ed un lavoratore maschio adulto, impiegato o operaio, occupato a tempo pieno ed assunto a tempo indeterminato. Conseguentemente s' visto un carattere di specialit nella altre forme di rapporto di lavoro, anche in relazione al fatto che esse erano sovente accompagnate da una specifica disciplina.

2. Le figure della specialit.


In relazione alla figura standard storica del rapporto di lavoro, il carattere di specialit rinvenibile in tutti i casi in cui non ricorrano, congiuntamente, tutti gli elementi ritenuti tipici del rapporto di lavoro; in particolare:

a) rispetto al datore di lavoro si ravvisa carattere di spedalit in quelle norme che


operano una differenziazione in relazione alla dimensione dell'impresa, quali quelle riguardanti l'assunzione obbligatoria dei disabili, o alla qualit del datore di lavoro, quali quelle regolanti il rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Per quanto riguarda questultimo, numerose sono le eccezioni ad un'integrale applicazione al lavoro pubblico delle leggi lavoristiche; numerose sono, insomma, le

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sacche di perdurante specialit. All'origine di tale specialit, v' l'ovvio dato che mentre un imprenditore privato libero nella sua azione, pur dovendo rispettare i diritti dei lavoratori, e pi in generale i limiti esterni della libert, sicurezza e dignit umana, la pubblica amministrazione non libera nei fini, bens vincolata dai fini di volta in volta posti dalle leggi che regolano i vari campi della sua azione, e in via generale dal principio di buon andamento e di imparzialit dell'azione amministrativa. Le conseguenze di tale fondamentale diversit si manifestano a vari livelli della disciplina: ad es. nell'obbligo di assumere mediante concorsi, o nel regime delle mansioni, che esclude meccanismi di promozione dei lavoratori a seguito dell'esercizio di fatto di mansioni superiori, ostandovi il rispetto della dotazione organica predisposta da leggi o regolamenti.

b) rispetto al lavoratore rivestono carattere di specialit, ad esempio, quelle norme


applicabili soltanto ad alcune categorie, quale quella dei dirigenti, o riguardanti specifiche categorie professionali, quali i ferrotranvieri, ma i caratteri della specialit possono intravedersi anche in quelle norme che tutelano particolari categorie di lavoratori (donne, minori, giovani) o particolari posizioni di lavoro (maternit, inabilit);

c) rispetto al tempo della prestazione hanno carattere di specialit i rapporti di


lavoro non a tempo pieno e, pertanto, i rapporti di lavoro a tempo parziale nonch intermittente e ripartito, previsti dal d.lgs. n. 276 del 2003;

d) rispetto alla durata del rapporto hanno carattere di specialit i rapporti di lavoro a
tempo determinato ora disciplinati dal d.lgs.368/2001. Ma ve ne sono anche altre, come il contratto di lavoro somministrato, quando stipulato a termine (il cui regime presenta, infatti, alcune particolarit), il contratto di inserimento e il contratto di apprendistato.

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CAPITOLO XIX La Costituzione del Rapporto


1. Contratto di lavoro e Capacit
Il contratto di lavoro quellatto tra privati nel quale si incontra, come in tutti i contratti, la volont delle parti. Per la stipula del contratto di lavoro richiesta oltre allordinaria Capacit di Agire, anche una capacit giuridica speciale che si acquista al compimento del 15 anno d'et. Una maggiore et prescritta per i lavori faticosi e per l'accesso al pubblico impiego (18 anni). La normativa speciale (L.977/1967) stabilisce particolari protezioni per limpiego al lavoro di bambini (minori di 15 anni) e adolescenti (in et compresa tra i 15 ed i 18 anni).

2. Nullit e annullabilit del contratto di lavoro.


Il contratto di lavoro, una volta stipulato, soggetto all'ordinaria sanzione della nullit, ove sia stato stipulato in violazione di norme imperative, ed altres annullabile per incapacit naturale o per vizi della volont (errore, violenza o dolo) di uno dei contraenti. Gli effetti della nullit e dell'annullabilit sono disciplinati, tuttavia, in modo divergente rispetto al diritto civile comune, per finalit di protezione del lavoratore coinvolto in detti contratti. La nullit e l'annullabilit del contratto di lavoro retroagiscono alla data di stipulazione lasciando tuttavia indenni taluni diritti fino a quel momento maturati. Ai sensi dell'art. 2126 c.c., infatti, il prestatore di lavoro ha comunque diritto alla retribuzione per il lavoro fino a quel momento svolto, in quanto la norma prevede che

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la nullit e l'annullabilit del contratto "non producono effetti per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione". L'effetto non retroattivo della nullit o dell'annullamento del contratto patisce per un'eccezione: essa si ha, sempre a norma del primo comma, quando la nullit del contratto "derivi dall'illiceit dell'oggetto o della causa" (ad es., un contratto di lavoro stipulato per lo svolgimento di una attivit criminale). Il secondo comma dell'ari. 2126 contiene, infine, un'eccezione all'eccezione. Se l'illiceit dell'oggetto o delta causa scaturisce dalla violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha, in ogni caso, diritto alla retribuzione. Cos, nell'esempio di un contratto "criminale", ovvio che la nullit nasce dal divieto generale di commettere crimini; ma se alla base v' stata violazione di norme finalizzate a tutelare l'interesse del lavoratore, onde evitare che egli rimanga doppiamente leso, gli si garantisce, quantomeno, il diritto alla retribuzione.

3. Il patto di prova,
La costituzione di un rapporto di lavoro normalmente subordinata ad un periodo di prova la cui previsione, ai sensi dell'art. 2096 c.c., deve risultare da atto scritto. In mancanza di tale clausola, il rapporto di lavoro si intende costituito in via definitiva fin da subito. Il periodo di prova consente all'imprenditore di valutare la professionalit del lavoratore e, a quest'ultimo, di valutare l'accettabilit delle condizioni di lavoro. Il periodo di prova, la cui durata normalmente stabilita in sei mesi, salvo quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, ha un regime tutto particolare, in quanto fino alla sua scadenza le parti possono recedere dal contratto senza preavviso o indennit, salvo che non sia stabilito un tempo minimo prima del quale la facolt di recesso non pu essere esercitata. Superato il periodo di prova, intanto previsto anche per la costituzione dei rapporti di lavoro a termine, l'assunzione diventa definitiva.

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CAPITOLO XX Il Rapporto di Lavoro: Diritti, Poteri, Obblighi


1. Libert imprenditoriale e Contratto di lavoro
Il rapporto di lavoro caratterizzato dal fatto che una della parti contraenti un imprenditore (ma ad esso equiparato qualsiasi datore di lavoro pubblico o privato), ossia il titolare di un'attivit organizzata che egli pu avviare, gestire, cedere o cessare in tutto o in parte in piena libert. La libert d'impresa, che sancita dall'art.41 della Costituzione, trova limite solo nel fatto che essa, oltre che lecita, non deve arrecare danni ad altri, di qualsiasi natura. Ci significa che l'imprenditore ha la pi ampia libert nellassumere decisioni che in taluni casi hanno sicure ripercussioni sulla posizione del lavoratore da esso dipendente. Pertanto il rapporto obbligatorio del contratto di lavoro non si esaurisce, come nella generalit dei contratti a prestazioni corrispettive, nella predefinizione di diritti e corrispettivi doveri, bens risente, in modo dinamico, del potere datoriale di modificare la posizione del lavoratore. E se il lavoratore protetto dalle norme lavoristiche e da quelle della contrattazione collettiva, l'esercizio del potere datoriale e, correlativamente, gli obblighi del lavoratore trovano specifico riferimento negli articoli 2104 e 2105 c.c. Tali obblighi consistono nell'osservare e nell'eseguire con diligenza le disposizioni del datore di lavoro e dei suoi collaboratori, gerarchicamente sovraordinati al lavoratore, nonch nellastenersi da attivit dannose per l'impresa. L'inosservanza di tali obblighi da luogo alle sanzioni di disciplinari di cui al successivo art. 2106.

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2. L'obbligo di diligenza.
A norma dellart.2094 c.c., il primo obbligo del lavoratore quello di prestare la sua attivit lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dellimprenditore. Lart.2104 Ico. c.c. precisa che tale attivit deve essere prestata con diligenza, nell'interesse dell'impresa nonch di quello superiore della produzione nazionale. A tal proposito si considerano i 3 diversi aspetti delobbligazione, e cio: a) il primo quello della normale diligenza, che caratterizza qualsiasi rapporto obbligatorio, e che, tuttavia, in tal caso richiesta in relazione alla specializzazione o alla particolarit della prestazione, di tal che la media diligenza non quella semplicisticamente richiesta al buon padre di famiglia bens quella "media" rispetto alla specifica professionalit e posizione di lavoro; b) l'altro quello riguardante l'interesse a favore del quale il prestatore di lavoro deve usare la sua diligenza; tale interesse quello dell'impresa, ossia dellimprenditore, e non potrebbe essere altrimenti atteso che quest'ultimo ha reclutato il lavoratore in funzione degli obiettivi che con la sua impresa intende perseguire;, c) l'ultimo aspetto quello riguardante il superiore interesse della produzione nazionale a favore del quale il prestatore deve usare la medesima diligenza. E' evidente che la normale e media diligenza, intesa nel senso pi ampio, ricomprende tutte e 3 gli aspetti sopra elencati, in quanto il prestatore di lavoro diligente non pu non operare nell'interesse dell'impresa dalla quale dipendente e quest'ultima, a sua volta, non pu non esercitare la sua attivit nell'interesse della produzione nazionale.

3. Il potere direttivo e il dovere di obbedienza.


L'obbligo del prestatore di lavoro non si esaurisce nell'esecuzione del lavoro con la normale diligenza. Il secondo comma dell'ari 2104 ex. prevede, infatti, che egli debba altres "osservare le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende". Tale previsione in stretta correlazione con l'art. 2094 c.c., laddove definita la figura del lavoratore subordinato, ed confermativa della posizione preminente del datore di lavoro, dell'inserimento del lavoratore in un contesto produttivo organizzato e, quindi, del suo obbligo di eseguire non solo le direttive inerenti alle modalit di svolgimento del lavoro ma anche di rispettare le regole interne di organizzazione, la cui disattenzione arrecherebbe pregiudizio al buon andamento dell'impresa. Tale obbligo sinteticamente definito e conosciuto come "dovere di obbedienza". La posizione preminente dell'imprenditore e, correlativamente, di soggezione del lavoratore emerge, altres, dal potere datoriale di determinare le mansioni cui adibire il lavoratore, in quanto se l'imprenditore non specifica le mansioni che il lavoratore deve svolgere, nell'ambito della sua competenza professionale, non pu aversi una quadro preciso delle modalit con le quali egli deve adempiere alle direttive datoriali (Potere Direttivo). La disattenzione dell'obbligo di obbedienza integra gli estremi della cosiddetta "insubordinazione" sanzionabile in sede disciplinare. I

4. Lobbligo di fedelt.
L'art. 2105 c.c. sancisce, poi, l'ulteriore obbligo della fedelt riferibile

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soltanto ai due aspetti precisati dalla stessa norma, e cio: Obbligo di non concorrenza: il divieto di trattare affari per conto proprio o per conto di terzi nello stesso ambito di attivit dell'impresa avvalendosi di notizie riguardanti la medesima impresa e delle quali in possesso in relazione alla sua posizione lavorativa, cos favorendo la concorrenza sleale in danno dell'impresa dalla quale dipende; Rivelazione di degreti industriali: il divieto di divulgare notizie riguardanti le modalit organizzative e produttive dell'impresa o, comunque, di farne uso in modo da arrecare ad essa pregiudizio. La violazione di tali obblighi pu dar luogo alle ipotesi di concorrenza sleale e di spionaggio industriale, con conseguenze anche penali.

5. Il patto di non concorrenza.


L'obbligo di fedelt, che impone di non favorire la concorrenza nei confronti del datore di lavoro, pu estendersi anche a periodi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro. La fattispecie disciplinata dall'art. 2125 c.c. che prevede, appunto, il "patto di non concorrenza", ossia quella clausola contrattuale in base alla quale il prestatore di lavoro, in cambio di un adeguato compenso, si impegna a non prestare attivit lavorativa per un determinato lasso di tempo dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Il patto deve essere obbligatoriamente in forma scritta, essendo altrimenti nullo, e non pu prevedere periodi di inattivit superiori a 5 anni per i dirigenti ed a 3 anni per gli altri dipendenti. Ove il patto preveda un periodo di inattivit pi lungo di quello stabilito, esso si intende automaticamente ridotto a quello stabilito dallo stesso art. 2125. Il periodo di inattivit deve essere adeguatamente compensato, non potendosi diversamente ammettere una limitazione al diritto costituzionale di avere un' occupazione lavorativa. Nel caso di violazione del patto, il lavoratore deve risarcire il danno arrecato allimpresa, salvo che il patto non preveda gi da s una clausola penale.

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CAPITOLO XXI Inquadramento, Mansioni, Trasferimento


1. LInquadramento dei lavoratori: Classificazione per Categorie e Classificazione per Qualifiche
Il contenuto della prestazione di lavoro consiste in una serie di compiti che sono in linea di massima descritti nel contratto individuale di lavoro e vengono in dettaglio definiti dal datore di lavoro attraverso le sue direttive. Una prima individuazione delle mansioni avviene sulla base delle categorie di cui allart. 2095 c.c. e quindi, pi in dettaglio, delle qualifiche (o figure professionali). L'individuazione della categoria e della qualifica cui corrisponde la prestazione professionale del lavoratore determina il suo "inquadramento" secondo l'ordinamento professionale e nell'organizzazione dell'azienda. All'inquadramento e correlato il trattamento economico. Classificazione per Categorie: Una prima classificazione delle categorie cui sono ascrivibili le mansioni dei lavoratori subordinati e contenuta nell'art. 2095 c.c., secondo il quale tali lavoratori sono suddivisi in: dirigenti, quadri, impiegati ed operai. La norma rinvia poi alle leggi ed alle norme corporative e, quindi, ai contratti collettivi di lavoro la determinazione dei requisiti di appartenenza alle diverse categorie. La categoria dei dirigenti quella di pi elevato livello professionale cui corrisponde anche il pi elevato livello retributivo. Il dirigente quello investito di competenze e responsabilit decisionali nei confronti dellazienda o di un ramo autonomo di essa, e per questo la figura di lavoratore

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dipendente pi vicina all'imprenditore e spesso rappresenta la controparte del sindacato dei lavoratori dipendenti. I dirigenti, infatti, hanno propri sindacati ed hanno contratti collettivi distinti da quelli degli altri lavoratori dipendenti. Il rapporto di lavoro e prevalentemente su base fiduciaria e per questo e per lo pi a tempo determinato e non esclude la facolt di recesso unilaterale, da ambo le parti, senza condizioni o conseguenze particolari. I quadri costituiscono la categoria immediatamente inferiore a quella di dirigenti e rappresentano il pi alto livello dei lavoratori non dirigenti. La categoria dei quadri venne istituita con la legge n. 190 del 1985 e rappresenta quella classe di lavoratori aventi un maggior grado di professionalit, tale, cio, da distinguersi da impiegali ed operai, spesso aventi competenze simili a quelle della dirigenza ma senza poteri decisionali. I quadri hanno tentato di ottenere una propria autonomia contrattuale, al pari dei dirigenti, ma senza riuscirvi. Dunque, i Quadri hanno ottenuto il solo riconoscimento legale ad opera della gi citata L.190/1995, anche se tale riconoscimento stato solo simbolico, visto che ad esso non seguita la delineazione di uno speciale Statuto Giuridico di Categoria. Ci dimostrato dal fatto che al Quadro, salvo diversa disposizione, si applicano le norme riguardanti la categoria degli Impiegati. A tale omogeneit di condizione fanno eccezione alcune marginali ipotesi; l'obbligo del datore di lavoro di assicurare il quadro (come gi il dirigente) contro il rischio di responsabilit civile verso terzi, conseguente a colpa nello svolgimento delle proprie mansioni contrattuali, ed un regime particolare per l'ipotesi di assegnazione di mansioni superiori. Gli impiegati costituiscono, insieme agli operai, la gran massa dei lavoratori subordinati; essi, i cosiddetti "colletti bianchi", si contraddistinguono dagli operai in quanto impiegati con mansioni di tipo intellettuale, richiedenti un certo grado di cultura, e certamente non manuali. Gli operai costituiscono l'altra classe storica dei lavoratori subordinati, i cosiddetti "colletti blu", che si contraddistinguono per la manualit delle loro competenze di lavoro. Inizialmenti gli Impegati e gli Operai costituivano 2 categorie distinte, ma col tempo si avuto un riassorbimento di tale separazione; a ci ha contribuito la legge che ha eliminato quasi tutte le differenze di trattamento esistenti tra le 2 categorie, e la contrattazione collettiva che negli anni 70 ha optato per lInquadramento unico. Classificazione per Qualifiche: Alla classificazione per categorie si aggiunge una classificazione per qualifiche, cui provvede la contrattazione collettiva attraverso la descrizione delle mansioni specifiche (declaratorie di qualifica). Categorie e qualifiche costituiscono una griglia sulla base della quale viene effettuato l'inquadramento del lavoratore, ossia la sua collocazione funzionale nell'azienda in base alla coincidenza delle mansioni con le qualifiche previste nell'ambito delle categorie.

