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I disastri climatici sono in rapido aumento in tutto il mondo. A causa del riscaldamento del pianeta,
la frequenza e la violenza degli eventi estremi aumenta e mette a dura prova infrastrutture e
opere civili.
Il tema è stato discusso alla conferenza di Poznan sui cambiamenti climatici Lo studio che
certifica l’impennata delle perdite economiche associate ai disastri climatici è stato condotto in
collaborazione fra l’UNEP (United Nations Environment Programme), il programma
ambientale delle Nazioni Unite, e Munich Re, un colosso delle assicurazioni internazionali.
Se i danni e le vittime provocati dai terremoti sono aumentati del 50%, quelli causati da cicloni, alluvioni e
inondazioni sono aumentati del 350% . Il 2008, viene precisato nel rapporto, è stato in assoluto il
secondo anno più gravoso per il sistema assicurativo internazionale dopo il 2005, l’anno in cui la città di New
Orleans e molte altre zone degli Stati Uniti furono investite dalla furia dell’ uragano Katrina, con
perdite economiche di oltre 220 miliardi di dollari. Il 2008 ha conosciuto un altro evento simile, il ciclone
Nargis che ha colpito il Myanmar (Asia), provocando 84.500 vittime.
Anche se focalizzate sul fronte economico, le conclusioni del rapporto UNEP-Munich Re, sono in linea con
quanto previsto nell’ ultimo rapporto scientifico dell’IPCC ( Intergovernmental Panel on
Climate Change), il comitato scientifico sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite: l’inasprirsi
degli eventi estremi è palese e richiede urgenti misure di adattamento e difesa in quasi tutti i Paesi del
mondo, con una particolare attenzione a quelli più vulnerabili e popolosi delle fasce tropicali.
La crisi finanziaria e l’impennata globale dei prezzi dei generi alimentari ha aggiunto altri 40 milioni di
persone che soffrono la fame. In totale, sono circa 1 miliardo le persone denutrite in
tutto il mondo (quasi tutte nei paesi in via di sviluppo), precisamente 963 milioni.
È quanto afferma «Lo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo 2008» (“ The state of food
insecurity in the world”- SOFI), il rapporto pubblicato dalla FAO che riporta i dati del 2007,
aggiornati dall'agenzia ONU agli ultimi mesi di quest'anno. Popolazione numerosa e progressi relativamente
lenti nella riduzione della fame fanno sì che circa due terzi di coloro che soffrono la fame vivano in Asia (583
milioni nel 2007). Nell’Africa sub-sahariana una persona su tre – circa 236 milioni nel 2007 – è cronicamente
affamata. Il grosso di questo aumento si è registrato nella Repubblica democratica del Congo, in
conseguenza della persistente situazione di conflitto.
«L’attuale crisi finanziaria ed economica – avverte l’agenzia dell’ONU – potrebbe far lievitare ulteriormente
questa cifra». Secondo il rapporto, anche se i prezzi sono calati dall’inizio dell’anno (come quelli dei principali
cereali, calati di oltre il 50%), «la crisi alimentare di molti paesi poveri non è affatto finita», ha
dichiarato il vicedirettore generale della FAO Hafez Ghanem.
Alla base del «drammatico quanto rapido» aumento del numero di affamati cronici c'è l' impennata
dei prezzi delle materie prime agricole. «I prezzi dei principali cereali - si legge nel rapporto - sono
calati di oltre il 50%o rispetto al picco raggiunto agli inizi del 2008 ma rimangono più alti del 20% rispetto
all'ottobre 2006». «Bambini, donne in gravidanza e in allattamento sono molto a rischio - ha detto il direttore
generale della Fao, Jaques Diouf - i disordini civili che si sono già verificati nei Paesi in via di sviluppo sono il
segnale della disperazione causata dall'aumento dei prezzi alimentari. Gli effetti della crisi saranno più
devastanti tra i poveri delle aree urbane e le donne-capo famiglia».
La peggiore situazione si registra nell'Africa sub-sahariana, dove una persona su tre, vale a dire
circa 236 milioni, soffre cronicamente la fame.
Ecoflation
“ ”, ecoflazione. Il termine è stato coniato per definire i risultati dello studio di un’azienda di
consulenza manageriale che indicano nei cambiamenti climatici le cause dell’aumento di prezzo di numerosi
beni di consumo.
Ad esempio, i produttori di beni di immediato consumo, dai cereali allo shampoo, potrebbero assistere
impotenti alla riduzione dei loro guadagni dal 13 al 31% fino al 2013, e addirittura dal 19 al 47% entro il 2018.
Questa ultima ipotesi si verificherebbe se non fossero prese le adeguate contro-misure, ovvero l’adozione di
modalità di produzione sostenibili, compatibili con gli equilibri ambientali.
“Icosti del riscaldamento globale si stanno manifestando ora – dice Andrew Aulisi, un
membro dell’istituto – con fenomeni come le come ondate di calura, la siccità, gli incendi, le sempre più
violente tempeste tropicali, ma non si riflettono ancora sui prezzi al consumo, per il momento sono i governi
e la società a pagarne le spese”.
Per Aulisi, le cose potrebbero migliorare “se il presidente eletto Barack Obama e il Congresso degli Stati
Uniti facessero pressioni per un sistema di tariffe sulle emissioni di diossido di carbonio”. Anche se è
improbabile che questo possa succedere prima del termine ultimo, fissato al dicembre 2009, per il
raggiungimento di un accordo mondiale sulla lotta al cambiamento climatico.
Meno di due gradi Celsius in più potrebbero essere sufficienti per provocare lo
scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia e del mare artico, avverte il WWF. E, di conseguenza, i
livelli globali dei mari si alzerebbero di alcuni metri, minacciando decine di milioni di persone
in tutto il mondo.
Kim Carstensen, responsabile della WWF Global Climate Initiative, ha detto a Poznan: "Lo
scioglimento dei ghiacci in Artico e in Groenlandia provocherà presto dei pericolosi feedbacks
accelerando e rafforzando il riscaldamento molto più di quanto previsto. Non possiamo più perdere neanche
un secondo, occorre subito sviluppare delle strategie per affrontare il problema”.
Secondo dati raccolti in India dalla Jawaharlal Nehru University, i ghiacciai dell'Himalaya si
stanno ritirando più velocemente di quelli alpini e del Polo Nord. Potrebbero sparire entro il
2035.
