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Oscar Brenifier

FILOSOFARE: RICONCILIARSI CON LA PROPRIA PAROLA

Uno dei compiti principali della pratica filosofica consiste nellinvitare il soggetto a riconciliarsi con il proprio discorso. A qualcuno questa affermazione sembrer strana, ma la maggior parte delle persone che parlano non amano ci che dicono o, addirittura, non lo sopportano. Come!, ribatteranno gli obiettori, La maggior parte delle persone parlano e parlano anche tanto!. Constatazione inconfutabile. Lunica cosa da fare per rendersene conto quella di collocarsi in un luogo pubblico e ascoltare il vocio delle conversazioni. Infatti, vero che la maggior parte delle persone parlano e diremmo anche che si sentono obbligate a parlare. Una specie di compulsione allopera, perch le persone vogliono parlare, vogliono esprimersi e, allo stesso tempo, perch non sopportano il silenzio. Il silenzio sospetto, pesa, ha unapparenza triste; c bisogno o di una grande fiducia verso qualcuno, per accettare il silenzio in sua compagnia, o di una buona ragione, senza la quale il silenzio indicherebbe un certo disinteresse, una rottura del dialogo e perfino un conflitto. Cos le persone parlano, in genere parlano di qualsiasi cosa: del tempo, degli avvenimenti, dei rischi inerenti alle loro piccole vite, si scambiano degli ossequi, dei luoghi comuni e, quando la discussione progredisce, ci si pu anche fare delle confidenze intime, rivelarsi dei piccoli segreti, o condividere un dolore pi personale, addirittura inconfessabile. Ci nonostante, un primo sospetto riguardo il nostro piacere di parlare simpone al nostro spirito non appena la discussione si entusiasma a causa di un disaccordo. Gli spiriti simpennano, si riscaldano, si ostinano, si innervosiscono, diventano violenti o prendono una piega acrimoniosa. Se poi non siamo neanche abituati a questo tipo di svolta verso la violenza, potremmo stupircene: Guarda! Finalmente trovano unidea che conta, qualche argomento che sembra interessarli, per di pi, visto che non condividono lo stesso parere, potrebbero discuterne, ma allora, perch sembrano vivere questo disaccordo come un dispiacere, o come un momento doloroso ? Bisogna evitare le discussioni che fanno arrabbiare, proclama la saggezza popolare, ci che grossomodo pu significare tutti gli argomenti rilevanti, quelli che abbiamo a cuore, affinch ci si attenga allo scambio formale, certamente meno appassionante, ma anche meno rischioso.

AVERE RAGIONE

Qual il problema qui ? Ognuno pretende di aver ragione. Sicuramente, non riflettiamo mai abbastanza n sul senso che pu avere lidea di aver ragione, n perch questidea ci stia cos a cuore. Spiegheremo quindi progressivamente che una questione di confronto con il proprio simile, di lotta, di potere, o altro ancora, e che limmagine di s che costituisce la posta in gioco di questa lotta, spiegazione che senza alcun dubbio contiene la sua parte di verit. Ma quello che qui ci interessa, un altro aspetto di tale questione, aspetto che certamente ha qualche legame con le intuizioni precedenti: lipotesi secondo cui lessere umano, in fondo, apprezza poco la propria parola, ci che inoltre spiegherebbe tanto le difficolt inerenti alla discussione, quanto la facilit con cui questa pu scivolare verso pieghe sgradevoli. In effetti, se una persona amasse la propria parola, tanto o poco che sia, se avesse fiducia nelle proprie parole, allora, perch il fatto di esser riconosciuta dal proprio vicino dovrebbe inquietarla a tal punto? Vorrebbe ottenere, non importa quel che sia, dal suo interlocutore in una maniera cos insistente? Qui, non considereremo le discussioni che hanno una finalit ben definita, come quelle che per convinzione o per 1