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I contratti collettivi definiscono, infine, i livelli retributivi, in genere in numero di setto o otto, in base ai quali determinato il trattamento economico delle singole posizioni di lavoro. Ai livelli retributivi pi elevati si trovano le qualifiche appartenenti alla categoria dei quadri ed a quelli pi bassi, ma senza un eccessivo divario, le qualifiche appartenenti alla categoria degli operai.

2. I Limiti allo ius variandi del datore di lavoro


Lo ius variandi il diritto del datore di lavoro di impiegare diversamente il lavoratore. Questo potere, tuttavia, non pu essere esercitato in modo indiscriminato. In assenza di categorie, qualifiche e livelli retributivi ed in assenza di norme a garanzia della posizione di lavoro, il datore di lavoro avrebbe potuto utilizzare il lavoratore a suo piacimento in qualsiasi mansione. Prima del 1970 lo ius variandi non conosceva limiti, per cui il datore di lavoro era libero di declassare professionalmente il lavoratore. Lart.13 dello Statuto ha modificato tale situazione, apportando delle modifiche allart.2103 c.c. Questultimo sancisce il diritto del lavoratore ad essere adibito: alle mansioni per le quali e stato assunto, ovvero, a quelle della categoria superiore successivamente acquisita, ovvero, a quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte.

In ordine alle mansioni la norma prevede, in buona sostanza, una sorta di stabilit e continuit nelle modalit di impiego del lavoratore ma non esclude un margine di esercizio dello ius variandi, con ogni garanzia in termini di trattamento economico. Il datore di lavoro, infatti, pu variare l'impiego del lavoratore purch nell'ambito di mansioni equivalenti e per tali si intendono non semplicemente quelle di pari livello retributivo bens quelle che siano compatibili con la professionalit del lavoratore, ancorch acquisita in azienda. A tal proposito la giurisprudenza ha elaborato una sorta di "diritto del lavoratore a lavorare", ossia di esprimere la sua professionalit, di tal che si considera demansionamento anche l'assegnazione a mansioni che non tengano conto di tale professionalit. L'esercizio dello ius varandi perci vietato in senso peggiorativo, e come tale da intendersi anche il caso in cui sia mortificata la professionalit del lavoratore allorquando l'equivalenza sia ricercata soltanto sulla base di parametri economici. Viceversa, lesercizio dello ius variandi ammesso in senso migliorativo; infatti, ammesso limpiego del lavoratore in mansioni superiori, con diritto non solo alla maggiore retribuzione ma anche allinquadramento nella superiore qualifica o categoria, quando tali mansioni si protraggono per un periodo di 3 mesi o comunque per il periodo stabilito dalla contrattazione collettiva. Quindi il periodo di 3 mesi stabilito dalla stessa legge (art.2103 c.c.), ma tale termine potrebbe essere derogato dalla contrattazione collettiva, la quale potrebbe prevedere un termine minore o superiore per poter accedere alla qualifica superiore.

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Un es. dato dallart.6 della L.190/1985 che per laccesso alla categoria dei Quadri e dei Dirigenti consente la previsione (per contratto collettivo) di un termine eccedente quello legale, sul presupposto che per accedere a tali pi elevate categorie sia giusto richiedere un periodo pi lungo di training. Trascorso il periodo come sopra determinato, il lavoratore acquisisce in via definitiva il livello contrattuale superiore e non pu pi essere retrocesso. L'unica eccezione a tale regola si da nel caso in cui l'assegnazione alla mansione superiore sia avvenuta per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto (ad esempio, in malattia): in tale ipotesi il limite dei 3 mesi non opera e l'assegnazione pu durare anche pi a lungo, senza che maturi il diritto all'inquadramento definitivo nel livello superiore. Non costituisce demansionamento l'impiego in mansioni di livello inferiore del lavoratore divenuto inabile alle proprie mansioni tenuto altres conto che in tale ipotesi non si ha riduzione del trattamento economico nonch l'accettazione di mansioni di livello inferiore per evitare licenziamenti collettivi.

3. Il trasferimento.
L'assunzione del lavoratore presuppone la sua collocazione in una determinata sede di lavoro. Pu, tuttavia, presentarsi l'esigenza di modificare tale collocazione e, quindi, di assegnare il lavoratore ad una diversa sede, ossia di trasferirlo ad un'altra unit produttiva della stessa azienda. In tal caso lo ius variandi viene esercitato in termini di mutamento della collocazione e non delle mansioni di lavoro; la fattispecie regolata dallo stesso art. 2103 c.c. il quale prescrive che il trasferimento del lavoratore pu essere disposto solo in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ne consegue che il trasferimento pu essere sindacato solo quando manchino tali ragioni o quando manchi il nesso di causalit con esse e, pur tuttavia, senza giudicare le scelte di merito a monte che abbiano determinato tali ragioni, rientrando esse nell'autonomia dell'imprenditore protetta dall'art.41 della Costituzione.

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CAPITOLO XXII Orario e Riposi


1. Profili generali e Fonti
La durata della prestazione lavorativa giornaliera e settimanale uno degli elementi caratterizzanti il rapporto di lavoro subordinato. La previsione di limiti a tale durata e, correlativamente, di periodi di riposo dall'attivit lavorativa, rispondono all'esigenza di tutelare l'integrit fisica del lavoratore e di consentirgli la partecipazione alla vita sociale e familiare. Le conquiste sociali hanno determinato una graduale riduzione dell'orario di lavoro, anche nella prospettiva di aumentare l'occupazione sul presupposto di "lavorare meno per lavorare tutti", ma lunico effetto concreto di tale riduzione stata la diminuzione della capacit produttiva; per questo che recentemente stata sostenuta la tesi opposta, secondo la quale gli orari italiani ed europei sono troppo ridotti, e questo sarebbe uno dei fattori della scarsa crescita delle economie europee. Dalla Costituzione (art. 36 co. 2) si ricava, anzitutto, la necessit di stabilire, per legge, un limite alla durata massima della giornata lavorativa. Le prime disposizioni di legge in materia di orario di lavoro risalgono al r.d.l. n. 692 del 1923, che fissava in 48 ore settimanali ed in 8 ore giornaliere i relativi limiti. L'art.2107 c.c. ha semplicemente stabilito che la durata della prestazione lavorativa, sia settimanale che giornaliera, non pu eccedere i limiti stabiliti dalla legge speciale o dalle

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norme corporative. La norma codicistica confermava, in tal modo, la competenza della legge alla fissazione di un limite massimo alla durata della prestazione lavorativa, facendo salva la contrattazione collettiva che avrebbe potuto stabilire durate inferiori ma non superiori a quelle legali. Per decenni, il quadro legislativo rimasto ancorato alla legge del 1923, rimettendosi in movimento soltanto quando, nel 1993, stata adottata la direttiva CE n. 104 del Consiglio dell'Unione Europea, concernente "taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro", che ha suggerito la necessit di una riforma organica della disciplina, ma il cui processo traspositivo stato faticoso. Una prima revisione si avuta con l'art. 13 della legge n. 196/1997, che ha introdotto un orario normale settimanale di 40 ore. Ma, in seguito, per ragioni politico-sindacali, il processo di riforma si arenato, rimettendosi in moto soltanto nella scorsa legislatura, ed approdando al d.lgs. 8 aprile 2003 n. 66, che ha accorpato in un unico testo, per la prima volta, la disciplina dell'orario di lavoro e quella dei riposi; con abrogazione di tutte le disposizioni precedenti, ivi compreso l'art. 2107 c.c. Il decreto ha rispettato, altres, il ruolo tradizionalmente assegnato alla contrattazione collettiva come fonte della disciplina del- l'orario, al punto di devolvere ad essa anche numerose facolt di deroga "in peius" agli orari legali.

2. LOrario Normale e Massimo settimanale


L'orario normale di lavoro rappresenta la misura dell'estensione temporale ordinaria della prestazione lavorativa, e quindi, di conseguenza, il limite temporale oltre il quale le prestazioni cessano di essere "ordinarie" e divengono "straordinarie. Quindi, lorario normale di lavoro quello non comprensivo delle ore di Straordinario. Questultimo, invece, lorario massimo settimanale. La prima legge in materia di orario di lavoro, il r.d.1. n. 692, risale al 1923; essa limitava a 48 ore settimanali e ad 8 ore giornaliere la durata massima della prestazione lavorativa. La norma limitava anche il lavoro straordinario a 12 ore settimanali, di tal che l'orario lavorativo massimo complessivo settimanale non poteva eccedere le, 60 ore. L'orario di lavoro era ovviamente stabilito nella sua misura massima, in quanto la contrattazione collettiva, da sempre abilitata a derogare alla legge in senso migliorativo, poteva stabilire limiti inferiori. Solo nel 1997 c' stata una riduzione a 40 ore dell'orario di lavoro settimanale, ad opera della legge n. 196. Dunque, con la riduzione a 40 ore dellorario ordinario (normale), la prestazione lavorativa massima (orario massimo) stata ridotta a 52 ore settimanali (40+12). La stessa legge 196/1997 introdusse il criterio della media su base annua (Flessibilit), nel senso di consentire che la durata dell'orario di lavoro ordinario settimanale possa essere ridotta o aumentata purch in media non ecceda le 40 ore o la diversa durata stabilita dalla contrattazione collettiva.

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Attualmente, la norma vigente in materia il d.lgs n.66/2003, il quale ha confermato le disposizioni della L.196/1997. In particolare, la normativa vigente: a) ha confermato il limite delle 40 ore settimanali (Orario Normale); b) ha fissato il limite massimo, comprensivo dello straordinario, in 48 ore, anzich in 52; c) ha confermato il Criterio della Flessibilit nella determinazione dellorario di lavoro; in particolare tale norma consente il superamento del limite massimo delle 48 ore, purch esso sia rispettato in termini di media riferita ad un arco temporale di 4 mesi che la Contrattazione Collettiva pu elevare a 6 o anche a 12 a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti allorganizzazione del lavoro. Dunque, unimpresa pu tranquillamente praticare, per alcune settimane, un orario di 60 ore, purch rispetti la media di 48 su una base di 4 mesi. Infine, c da dire che in base allart.17 co.5 del d.lgs.66/2003 la disciplina in tema di orario normale e massimo non si applica a quei lavoratori "la cui durata dell'orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell'attivit esercitata, non misurata o predeterminata o pu essere determinata dai lavoratori stessi", fra i quali: a) dirigenti, personale direttivo delle aziende o di altre persone aventi potere di decisione autonomo: b) manodapera familiare; c) lavoratori nel settore liturgico delle chiese e delle comunit religiose: d) prestazioni rese nell'ambito di rapporti di lavoro a domicilio e di telelavoro. Nei confronti di questi lavoratori, deve comunque essere garantito il "rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori".

3. La Giornata Lavorativa: Orario e Riposo


Anche la durata della prestazione lavorativa giornaliera oggetto di specifica disciplina e, anzi, questo l'unico aspetto considerato dalla Costituzione il cui art. 36 devolve alla legge la definizione della relativa durata. La normativa di riferimento l'art. 7 del d.lgs. n. 66 del 2003 che ne lascia individuare un limite massimo di 13 ore laddove stabilisce che il lavoratore ha diritto, ogni 24 ore, ad 11 ore di riposo. Si pu affermare che un vero e proprio limite non esiste in quanto, ai sensi dell'art.2, lo stesso provvedimento di legge consente alla contrattazione collettiva di derogare alle regole ivi stabilite.

4. Il lavoro straordinario.
Ai sensi dell'art.1, comma 2, e dell'art.3, comma 1, del d.lgs, n. 66 del 2003, si considera lavoro straordinario quella durata della prestazione lavorativa che eccede la normale durata settimanale dell'orario di lavoro ivi stabilita in 40 ore. In linea teorica, pertanto, dovrebbe qualificarsi lavoro straordinario solo la prestazione eccedente le 40 ore settimanali e non anche quella eccedente la minor durata dell'orano normale settimanale stabilita dalla contrattazione collettiva. La derogabilit al limite delle 40 ore, da parte della contrattazione collettiva, porta invece a qualificare lavoro straordinario quello che eccede la durata settimanale dell'orario di lavoro contrattuale, di tal che, nel caso di orario di lavoro settimanale di 36 ore, come nel

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pubblico impiego, e di una prestazione settimanale di 42 ore, le ore di lavoro straordinario saranno 6 (ossia la parte eccedente le 36 ore) e non 2 (quale parte eccedente le 40 ore) giacch non possono qualificarsi ordinarie (cio non straordinarie) le ore eccedenti le 36 e fino alle 40. La disciplina della materia , in ogni caso, tutta demandata alla contrattazione collettiva, anche per quanto attiene alle modalit con le quali viene remunerato il lavoro straordinario, non escluso lequivalente riposo compensativo col consenso del lavoratore. Alcuni contratti di lavoro hanno anzi istituito la cosiddetta banca delle ore, ossia un sistema di accumulo programmato delle ore di lavoro straordinario da compensare in termini di equivalente riposo.