Se si tolgono dal conto le calotte polari, insieme a quelli del vicino Tibet i ghiacciai himalayani costituiscono
la maggior parte delle riserve di ghiaccio – cioè di acqua dolce - presenti sul pianeta.
The Tribune, riprendendo l'allarme dell'università indiana, ricorda che dai ghiacciai himalayani
dipendono i grandi fiumi dell'Asia - Indo, Gange, Bramaputra, Mekong, Yangtze - e che
rappresentano la principale fonte d'acqua dolce per gli uomini e per l'intero ecosistema.
Lo scioglimento dei ghiacciai himalayani già ha avuto delle ripercussioni sulla portata di questi fiumi, con
effetti sulla biodiversità e sulla vita delle popolazioni locali.
“Two degree rise could spark Greenland ice sheet meltdown: WWF”, terradaily, 26 novembre 2008
Un giornalista del Belfast Telegraph ha viaggiato in Bangladesh fra le persone che stanno perdendo
raccolti e la possibilità di dissetarsi ai pozzi a causa della risalita dell'acqua salata.
Il Bangladesh si trova fra i ghiacci dell'Himalaya che si sciolgono e l’oceano che cresce di livello. L'isola più
grande del Bangladesh, Bhola, ha perso metà della superficie negli ultimi dieci
anni, inghiottita dal mare. I grandi fiumi - Gange, Brahmaputra - sono gonfi e tumultuosi per lo
scioglimento dei ghiacciai: l'erosione sta aumentando del 40%.
La temperatura è cresciuta costantemente, negli ultimi quarant'anni, nel Golfo del Bengala e gli
uragani sono diventati del 39% più frequenti e più violenti: il 2007 è stato
l'anno record. Le inondazioni provenienti dal mare si sono triplicate negli ultimi vent'anni, e rendono sterile la
terra.
Il Belfast Telegraph ha anche un'intervista con un climatologo locale, Atiq Rahman, convinto che le previsioni
dell’IPCC sull'innalzamento dei mari siamo sottostimate. “Quando i bambini che nascono ora saranno
vecchi”, sostiene, “il 70-80% del Bangladesh, compresa la capitale Dacca, non avrà più l'aspetto attuale e
non sarà più terra da abitare”.
“Bangladesh set to disappear under the waves by the end of the century”, Belfast Telegraph, 20 giugno 2008
Una situazione ingovernabile con gli attuali strumenti quella che emerge dalle proiezioni che, secondo l
´UNHCR si basano «su stime ottimistiche , secondo le quali il cambiamento climatico potrebbe
forzare tra i 200 e i 250 milioni di individui a lasciare le loro case entro il 2050».
Intervenendo alla conferenza di Poznan, l´Alto Commissario ONU per i rifugiati, L. Craig Johnstone, ha
spiegato che «le agenzie umanitarie dovranno aiutare 3 milioni di rifugiati climatici all´anno a sfollare per
catastrofi naturali improvvise e si ritroveranno quindi spesso senza risorse dall´oggi al domani».
Gli altri 3 milioni di rifugiati climatici saranno se possibile ancora più problematici: la loro sarà una migrazione
forzata verso altre terre causata da cambiamenti ambientali progressivi come l´innalzamento del livello del
mare e la desertificazione totale.
Secondo i dati forniti dall´UNHCR, nel 2007, nel mondo c´erano 67 milioni di profughi , 25 milioni
dei quali a causa di catastrofi naturali. Secondo Johnstone, «le politiche messe in campo per limitare le
emissioni di gas serra e per adattarsi ai cambiamenti climatici non saranno sufficienti a prevenire le catastrofi
o i conflitti che si innescheranno attorno alle risorse ed alla loro penuria, che colpiranno più duramente le
popolazioni dei Paesi poveri».
La mappa dell´instabilità mondiale futura ricalca ed amplia quella attuale: tempeste devastanti nelle regioni
costiere dell´Asia e dei Caraibi, mentre inondazioni più frequenti e siccità colpiranno sempre più Africa, Asia
e America latina. Secondo Johnstone, «le agenzie umanitarie dovranno moltiplicare per 10 o
20 le loro riserve (di cibo, di medicinali, d´acqua e beni primari) disponibili come stock per le urgenze».
“UN says climate change may uproot 6 mln annually”, Reuters, 8 dicembre 2008
Fumo e smog, cocktail micidiale per l’umanità. Ogni anno muoiono nel mondo 60 milioni di
persone, la maggior parte (35 milioni) a causa di malattie croniche complesse a carico
dell’apparato cardiovascolare e respiratorio, tumori, e malattie metaboliche.
Più di600 milioni di persone nel mondo sono affette da BPCO: il 4-6% della popolazione. Il 4,5
in Italia, che sale al 10 considerando i soli adulti: 2,6 milioni i malati, 18 mila i morti ogni anno. Quattro milioni
nel mondo.
Secondo l’OMS, nel 2020 la BPCO sarà la terza causa di morte , con 20-30 milioni di vittime.
Nonostante l’allarme, il 75% dei pazienti affetti da BPCO non è diagnosticato. In Italia, inoltre, si contano
ogni anno circa 130 mila ricoveri ospedalieri con una degenza media di circa dieci giorni e le
persone in ossigenoterapia indotta da BPCO sono circa 30 mila. Dopo un po’ che compare la malattia arriva
la disabilità e la bombola d’ossigeno, portatile o fissa che sia.
«Non esistono piani sanitari di prevenzione nonostante l’allerta dell’OMS - dicono Andrea Rossi (Bergamo) e
Giuseppe Di Maria (Catania), specialisti in malattie respiratorie - basterebbe fare prevenzione e trattare
precocemente i colpiti per ridurre ricoveri, ossigenoterapia, disabilità».
La malattia è in aumento, anche a livello mondiale, soprattutto nei bambini e nei giovani. L’incidenza
dell’asma infantile in Italia è del 9,5% nei bambini e del 10,4% negli adolescenti. Francesco Forastiere,
Un bambino italiano su dieci soffre d’asma bronchiale
epidemiologo dell’Asl Roma E, dice: «
e un adulto su dieci soffre di BPCO. Che si fa per ridurre questi numeri?». L’ Associazione
Italiana Pazienti con BPCO (una Onlus) da anni si batte per il riconoscimento dell’impatto
sociale della malattia. «Siamo ancora in attesa che il ministero del Welfare la riconosca come malattia
cronica e invalidante, cosa che consentirebbe la gratuità di alcune prestazioni essenziali per il controllo della
malattia», protesta la presidentessa Mariadelaide Franchi.
