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La Stampa 11 settembre 1999

Il vecchio Kant pu trovare un accordo con Heidegger


La contrapposizione filosofica tra gli analitici e i continentali non ha senso, una questione di stile di scrittura: lo conferma la tesi di Mcdowell
La discussione su "analitici e continentali", suscitata ormai due estati fa dal fortunato libro di Franca D'Agostini potrebbe utilmente riprendere nelle prossime settimane in occasione della (ottima) traduzione italiana, a cura di Carlo Nizzo, dell'importante libro Mente e mondo di John McDowell, un noto esponente, appunto, della filosofia analitica americana, professore all'universit di Pittsburgh che considerata uno dei capisaldi della scuola. Almeno, se legittimo parlare di una "scuola". Come forse alcuni ricorderanno, il dibattito di due anni fa si era concluso da noi, pi o meno con la constatazione che la divisione tra analitici e continentali non ha senso, almeno sul piano delle tesi filosofiche, ed al massimo una questione di diversi stili di scritture. Un filosofo continentale scrive in genere saggi su un autore o una corrente filosofica del passato, remoto e recente, e solo cos, per lo pi, avanza a propria volta proposte filosofiche teoriche. Un filosofo analitico scrive su un tema o un problema, cercando di impostarlo e risolverlo, con piglio piuttosto "scientifico" che storico-critico. Come si vede, una differenza non sempre facile da cogliere, e sulla cui base certo non si possono stabilire divisioni di scuola paragonabili a quelle a cui siamo abituati nei manuali. La lettura del libro di McDowell conferma ampiamente la conclusione a cui era arrivato (anche) il dibattito italiano di due anni fa. Anzi, la conferma persino troppo, almeno nel senso che chi, accogliendo finalmente i consigli di amici "filoanalitici", si immerso nello studio del libro, per provare a familiarizzarsi con una tradizione diversa, magari "aprendo gli occhi", si trova a fare i conti con conclusioni che non sono tanto lontane da quelle di molta filosofia continentale di oggi. Certo, resta una netta differenza di stile. Pi ancora che l'orientamento scientifico preferito a quello storico critico, ci che avverte un lettore continentale della provenienza analitica di un testo il fatto che, immancabilmente (almeno secondo la mia esperienza), a un

certo punto l'autore discute il problema (non credo mai risolto) di come ci si sentirebbe a essere un pipistrello, o un cervello in una vasca, eccetera. Provare per credere, anche in McDowell. Tanto da pensare che questa domanda abbia finito per sostituire presso gli analitici quella che da noi sempre stata considerata la domanda metafisica fondamentale (anch'essa mai risolta): perch la generale l'essere piuttosto che il nulla. Ma, appunto, a parte queste idiosincrasie stilistiche, le tesi di McDowell ci sembrano assolutamente accettabili per un punto di vista continentale, almeno in quanto questo possa considerarsi rappresentato oggi da autori come Gadamer o persino Derrida, McDowell riprende la tesi di Kant: la mente accede al mondo non come una tabula rasa su cui si imprimono le sensazioni prodotte dagli oggetti, bens provvista di un equipaggiamento "a priori" mediante il quale organizza i dati percettivi in un mondo, nel quadro del quale diventa possibile formulare proporzioni generali, tesi scientifiche, ecc. Non bisogna n abbandonarsi al "mito del dato", per cui la mente registrerebbe solo, come uno specchio, l'ordine oggettivo; n, per, credere che la verit di una proposizione consista solo nel suo armonizzarsi con altre proposizioni e con le leggi della logica: questo il "coerentismo", che McDowell rintraccia in Davidson. Il quale peraltro non sostiene certo tesi radicalmente idealiste, ma dice solo che l'esperienza, o la sensazione, non pu mai funzionare come giustificazione di una credenza. Possiamo capirlo, anche banalizzando un po', se ricordiamo che il problema di Kant era appunto capire come da un'esperienza particolare (ho visto una pentola bollire a una certa temperatura) si possa salire all'enunciato scientifico generale (l'acqua bolle a X gradi). McDowell ritiene che si possa sfuggire sia al mito del dato - al realismo ingenuo sia al coerentismo eccessivo scegliendo una via che egli ritiene fedele a Kant, e che forse ai kantisti non appariva del tutto tale, posto che in certe pagine del libro l'autore sembra pensare che le categorie kantiane si applichino al dato della sensazione con un atto affidato alla libert responsabile del soggetto. Il fatto che McDowell non vuole accettare, di Kant, una visione della ragione che gli sembra, giustamente, troppo rigidamente modellata sulla razionalit scientifico-matematica moderna. Insomma: noi ordiniamo bens il mondo secondo schemi e strutture a priori, le quali rendono possibile che una esperienza puntuale di un individuo, inserita in una rete di connessioni logiche condivise, diventi certezza scientifica stabile. Ma questa rete di connessioni non ha la rigidezza di una ragione umana sempre uguale, piuttosto, come McDowell dice riprendendo Aristotele, una "seconda natura", che, diremmo noi, si costruisce storicamente, in ci che anche lui, lasciando da parte pipistrelli e cervelli in vasca, chiama con il continentalissimo termine di Bildung, cultura o educazione. Non siamo, come si vede, affatto lontani dal discorso heideggeriano o gadameriano. Se questa tradizione analitica, ne facciamo parte anche noi, e al diavolo le differenze di stile. Ma temiamo gi che, a dispetto della solida reputazione di cui McDowell gode a Pittsburgh e dintorni, i nostri amici filoanalitici ci diranno che non era proprio questo il libro a cui dovevamo ricorrere per "aprire gli occhi". Attendiamo ulteriori suggerimenti. GIANNI VATTIMO

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