5. Il riposo settimanale e domenicale.


La durata della prestazione lavorativa, sia giornaliera che settimanale, deve essere interrotta da periodi di riposo che consentano il recupero psico-fisico del lavoratore. L'art.36 della costituzione, commi secondo e terzo, costituisce in tal senso la fonte di grado pi elevato laddove stabilisce che il legislatore debba stabilire la durata massima della prestazione lavorativa giornaliera, cui segue il riposo o, comunque, un'astensione dal lavoro, nonch, al terzo comma, laddove stabilisce che il lavoratore ha diritto ad un giorno di riposo settimanale ed a ferie annue retribuite. Fino a prima della recente modifica ad opera della legge n. 133/2008, l'art. 2109 c.c. stabiliva che il lavoratore aveva diritto ad un giorno di riposo settimanale normalmente coincidente con la domenica; in tal senso disponeva anche l'art. 9 del d.lgs. n. 66 del 2003, nella parte in cui precisava che il riposo spettava ogni sette giorni, che tale riposo deve essere di 24 ore consecutive e che queste devono di regola coincidere con la domenica. La legge n. 133 del 2008 ha modificato l'art. 9 del d.lgs. n. 66 ampliando l'arco temporale entro il quale deve essere fruito il riposo settimanale, riducendolo a valore medio, nel senso che il dipendente non deve necessariamente fruire del riposo ogni sette giorni bens, in media, deve usufruire di una giornata di riposo ogni sette giorni e che tale riposo medio va fruito nellarco temporale di 14 giorni. Dunque, ben possibile che il lavoratore fruisca del riposo settimanale in un giorno non coincidente con la Domenica. importante, quindi, stabilire in questo caso quale deve essere il trattamento retributivo da riservare al lavoratore; lart.9 non dispone in tal senso, quindi si fa riferimento allorientamento giurisprudenziale che afferma il diritto di colui che lavori d domenica, e pur con spettanza del riposo settimanale in altro giorno della settimana, ad una maggiorazione retributiva, a meno che nel suo trattamento economico non esistano, per contratto collettivo o individuale, compensazioni di altro genere. Infine, c da dire che in caso di lesione del diritto al riposo, il lavoratore abilitato a richiedere il risarcimento dei danni (biologico, esistenziale) subiti, che i giudici peraltro liquidano, in genere, in via equitativa.

6. Le Ferie
Il diritto alle ferie sancito dallart.36 Cost. quale diritto irrinunciabile del lavoratore a fruire di un periodo di ferie annue retribuite; tale art. per non ne fissa la durata.

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La norma costituzionale conferma la prescrizione di cui all'art. 2109 c.c. che a tal proposito aggiunge che: a) la durata delle ferie stabilita dalla legge; b) il periodo di ferie deve essere possibilmente continuativo; c) il periodo durante il quale le ferie possono essere fruite disposto dal datore di lavoro tenendo conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore; d) il datore di lavoro deve previamente comunicare al lavoratore il periodo durante il quale potr fruire delle ferie. La normativa vigente in materia quella di cui al d.lgs. n. 66 del 2003 che a tal proposito fissa in almeno 4 settimane il periodo di ferie annue delle quali almeno 2 il lavoratore che ne faccia richiesta deve fruirle nel corso dell'anno di maturazione mentre la restante parte pu essere differita ad un arco temporale non eccedente i 18 mesi successivi allanno di maturazione. Importante risulta la Sentenza della Cort. Cost. n.616/1987 la quale ha stabilito dichiarando parzialmente illegittimo l'art. 2109 c.c. - il principio che la malattia sopravvenuta durante le ferie ne sospende il decorso, per cui il lavoratore abilitato a recuperare successivamente i giorni di ferie "perduti". Ma occorre, perch si produca l'effetto sospensivo, che si sia trattato di una malattia tale da impedire in modo apprezzabile la fruizione delle ferie; considerata tale, dalla maggior parte dei contratti collettivi, una malattia di almeno 3 giorni. Infine, c da dire che il d.lgs. 66/2003 ha altres abolito la possibilit di monetizzare le ferie in alternativa alleffettiva fruizione, sicch tale ipotesi rimasta valida solo nel caso di sopravvenuta cessazione dal servizio, ossia quando in nessun caso le ferie possono essere effettivamente godute (Risoluzione del rapporto di lavoro). per questo che la norma sanziona il datore di lavoro che non consente al lavoratore di fruire delle ferie o che non lo collochi in ferie dufficio nel caso in cui egli non ne faccia richiesta.

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CAPITOLO XXIII Contratto di Lavoro a Tempo Parziale, Intermittente, Ripartito


1. Il Contratto di Lavoro a Tempo Parziale Col Contratto di Lavoro a Tempo Pieno la durata della prestazione lavorativa, giornaliera e settimanale, stabilita dalla Contrattazione Collettiva. Unutilizzazione (ed una retribuzione) ridotta del lavoratore giuridicamente possibile solamente nell'ambito di una particolare tipologia contrattuale, che caratterizzata proprio da un orario inferiore a quello normale; e cio il Rapporto di Lavoro a Tempo Parziale (Part Time). La fattispecie ha avuto origine negli anni 80; infatti, contemplato per la prima volta dalla legge n. 863 del 1984, stato poi riformato dal d.lgs. 61/2000, il quale, a sua volta, stato notevolmente modificato dallart.46 del d.lgs. n. 276 del 2003. Esistono 3 tipologie di lavoro a tempo parziale: a) il part-time orizzontale si ha quando il dipendente presta la sua attivit per un tempo ridotto rispetto all'orario normale giornaliero (ad es., 4 ore tutti i giorni); b) part-time verticale prevede un orario di lavoro normale, ma con una prestazione collocata soltanto in periodi predeterminati della settimana, del mese o dell'anno (ad es-, contratti week-end, o stagionati);

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c) part-time misto, frutto di una combinazione fra le due tipologie principali (ad es. contratti
stagionali con un orario d 4 ore giornaliere). La disciplina dellIstituto prevede la presenza di 3 requisiti fondamentali: a) la forma scritta ad probationem del contratto; b) lindicazione nello stesso della durata della prestazione lavorativa; c) lindicazione della collocazione della prestazione lavorativa nella giornata, nella settimana, nel mese o nellanno. Infatti, non possibile pattuire un impegno per generiche 2 ore al giorno, a seconda delle esigenze dellimpresa; e ci a protezione dellinteresse del lavoratore alla Programmabilit del proprio tempo di lavoro. La mancanza di uno dei suddetti requisiti da luogo, previo ricorso al giudice ed a seguito di relativa sentenza, al riconoscimento del rapporto di lavoro a tempo pieno fin dal suo inizio. La costituzione di un Rapporto di lavoro a tempo parziale non caratterizzata dalla rigidit, nel senso che il lavoratore pu essere impiegato col suo consenso, in prestazioni eccedenti il suo orario ridotto. In particolare, esistono 2 modalit per esigere dal lavoratore estensioni o modificazioni dellimpegno orario: a) Lavoro Supplementare: quella durata della maggiore prestazione lavorativa che eccede il tempo parziale fino a concorrenza delle 40 ore costituenti il massimo orario settimanale normale; oltre le 40 ore anche la prestazione del lavoratore a tempo parziale si qualifica lavoro straordinario. b) Clausola di Elasticit: essa deve essere inserita previamente nel contratto di lavoro a tempo parziale, e conferisce al datore di lavoro il potere di pretendere una prestazione lavorativa di maggior durata; ci vale, ovviamente, per i soli rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo verticale e misto, in quanto nel caso di tempo parziale orizzontale la maggiore prestazione pu esser chiesta di volta in volta in termini di lavoro supplementare. La clausola di elasticit va formulata in conformit con le regole stabilite dalla contrattazione collettiva ma se tali regole non esistono, essa pu essere liberamente stabilita dalle parti. Il Trattamento del lavoratore part-time deve essere identico a quello del lavoratore a tempo pieno, naturalmente con commisurazione dei principali trattamenti (a cominciare da quello retributivo) al minore impegno orario. Ai fini dell'eventuale passaggio dal tempo pieno al part-time, occorre il consenso del lavoratore, la cui dichiarazione di volont deve per essere convalidata presso la Direzione provinciale del lavoro. Occorre anche il consenso del datore di lavoro. Quanto al percorso inverso (dal part-time al tempo pieno), era prevista la spettanza al lavoratore a tempo parziale di un diritto di prelazione in caso di assunzioni a tempo pieno, relative alle medesime mansioni gi svolte. Ma esso stato eliminato dalla novella del 2003, per cui l'unica possibilit di prevederlo attraverso una pattuizione individuale ad hoc. 2. Il contratto di lavoro Intermittente (Job on call).

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Il contratto di lavoro intermittente, introdotto nell'ordinamento dall'art. 33 del d.lgs. n. 276 del 2003, quel contratto di lavoro, anche a tempo determinato, col quale il lavoratore si obbliga ad effettuare la sua prestazione lavorativa ogni qual volta venga chiamato dal datore di lavoro. La retribuzione del lavoratore intermittente proporzionale alla durata della prestazione ma per i periodi di inattivit al lavoratore spetta una indennit di disponibilit non inferiore al 20% della retribuzione intera. Il lavoratore intermittente che non risponde alla chiamata pu essere licenziato per inadempimento contrattuale salvo che tale circostanza non sia stata determinata da malattia o altro impedimento previamente comunicato al datore di lavoro; in questultimo caso egli comunque perder il diritto allindennit. Il ricorso al lavoro intermittente non del tutto liberalizzato, nel senso che la norma demanda alla contrattazione collettiva la definizione delle esigenze cui possa farsi fronte con l'impiego di tale forma di rapporto di lavoro, ma con alcune eccezioni: si prescinde, infatti, dalla contrattazione collettiva quando il lavoro intermittente sia utilizzato per periodi predeterminati dall'anno (per lo pi caratterizzati dalla prolungata assenza del personale stabile: fine settimana, ferie, periodi natalizio e pasquale) e si prescinde, altres, quando col lavoro intermittente siano utilizzati lavoratori di et inferiore a 25 anni o superiore a 45, ancorch pensionati. Il lavoro intermittente non pu essere in nessun caso utilizzato per sostituire lavoratori in sciopero ne quando per le corrispondenti professionalit si sia proceduto a licenziamenti collettivi ne, ancora, presso le imprese che non abbiano adempiuto alle norme sulla sicurezza sul lavoro. Il contratto di lavoro intermittente pu essere anche in forma non scritta, essendo tale forma necessaria solo ad probationem. Il trattamento del lavoratore intermittente deve essere identico a quello di un normale lavoratore fatto salvo il "riproporzionamento" in relazione alla ridotta prestazione lavorativa.

3. Il contratto di lavoro ripartito. Il contratto di lavoro ripartito, introdotto nell'ordinamento dall'art. 41 del d.lgs. n. 276 del 2003, quel contratto col quale due lavoratori si obbligano, in solido, ad un'unica ed identica prestazione lavorativa che effettuano sulla base di turni da essi autonomamente organizzati. In pratica la prestazione lavorativa viene effettuata di volta in volta da una sola unit ma di essa sono responsabili entrambi i lavoratori, di tal che in mancanza di uno (es. per malattia) deve intervenire laltro. Le dimissioni o il licenziamento di uno dei due coobbligati comportano l'estinzione del vincolo contrattuale con riguardo ad entrambi, salvo che il datore sia disponibile a mantenere in vita il rapporto con l'altro lavoratore, trasformandolo cos in un rapporto normale, a tempo parziale o pieno. Nella stipula di tale contratto prevista la forma scritta ad probationem.

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CAPITOLO XXIV Controlli e Privacy


1. Il Potere di Controllo
Il Potere di Controllo tipico del datore di lavoro, essendo esso implicito nel Potere Direttivo. Esso finalizzato a garantire la corretta e tempestiva esecuzione degli obblighi lavorativi, nonch losservanza delle regole che disciplinano la condotta del lavoratore dentro limpresa. Tuttavia, tale potere trova un limite nel rispetto della dignit e della libert del lavoratore il quale innanzitutto un cittadino. Della materia se ne occupa lo Statuto ponendo limiti alle forme di controllo e prevedendo sanzioni nel caso di violazione delle norme ivi contenute.

2. Le guardie giurate.
Il datore di lavoro pu far ricorso all'impiego di guardie giurate la cui funzione, tuttavia, in nessun caso pu dar luogo a controlli nei confronti dei lavoratori.

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Le guardie giurate, in particolare, possono essere utilizzate esclusivamente per attivit di vigilanza sul patrimonio aziendale e non anche sui lavoratori. Le guardie giurate, infatti, possono accedere nei luoghi dove si svolge l'attivit lavorativa soltanto nell'esercizio del controllo ad esse demandato ed il comportamento del lavoratore resta esente da ogni forma di controllo salvo che questo non dia luogo ad un illecito penale. Pertanto le guardie giurate non possono raccogliere ed utilizzare informazioni riguardanti un comportamento negligente del lavoratore se non nel caso in cui esso si realizzi unitamente ad un illecito penale (es. furto). La violazione di tale divieto di controllo da luogo a gravi sanzioni a carico della guardia giurata (sospensione dal servizio, revoca della licenza) nonch all'applicazione nei confronti della stessa e del datore di lavoro delle sanzioni penali di cui all'art.38 dello Statuto.

3. Il Personale di vigilanza
Lart.3 St. Lav. dedicato al Personale di Vigilanza e afferma che I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza debbono essere comunicati ai lavoratori interessati. Dunque, lo scopo principale di tale norma quello di prevenire i Controlli Occulti, ossia linserimento, tra i lavoratori, di personale addetto a rilevarne il comportamento, e ci in quanto tali controlli non solo sono sleali in s, ma sono anche lesivi della dignit del lavoratore. A fronte di tale esigenza, v' per quella dell'azienda a prevenire e/o verificare la commissione di illeciti, specialmente in quelle attivit che danno adito a furti e irregolarit di vario genere da parte dei dipendenti. La limitazione posta dallart.3, se interpretata in modo rigido, avrebbe sostanzialmente impedito all'imprenditore qualsiasi forma di controllo, anche ai soli fini di tutela del patrimonio aziendale; la giurisprudenza si , pertanto, orientata nel senso di ritenere legittimo il controllo occulto allorch esso sia "difensivo", ovvero rivolto, non gi a controllare il corretto svolgimento del lavoro, bens a prevenire e/o verificare la commissione di illeciti, in specie penali.

4. Gli impianti audiovisivi e le visite personali di controllo.


L'art. 4 dello Statuto vieta l'installazione e l'uso di impianti audiovisivi sul posto di lavoro e, tuttavia, pur sempre in quanto finalizzati a controllare il comportamento in servizio dei lavoratori. Lo stesso articolo reca, infatti, una significativa eccezione laddove non vieta l'installazione di tali tipi di impianti quando ci sia dettato da esigenze organizzative o produttive od anche da motivi di sicurezza (ad es. per sorvegliare fasi di lavorazione particolarmente delicate). L'installazione degli impianti audiovisivi subordinata al previo accordo con le rappresentanze sindacali( RSA/RSU) e, in mancanza, alLautorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, Sezione Ispettiva. Resta comunque esclusa la possibilit di utilizzare le informazioni acquisite attraverso tali impianti che non riguardino direttamente i motivi per i quali essi sono stati installati o che, comunque, riguardino lo svolgimento dell'attivit lavorativa.

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Il successivo art.6 vieta le visite personali di controllo, ossia le perquisizioni, ma anche in tale caso sono previste eccezioni, giacch l'imprenditore, dal canto suo, non pu restare privo di una qualsiasi forma di tutela del suo patrimonio aziendale ne pu restare limitato nella prevenzione di furti di materie prime, prodotti e attrezzature. Sono perci consentite visite di controllo ma a condizione che queste siano effettuate al di fuori dei luoghi di lavoro e con sistemi di selezione automatica e, in ogni caso, salvaguardando la dignit e la riservatezza del lavoratore. Anche per tali forme di controllo previsto il previo accordo sindacale e, in mancanza, l'intervento dell'Ispettorato del lavoro. Linosservanza degli artt.4 e 6 da parte del datore di lavoro sanzionata penalmente dallart.38 dello Statuto.