«La prevenzione resta l’arma migliore per combattere i danni ai nostri polmoni - dice Leonardo Fabbri,
università di Modena, presidente uscente della Società Europea delle Malattie
Polmonari - e anche se la nostra legge antifumo è universalmente riconosciuta fra le migliori (lo ha
sottolineato anche il miliardario sindaco di New York Michael Bloomberg intervenuto a Berlino) il lavoro è
ancora lungo. Restano ancora circa 11 milioni di persone nel nostro Paese dipendenti dal tabacco».
Non è solo il fumo, però. Spesso gli specialisti si trovano di fronte a persone con i polmoni da
fumatori e che in realtà non hanno mai fumato. Ma che hanno la sana abitudine di girare in città a cavallo di
una bici. Sana in campagna, una mina in metropoli.
Secondo lo specialista Giorgio Walter Canonica, specialista in quel di Genova: «Occorre ridefinire diagnosi e
trattamento. Bisogna insistere sulla diagnosi precoce. Una periodica spirometria non costa nulla».
La capacità dei particolati di penetrare le strutture e di essere assorbiti dai tessuti umani è fonte di una
sempre maggiore preoccupazione.
Sarebbe la conferma di studi precedenti condotti dall’esperto di inquinamento Constantinos Sioutas della
USC Viterbi School of Engineering, che è anche co-direttore del Southern California Particle Center.
Per il nuovo studio, Sioutas e colleghi della USC, della University of Wisconsin-Madison e del RIVM (il
National Institute of Health and the Environment dei Paesi Bassi) hanno analizzato il particolato prodotto
dagli incendi del 2007. " Gli incendi producono aerosol di dimensioni più
grandi rispetto al particolato ultrafine prodotto dagli ambienti urbani, specie nelle ore di punta del traffico",
dice Sioutas “anche stare al coperto può non essere sufficiente per proteggersi in assenza di aria
condizionata o di sistemi che facciano ricircolare l’aria filtrata, perché le particelle generate dal fuoco
possono penetrare nelle strutture indoor più facilmente che non le particelle prodotte dalle emissioni degli
autoveicoli, per via delle dimensioni più ridotte”.
Gli incendi producono un mix molto pericoloso . “Servono misure più aggressive come la
distribuzione di maschere, ambienti con aria condizionata e la chiusura delle scuole non sicure”, secondo
Sioutas.
Solo un campione di uva, su 124 prelevati, è privo di residui chimici da pesticidi. È l’allarmante quadro
rivelato dall’indagine realizzata dalle organizzazioni aderenti al Pesticide Action Network e
Greenpeace Germania ( in Italia promossa e curata da Legambiente).
L’analisi, che ha coinvolto i supermercati delle catene Coop, Esselunga, Metro, Lidl e Carrefour in sette
regioni (Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania), nei quali l’uva è stata
prelevata nella settimana compresa tra il 9 e il 16 ottobre, ha permessoe di confrontare i dati raccolti in Italia,
Francia, Olanda, Germania, Ungheria, per un totale di 124 campioni di uva, dei quali 24 prelevati nel nostro
paese.
I risultati complessivi mostrano un solo campione su 124 analizzati privo di
residui chimici; due campioni contaminati da un pesticida e 121 campioni con residui di due o più
principi chimici tra i quali un’uva francese con ben 16 principi attivi. Tra questi, 3 campioni sono risultati
fuorilegge secondo la normativa attuale.
Sarebbero stati ben 37 se l’indagine fosse stata fatta nel 2005: la famosa «armonizzazione» dei limiti imposti
nei diversi paesi, nei fatti, ha determinato un generale innalzamento dei limiti consentiti.
Tra le catene dei supermercati coinvolti, quelle olandesi ottengono i risultati migliori, i tedeschi quelli peggiori
e l’Italia si attesta più o meno a metà classifica con luci ed ombre. Particolare il caso della catena Lidl, unico
supermercato presente, e quindi preso in considerazione dall’indagine in tutti e 5 i paesi, che mostra una
politica di tipo schizofrenico: attenta in alcuni paesi (Germania e Olanda), lassista in altri, tra cui l’Italia, dove
l’attenzione ai pesticidi risulta evidentemente minore.
Le analisi effettuate sui campioni prelevati in Italia confermano i risultati denunciati da Legambiente ogni
anno con l’indagine « Pesticidi nel Piatto»: nonostante i passi avanti realizzati dalla nostra
campioni contaminati
agricoltura negli ultimi anni, sono ancora troppi i prodotti chimici utilizzati: i
che, seppur quasi sempre al di sotto dei limiti di legge, destano preoccupazione perché presentano diversi
pesticidi.
Delle 24 uva analizzate, tutte risultano contaminate. In totale, 31 sono i principi attivi diversi
trovati, in misura di 6,6 su ogni campione. Nello specifico, sette campioni sono stati etichettati come «non
raccomandabili» e 17 hanno ricevuto l’etichetta di «attenzione». Nessuno ha ricevuto l’etichetta di
«raccomandabile».
I campioni prelevati alla Metro in Italia sono risultati mediamente contaminati (etichetta «attenzione»). Alla
Esselunga invece sono stati acquistati sia il campione col maggior numero di pesticidi (11 in un campione
preso a Milano) che quello segnalato dal laboratorio tedesco incaricato delle analisi dal Pan Europe, per
l’altissima concentrazione della sostanza acrinatrina (4 volte oltre il limite).
Il fatto che solo in un campione di uva prelevato in Italia sia stato rilevato un pesticida (il
carbendazim), compreso tra quelli in via di eliminazione secondo il nuovo regolamento europeo in
discussione in queste settimane a Bruxelles, dimostra l’ipocrisia della tesi sostenuta da Agropharma e
Copa/Cogeca (che raggruppa le associazioni di agricoltori) secondo la quale la messa al bando dei
pesticidi più pericolosi influirebbe significativamente sull’aumento del caro-vita con crescita praticamente
insostenibile dei prezzi dei prodotti ortofrutticoli.
Sommersi da vecchi cavi, monitor in disuso, cellulari inutilizzati, frigoriferi rotti, lavastoviglie
arrugginite, televisori abbandonati.