5. Il controllo sulla sfera privata del lavoratore.


Lo Statuto non si occupato solo delle forme di controllo sull'attivit del lavoratore ma anche di ogni forma di indagine sulla sua sfera privata. L'art.8, in particolare, vieta ogni indagine intesa a conoscere opinioni (politiche, religiose e sindacali), tendenze ed altri aspetti della vita privata del lavoratore, sia prima (ai fini della sua assunzione) che in costanza di rapporto di lavoro quando tali notizie non siano rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale. La giurisprudenza considera invece legittime le indagini (anche a mezzo di investigatori professionisti) sul comportamento di un lavoratore malato o in permesso, al fine di verificare la commissione di eventuali abusi. L'inosservanza dell'art. 8 sanzionata penalmente ex art. 38 St.lav.

6. La tutela della privacy del lavoratore.


La sfera privata del lavoratore altres tutelata dalle norme sulla tutela della riservatezza dei dati personali recate dal d.lgs, n. 196 del 2003. E infatti inevitabile che molteplici dati relativi alla sfera privata del lavoratore debbano essere acquisiti e trattati in azienda. Il principio generale, a tale riguardo, che il trattamento dei dati personali condizionato al consenso individuale della persona cui essi si riferiscono, sancendosi altrimenti linutilizzabilit dei dati medesimi. Tuttavia, quando il trattamento dei dati deriva da esecuzione di obblighi inerenti al rapporto di lavoro, il consenso non necessario. In tale modo, il lavoratore liberato dall'onere di sottoscrivere la mole di documenti, che altrimenti dovrebbe essergli periodicamente sottoposta onde far procedere le normali incombenze del rapporto di lavoro. Fanno eccezione a questo regime i dati sensibili, ossia i dati personali rivolti a rivelare l'origine razziale, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, politico o sindacale, nonch lo stato di salute e la vita sessuate. Tali dati possono essere oggetto di trattamento soltanto con il consenso scritto dell'interessato, previa autorizzazione del Garante per la privacy.

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possibile prescindere dal consenso, anche in questo caso, allorch il trattamento dei dati sia necessario per l'adempimento di obblighi contrattuali; ma non si pu mai prescindere dall'autorizzazione del Garante (concessa, una volta per tutte, con un provvedimento generale autorizzatorio, emesso di solito con cadenza annuale).

CAPITOLO XXV Il Potere Disciplinare


1. Il Potere Disciplinare
La violazione di regole contrattuali darebbe luogo, anche nel rapporto contrattuale di lavoro, ad un'azione per inadempimento contrattuale, ai sensi dell'ari 1218 c.c., ma un'azione legale per ottenere l'adempimento o il risarcimento del danno sarebbe spropositata rispetto al particolare tipo di rapporto contrattuale, tenuto conto che esso continuativo e, quindi, l'azione verrebbe esperita mentre il rapporto in atto e con grave deterioramento delle condizioni di "convivenza". Dunque, a fianco della classica via della responsabilit contrattuale, il codice civile ha previsto la responsabilit disciplinare, cui corrisponde la titolarit di uno specifico potere in capo al datore di lavoro. In altre parole, la legge consente che il lavoratore inadempiente possa essere perseguito non soltanto essendo chiamato in giudizio a risarcire il danno, ma anche con lirrogazione diretta di sanzioni da parte del datore di lavoro. Il fondamento normativo del Potere Disciplinare risiede nellart.2106 c.c., il quale prevede il particolare fenomeno delle "pene private" che il datore di lavoro pu infliggere al lavoratore, all'esito di uno speciale procedimento, per inosservanza di regole di tipo

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organizzativo e comportamentale cui lo stesso deve assoggettarsi ai sensi degli articoli 2104 (diligenza) e 2105 (fedelt). La norma codicistica rinvia alla contrattazione collettiva la definizione delle infrazioni e delle sanzioni disciplinari che il datore di lavoro pu infliggere al lavoratore, stabilendo il criterio della proporzionalit della sanzione rispetto all'infrazione; lingerenza dei Contratti Collettivi servita a rendere meno arbitrario tale esercizio. La normativa applicabile arricchita dallart.7 dello Statuto, che disciplina il Procedimento Disciplinare e le modalit di impugnativa della Sanzione.

2. La Normativa Procedurale
La Normativa Procedurale contenuta nellart.7 dello Statuto, il quale, quindi, definisce le modalit del Procedimento Disciplinare e le modalit di Impugnativa della Sanzione. Come prima cosa tale art. opera un rinvio, stabilendo che la definizione delle infrazioni e delle sanzioni disciplinari spetta alla Contrattazione Collettiva. Ne deriva che il datore di lavoro non pu pi prevedere infrazioni e sanzioni a suo piacimento, ma deve applicare obbligatoriamente le norme dei contratti collettivi che prevedono, di solito a livello di contratto nazionale di categoria, il "codice disciplinare". Ci non esclude che, circa le infrazioni, il datore di lavoro possa specificare le previsioni generali previste dal contratto collettivo, in relazione alle esigenze del particolare contesto organizzativo. In ordine alle sanzioni, l'art. 7 sembrerebbe limitarsi a quelle che vanno dalla multa alla sospensione dal lavoro e dalla retribuzione fino a 3 gg., ma i contratti collettivi, ne prevedono una pi ampia gamma e cio, in ordine di gravit: il rimprovero verbale ed il rimprovero scritto; la multa, pari a 4 ore di retribuzione; la sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a 10 gg. il licenziamento con e senza preavviso.

Per quanto riguarda il rapporto tra infrazioni e sanzioni, il Principio generale quello della Proporzionalit dalla sanzione allinfrazione commessa. Quasi tutti i contratti collettivi prevedono, a tale riguardo, la recidiva, che opera come fattore di aggravamento della responsabilit disciplinare. In altri termini, ad una certa infrazione pu conseguire una sanzione pi grave di quella ordinariamente prevista, poich il lavoratore gi incorso in una precedente sanzione per una condotta simile (recidiva specifica, pi grave) o in altre sanzioni disciplinari (recidiva generica, di solito meno grave). L'ultimo comma dell'art. 7 St.lav. prescrive, peraltro, che ai fini della recidiva non possono rilevare sanzioni applicate pi di due anni prima. Infine, l'art. 7 co. 1 si preoccupa di garantire che ai lavoratori venga data un'informazione adeguata in ordine al codice disciplinare, e dispone che esso venga affisso in luogo accessibile a tutti. Il Procedimento Disciplinare consta di 4 fasi: a) Contestazione di addebito. Il datore di lavoro, una volta accertato un comportamento disciplinarmente rilevante, deve contestare al lavoratore la commissione di tale fatto, indicandone, con la maggiore precisione possibile le circostanze materiali, di luogo e di tempo.

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b) Difesa del lavoratore. Fra la ricezione della contestazione da parte del lavoratore, e
l'eventuale adozione della sanzione, deve intercorrere un termine dilatorio di almeno 5 giorni, che pu essere utilizzato dal lavoratore per esercitare il diritto di presentare le proprie difese in ordine all'addebito contestato eventualmente con l'assistenza di un rappresentante dell'associazione sindacale cui egli aderisce o conferisce mandato ad hoc. c) Irrorazione della sanzione. Una volta trascorso il termine a difesa, il datore di lavoro pu eventualmente applicare la sanzione, qualora rimanga convinto della responsabilit del dipendente. d) Impugnazione. Una volta ricevuta la sanzione, il lavoratore pu impugnarla dinanzi al Giudice del lavoro, oppure dinanzi al collegio arbitrale costituito presso la Direzione provinciale del lavoro. La legge cerca di promuovere la via arbitrale, onde sgravare gli uffici giudiziari dal carico di impugnative, prevedendo che se viene adito il collegio, invece del Giudice, "la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio" arbitrale, ossia sino all'emissione del lodo da parte del collegio. La sanzione disciplinare potr essere impugnata (ossia, ne potr essere richiesta la declaratoria di nullit) per motivi tanto sostanziali (insussistenza del fatto addebitato, sproporzione della sanzione, etc.), quanto procedurali (genericit o mancata affissione del codice disciplinare, genericit o assenza della contestazione, mancato ri- spetto del termine a difesa, etc.).

3. Il licenziamento disciplinare.
L'art. 7 dello Statuto sembrava escludere che le norme ivi stabilite per il procedimento disciplinare si applicassero anche nel caso della pi grave sanzione del licenziamento disciplinare, cos precludendo al lavoratore la possibilit di avvalersi di una norma sostanzialmente prevista a sua tutela e contro eventuali abusi. Sul punto intervenuta la Corte costituzionale che con sentenza n. 204 del 1982 ha dichiarato l'illegittimit dell'alt. 7 nella parte in cui non prevede l'applicabilit del procedimento disciplinare anche nel caso di licenziamento disciplinare previsto, quale sanzione, dalla contrattazione collettiva. La Corte di cassazione e poi andata oltre affermando l'applicabilit delle norme sul procedimento disciplinare in ogni caso.

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CAPITOLO XXVI La Retribuzione


1. Retribuzione e Corrispettivit
Il contratto di lavoro un contratto a prestazioni corrispettive (sinallagmatico), in quanto il lavoratore si obbliga ad effettuare una determinata prestazione ed il datore di lavoro si obbliga a remunerare tale prestazione dopo che essa sia stata eseguita. questo il Principio di Corrispettivit, in base al quale la Retribuzione il corrispettivo del lavoro. A tale regola dovrebbe corrispondere la perdita della retribuzione in costanza di rapporto di lavoro in assenza di prestazione e, tuttavia, ci non sempre vero, nel senso che in alcuni casi le assenze dal servizio vengono ugualmente retribuite (ferie, malattia entro certi limiti, maternit, ecc.). In tale ipotesi la retribuzione non ha una funzione corrispettiva bens una funzione sociale, in quanto finalizzata al sostegno del reddito del lavoratore in situazioni di particolare bisogno.

2. L'art. 36 della Costituzione.

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La norma fondamentale in materia di retribuzione del lavoratore dipendente nellart, 36 della Costituzione che sancisce il diritto del lavoratore dipendente ad una retribuzione proporzionata alla quantit e qualit del lavoro svolto e, in ogni caso, sufficiente ad assicurargli, unitamente alla sua famiglia, "un'esistenza libera e dignitosa". La competenza a determinare una retribuzione "sufficiente" demandata alla contrattazione collettiva che in tale ambito va a definire la cosiddetta "paga sindacale", ossia i minimi retributivi al di sotto dei quali il datore di lavoro non pu fissare la paga dei propri dipendenti, pur non aderendo all'associazione sindacale che ha sottoscritto il contratto collettivo. La previsione di livelli retributivi minimi lascia spazio alla contrattazione aziendale di stabilire tutt'altri livelli retributivi, il che si verifica, pur in presenza di una contrattazione collettiva nazionale, specialmente per pareggiare il diverso costo della vita nelle diverse zone del paese.

3. Fonti e struttura della retribuzione.


L'art. 36 della Costituzione statuisce che al prestatore di lavoro sia corrisposta una retribuzione commisurata alla quantit e qualit del lavoro svolto e che sia comunque sufficiente ad assicurargli unesistenza libera e dignitosa. Lart. 2099 c.c. demanda alle norme corporative la determinazione del trattamento economico, stabilendo, altres, che il lavoratore pu essere retribuito anche partecipando agli utili dell'impresa o in natura. Con l'abolizione delle corporazioni la competenza in materia di retribuzioni passata alla contrattazione collettiva nazionale. In seguito, col Protocollo Ciampi del 1993, buona parte della contrattazione stata devoluta alla sede decentrata e cio alla Contrattazione Aziendale. Pertanto i contratti collettivi nazionali stabiliscono, soltanto il trattamento economico cosiddetto tabellare (o base o iniziale) ed alcune voci retributive accessorie di tipo fisso e continuativo; la contrattazione integrativa aziendale definisce, invece, le altre voci retributive accessorie, anche fisse e continuative, nonch quelle occasionali. Inoltre, la contrattazione aziendale interviene spesso ad introdurre voci retributive aggiuntive rispetto a quelle previste dalla contrattazione nazionale per compensare il diverso costo della vita nella varie zone del paese. Da ci si evince che la Retribuzione composta da una serie di voci di diversa provenienza in quanto alla Fonte (Legge, Contratto Nazionale, Contratto Aziendale ecc.); ecco che noi distinguiamo tra: trattamento economico tabellare, fisso e continuativo, stabilito dalla contrattazione nazionale e perci uguale su tutto il territorio nazionale; esso attribuito in misura uguale a rutti i lavoratori appartenenti alla stessa categoria e qualifica; trattamento accessorio fisso e continuativo stabilito dalla contrattazione nazionale, correlato a particolari situazioni di lavoro e, quindi, attribuito a tutti i lavoratori che siano in possesso dei relativi requisiti professionali o che si trovino nella particolare posizione di lavoro; trattamento accessorio fisso e continuativo, stabilito dalla contrattazione aziendale (di secondo livello) per quanto attiene a modalit, condizioni e misura; trattamento accessorio occasionale e, pertanto, ne fisso ne continuativo, stabilito dalla contrattazione nazionale o aziendale, correlato a determinate situazioni di

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lavoro o alla produttivit, diversificato non solo per categorie ma anche individualmente. La contrattazione collettiva , pertanto, la fonte normativa esclusiva in materia di trattamento economico e nei casi in cui la legge a stabilirne la misura (come, per esempio, nel caso della maternit) la contrattazione collettiva pu stabilire trattamenti migliori ma non viceversa, incontrando il limite del divieto di reformatio in peius.

4. Le Forme della Retribuzione


Lart.2099 c.c. contiene unenunciazione generale delle Forme della Retribuzione, la quale pu essere a tempo, a cottimo, oppure consistere nella distribuzione di Titoli Azionari. La forma classica la Retribuzione a Tempo, ossia la retribuzione correlata alla durata della prestazione. Laltra forma storica la Retribuzione a Cottimo; essa tiene conto, nella determinazione della retribuzione, non soltanto del tempo impiegato ma anche del risultato, ossia della quantit della produzione (es. numero di scarpe prodotto). ormai praticata solo in modo combinato con la retribuzione a tempo, nel senso che a questa si aggiungono voci retributive commisurate alla quantit e qualit del lavoro svolto in forma di compensi di produttivit. Infine, possibile che la retribuzione consista nella distribuzione di titoli azionari ai dipendenti della societ. Il fenomeno diffuso, in particolare, nei confronti dei dirigenti, anche se pi nei paesi angloassoni che in un sistema come quello italiano. Ai dirigenti sono distribuite azioni, o pi spesso opzioni per l'acquisto di azioni; peraltro con possibili risvolti negativi (come il rischio che l'azione del manager sia orientata dall'interessata ricerca di miglioramenti finanziari di breve periodo, che massimizzino anche i proventi del dirigente). Pi rara, e per altri versi delicata, la distribuzione di azioni ai "semplici" dipendenti di una societ, orientata in genere dal proposito di rinsaldare il senso di appartenenza dei lavoratori all'azienda. Tale prospettiva guardata con dichiarato timore dai sindacati, nella misura in cui, attraverso l'azionariato, il lavoratore rischia di confondersi con il "capitalista"; tenuto anche conto che quasi maii lavoratori giungono ad avere una posizione di maggioranza, pur potendo essere coinvolti, attraverso la loro partecipazione, all'assemblea della societ (ad es. a mezzo di comitati di azionisti), nelle scelte decisionali dell'impresa.

5. Il trattamento di fine rapporto (TFR).


Alla cessazione dal servizio al lavoratore spetta un trattamento di fine rapporto diversamente denominato (indennit di anzianit prima e trattamento di fine rapporto poi, per il settore privato; buonuscita, indennit premio di servizio, per il settore pubblico). Il trattamento di fine rapporto (TFR) venne istituito con la legge n. 297 del 1982 in luogo dell'indennit di anzianit di cui all'alt. 2120 c.c., cos modificando la norma codicistica. Esso considerato alla stregua di una retribuzione differita in quanto determinato accantonando, di anno in anno, una somma pari alla retribuzione percepita nell'anno diviso 13,5; questa somma viene di anno in anno rivalutata in base alla variazione del

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costo della vita e quindi corrisposta al lavoratore, nel suo ammontare complessivo, all'atto della cessazione dal servizio presso quell'azienda; pertanto, nel caso di pi rapporti di lavoro successivi, al lavoratore spetteranno altrettanti TFR. In attivit di servizio il lavoratore pu chiedere un'anticipazione del TFR, per determinati motivi (spese sanitarie straordinarie, acquisto della prima casa per se o per i figli ecc.) e, in ogni caso, in misura non superiore al 70% di quanto a tale titolo maturato fino a quel momento. Col sistema del TFR il lavoratore percepisce circa una mensilit di stipendio per ogni anno di servizio ma con riferimento allo stipendio effettivamente percepito di anno in anno; il previgente sistema dell'indennit di anzianit prevedeva, invece, la moltiplicazione dell'ultima retribuzione per gli anni di servizio, cos favorendo il fenomeno delle liquidazioni gonfiate, essendo a tal fine sufficiente aumentare artificiosamente lultima retribuzione. Con la riforma del TFR (esteso anche al settore pubblico), ad opera del d.lgs. n. 252 del 2005, una parte del trattamento di fine rapporto pu essere facoltativamente devoluta a fondi di previdenza complementare. In sostanza, i lavoratori che accetteranno tale devoluzione non beneficeranno pi dellintero T.F.R. alla cessazione del rapporto, ma lo vedremo trasformato, pro tempore, in un trattamento pensionistico. 6. La tutela del credito retributivo. Il credito da lavoro gode di una particolare tutela da parte dell'ordinamento; infatti: allorquando il credito da lavoro accertato dal giudice, alla sua misura originaria si aggiunge automaticamente la rivalutazione monetaria, finalizzata ad attualizzare il credito, e gli interessi legali, aventi natura risarcitoria; il credito da lavoro privilegiato rispetto ad altri crediti, di tal che il lavoratore preferito ed ha maggiori garanzie di soddisfazione rispetto ad altri creditori; il credito da lavoro si prescrive/in 5 anni dalla maturazione del relativo diritto (ai sensi dell'art.2948 c.c. Prescrizione breve) allorquando il rapporto assoggettato ad un regime di tutela contro il licenziamento, ai sensi dell'art. 18 dello Statuto; negli atri casi esso si prescrive in 5 anni dalla cessazione del rapporto.

CAPITOLO XXVII La Tutela della Persona


1. LObbligo di Sicurezza
Il concetto di Tutela della Persona del Lavoratore si andato arricchendo. Difatti, al di l della protezione spettante ai lavoratori che si ammalano o si infortunano per fattori esterni, i numerosi fattori di rischio inerenti al lavoro rendono altamente possibile che una malattia o un infortunio trovino causa, o concausa, nell'ambiente di lavoro. Ancor prima della tutela successiva al verificarsi dell'evento lesivo, l'esigenza prima , pertanto, quella di prevenire tale evento, evitando che lo svolgimento dell'attivit lavorativa determini pericoli per la salute e la sicurezza del lavoratore. A tale finalit rivolto l'art. 2087: "Il datore di lavoro tenuto ad adottare tutte le misure che secondo la particolarit del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessario a tutelare l'integrit fisica e la personalit morale dei prestatori di lavoro". ivi sancito il cosiddetto Obbligo di Sicurezza.

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In assenza di una precisa indicazione dei rischi rispetto ai quali il datore di lavoro tenuto ad adottare misure di prevenzione ed in assenza di una precisa indicazione delle dette misure, deve concludersi che la norma codicistica pone a carico del datore di lavoro un obbligo indefinito che va oltre la normale diligenza. Infatti, La giurisprudenza ha interpretato l'obbligo alla luce del criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, che significa che l'imprenditore non pu ritenersi adempiente a tale obbligo semplicemente osservando le prescrizioni tecniche dettate per una certa attivit o lavorazione; infatti, qualora esse siano superate o insufficienti, in virt del progresso tecnico, l'art. 2087 impone all'imprenditore di fare uno sforzo "in pi", senza attendere passivamente l'aggiornamento della normativa. L'obbligo di sicurezza ha, quindi, un contenuto aperto, espressione di una grande attenzione dell'ordinamento per la vita e la salute dei lavoratori. Nondimeno, proprio tale apertura fonte di una certa indeterminatezza, che causa alle imprese pericolose incertezze sulle misure di prevenzione da adottare. L'incertezza aggravata dal fatto che la maggior parte delle prescrizioni in questione rafforzata dalla presenza di sanzioni penali. Non che non sia giustificato, nella materia, il ricorso alla tutela penale; ma l'indeterminatezza delle relative fattispecie di illecito crea oggettivi problemi, al cospetto del principio di legalit.

2. Il d.lgs. n. 626 del 1994.


La genericit dellart. 2094 c.c. stata in parte delimitata da regolamenti governativi adottati nel 1955 e nel 1956, successivamente aggiornati, e tuttavia insufficienti a definire una esaustiva mappa dei rischi e delle misure di prevenzione e altrettanto insufficienti a mettere in un posizione di tranquillit il datore di lavoro che si fosse limitato alla mera esecuzione di quanto ivi stabilito, giacch a quest'ultimo, ai fini della sicurezza, richiesta la massima diligenza che va ben oltre la mera esecuzione di regole peraltro anacronistiche. Una decisiva svolta in materia di sicurezza l'ha data il d.lgs. n. 626 del 1994, attuativo di una direttiva comunitaria del 1989 (Direttiva Comunitaria sulla Tutela dellAmbiente di Lavoro) ora abrogato dal d.lgs. n. 81 del 2008 e da esso sostituito, i cui punti fondamentali sono quelli riguardanti: a) l'obbligo della formazione, in azienda, di un servizio di prevenzione e protezione dai rischi, con un responsabile della sicurezza preposto alla gestione dell' organizzazione della sicurezza sul lavoro;

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b) lobbligo di predisporre, periodicamente, una valutazione dei rischi, ossia una


mappa dei rischi connessi alle diverse attivit lavorative aziendali, consultabile dagli Organi Ispettivi delle ASL e dalle Sezioni Ispettive delle Direzioni Provinciali del Lavoro; c) l'istituzione di un medico competente, preposto agli accertamenti medici periodi cui vengono sottoposti i lavoratori in base alla personale situazione di salute e posizione di lavoro; d) l'istituzione del rappresentante sindacale per la sicurezza, punto di riferimento dei lavoratori, che pu farsi promotore di iniziative inerenti alla sicurezza e che deve essere consultato in occasione delladozione di esse, nonch in occasione dellelaborazione della Relazione di Valutazione dei Rischi; e) l'obbligo della informazione e formazione del lavoratore, al fine di renderlo partecipe alla tutela della sua salute ma anche pi responsabile rispetto alle misure di sicurezza, cos rendendolo passibile di sanzioni disciplinari nel caso di disattenzione delle relative prescrizioni.

3. Responsabilit e danno.
La presenza di misure di prevenzione in materia sicurezza non esclude che il lavoratore si infortuni sul lavoro o subisca menomazioni derivanti da causa di servizio. Per altro verso l'esistenza di una normativa in materia, che pone obblighi a carico del datore di lavoro, non presuppone che la responsabilit di eventuali infortuni o malattie professionali sia addebitabile esclusivamente ed in ogni caso al datore di lavoro, giacch anche il lavoratore, per quanto addestrato ad avere cura della sua salute, pu essere responsabile di danni da lui stesso subiti e che il datore di lavoro non riuscito ad evitare. Alla responsabilit della lesione o menomazione subita dal lavoratore, consegue l'obbligo del risarcimento del danno. Laddove tale responsabilit sia addebitabile al datore di lavoro, il lavoratore pu agire per inadempimento contrattuale, ai sensi dell'art. 1218 c.c., essendo egli creditore di un obbligazione - quella inerente all'adozione delle misure di prevenzione - che l'ordinamento pone in capo al datore di lavoro; al lavoratore, pertanto, sar sufficiente dimostrare l'inadempimento contrattuale in ordine al suo diritto alla sicurezza per far valere l'ulteriore diritto al risarcimento. La previsione di una tutela di natura contrattuale non esclude che il lavoratore possa far valere il suo diritto al risarcimento al di fuori del relativo rapporto contrattuale, ai sensi dell'alt. 2043 c.c., ossia per responsabilit extracontrattualeLe imprese sono comunque obbligate a stipulare un'assicurazione con lINAIL (Istituto nazionale per gli infortuni su lavoro) che risarcisce il lavoratore per le lesioni e le menomazioni subite e che nel caso di riduzione della capacit lavorativa liquida al lavoratore una rendita vitalizia commisurata a tale menomazione. Peraltro, come ogni assicurazione, lINAIL garantisce al lavoratore un indennizzo anche quando linfortunio non si verificato per una responsabilit dellimpresa.

4. Il mobbing.
L'art. 2087 c.c. pone in capo al datore di lavoro l'obbligo di tutela non solo dell'integrit fisica del lavoratore bens anche della sua personalit morale. In relazione a tale ultima fattispecie, l'inadempimento contrattuale da luogo a

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responsabilit per danno di natura non patrimoniale comunque risarcibile, ai sensi dell'art. 2059 c.c., essendovi, per esso, un preciso riferimento normativo. Dunque, viene alla luce la distinzione tra: Danno Biologico: danno di natura patrimoniale che concerne la salute e dunque lesivo dellintegrit fisica del lavoratore. Danno Esistenziale (Morale): danno di natura non patrimoniale lesivo della dignit (Integrit morale) del lavoratore. Il lavoratore subisce un danno morale, ovvero un danno alla sua personalit, quando vengono posti in essere, nei suoi confronti, una serie di comportamenti, ancorch legittimi, sintomatici di un'attivit persecutoria o comunque di emarginazione rispetto all'ambiente di lavoro, oggi classificati col termine di mobbing (o comportamenti mobbizzanti), nonch quei comportamenti riconducibili alle molestie sessuali. Il mobbing, in particolare, quel comportamento posto in essere dai colleghi di lavoro (in tal caso si parla di mobbing orizzontale} o dai superiori gerarchici (in tal caso di parla di mobbing verticale), con sistematicit o reiterazione per un certo periodo di tempo (almeno 6 mesi), determina una condizione di sostanziale disagio e di emarginazione in conseguenza della quale il lavoratore si sente non gradito dall' ambiente di lavoro. Del mobbing in ogni caso responsabile il datore di lavoro: direttamente, nel caso di mobbing verticale; indirettamente, per omessa vigilanza, nel caso di mobbing orizzontale.

5. Le molestie sessuali sul lavoro.


Nell'ambito dei comportamenti lesivi della personalit del lavoratore rientrano, altres, le molestie sessuali qualificate, dal d.lgs. n. 145 del 2005, come "quei comportamenti indesiderati a connotarono sessuale ... aventi lo scopo di violare la dignit di una lavoratrice o di un lavoratore... ". Invero la norma pone le molestie sessuali nell'ambito dei comportamenti discriminatori ma tali devono considerarsi non le molestie in s, di per se sanzionabili, bens le azioni discriminatorie che siano connesse o conseguenti alle dette molestie. Il lavoratore, infatti, pu agire sia per il risarcimento del danno morale connesso alle molestie sessuali in s, sia per il risarcimento del danno derivante da atti discriminatori aventi una connessione con le dette molestie, sia, ancora, per l'eventuale danno biologico derivante dalle stesse, quando le molestie sessuali abbiano avuto ripercussioni sull'integrit della persona. Anche le molestie sessuali possono essere del tipo verticale (se poste in essere dai superiori) e orizzontale (se poste in essere dai colleghi di lavoro), ed anche per esse

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sussiste in ogni caso la responsabilit del datore di lavoro, diretta, nel primo caso, ed indiretta, per omessa vigilanza, nell'altro caso. Ovviamente, onde individuare il tipo di vigilanza cui il datore di lavoro tenuto, si deve tenere conto che egli non ha il diritto di ingerirsi paternalisticamente nella sfera delle relazioni private dei dipendenti (che possono aver luogo anche sul luogo di lavoro). Ci che il datore deve fare intervenire con decisione nei casi in cui si profilino situazioni moleste, e se possibile operare per sensibilizzare i dipendenti (ad es. con un codice di condotta) a comportamenti corretti. Un tentativo interessante e altres quello di istituire figure di "consigliere di fiducia", cui le persone vittime di molestie possono rivolgersi, anche con rispetto della riservatezza, per avere consigli e aiuti su come affrontare al meglio la sgradevole situazione.

CAPITOLO XXVIII Eguaglianza e Discriminazioni


1. Il Principio di Eguaglianza nel Diritto del Lavoro.
Il principio di eguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione, trova, nel diritto del lavoro, diversi riferimenti. La normativa in materia di lavoro, ivi compresa quella contrattuale, si spesso ispirata a tale principio che, in ogni caso, non presuppone un egualitarismo di tipo reddituale, in quanto l'eguaglianza, in ambito di lavoro, intesa come divieto di disparit di trattamento in situazioni uguali e come offerta di pari opportunit e non come generico appiattimento e parit di trattamento sulla base della sola appartenenza ad una determinata categoria o professionalit.

2. Divieti di discriminazione e parit di trattamento.

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Il principio costituzionale di eguaglianza, di cui allart. 3. in ambito lavoristico si traduce, principalmente, in un divieto di discriminazione, non essendo ipotizzabile che tutti i lavoratori debbano avere lo stesso trattamento a prescindere dalla qualifica e dalle capacit professionali individuali. Se cos fosse, la stessa contrattazione collettiva, protetta dall'art. 39 della Costituzione, non potrebbe stabilire, in modo differenziato, il trattamento delle diverse categorie e delle diverse professionalit, ne dal canto suo il datore di lavoro potrebbe esercitare un bench minimo potere gestionale applicando un diverso trattamento sulla base di clementi discriminatori che non ledono la pari dignit e libert e che, se del caso, sono collegati al rendimento e ad altre caratteristiche individuali. La parit di trattamento consiste, pertanto, nelloffrire ai lavoratori uguali opportunit a prescindere dal sesso, dalle origini emiche, dalla nazionalit, dalle opinioni, dalla religione, dall'aderenza ad associazioni, ecc., e nel divieto di effettuare della scelte, preferenziali o negative, sulla base degli stessi elementi, sia in fase di costituzione del rapporto di lavoro sia durante il suo svolgimento. In altre parole, possibile differenziare il trattamento di Tizio da quello di Caio perch pi bravo, ha pi esperienza etc.; ma non possibile fare lo stesso se la ragione della differenziazione il sesso di Caio, o la sua razza, etc. La contravvenzione del divieto di discriminazione, peraltro sancito dall'art. 15 dello Statuto, determina la nullit dei relativi atti e da luogo a sanzioni penali. Inoltre, potendo la discriminazione essere perpetrata attraverso comportamenti lesivi della Dignit (Integrit Morale) del lavoratore, stato riconosciuto alla vittima della discriminazione anche il diritto al risarcimento dei danni.