L’Italia, nel 2006 ha prodotto ben 800 mila tonnellate di RAEE, di cui ne sono state raccolte
108 mila. Nello stesso periodo, in l’Europa ne ha prodotte 8-12 milioni di tonnellate. Mentre l’ONU stima tra
i 20 e i 50 milioni le tonnellate di rifiuti hi-tech prodotti nel mondo: più del 5% di tutti i rifiuti solidi
urbani generati nell’intero pianeta.
A farla da padrone, in futuro, saranno sempre più computer, tastiere, cellulari, che vengono consumati
selvaggiamente. Si tratta di un fenomeno inarrestabile. Secondo l'ONU, nei prossimi 5 anni, i paesi in via di
sviluppo triplicheranno la produzione di RAEE.
Greenpeace ha calcolato che nel 2010 saranno oltre 710 milioni i nuovi computer immessi
sul mercato globale (mentre erano 183 milioni nel 2004). Nei paesi industrializzati, la vita media di un
computer è calata dai 6 anni del 1997, ai 2 del 2005. Per non parlare dei cellulari: se nel 2004 ne sono stati
venduti 674 milioni esemplari nel mondo, negli ultimi 12 mesi, solo in Italia ne sono stati venduti oltre 20
milioni, per una vita media di 4 mesi. Tanto che in ogni famiglia rimangono abbandonati nei
cassetti dai 2 ai 4 cellulari.
Ma non basta. A questi prodotti vanno infatti aggiunti grandi e piccoli elettrodomestici, apparecchiature di
illuminazione, giocattoli ed apparecchiature per lo sport e per il tempo libero, dispositivi medici e molto altro.
Ma che fine fa questa enorme massa di spazzatura elettronica? Oggi si raccolgono in modo separato
meno di 2 kg di RAEE pro-capite all'anno in Italia, contro una media europea di 5 kg
ed una produzione di rifiuti elettronici di circa 14 kg per abitante.
Greenpeace stima che il 75% dei rifiuti europei seguano " flussi nascosti ". La percentuale sale all'80-
90% nel caso di RAEE prodotti negli Stati Uniti. Scarti che fuggono al controllo delle autorità competenti per
ricomparire come d'incanto in discariche incontrollate in Africa, Ghana in primis, oppure in
riciclatori clandestini in Asia. Dove i lavoratori, spesso bambini, sono esposti ai rischi legati al cocktail
di composti chimici che questi rifiuti contengono e sprigionano quando trattati in modo
rudimentale e senza protezioni.
Sempre secondo Greenpeace, la società più attenta agli aspetti ecologici del proprio prodotto risulta essere
la Nokia, col punteggio, però, di appena 6.9 punti su 10, seguita da Sony Ericsson, Toshiba e Samsung
(5.9). Agli ultimi posti si trovano Nintendo (0,8), Microsoft (2,9), Lenovo (3,7) e Philips (4,1). E in mezzo altri
colossi del calibro di Motorola (5,3), Panasonic (5,1), Acer e Dell (4,7), Hp (4,5), e Apple (4,3).
Da agosto, Banco Informatico si occupa anche di cellulari, non importa che funzionino. Quelli che non
funzionano vengono spediti ad un'azienda belga leader in Europa nel recupero di telefoni cellulari dismessi,
la Ecosol , che ne estrarrà e separerà i metalli riutizzabili. In cambio, il Banco riceverà un contributo
economico non superiore ai 5 euro per ogni pezzo raccolto.
Un'azienda belga, la Brainscape Nv , ha lanciato il sito Brainscape.eu, a cui hanno aderito l'ong
italiana Coopi e quella internazionale Medici senza Frontiere che invitano ad inviare cellulari dismessi.
Brainscape devolverà un contributo economico alle due non-profit per ogni esemplare.
trashware
C’è poi la pratica del “ ”, di recuperare cioè vecchio hardware, mettendo insieme anche pezzi
di computer diversi, e installare software libero sul sistema come il sistema operativo GNU/Linux.
Lasius neglectus ha lo stesso aspetto della comunissima formica nera. Ma è una super
formica, in grado di provocare disastri nei giardini.
L'invasione delle formiche straniere in Gran Bretagna potrebbe risultare una rovina per prati, aiuole e piante.
Non solo: rischia di spazzare via le formiche inglesi, il cui danno al giardinaggio è in proporzione assai
minore.
Da dove venga esattamente, il famelico esercito di minuscoli forestieri, non è chiaro. Secondo una ricerca
finanziata dall'Unione Europea e pubblicata dalla rivista scientifica online Bcm Biology, si tratta di una specie
euroasiatica, originaria della regione del mar Nero. I primi esemplari sono stati individuati nel 1990 a
Budapest: da allora, hanno marciato trionfalmente attraverso l'Europa, fino ad arrivare al canale della Manica
e ad attraversarlo, minacciando anche la verde Inghilterra. Sono guidate dai campi
magnetici creati dalle prese elettriche e sul Continente hanno già causato diversi danni alle centrali
mangiando i cavi.
I ricercatori hanno localizzato colonie di super formiche in quattordici località da un capo all'altro d'Europa,
da Varsavia in Polonia sino a Bayramic in Turchia, così come in Belgio, Francia, Spagna, Germania e anche
in Italia. La diffusione iniziale è probabilmente imputabile a un'involontaria introduzione da parte dell'uomo,
che magari l'ha portata con sé, dentro uno zaino o a bordo di un'automobile, di ritorno da un viaggio nel mar
Nero.
Ed è verosimile che in modo analogo, sfruttando un "passaggio", la micidiale formica sia arrivata in Gran
Bretagna. Di “super-poteri” ne ha in abbondanza: prospera in ambienti urbani, anziché in habitat naturali;
tende ad essere molto aggressiva nei confronti delle specie native, sterminando gli insetti e perfino i ragni
che incontra sul suo cammino; riesce a sopravvivere sottozero, perciò il suo raggio d'azione potrebbe
potenzialmente estendersi dal Giappone fino alle Highlands della Scozia; crea formicai da dieci a cento volte
più grandi della norma; la regina, che non può volare, resta sempre sottoterra, dove intrattiene una vivace
vita sessuale.
L'Europa, conclude il rapporto dei ricercatori, è stata attraversata altre volte da insetti invasivi di ogni genere,
ma a quanto pare mai da una specie come questa.
“INVASION: SUPER INSECTS THAT EAT WIRES”, Daily Star, 4 dicembre 2008
Il processo di acidificazione degli oceani sta procedendo più rapidamente di quanto stimato
finora. Lo sostengono ricercatori dell'Università di Chicago in base ai risultati di uno studio pubblicato su
Proceedings of the National Academy of Sciences.