3. La discriminazione per sesso.


Le fonti normative inerenti al divieto di discriminazione per laccesso al lavoro o, comunque, sul lavoro, sono sparse un po' dappertutto. Storicamente il primo elemento di discriminazione stato il sesso, tant' che lo stesso costituente si sentito in obbligo di statuire, all'art. 37 della Costituzione, la parit dei diritti tra l'uomo e la donna a parit di lavoro. A tale principio si sono ispirate le norme che hanno poi dettagliatamente sancito la parit tra uomini e donne e, correlativamente, la nullit degli atti, dei fatti e dei comportamenti discriminatori in base al sesso, quali, al di l dell'art 15 dello Statuto: la legge n. 903 del 1977, sulla parit tra l'uomo e la donna sul lavoro; la legge n. 125 del 1991, sulle azioni positive per la realizzazione delle pari opportunit tra uomo e donna, abrogata e sostituita dal d.lgs. n. 198 del 2006 recante il "codice delle pari opportunit";

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il d.lgs. n. 145 del 2005, attuativo di una direttiva CE in materia di parit tra uomo e donna sul lavoro, integrativo delle norme gi vigenti in materia. E' dunque vietato ogni atto, fatto o comportamento che produca un effetto meno favorevole nei confronti di un lavoratore o di una lavoratrice rispetto ad un altro o ad un'altra in situazioni analoghe; ci varrebbe anche per quanto attiene alle opportunit di carriera nei livelli pi elevati, ma in tal caso il divieto di discriminazione cede di fronte alla discrezionalit riconosciuta al datore di lavoro di scegliere i suoi pi diretti collaboratori, laddove tali scelte restano insindacabili in quanto avvengono sulla base di elementi prevalentemente fiduciari. Costituisce altres deroga al suddetto principio il caso in cui il sesso sia un requisito essenziale per la particolare prestazione lavorativa nonch nel caso di lavori gravosi. In ambito di discriminazione si usa distinguere tra discriminazione diretta e discriminazione indiretta, laddove la prima immediatamente rilevabile nell'azione, atto o comportamento discriminatorio, mentre l'altra, meno evidente, per lo pi desunta da dati statistici dimostrativi del fatto che atti apparentemente neutri pongono, invece, in situazione di svantaggio determinate categorie di lavoratori. In ambito processuale, nel caso di Discriminazione Diretta lonere della prova spetta allo stesso lavoratore discriminato; invece, nel caso di Discriminazione Indiretta lonere della prova della non discriminazione si rovescia sullimprenditore, cui incombe di discolparsi dallaccusa di discriminazione. Una volta accertata la discriminazione, il giudice potr stabilire nella sentenza un "piano di rimozione" delle discriminazioni. un rimedio processualmente innovativo (anche se, sinora, poco utilizzato), che stato previsto per cercare di conferire pi mordente alla normativa.

4. Gli altri divieti di discriminazione.


Il generale divieto di discriminazione, sancito dall'art. 15 dello Statuto, arricchito dalle norme antidiscriminatorie contenute in varie disposizioni di legge ad hoc facenti specifico riferimento alla discriminazione: in base alla razza ed alle origini etniche (d.lgs. n. 215 del 2003); in base alla religione, alle convinzioni personali, alla situazione di handicap, all'et, alle abitudini sessuali (d.lgs. n. 216 del 2003). Tali decreti definiscono il concetto di non discriminazione, tanto diretta quanto indiretta, in relazione ai suddetti fattori, includendo in esso anche la nozione di "molestia ambientale" assimilabile ai comportamenti mobbizzanti, e prevedono particolari strumenti di tutela giurisdizionale in caso di acclarata discriminazione.

5. Le azioni positive. 104

Alle nonne negative della discriminazione si accompagnano quelle inerenti alle azioni positive, che contemplano, cio, non divieti bens forme di tutela a favore di particolari categorie ritenute in posizione di svantaggio, quali i disabili e le lavoratrici, nonch iniziative per la realizzazione concreta delle pari opportunit. E se per i disabili vi tutta una normativa protezionista, che addirittura riserva loro una quota di posti di lavoro (legge n. 68 del 1999), per la lavoratrice la legge n. 125 del 1991 prevede solo che siano adottate le misure necessario a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscano la realizzazione concreta delle pari opportunit. In ambito europeo non mancano casi di eccessivo protezionismo che si sono tradotti in disparit di trattamento all'inverso e cio troppo a favore delle donne ed in danno degli uomini. Si prendi come es. una legge di un Land tedesco, la quale prevedeva che a parit di punteggio in un concorso, si assumesse obbligatoriamente la donna; l'uomo conseguentemente svantaggiato, il sig. Kalanke, introdusse un ricorso, poi pervenuto alla Corte di Giustizia, volto a far dichiarare l'illegittimit della norma, a causa della discriminazione "a rovescio" che essa concretava. La Corte dette ragione, in quel caso, al ricorrente, censurando in particolare l'automatismo del privilegio stabilito dalla legge oggetto del giudizio. Sentenze successive hanno ribadito il concetto, ma attenuandolo: ad es., nella sentenza Marshall stata ribadita l'illegittimit di quote automatiche, ma si anche aggiunto che se una certa legge prevede, invece, un meccanismo non cos "cieco", ma che preveda la possibilit, per il datore di lavoro, di motivare perch o stata preferita una donna, tale preferenza deve ritenersi legittima.

CAPITOLO XXIX Malattia e Congedi Parentali


1. La Sospensione della Prestazione di Lavoro.
Pur in presenza di un rapporto di natura sinallagmatica, a prestazioni corrispettive, qual il rapporto di lavoro, in alcuni casi o in relazione ad alcuni stati particolari il lavoratore ha diritto alla retribuzione nonostante non esegua alcuna prestazione lavorativa. Tali casi e stati personali sono ritenuti cos meritevoli di tutela che il relativo onere, ossia la spesa da sostenere in assenza di una controprestazione, posta a carico del datore di lavoro o di istituti di previdenza. La fonte normativa primaria in tal senso lart. 2110 c.c., che pur individuando una casistica delle interruzioni della prestazione lavorativa che mantengono in vita il rapporto di lavoro, quali l'assenza per malattia o infortunio nonch per gravidanza o puerperio,

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demanda alla legge ed alla contrattazione collettiva la relativa disciplina ma anche l'individuazione di eventuali atri tipi di permessi o, comunque, di interruzioni dell'attivit lavorativa, retribuite e non, che non danno luogo all'interruzione del rapporto di lavoro. La norma codicistica, sostanzialmente derogativa del principio della corrispettivit, opera, tuttavia, in una duplice direzione; essa, infatti, nel prevedere forme di interruzione della prestazione lavorativa stabilendo, per l'effetto, il divieto di risoluzione del rapporto di lavoro quando l'assenza determinata dai motivi stabiliti dalla legge (es. Maternit) e dalla contrattazione collettiva (es. la Malattia) e nei limiti stabiliti dalle stesse fonti, al tempo stesso conferisce legittimit alla risoluzione del rapporto di lavoro quando l'assenza si sia protratta oltre il limiti stabiliti.

2. Malattia.
Il motivo di assenza pi frequente e quello dello stato di malattia, laddove come tale si intende non la malattia in senso cimice bens quello stato patologico impeditivo della prestazione lavorativa. Relativamente allo stato di malattia vi sono, tuttavia, determinati obblighi in capo al lavoratore ed altrettanti diritti a favore del datore di lavoro. Il lavoratore, in particolare, deve dare tempestiva comunicazione dello stato di infermit, deve produrre la relativa certificazione medica entro un certo termine (in genere 3 giorni) e deve rendersi reperibile nelle fasce orarie durante le quali sono esperibili controlli medici; il lavoratore, inoltre, deve astenersi da attivit che rallentino la guarigione. Dal canto suo il datore di lavoro ha diritto di far eseguire controlli medici dello stato di malattia del lavoratore, a tal fine avvalendosi solo di medici delle strutture pubbliche (ASL, INPS), ha il diritto di irrogare sanzioni disciplinari quando il lavoratore abbia disatteso i suoi obblighi, ha il diritto di risolvere il rapporto di lavoro quando l'assenza per malattia si sia protratta oltre i limiti. I limiti di durata della malattia, superati i quali interviene la legittima risoluzione del rapporto di lavoro, sono stabiliti dalla contrattazione collettiva. La durata massima della malattia detta periodo di comporto ed normalmente di 6 mesi (nel pubblico impiego di 18 mesi). Il periodo di comporto pu essere continuativo o per sommatoria: nel primo caso la risoluzione del rapporto interviene solo quando il periodo di assenza sia continuativo, di tal che un giorno di presenza azzera il conteggio del periodo di comporto e esso ricomincia daccapo; nell'altro caso alla formazione del periodo di comporto concorrono tutte le assenze per malattia verificatesi in un determinato lasso di tempo (in genere 3 anni). Salvo nel caso di rapporto di lavoro a termine, durante il periodo di assenza per malattia il lavoratore non pu essere licenziato per giustificato motivo ma pu esserlo per giusta causa, ossia per fatto a lui imputabile. Per il periodo di assenza di malattia il lavoratore ha diritto alla retribuzione nella misura prevista ancora una volta dai contratti collettivi: non detto che questa retribuzione sia pari al 100% per tutto il periodo del comporto, potendo essere anche essere prevista in misura pi ridotta.

3. Maternit e paternit.
La maternit la seconda principale causa di assenza dal servizio che gode di una particolare tutela. Le massime fonti normative in proposito sono lart. 37 della Costituzione e lart. 2110 c.c..

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Una pi dettagliata disciplina della maternit e della tutela della lavoratrice madre stata introdotta dalla legge n. 1204 del 1971, poi integrata dalla legge n. 903 del 1997, estensiva delle relative norme a favore del padre, e infine dalla legge n. 53 del 2000, istitutiva dei cosiddetti congedi parentali. Il complesso delle disposizioni in materia o ora raccolto nel d.lgs. n. 151 del 2001. La normativa in argomento ispirata a fini di tutela non solo della madre lavoratrice ma anche del figlio ed in tale ottica che essa prevede particolari forme di tutela per il periodo di gravidanza, per un periodo a cavallo del parto, per un periodo durante il quale il minore deve essere assistito e non solo da parte della madre lavoratrice bens anche da parte del padre. In particolare, le astensioni dal lavoro per maternit sono: il congedo per maternit, spettante a cavallo della data del parto per complessivi 5 mesi; 2 mesi prima della data presunta del parto e 3 mesi dopo la data effettiva dello stesso, od anche, rispettivamente, un mese prima e 4 mesi dopo; nel caso di gravidanza a rischio, certificata dall'Ispettorato del lavoro, l'astensione dal lavoro prima della data presunta del parto pu essere notevolmente anticipata; il congedo per maternit per il periodo dopo il parto spetta anche al padre qualora la madre lavoratrice non ne fruisca o sia assente (per decesso o abbandono) ed il minore sia a lui affidato; durante il periodo di congedo per maternit la retribuzione corrisposta per intero, pur se a carico sia del datore di lavoro che di istituti di previdenza; il congedo parentale per assistere il figlio minore di 8 anni, del quale possono fruire, alternativamente, sia la madre che il padre, per 6 mesi ognuno ma a concorrenza del periodo massimo cumulato di 10 mesi; qualora il padre fruisca di tale congedo per un periodo di almeno 3 mesi, la sua dotazione ed il periodo complessivo massimo sono rispettivamente aumentati a 7 e 11 mesi; durante tale periodo di congedo al genitore che ne fruisce spetta un'indennit pari al 30% della retribuzione, a carico dellINPS; se uno dei due genitori non lavora, l'altro pu fruire di tale tipo di congedo soltanto per la sua quota individuale di 6 mesi, ma se il genitore solo (per decesso o abbandono dell'altro) o il solo ad assistere il minore (per incapacit dell'altro) ha diritto a fruire del congedo parentale per l'intero periodo massimo complessivo di 10 mesi;

i riposi giornalieri, consistenti in due ore di riposo (in genere "per allattamento") dei quali pu fruire il genitore fino ad un anno di vita del bambino; pu fruire di tali riposi anche il padre quando la, madre lavoratrice vi rinunci, quando non sta lavoratrice dipendente, quando la madre sia deceduta o gravemente inferma o quando abbia abbandonato la famiglia; questi periodi di riposo sono interamente indennizzati dallINPS; i congedi per malattia del figlio minore di 8 anni, spettanti alternativamente alla madre o al padre e per tutta la durata dell'evento, fino al terzo anno d'et del minore, e nel limite di 5 giorni all'anno, per il minore di et compresa fra i 3 e gli 8 anni; tali congedi non sono retribuiti.

La normativa tutela non solo in termini positivi bens anche in termini negativi, ossia di divieto di licenziamento in occasione della maternit e, tuttavia, con alcune eccezioni: tale divieto non sussiste, infatti, nel caso di licenziamento per giusta causa (ossia per motivi

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imputabili a responsabilit del lavoratore), nel caso di cessazione dell'attivit dell'azienda, per scadenza naturale del rapporto di lavoro a termine e per mandato superamento del periodo di prova.

CAPITOLO XXX Il Contratto a Tempo Determinato


1. Premesse generali.
Il contratto di lavoro a termine quel contratto di lavoro, ora ammesso dallordinamento, derogativo del generale principio della stabilit del rapporto di lavoro. In una disciplina del rapporto di lavoro e della sua formazione non poteva non tenersi conto che le esigenze di forza lavoro da parte delle imprese sono in taluni casi caratterizzate da estrema flessibilit, a causa di forti aumenti o diminuzioni della produzione in determinati periodi dell'anno od anche in relazione alle commesse che impegnano l'impresa per un determinato periodo di tempo, di tal che un rapporto di lavoro costituito a tempo indeterminato si trova a dover affrontare ipotesi di licenziamento conseguenti alla ridotta produttivit dell'impresa.

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Il rapporto di lavoro a termine soddisfa le maggiori esigenze occasionali o stagionali o a termine dell'impresa ma forma, per altro verso, quel precariato che porta con s tutta una serie di implicazioni di ordine sociale.

2. La legge n. 230 del 1962 e il processo di riforma.


La prima disposizione di legge in materia di Rapporto di Lavoro a Termine stata la L. n. 230/1962. Questa legge partiva dal concetto che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato fosse la regola, e il Contratto a termine leccezione. Essa individuava tassativamente le ipotesi (Causali) in presenza delle quali era possibile assumere a termine un lavoratore; esse sono: a) la sostituzione di un lavoratore assente (per malattia o maternit) con diritto alla conservazione del posto; b) leccezionalit ed occasionalit di esigenze di una maggiore forza lavoro per un periodo di tempo determinato. Col tempo, altre causali sono state aggiunte, come quando una legge del 1978, e poi definitivamente del 1983, aggiunse la causale delle "punte stagionali" di attivit (che cosa diversa dal concetto di attivit stagionale: quest'ultima un'attivit che si svolge soltanto in una certa stagione, mentre parlando di punte stagionali si allude ai casi di intensificazione dell'attivit in certe stagioni dell'anno). Un'ulteriore flessibilizzazione fu apportata dall'art. 23 della legge 28 febbraio 1987 n. 56, il quale stabil che, attraverso contratti collettivi stipulati dalle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative, si potessero introdurre nuove causali che rendessero lecito il ricorso ai contratti a termine. Peraltro, anche se le causali, sia di fonte legale che contrattuale, aumentavano, e con esse la possibilit di far ricorso a contratti a termine, i! sistema era sempre basato sulla regola del contratto a tempo indeterminato. Questo significava che se un lavoratore veniva assunto a termine in virt di una causale non prevista, il lavoratore aveva diritto a veder "convertito" il suo rapporto in rapporto a tempo indeterminato. Nel frattempo, la Comunit Europea ha emanato la direttiva n. 70 del 1999. che ha cercato di stabilire alcune regole minime per il contratto a tonnine, che gli Stati mmbri avrebbero dovuto applicare. Tale Direttiva stata attuata col d.lgs. 368/2001, che ha contestualmente abrogato la Legge 230/1962.