Secondo la ricerca, l’aumento di acidità è correlato con l’aumento dei livelli atmosferici di CO2, unico
parametro, tra i tanti considerati dai ricercatori, “che mostra un cambiamento costante corrispondente”, ha
detto J. Timothy Wootton, principale autore dello studio.
I ricercatori da molto tempo mettono in guardia sulla possibile correlazione tra l’aumento dei livelli di CO2
atmosferica e l’acidità marina, ma finora non c’erano evidenze scientifiche. Il nuovo studio si è basato su
più di 24.000 misurazioni del pH oceanico nell’arco di otto anni, il primo dettagliato
insieme di dati sulle variazioni del pH marino lungo le coste delle latitudini temperate, che corrispondono siti
più produttivi per l’allevamento di pesci.
Condotto presso l’isola di Tatoosh, situata nell’Oceano Pacifico al largo delle coste dello stato di Washington,
lo studio ha documentato anche le conseguenze del fenomeno su alcune specie marine. “Il numero di
molluschi e di cirripedi è diminuito notevolmente, mentre le popolazioni dotate di un guscio o uno scheletro
costituito da carbonato di calcio, che si scioglie con l’aumento dell’acidità , rischiano di
fare una brutta fine”, ha commentato Catherine Pfister, professoressa associata di Ecologia e Evoluzione,
coautrice dello studio.
L’aumento di acidità dell’oceano potrebbe interferire con molti processi biologici cruciali, danneggiando
seriamente le barriere coralline o la vita dei crostacei.
“Ocean Growing More Acidic Faster Than Once Thought; Increasing Acidity Threatens Sea Life”,
ScienceDaily, 26 novembre 2008
Salmoni, trote, steelhead: tre specie che in California (non solo) rischiano l’estinzione se non si
fornirà loro i giusti habitat.
Sono in tutto venti le specie che rischiano un rapido declino. “I nostri pesci hanno bisogno di acque più
fredde e più pulite per poter sopravvivere”, dice Peter Moyle, professore di Biologia Conservativa alla
University of California di Davis, uno dei maggiori esperti di salmone, “ ma le dighe spesso
bloccano l’accesso. Se perdiamo queste specie si avrà un peggioramento dei fiumi e degli
affluenti”, che costituiscono fonti di acqua potabile per le persone.
Una specie, la trota “bull”, è già scomparsa, a causa delle dighe costruite sul fiume Sacramento e sul
McCloud Reservoir.
Il gruppo The California Trout , che ha commissionato lo studio, chiede al governatore della
California, Arnold Schwarzenegger, che siano presi provvedimenti per fornire ai pesci l’acqua e l’habitat di
cui hanno bisogno.
Una ricerca condotta da scienziati della University of Toronto Scarborough (UTSC), pubblicata su Nature
Geoscience, mostra come il riscaldamento globale sta cambiando la materia organica
dei terreni.
"La terra contiene più del doppio dell’ammontare di carbone presente in atmosfera", dice Myrna J. Simpson,
principale autrice dello studio, professoressa associata di Chimica Ambientale alla UTSC.
I componenti organici sono importanti perché rendono il terreno fertile e in grado di supportare la vita
vegetale. Inoltre, trattengono l’acqua prevenendo l’erosione. I processi naturali di decomposizione forniscono
alle piante e ai microbi la fonte di energia e l’acqua di cui necessitano per crescere.
A tutt’oggi, non si sa ancora molto della composizione molecolare dei terreni. In parte perché, da una
prospettiva chimica, è difficile analizzare tutte le componenti, tra cui batteri, funghi, materiali giovani e vecchi.
Il team della Simpson ha usato una Risonanza Nucleare Magnetica (Nuclear Magnetic
Resonance - NMR) per ottenere una visione dettagliata della struttura molecolare e della reattività.
“Global Warming Is Changing Organic Matter In Soil: Atmosphere Could Change As A Result”,
ScienceDaily, 28 novembre 2008
Lo studio, che si sofferma sugli interventi positivi e strutturali di ogni singola nazione nel campo del
riscaldamento globale, mette in testa il terzetto composto da Svezia, Germania e Francia, in quarta e quinta
posizione, a sorpresa, India e Brasile, e nelle ultime posizioni Arabia Saudita, Canada e USA.
L’Italia - che perde terreno rispetto alla scorso anno in cui si era classificata al 41esimo posto - precede di
poco paesi come la Polonia e la Cina e ha le medesime performance negative del Giappone.
«Una performance disastrosa - sottolinea Legambiente - che rispecchia il cronico ritardo del
nostro Paese nel raggiungimento degli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto». A spingerci così in
basso in questa graduatoria, sono l’assenza di una strategia complessiva per abbattere le emissioni di CO2,
una politica energetica che punta sull’aumento dell’uso del carbone e il deficit nei trasporti a basse emissioni.
A 11 anni dalla firma del Protocollo di Kyoto, l’Italia è uno dei Paesi europei dove i gas serra sono cresciuti
rispetto ai livelli del 1990 (+9,9%), nonostante il trattato internazione imponga un taglio del 6,5%.
«A salvare l’Italia dagli ultimissimi posti della classifica - ha sottolineato Legambiente - le poche ma
importanti misure adottate in questi anni, come il conto energia per la promozione del fotovoltaico o
gli incentivi del 55% per l’efficienza energetica. Misure che paradossalmente sono proprio quelle finite nel
mirino dell’attuale governo, che dopo aver eliminato l’obbligo della certificazione energetica degli edifici, ha
tagliato il 55% ».
Le emissioni americane derivanti dal consumo di energia e dai processi industriali sono cresciute ad una
media annuale dello 1.1% dal 1990 al 2006. Il peggioramento delle condizioni
climatiche (con maggiori picchi sia di caldo che di freddo) e l’aumento di produzione elettrica a base di
carbone a causa dalla minore disponibilità di energia idroelettrica, hanno contribuito ad incrementarle. Le
emissioni di metano sono cresciute dell’1.9%, quelle degli ossidi di azoto del 2.2%, quelle di HFCs, PFCs e
SF6, il gruppo chiamato “ high-GWP gases” (high global warming potential
gases) per via della loro capacità di intrappolare il calore, del 3.3%.
Anche a livello globale, secondo le Nazioni Unite, che hanno monitorato le emissioni di gas serra di 41 Paesi
industrializzati, le emissioni sono in continuo aumento.
Il maggiore aumento è stato registrato per i Paesi con economia in transizione, con un incremento del 7,4%
tra il 2000 e il 2006. Praticamente, i paesi industrializzati che si erano impegnati a tagliare le proprie
emissioni, soprattutto di CO2, invece di diminuirle le stanno aumentando.
Il divario nei 16 anni presi in considerazione è dovuto in gran parte alla crisi economica seguita al
disfacimento del blocco sovietico nel corso degli anni Novanta, che si è tradotto in un declino di circa 2
miliardi di tonnellate metriche di CO2 equivalenti, mentre, a partire dal 2000, il recupero delle economie dei
paesi dell’ex Unione Sovietica ha portato ad un aumento di 258 MMTCO2e.
Le nazioni europee più industrializzate, così come la Cina e gli USA (che non hanno sottoscritto il protocollo
di Kyoto), stanno alzando costantemente i livelli di emissioni dal 1990 – in totale siamo a + 403 MMTCO2e
rispetto ai livelli del 2000.
Questo quandro inquietante si riferisce a statistiche vecchie di tre anni, la situazione reale al momento è
sicuramente peggiore.
Il Regno Unito e il Principato di Monaco sono gli unici due paesi europei che sono in linea con i propri
obiettivi di riduzione (rispettivamente il 12,5% e l’8% entro il 2012). L’Austria, invece, che dovrebbe ridurre le
prorprie emisioni del 13%, rispetto ai livelli del 1990, entro i prossimi 10 anni, è salita a +15%.
In Oriente, il Giappone emette più del 6% rispetto al 1990, a dispetto della promessa fatta nel 2002 di
giungere ad una riduzione del 6% entro il 2012.
Anche i paesi che potevano emettere più emissioni secondo gli accordi relativi al Protocollo di Kyoto, hanno
quasi raddoppiato la loro crescita consentita. L’Irlanda, per esempio, ha
aumentato le proprie emissioni di quasi il 26% mentre gli accordi prevedevano che non salissero più del
13%.
Se si continuerà a superare i limiti imposti dal protocollo, nel 2012 saranno sospese tutte le contrattazioni
relative alle quote di emissioni consentite.
“From Bad to Worse: Latest Figures on Global Greenhouse Gas Emissions”, Scientific American, 17
novembre 2008
Macchine di cantiere, macchine agricole e forestali, piccoli apparecchi per il giardinaggio e il tempo libero:è il
offroad" che emette circa 880 tonnellate di particolato fine, 12.700 tonnellate di ossidi
cosiddetto settore "
d'azoto e 6500 tonnellate di idrocarburi all'anno, come mostra il rapporto pubblicato dall' Ufficio
Federale dell'Ambiente (UFAM).
I calcoli, realizzati per otto settori (edilizia, industria, agricoltura, selvicoltura, giardinaggio/tempo libero,
navigazione, ferrovia, esercito), partono dal 1980 e includono stime fino al 2020, con particolare attenzione
al 2005.
Per la massa di particolato (PM) e gli ossidi d'azoto (NOx), le due fonti di emissioni
principali sono l'agricoltura (soprattutto i trattori e i transporter) e le macchine da cantiere (soprattutto gli
escavatori idraulici e le pale caricatrici). Anche l'industria (soprattutto i carrelli elevatori a forca e i veicoli per
la preparazione di piste) provoca comunque una quota rilevante di emissioni offroad.
Per gliidrocarburi (HC) e il monossido di carbonio (CO), una larga quota delle emissioni
è generata dalle macchine agricole nonché dagli apparecchi per la cura del giardino e la selvicoltura. Ciò è
dovuto soprattutto al frequente uso di apparecchi a benzina a due tempi nell'agricoltura (motoseghe,
falciatrici ecc.), nell'ambito del giardinaggio/tempo libero (motoseghe e tosaerba) e nella selvicoltura
(motoseghe).
Proporzionalmente, le emissioni di monossido di carbonio, idrocarburi, ossidi d'azoto e articolato, nel settore
offroad sono superiori a quelle del traffico stradale: benché consumi solo l'8% dell'energia totale (offroad +
strada), l’offroad produce tra il 19% (monossido di carbonio) e il 39% (particolato) delle emissioni
complessive di inquinanti. Il motivo è da ricercare, da un lato, nelle prescrizioni sui gas di scarico, meno
severe e introdotte più tardi, dall'altro, nel minor avanzamento della tecnica di riduzione delle emissioni delle
macchine e degli apparecchi.
Il rapporto evidenzia che oltre alle emissioni di HC dei piccoli apparecchi, occorre tagliare urgentemente in
particolare le emissioni di particolato dell'agricoltura. Se per le macchine da cantiere la dotazione di serie e il
post-equipaggiamento con filtri antiparticolato sono già avanzati, grazie alle prescrizioni in vigore dal 2002
con la direttiva Aria Cantieri e dal 2009 con l'ordinanza contro l'inquinamento atmosferico modificata dal
Consiglio Federale, per i trattori agricoli il progresso tecnico è solo all'inizio.
Nell'ambito del giardinaggio e del tempo libero, l'UFAM raccomanda di utilizzare apparecchi con motori
elettrici. Se ciò non è possibile, le emissioni di HC possono essere ridotte con l'uso di benzina
alchilata.
Oggi l'UFAM è attiva anche su Internet con uno strumento elettronico che consente un calcolo semplice delle
emissioni di inquinanti atmosferici.
Un rapporto di Greenpeace intitolato " The true cost of coal " – “Il vero costo del carbone” –
presentato a Poznan, oltre a fornire un reportage dei danni fatti dalla filiera del carbone in vari posti del
mondo, con la collaborazione dell’istituto indipendente olandese CE Delft, tenta di quantificare i costi
nascosti di questo combustibile fossile.
Il carbone è considerato la fonte energetica più economica, ma nel suo prezzo di mercato sono compresi
solo i costi legati all’estrazione, al trasporto e alle tasse, non i costi esterni connessi ai gravi impatti
per l’ambiente e per la salute. Innanzitutto, ci sono le emissioni di gas serra e i relativi
effetti sul riscaldamento globale (il carbone è responsabile del 41% delle emissioni mondiali di gas serra e
del 72% di quelle per la produzione di elettricità), ma i costi del carbone - sottolinea il documento - sono molti
altri: deforestazione, distruzione di interi ecosistemi, contaminazione di suoli e acque (le centrali a carbone
sono la prima fonte al mondo di dispersione di mercurio), violazione di diritti umani sia dei lavoratori che delle
comunità che vivono nei pressi delle miniere, delle centrali e dei siti di stoccaggio.