3. Il d.lgs. n. 368 del 2001.


Il rapporto di lavoro a termine ora disciplinato dal d.lgs. n. 368 del 2001 che, peraltro, sta risentendo del diverso orientamento politico dei governi che si sono alternati in questo inizio di secolo. La nuova disciplina rende pi agevole il ricorso a tale forma di rapporto di lavoro subordinato prevedendo una condizione generale molto elastica; essa, infatti, a differenza della legge n. 230 del 1962, che prevedeva rigide causali per la costituzione di rapporti di lavoro a termine, stabilisce invece molto genericamente, allart. 1, che ad un contratto di lavoro possa apporsi un termine "a fronte di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo", la cui dimostrazione abbastanza semplice.

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E tuttavia non per questo la nuova normativa si presta ad eludere con altrettanta facilit il principio generale della stabilit del rapporto di lavoro. Il ricorso alla costituzione d rapporti di lavoro a termine intanto ammesso per le suddette "ragioni" e, al tempo stesso, assolutamente escluso per la sostituzione di lavoratori in sciopero o quando si siano avuti licenziamenti collettivi di pari qualifica nonch nel caso in cui limprenditore non abbia effettuato la valutazione dei rischi di cui alle norme in materia di sicurezza sul lavoro (d.lgs. n. 626 del 1994). Il contratto di lavoro a termine deve essere stipulato in forma scritta ad substantiam e il datore di lavoro tenuto a darne copia al lavoratore. Esso, inoltre, non pu avere durata complessiva superiore a 3 anni, nel senso che eventuali proroghe devono restare contenute entro tale limite. Il trattamento giuridico ed economico del lavoratore a tempo determinato disciplinato dalla contrattazione collettiva che, peraltro, stabilisce anche le modalit di risoluzione del rapporto prima della sua naturale scadenza. Qualora il rapporto di lavoro prosegua di fatto, il lavoratore ha diritto ad una retribuzione maggiorata del 20% per i primi 10 giorni successivi alla scadenza del contratto e del 40% per l'ulteriore periodo e, comunque, non oltre il 30 giorno. Pertanto: l'assenza di ragioni giustificatrici della costituzione di rapporti di lavoro a termine, la mancata formalizzazione del contratto di lavoro ovvero la mancata indicazione del termine, la proroga oltre i 3 anni, la permanenza in servizio oltre il 20 od oltre il 30 giorno dalla scadenza (per i contratti a termine di durata, rispettivamente, inferiore o superiore a 6 mesi) nonch il rinnovo del contratto prima che sia trascorso un determinato lasso di tempo dalla scadenza di quello precedente, sono tutte valide causali per convertire il rapporto di lavoro a termine in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

CAPITOLO XXXI I Contratti di Apprendistato e di Inserimento


1. Il Mercato del Lavoro in entrata.
Insieme ai normali contratti di lavoro l'ordinamento prevede tipi di contratti nei quali il datore di lavoro, a fronte di agevolazioni statali, ha l'ulteriore obbligo di formare il lavoratore facendo cos fruttare la sua esperienza lavorativa in termini di maggiore professionalizzazione e, quindi, di agevolazione nella ricerca di un posto di lavoro. Sono, questi, i contratti di apprendistato ed i contratti di formazione e lavoro, ora sostituiti dai contratti di inserimento, i quali, al di l dell'obbligo formativo e di alcune specialit, nel resto sono soggetti alla stessa disciplina applicabile per i normali contratti di lavoro subordinato.

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Tali contratti, pensati per favorire loccupabilit e normalmente riservati ai giovani di et compresa tra i 18 ed i 29 anni, consentono altres all'imprenditore di fruire di una serie di benefici di natura contributiva, retributiva e normativa e tale allettante prospettiva ha alimentato abusi infine censurati dalla Commissione europea in termini di violazione delle regole sulla concorrenza, in quanto le imprese facevano ricorso a tali forme di contratto al solo scopo di fruire delle relative agevolazioni e senza dare in cambio la prevista formazione. Il d.lgs. n. 276 del 2003 ha ridisciplinato i contratti di apprendistato ed ha decretato la fine dei contratti di formazione e lavoro (tranne che nel settore pubblico) sostituendo questi ultimi con i contratti di inserimento rivolti alle categorie di "lavoratori svantaggiati" s come individuati dalla stessa normativa e non soltanto ai giovani.

2. I contratti di apprendistato.
Il contratto di apprendistato, destinato a chi, abbandonati gli studi, intende acquisire una formazione sul campo, ha fatto la sua comparsa nell'ordinamento con la legge n. 25 del 1955. Tale contratto offriva prospettive di lavoro all'apprendista, il quale al termine del periodo di apprendistato poteva essere confermato con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, ed assicurava all'imprenditore tutta una serie di agevolazioni, quali: la riduzione degli oneri contributivi all'INPS per tutto il periodo dell'apprendistato e fino ad un anno dalla scadenza nel caso di conferma del lavoratore; l'inquadramento dell'apprendista fino a due livelli inferiori rispetto a quello della corrispondente qualifica; la non computabilit del lavoratore nell'organico dell'impresa ai fini delle norme applicabili in base, appunto, al numero dei dipendenti. La stipula di contratti di apprendistato era subordinata all'autorizzazione della Direzione provinciale del lavoro ed il suo svolgimento era assoggettato ad una forma di controllo di verifica della effettivit della formazione e della legittimit dell'erogazione dei previsti benefici.

La riforma dell'istituto avvenuta col d.lgs. n. 276 del 2003 che ha abolito la previa autorizzazione ma nel resto da ritenersi norma di indirizzo per le Regioni cui demandata la relativa attuazione. Il decreto prevede 3 diverse tipologie di contratti di apprendistato: a) il contratto di apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, di durata non superiore a 3 anni, riservato ai giovani di et non inferiore ai 15 anni, finalizzato a consentire al lavoratore di completare il corso di studi obbligatorio; b) il contratto di apprendistato professionalizzante, riservato ai giovani di et compresa tra i 18 ed i 29 anni, finalizzato al conseguimento di una preparazione professionale specifica, di durata non inferiore a 2 e non superiore a 6 anni; c) il contratto di apprendistato per l'acquisirono di un diploma o per percorsi di alta formazione, la cui disciplina demandata alla contrattazione collettiva.

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Il contratto di apprendistato , dunque, una sorta di contratto a termine che pu trasformarsi, alla scadenza, in un contratto a tempo indeterminato. Il suo svolgimento resta regolato dalle stesse norme valevoli per il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; alla sua scadenza il datore di lavoro pu confermare l'apprendista convertendo il suo contratto in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Per il contratto di apprendistato prevista la forma scritta e la violazione delle norme che disciplinano l'istituto espone l'imprenditore a sanzioni di tutto rilievo: infatti, al di l delle rivendicazioni del lavoratore, che pu chiedere ed ottenere - con sentenza il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, l'INPS pu agire per il recupero delle contribuzioni non versate.

3. Il contratto di inserimento.
Il contratto di inserimento, di cui all'art. 54 e seguenti del d.lgs. n. 276 del 2003, ha sostituito il contratto di formazione e lavoro con un'importante novit: esso, infatti, non pi riservato esclusivamente ai giovani di et compresa tra i 18 ed i 29 anni bens anche ad altri soggetti che lo stesso art. 54 qualifica, insieme ai primi, "lavoratori disagiati", e cio: i disoccupati di lunga durata; gli ultracinquantenni privi del posto di lavoro; le donne residenti in aree geografiche nelle quali il tasso di occupazione femminile inferiore di almeno il 20% rispetto a quello maschile ovvero il tasso di disoccupazione femminile superiore a quello maschile di almeno il 10%; le persone riconosciute affette da grave handicap. Ai sensi dell'art. 54 del decreto, il contratto di inserimento "un contratto di lavoro diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, l'inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro" delle categorie di lavoratori svantaggiati ivi individuate.

La durata del contratto di inserimento, per il quale prevista la forma scritta, non inferiore a 9 e non superiore a 18 mesi. Esso prevede, quindi, un piano di adattamento individuale o, meglio, di adattamento delle potenzialit professionali del lavoratore a quel determinato contesto lavorativo, s da consentirne un recupero attivo, e alla scadenza pu essere convertito in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Col contratto di inserimento l'imprenditore fruisce, per lo pi, delle stesse agevolazioni contributive (sgravi), retributive (sottoinquadramento del lavoratore) e normative (con computabilit del lavoratore nell'organico dell'impresa) previste per i contratti di apprendistato.

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CAPITOLO XXXII Il Licenziamento Individuale


1. Premessa.
Il licenziamento del lavoratore consiste, in pratica, nella risoluzione del rapporto contrattuale. Ci nonostante il relativo istituto ha una disciplina specifica e non ricade in quello generale di risoluzione dei rapporti contrattuali, in quanto il rapporto di lavoro caratterizzato da una serie di diritti del lavoratore in relazione ai quali lo stesso gode di una particolare tutela che non pu essere annullata, con un colpo solo, attraverso il licenziamento.

2. Dal recesso ad nutum al principio del giustificato motivo.

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La risolvibilit del rapporto di lavoro, alla stregua di un qualsiasi rapporto contrattuale, prevista dall'ari. 2118 c.c. che, allo stato, trova residuale applicazione solo nel caso delle dimissioni, ossia di risoluzione del rapporto di lavoro per decisione del prestatore di lavoro. La norma codicistica, rimasta valida fino all'entrata in vigore della legge n. 604 del 1966, poneva il datore di lavoro ed il lavoratore sostanzialmente sullo stesso piano, al pari di un qualsiasi altro rapporto contrattuale, di tal che il datore di lavoro poteva risolvere il rapporto - ma ci poteva farlo anche il lavoratore - senza dover dare alcuna giustificazione della sua decisione in tal senso; il recedente, indistintamente, aveva solo l'obbligo di comunicare la sua decisione con un certo preavviso rispetto alla decorrenza della risoluzione del rapporto e, in mancanza, di corrispondere all'altro lammontare della retribuzione corrispondente a tale periodo. I termini di preavviso trovarono una definizione nella regola cosiddetta degli "8 giorni", ossia di una settimana, che dovevano servire al lavoratore per trovare un'altra occupazione e, dall'altro lato, al datore di lavoro per provvedere alla sostituzione del lavoratore dimissionario. Tali termini sono stati dilatati dalla contrattazione collettiva che, peraltro, prevede una maggior durata del preavviso a carico del datore di lavoro. L'art. 2119 c.c. prevede ancora, invece, la risoluzione del rapporto di lavoro senza preavviso in presenza di una giusta causa, e cio in di una circostanza talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. La disciplina in materia stata rivoluzionata dalla legge n. 604 del 1966, introduttiva del principio della obbligatoriet di un "giustificato motivo" a sostegno del licenziamento, in mancanza del quale esso nullo ed il lavoratore ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro; quest'ultima normativa stata integrata dall'art. 18 dello Statuto, che ha disciplinato le modalit di esercizio del diritto alla reintegra o, in mancanza, al risarcimento. A seguito della nuova disciplina il licenziamento legittimo solo in presenza di un giustificato motivo riconducibile a ragioni soggettive, riconducibili ad inadempienze del lavoratore tali da determinare azioni disciplinari (giustificato motivo soggettivo), e non solo in presenza di fatti o comportamenti di gravita tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro (cosiddetto licenziamento "in tronco") e da esonerare altres dallobbligo del preavviso.

3. La forma del licenziamento.


Il giustificato motivo, costituente presupposto necessario per il licenziamento, porta con s' la forma per esso richiesta che, ai fini della verifica della esistenza o meno di tali motivi, deve essere scritta. Normalmente i motivi del licenziamento vengono comunicati insieme ad esso e, tuttavia, ci non obbligatorio, salvo che il licenziamento non costituisca la fase finale del procedimento disciplinare il quale, iniziando con la contestazione scritta, gi rende nota l'inadempienza contrattuale causa del successivo licenziamento. Quando i morivi del licenziamento - non disciplinare - non vengono comunicati, il lavoratore pu fame richiesta entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento ed il datore di lavoro deve dargliene notizia nei 7 giorni successivi. In mancanza il licenziamento inefficace e il lavoratore ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro.

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Si distinguono 2 tipi di Licenziamento: Per Ragioni Soggettive e Per Ragioni Oggettive. Entrambi sono disciplinati dalla L.604/1966.

4. Licenziamento per Ragioni Soggettive


Il Licenziamento per Ragioni Soggettive quello che fa riferimento alla condotta del lavoratore. Esso detto anche Licenziamento Disciplinare, visto che per irrogarlo occorre rispettare la procedura per le sanzioni disciplinari prevista all'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, per cui occorre prima contestare l'addebito, garantire al lavoratore il diritto di difendersi entro cinque giorni, e poi arrivare, se il caso, all'irrogazione del licenziamento. Ne distinguiamo 2 tipi: a) Licenziamenti per Giustificato Motivo Soggettivo: trovano il loro fondamento e cio il loro giustificato motivo, nellinadempimento contrattuale da parte del lavoratore. Linadempimento che da luogo al licenziamento deve essere "notevole", ossia di gravit tale da determinare tale forma di risoluzione del rapporto di lavoro. Se la violazione non notevole, evidentemente, si tratter pur sempre di un inadempimento, ma il lavoratore che l'ha commessa sar al massimo passibile di una sanzione disciplinare minore (es. la sospensione). La gravit del comportamento e la relativa sanzione definita dalla contrattazione collettiva, atteso che a tale fonte normativa demandata la definizione del codice disciplinare. b) Licenziamenti per Giusta Causa: la Giusta Causa costituisce unaggravante del Giustificato Motivo Soggettivo; infatti in questo caso linadempimento deve essere notevolissimo visto che comprende comportamenti di assoluta, totale e irrecuperabile gravit, tali da comportare l'estromissione immediata del lavoratore dall'azienda, fermo il rispetto della procedura ex art. 7 dello Statuto dei lavoratori. La giurisprudenza, lavorando sul concetto di giusta causa, ha aggiunto che possano configurare giusta causa anche fatti molto gravi che non costituiscono inadempimento contrattuale, ma che, per le caratteristiche oggettive che hanno in termini di gravita e per il particolare grado di colpevolezza soggettiva, rappresentano una lesione definitiva di quell'elemento di fiducia che la base del rapporto di lavoro. Questo significa che nel concetto di giusta causa possono rientrare, oltre agli inadempimenti gravissimi, anche fatti formalmente estranei al concetto di inadempimento (e quindi estranei agli obblighi contrattuali) e come tali attinenti alla vita privata del lavoratore, che per, per la loro gravita, hanno una ricaduta negativa sul rapporto (ad es. la commissione di gravi reati da parte del lavoratore). I casi pi frequenti (in giurisprudenza) concernono settori come quello bancario, dove l'attivit ha certe caratteristiche di affidamento verso il pubblico: chiaro che se un cassiere o un vicedirettore di filiale viene condannato per spaccio di sostanze stupefacenti, o addirittura per reati attinenti al patrimonio (anche se non relativi alla banca), la base fiduciaria del rapporto pu considerarsi irrimediabilmente lesa. Ai sensi dell'alt. 5 della legge n. 604 del 1966, la prova dell'inadempimento a carico del datore di lavoro.