Impatti che si tramutano in danni monetizzabili, come malattie respiratorie, incidenti nelle miniere, piogge
acide, inquinamento di acque e suoli, perdita di produttività di terreni agricoli, cambiamenti climatici e altro
ancora. Per il solo 2007, il rapporto calcolacosti pari a 356 miliardi di euro : gli impatti sulla
salute lungo tutta la filiera del minerale costano circa 1 miliardo, mentre il grosso dei costi esterni, 355
miliardi, è dovuto alle emissioni di gas serra.
“Una cifra – sottolinea Greenpeace - che ancora sottostima i costi reali . Considera, infatti, solo i
danni per cui esistono dati affidabili a scala mondiale - cioè cambiamenti climatici, impatti sulla salute umana
e incidenti nella lavorazione - mentre non tiene conto di altre voci come l’inquinamento, le violazioni dei diritti
umani, la distruzione di ecosistemi”.
Ciò che è evidente è che il mondo, per gli effetti collaterali di questa fonte energetica definita "economica",
ha perso in dieci anni una cifra pari a circa sei volte quanto è costato agli Stati Uniti salvare le proprie
istituzioni finanziarie dalla crisi. Mentre in Cina, dove si fa ricorso al carbone per i due terzi del fabbisogno
energetico nazionale, i costi esterni del carbone sono pari a 7 punti di PIL.
Ad aggravare il tutto c'è il fatto che la quota del carbone nel mix elettrico mondiale è in continua crescita:
aumentata del 30% dal 1999 al 2006, mentre se le tutte le centrali in progettazione al momento attuale
venissero realizzate da qui al 2030, crescerebbe di un altro 60%, vanificando in pratica ogni sforzo per
ridurre le emissioni di CO2 (le 150 centrali che quattro anni fa si sarebbero dovute costruire negli USA -
più CO2 di quanta ne devono ridurre
progetti per ora ancora fermi - avrebbero emesso
i paesi che hanno firmato il Protocollo di Kyoto tutti assieme).
The True Cost of Coal (pdf)
Dal 1999 ad oggi, la maggior parte del portfolio di crediti di carbonio (tra il 75 e l'85%) gestito alla Banca
Mondiale ha finanziato industrie nel settore chimico, del ferro, dell'acciaio e del carbone, mentre meno del
10% dei fondi a disposizione è stato investito in progetti di energie rinnovabili.
L'iniziativa della Banca è stata fortemente contestata dai rappresentanti delle organizzazioni dei popoli
indigeni e delle comunità locali che vivono e dipendono dalle foreste, rimasti esclusi dalla preparazione di
queste iniziative che, puntando a una mercificazione delle foreste, mettono a rischio la loro esistenza e
minacciano alcuni degli ecosistemi più ricchi di biodiversità ancora esistenti.
La Banca Mondiale è uno dei principali finanziatori dell'estrazione di combustibili fossili nei paesi più poveri e
causa di devastazione ambientale nel Sud del Mondo. Non può finanziare la devastazione
della Foresta Amazzonica e allo stesso tempo gestire la finanza globale per il clima.
Marcial Arias, nel corso del Forum on Climate Change organizzato dall’ International
Indigenous Peoples, ha chiesto la sospensione di tutte le attività relative alla REDD e al mercato
dei crediti finché non vengano consultati anche i popoli indigeni che abitano le regioni interessate.
La CRBM, unendosi alle centinaia di organizzazioni di tutto il mondo che chiedono che la Banca Mondiale
rimanga fuori dai negoziati sul clima, chiede che sia istituito un meccanismo indipendente dai banchieri di
Washington che, consultando i popoli indigeni, le comunità locali e la società civile, metta a disposizione i
fondi per gli interventi necessari per l'adattamento e la mitigazione degli impatti derivati dal cambiamento
climatico.
Si parla miliardi di dollari all'anno che dovranno essere messi a disposizione in buona parte dai governi dei
paesi che più hanno contribuito, e contribuiscono, al cambiamento climatico, tra cui l'Italia, a favore di quei
Paesi che già oggi sono colpiti dagli impatti devastanti derivati dal surriscaldamento del pianeta.
La causa principale di questo ulteriore aggravamento della situazione è costituita dal taglio illegale
degli alberi operato dagli agricoltori della regione, che a loro volta si dicono travolti da una gravissima crisi
economica. Il legname è poi venduto clandestinamente mentre le nuove terre coltivabili sono utilizzate
soprattutto per la produzione di soia.
Il Brasile è divenuto una delle maggiori superpotenze mondiali dell'agricoltura ed ormai alcune grandi
imprese agricole stanno soppiantando le piccole produzioni. Se per i piccoli produttori il taglio degli alberi è
talora l'unica salvezza economica di breve periodo, per le ricchissime grandi aziende agricole della regione
si tratta essenzialmente di sfruttare intensivamente ogni centimetro di terra per
aumentare i propri profitti.
Il governo centrale brasiliano dice di voler adottare nuove misure importanti per fermare questa nuova
escalation nella deforestazione, ma sono spesso le autorità locali che tendono a chiudere un occhio.
Gli stati in cui il fenomeno è più massiccio restano quello settentrionale di Parà, dove sono stati rasi al suolo
5.180 chilometri quadrati di selva, e quello centrale di Mato Grosso, terra di grandi
allevatori e produttori di soia, che ne ha persi 3.259. Dopo il picco toccato tra l'agosto 2003 e il luglio 2004
(27.423 chilometri quadrati disboscati), la deforestazione era calata del 59% prima della nuova ripresa.
"Il problema - ha detto Paulo Moutinho, dell'Istituto per le Ricerche Ambientali dell'Amazzonia - è che non
esiste ancora un sistema economico che valorizzi la foresta così com'è e possa competere con le attività a
scopo di lucro che la distruggono ogni anno: soia, bestiame, estrazione illegale di legname e minerali".
“Amazon deforestation up almost 4.0 percent”, Physorg, 28 novembre 2008
Il 22 novembre, attivisti di Greenpeace, vestiti da barbari, ed alla guida di automobili tedesche, hanno
“invaso” il Circo Massimo guidati da un finto Berlusconi vestito da Nerone. A sbarrare loro la strada hanno
trovato un altro gruppo di attivisti, nei panni di cittadini romani, con due striscioni su cui era scritto: “Quo
vadis Berlusconi?”, e “Vade retro CO2! Inquinatores non prevalebunt!”, ovvero !Dove vai Berlusconi?”, e !Vai
indietro CO2. Gli inquinatori non prevarranno”.
La scelta del Circo Massimo per protestare contro la posizione del governo Berlusconi e delle case
automobilistiche non è casuale: dal Circo Massimo partì il grande incendio di Roma del 64 dC. Secondo
molti storici sarebbe stato scatenato dallo stesso imperatore Nerone.
L'Italia ha immense potenzialità nel fotovoltaico . Usando lo 0,5 della superficie italiana (equivalente ai
tetti esistenti) per installare pannelli fotovoltaici potremmo produrre, con la tecnologia attuale, circa 200 TWh
l'anno, equivalente ai 2/3 del fabbisogno elettrico del paese. Sviluppo del Conto energia e altri sistemi di
incentivazione potrebbero superare gli elevati costi di produzione; l'80% del mercato del solare termico è
rappresentato da Germania, Grecia e Austria.
“GREENPEACE: Emperor Berlusconi fiddles as the climate burns”, 7thspace, 22 novembre 2008
1.L’energia eolica offre il potenziale per fornire più del 30% della elettricità globale richiesta. È vero
che il vento non soffia costantemente ma si possono sviluppare modi migliori di immagazzinare l’energia
generata. Inoltre, invece che usarla solo localmente, la si può distribuire tra stati e nazioni.
2.L’energia solare sarebbe sufficiente da sola a fornire più dell’energia necessaria ad alimentare il
mondo intero, bisogna solo trovare modi più efficaci di sfruttarla. Gli attuali pannelli solari sono relativamente
inefficaci, ma aumentando gli investimenti nella ricerca sulle celle solari si produrranno modelli migliori per
cattura re l’energia a costi ridotti.
3.Onde, maree, correnti offrono un alto potenziale per la generazione di energia pulita, ma gli
sforzi per riuscire a sfruttarlo son oostacolati dalla difficoltà di progettare dispositivi in grado di tollerare le
dure condizioni oceaniche. Ciononostante, si stanno testando delle boe in grado di sfruttare l’energia
generata da onde subacquee di 50 metri mentre la prima turbina su scala commerciale in grado di sfruttare
le maree distribuisce elettricità alla rete nazionale inglese.
4. Lo spreco di calore ammonta al 40% dell’energia prodotta dalle centrali. Un modo per evitarlo sarebbe
quello di portare i generatori nelle case, installando microgeneratori domestici per riscaldare
gli ambienti e l’acqua.
5. Invece di costruire nuove abitazioni a “carbone zero””, si potrebbero ridurre le emissioni di gas serra
domestiche rinnovando gli edifici già esistenti. Il movimento PassivHaus in Germania punta a ridurre
le emissioni domestiche dell’ 80-90% mediante misure come l’installazione di muri e finestre isolanti e
l’utilizzo di migliori metodi di ventilazione che non disperdono il calore.
6. I veicoli elettrici hanno una cattiva reputazione in termini di stile e velocità, ma le macchine
elettriche sportive, come la Tesla Roadster, possono essere molto attraenti, anche grazie alla Movie
Camera in dotazione. Sebbene al momento non siano certo economiche, i prezzi sono destinati a scendere
parallelamente allo sviluppo di nuove e migliori batterie. Recenti ricerche suggeriscono che i veicoli elettrici
potranno anche servire come depositi di energia a motore spento.
7. I biocombustibili sono quasi universalmente considerati una cattiva idea, perché incoraggiano la
deforestazione e diminuiscono le riserve alimentari. Ma la prossima generazione di biocombustibili ottenuti
dagli scarti della produzione agricola potrebbe dimostrarsi una valida alternativa. Usando nuove tecniche per
il trattamento della cellulosa potranno essere utilizzati anche gli scarti del legname e magari si comincerà ad
investire nel settore capitale di ventura.
8. Siccome la crescita delle fonti rinnovabili non potrà comunque soddisfare la domanda mondiale di
elettricità, trovare modi efficaci per catturare e depositare la CO2 prodotta dale centrali di energia è una delle
sfide più importanti da vincere. La ricerca in questo campo sta già sviluppando nuove promettenti tecnologie.
9. Un modo per sequestrare il carbone è rappresentato dal “ biochar ”, un carbone agricolo fatto con i
resti dei raccolti bruciati in assenza di aria. Il biochar è eccezionalmente stabile, può essere immagazzinato
sottoterra per centinaia di anni senza rilasciare carbone in atmosfera e migliora la fertilità del terreno.
10. Le stufe a biogas , alimentate da metano rilasciato da rifiuti organici, che altrimenti sarebbe rilasciato
in atmosfera, possono essere un’altra soluzione. La Cina è già impegnata a promuovere largamente le
tecnologie basate sul biogas.
Lilypad”, la stravagante idea di Vincent Callebaut per fronteggiare l'innalzamento del livello dei
C’è poi “
mari, una sorta di arca di Noé ecologica che sfrutta l'energia solare nella parte emersa - dotata
anche di giardini e oasi - per alimentare buona parte della struttura, immersa invece sott'acqua.
Liplypad sarà in grado di ospitare circa 50 mila persone, di produrre ossigeno ed elettricità, riciclare l'anidride
carbonica e i rifiuti, purificare l'acqua, ma soprattutto di garantire l'autosufficienza alimentare dei suoi abitanti
grazie a un sistema di produzione agricola interno e di acquacoltura.
Il comando americano, per nulla intimorito, decide di rispondere con il fuoco, chiamando a raccolta i migliori
scienziati del paese e tutto l’arsenale militare. Toccherà ad una giovane ricercatrice e al suo figliastro
convincere l'alieno a non spazzare via l’umanità…
"Non è necessaria un’invasione aliena per capire che bisogna cambiare rotta. Il pianeta ci sta avvertendo –
dice Keanu Reeves, protagonista della pellicola - servirebbe proprio un alieno come quello che interpreto nel
film per salvarci da noi stessi".
"Se nell’originale - dice Reeves - l’alieno si mostrava docile all’inizio e temibile alla fine, qui succede
esattamente il contrario”.
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