5. Licenziamento per Ragioni Oggettive. 115

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo prescinde dalla Condotta riprovevole del lavoratore essendo invece collegato a situazioni o scelte aziendali. La legge n. 604 del 1966 individua infatti quale giustificato motivo oggettivo del licenziamento quello sorretto da ragioni inerenti all'attivit produttiva, allorganizzazione del lavoro ed al regolare svolgimento di essa". In pratica ogni mutamento organizzativo stabilito dall'imprenditore nell'ambito della sua autonomia organizzativa pu costituire giustificato motivo di licenziamento: dalla chiusura di un reparto dell'azienda alla diversa organizzazione tecnologica di una determinata lavorazione nonch la sopravvenuta non idoneit del lavoratore ad una determinata mansione. In buona sostanza un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ogni situazione di non utilizzabilit del lavoratore. Ovviamente il giudice non pu sindacare le decisioni dell'imprenditore dalle quali deriva il licenziamento; se ci fosse possibile, il giudice finirebbe per sovrapporsi all'imprenditore, invadendo la sua sfera di libert, che garantita anche costituzionalmente dall'art.47 comma 1 (libert di iniziativa economica). Il compromesso che la giurisprudenza ha trovato, il seguente; a) il giudice potr e dovr verificare, in primo luogo, la veridicit della ragione addotta. Se dico che ho chiuso un ufficio e poi magari questo non vero, ma ho solo tolto qualche scrivania oppure ne ho chiuso solo una parte, evidente che la valutazione del giudice sar negativa; b) il giudice potr e dovr verificare, in secondo luogo, se da quella ragione dipeso il licenziamento di quel lavoratore, cio se esiste un nesso di causalit tra la premessa e la conseguenza. Se affermo di aver chiuso un ufficio, e poi licenzio una persona che non lavorava in questo ufficio, evidente che il nesso di causalit manca; cos come potr mancare anche se quella persona era stata strumentalmente inserita in quell'ufficio il giorno prima della sua chiusura; c) il giudice potr e dovr verificare, infine, che il datore di lavoro abbia provato l'impossibilit di utilizzare il lavoratore in un'altra mansione: ci significa che il licenziamento deve rappresentare l'extrema ratio.

6. Il regime sanzionatorio: la tutela obbligatoria e la tutela reale.


Il licenziamento attuato in assenza di un giustificato motivo determina l'illegittimit dello stesso ed impone la conseguente riparazione a favore del lavoratore che, in tal caso, gode in un particolare regime di tutela. All'illegittimit del licenziamento segue la sanzionabilit dello stesso in termini obbligatori od anche in termini reali. Dunque, occorre distinguere 2 tipi di tutela: a) Tutela Obbligatoria: tale regime sanzionatorio disciplinato dallart.8 della L.604/1966 (modificato dalla L.108/1990). Si applica alle Imprese da 1 a max 15 dipendenti, nonch alle cosiddette Organizzazioni di Tendenza, quali quelle politiche, nell'ambito delle quali un atteggiamento del lavoratore contrario alla tendenza dell'organizzazione di per s sintomatico di una situazione di incompatibilit che non consente la prosecuzione

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del rapporto di lavoro e deve perdo escludere l'ipotesi di reintegra del lavoratore. In questo caso, la riassunzione in servizio pu essere sostituita, a scelta dell'imprenditore, dal pagamento di una penale risarcitoria pari ad un numero di mensilit di stipendio da 2,5 fino a 6, a seconda dei casi; nel caso di riassunzione in servizio il lavoratore non ha diritto ad emolumenti arretrati e il rapporto di lavoro viene costituito ex novo, senza alcun collegamento con quello a suo tempo interrotto col licenziamento. Pertanto, in sostanza, il datore di lavoro, pagando un importo a titolo di penale risarcitoria, fa s che il licenziamento, pur non giustificato, sia comunque produttivo di effetti. Ottiene, cio, quello che era il suo vero scopo: risolvere il rapporto con il lavoratore. Tanto pi che la scelta tra le due opzioni sanzionatorie spetta interamente al medesimo datore. Si parla di tutela obbligatoria, infatti, proprio perch si limita a determinare un "obbligo", alternativo, per il datore di lavoro: nuova assunzione o risarcimento. Il lavoratore non pu condizionare in alcun modo tale decisione. Si tratta di un regime abbastanza debole, nel senso che le cifre che vengono in gioco sono abbastanza modeste; d'altra parte si tratta di piccole imprese. b) Tutela Reale: tale regime sanzionatorio disciplinato dallart.18 dello Statuto (anchesso modificato dalla L.108/1990). Si applica alle imprese che hanno pi di 15 dipendenti nell'ambito del territorio comunale o, comunque, pi di 60 dipendenti a livello nazionale. Prevede il ripristino del rapporto di lavoro a suo tempo interrotto ed il pagamento delle mensilit perdute nel frattempo e, in ogni caso, non meno di 5; il lavoratore, inoltre, pu rinunciare alla reintegra nel posto di lavoro verso il pagamento di 15 mensilit della retribuzione globale di fatto; per leffetto, l'imprenditore che di fatto non reintegri il lavoratore che intende ritornare in servizio tenuto comunque a corrispondergli lo stipendio. Dunque, questa una tutela Reale in quanto comporta la riattribuzione, al lavoratore illegittimamente licenziato, del proprio posto di lavoro. Inoltre una tutela pi forte rispetto a quella Obbligatoria, proprio perch comporta la reviviscenza del rapporto di lavoro, attraverso lannullamento del licenziamento.

7. Il licenziamento discriminatorio.
Il licenziamento discriminatorio quellatto di risoluzione del rapporto di lavoro, dovuto alla attivit e alle idee del dipendente espresse dentro o al di fuori dell'ambiente di lavoro. Dunque, quello derivante dalle situazioni contemplate dai decreti legislativi n. 215 e n. 216 del 2003 (Motivi di Discriminazione) e prescinde dall'esistenza o, meno di un giustificato motivo. Infatti, affermare che un licenziamento discriminatorio pi che ritenerlo semplicemente "non giustificato": un licenziamento pu essere non giustificato, ma non per questo essere discriminatorio, Pertanto, la natura discriminatoria del licenziamento dovr essere provata in positivo, e questa volta da parte del lavoratore, di solito attraverso indizi e presunzioni; fatto salvo il ricorrere delle condizioni per la parziale inversione dell'onere della prova prevista dalla normativa anti-discriminatoria nei casi di discriminazione indiretta.

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8. Le ipotesi di recesso ad nutum del datore di lavoro.


L'art. 2118 c.c. non stato del tutto sostituito dalla speciale normativa protettiva del licenziamento e trova residuale applicazione nei confronti dei lavoratori appartenenti alle seguenti 4 categorie: a) dirigenti, per i quali prevista una tutela economica, in caso di licenziamento non giustificato, da parte dei contratti collettivi di categoria, che garantisce agli stessi un'adeguata protezione, pur non consentendo loro di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro; b) lavoratori domestici; c) lavoratori ultrasessantenni aventi diritto a pensione; d) lavoratori che non hanno superato il periodo di prova; questi possono impugnare il licenziamento per "abuso" del diritto di recesso asserendo che il datore di lavoro non li ha messi in condizione di effettuare la prova nelle mansioni per le quali erano stati assunti, o per un tempo sufficiente. Ma, anche ove tale impugnazione sia vittoriosa in giudizio, il lavoratore non pu comunque richiedere l'applicazione dell'art. 8 legge n.604/1966, e, soprattutto, dell'art. 18, bens soltanto domandare il risarcimento del danno, in una misura da stabilire. Queste quattro categorie sono comunque protette nel caso di licenziamento discriminatorio.

CAPITOLO XXXIII Crisi dellImpresa ed Eccedenze di Personale


1. La crisi dellImpresa.
Quando un'azienda entra in crisi, subendo un calo dei profitti, difficilmente i rimedi dell'imprenditore lasciano indenne il personale. Allo stato di crisi corrisponde, infatti, un calo della produzione e, correlativamente, un esubero di personale del quale limprenditore cerca di liberarsi per non sostenere la relativa spesa. In tale ipotesi sono 3 le soluzioni cui pu farsi ricorso, due estreme ed una intermedia che richiede l'intervento dello Stato, e cio: a) il riassorbimento degli esuberi mediante reimpiego in altre attivit;

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b) la sospensione assistita del rapporto di lavoro o la sua risoluzione incentivata; c) i licenziamenti collettivi.
Il sindacato, chiamato a partecipare alle relative decisioni in fase consultiva, propende per la prima soluzione mentre limprenditore propende per la terza. Lo Stato invece interviene in relazione alla ripercussione sociale della crisi aziendale.

2. La cassa integrazione guadagni e i contratti di solidariet difensivi.


Il sistema di riassorbimento delle eccedenze di personale maggiormente diffuso quello della cassa integrazione guadagni ordinaria (GIGO) e speciale (CIGS), attraverso il quale limprenditore sospende il rapporto di lavoro (cassa integrazione a zero ore) o ne riduce la durata per un determinato periodo; la cassa integrazione a zero ore , in genere, lanticamera del licenziamento collettivo che interviene al termine del relativo periodo se la situazione aziendale non torma ai livelli precedenti. La cassa integrazione, ossia il collocamento in cassa integrazione di tutti i lavoratori o parte di essi, deve essere previamente autorizzata. Quando la cassa integrazione riguarda una parte soltanto dei lavoratori dell'azienda, la norma prevede l'attuazione di meccanismi secondo i quali ci avvenga a rotazione e cio senza penalizzare soltanto una parte dei i lavoratori; ove ci non sia possibile, limprenditore deve darne conto in sede di consultazione con le organizzazioni sindacali. La cassa integrazione ordinaria concessa dallINPS alle piccole imprese ed di breve durata, essendo essa riferita a periodi di crisi di lieve entit; quella straordinaria invece autorizzata dal Ministero del lavoro ad imprese con pi di 15 dipendenti, nei casi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale o in presenza di gravi periodi di crisi e la sua durata pu protrarsi fino a 3 anni. Il regime di cassa integrazione consente il mantenimento in vita del rapporto di lavoro pur in assenza di pressione lavorativa e di corrispondente retribuzione. Il lavoratore che viene collocato in cassa integrazione percepisce, per tutta la sua durata, un'indennit - a carico dell'INPS - non superiore all80% dell'ultima retribuzione. La cassa integrazione dovrebbe essere concessa in presenza di situazioni di crisi reversibili ma spessa si trasforma in un intervento di tipo assistenziale in quanto la situazione di crisi e destinata a concludersi con il licenziamento collettivo. Una forma particolare di cassa integrazione sono i cosiddetti contratti di solidariet stipulati a livello aziendale, che normalmente presuppongono una generalizzata riduzione dell'orario di lavoro, con pari riduzione della retribuzione, tale da evitare il collocamento in cassa integrazione di una parte dei lavoratori. La met delle retribuzioni non corrisposte per effetto della riduzione dell'orario di lavoro viene poi restituita ai lavoratori in forma di indennit erogata dall'INPS previa autorizzazione dal Ministero del lavoro.

3. Gli strumenti di risoluzione indolore dei rapporti di lavoro.


Gli strumenti pi utilizzati per risolvere in modo indolore le eccedenze di personale, ossia in modo consensuale, sono sostanzialmente due:

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le dimissioni incentivate, che danno luogo alla corresponsione di un incentivo a favore di chi risolva volontariamente il rapporto di lavoro; l'incentivo di volta in volta contrattato e l'onere a carico dell'imprenditore; il prepensionamento, raramente stabilito con legge, che consente l'accesso a pensione con requisiti minori rispetto a quelli normalmente richiesti; il relativo onere cade a carico dello Stato.

4. I licenziamenti collettivi e la mobilit.


I licenziamenti collettivi rappresentano le soluzioni estreme e talvolta conflittuali per risolvere le eccedenze di personale. Dal punto di vista pratico il licenziamento collettivo non altro che una pluralit di licenziamenti individuali per ragioni oggettive, essendo esso ammesso in presenza delle stesse circostanze; ci nonostante il relativo procedimento, attese le sue ripercussioni sociali, ora oggetto di una specifica disciplina tardivamente adottata in attuazione di una direttiva comunitaria del 1975. La legge regolante i licenziamenti collettivi la n. 223 del 1991 che ha previsto qualcosa in pi rispetto a quanto stabilito dalla direttiva comunitaria; essa, infatti, oltre a disciplinare l'istituto del licenziamento collettivo, sostanzialmente per quanto attiene agli aspetti procedurali, ha altres istituito le liste di mobilit che danno al lavoratore una tutela ulteriore caratterizzata dallattribuzione di un'indennit e dalla precedenza nell'accesso ad una nuova occupazione per tutto il periodo di permanenza in tali liste. Il lavoratore interessato da un licenziamento collettivo, in altre parole, pur risolvendo immediatamente il rapporto di lavoro non resta immediatamente del tutto privo di forme di sostegno economico e inoltre gode di maggiori prospettive di occupazione rispetto ad un normale disoccupato. La procedura di legge si applica, innanzitutto, soltanto alle aziende con pi di 15 dipendenti che abbiano effettuato o programmato il licenziamento di almeno 5 unit in un arco temporale di 120 giorni.

La relativa procedura prevede la previa comunicazione alle associazioni ed alle rappresentanze sindacali di tutti gli elementi riguardanti l'operazione, e cio: i motivi determinanti la situazione di eccedenza di personale; l'impossibilit di ricollocare i lavoratori in esubero; il numero ed i profili professionali dei lavoratori da licenziare. Avuta l'informazione, i sindacati possono avviare la fase della consultazione, in tal modo partecipando alle decisioni dell'imprenditore ma verificando innanzitutto la presenza delle condizioni richieste. La fase della consultazione altres finalizzata ad un accordo attraverso il quale sia scongiurata o quanto meno limitata la soluzione estrema del licenziamento collettivo, anche attraverso il ricorso alla cassa integrazione o ai contratti di solidariet. L'eventuale accordo deve concludersi nei successivi 45 giorni, in sede, od anche nell'ulteriore periodo di 30 giorni ma in tal caso davanti alla Direziono provinciale del lavoro.

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In occasione dei licenziamenti collettivi l'imprenditore deve corrispondere ai lavoratori licenziati l'equivalente di 9 mensilit che si riducono a 6 quando il licenziamento avviene al termine del periodo di cassa integrazione. Quando invece si raggiunge un accordo sindacale per effetto del quale il programma di licenziamento viene modificato, le mensilit che l'imprenditore deve corrispondere ai lavoratori licenziati si riducono a 3. In mancanza di validi criteri previamente stabiliti dall'imprenditore, la scelta dei lavoratori da licenziare (ponendoli nelle liste di mobilit) effettuata secondo i criteri di legge, e cio: a) in base alle esigenze tecniche, organizzative e produttive; b) in base all'anzianit di servizio, a discapito del pi giovane; c) in base al carico di famiglia, a discapito del soggetto col minor carico familiare. Il lavoratore posto in mobilit di fatto licenziato, in quanto da quel momento il rapporto di lavoro risolto a tutti gli effetti; la permanenza nelle liste di mobilit dura fino a quando il lavoratore non abbia trovato una nuova occupazione e, comunque, per il periodo massimo di 3 anni. Durante tale periodo egli non resta del tutto privo di protezione, in quanto: a) le imprese che intendono effettuare nuove assunzioni devono innanzitutto attingere dalle liste di mobilit, sicch il lavoratore licenziato fruisce di una sorta di precedenza rispetto al un normale disoccupato; b) per tutto il periodo di permanenza nelle liste di mobilit il lavoratore gode di un'indennit pari all'80% della cassa integrazione (a sua volta gi pari all80% dell'ultima retribuzione) che viene erogata dallINPS.

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