preoccupazione pratica hanno bisogno di convincere laltro, dato che in tal caso la discussione non pi libera: non ha pi la propria finalit in se stessa, desidera esplicitamente un oggetto senza il quale la discussione non avrebbe ragion dessere e che ne rappresenta la finalit precisa ed affermata. Anche se pensiamo che, indirettamente, cerchiamo sempre qualche cosa, dal momento che, in generale, desideriamo ottenere una qualsiasi forma dapprovazione dalla persona alla quale parliamo. Ma la questione essenziale quella di sapere il perch. Secondo la nostra prospettiva, qui percepiamo il meccanismo della regina madre, la matrigna di Biancaneve. Specchio, specchio, dimmi chi la pi bella!. Se la regina madre apprezzasse sufficientemente la propria bellezza, che bisogno avrebbe di domandare allo specchio se lei la pi bella, quale bisogno avrebbe di paragonarsi, perch dovrebbe preoccuparsi di questa povera Biancaneve? Evidentemente, esiste un rapporto sicuro tra il fatto di trovare bello e il fatto di amare, che sia laltro o se stessi, e come ci ha gi mostrato Platone nel Simposio, difficile sapere se viene prima il bello o, invece, lamore. Amiamo perch bello, o troviamo bello perch amiamo? E per ritornare alla parola, quella che qui messa in questione, cosa ne deriva? Trovo la mia parola brutta perch non mi amo? O invece, non mi amo perch trovo la mia parola brutta? Su questo punto, lasceremo sentenziare ognuno a suo modo, o altrimenti gli specialisti ne faranno un loro dibattito. Quanto a noi, in quanto filosofi praticanti, in fondo pi preoccupati del pensiero in s che della soggettivit umana, a dispetto dei legami che li uniscono, ci domanderemo, cos come abbiamo fatto allinizio di questo testo, come potremmo riconciliare il soggetto con la propria parola. Non perch preoccupati di renderlo felice, o seguendo un progetto eudemonista, ma unicamente perch se il soggetto non si riconcilia con la propria parola, allora non potr pensare.

PROTEGGERE LA PAROLA

Prima di spiegare questultima frase, precisiamo che, secondo noi, il fatto di riconciliarsi con la propria parola non implica il fatto di trovarla meravigliosa, anzi, al contrario. Lestasi di fronte alla propria parola troppo spesso lespressione narcisista di una soggettivit esacerbata, di un malessere, di unassenza di distanza, di unincapacit inerente allo sguardo critico. Un po come un genitore che vorrebbe vedere il proprio bambino eccezionale al fine di vivere, per procura, una felicit che altrimenti non saprebbe trovare in se stesso. Riconciliarsi con la propria parola significa accettare di vederla cos com, di prenderla per ci che , di non attribuirle delle virt che spesso non manifesta e, anche, di non provare a proteggerla dallo sguardo altrui, mediante la timidezzao con unargomentazione eccessiva piena di ci che volevo dire e di voi non mi capite. Riconciliarsi con le proprie parole accettare di ascoltarle cos come suonano alle orecchie altrui, fare il lutto di un senso che visibilmente assente dalla formulazione cos com stata forgiata, significa desiderare di vedere le aperture, le rotture e i tradimenti delle parole che sono state pronunciate, accettarne la brutalit. Anche se fosse per il solo fatto che, rispetto a tutte le parole che ancora abbiamo voglia di esprimere, quelle che abbiamo gi pronunciato ci dicono di pi riguardo ci che pensiamo e ci che siamo. Daltronde, proteggere la propria parola una delle prime motivazioni di ci che nominiamo correntemente timidezza, affrettatamente e per semplicit. In effetti, un gran numero di questi timidi sono di fatto delle persone che possiedono unelevata opinione di ci che hanno da dire, ma che temono soprattutto che gli altri, coloro che li ascoltano, non condividano la loro stessa ammirazione nei riguardi del loro discorso. Per questo, considerano 2

pi sicuro e meno pericoloso astenersi dal parlare per poter cos conservare, al semplice beneficio del dubbio, questa apparenza di genio, dal momento che possiamo attribuire qualsiasi virt ad una sfinge, almeno fino a quando non abbia parlato. Ma ancora, se temono lanalisi critica delle loro parole, perch loro stessi ignorano o fuggono questa pratica verso se stessi. Come i grandi ispirati, queste persone pensano di essere nel vero senza pronunciare neanche una sola parola e, senza esserne davvero coscienti, sono pi attaccati ad un preteso fondo illusorio del loro pensiero che alle loro stesse parole. Cos, cercheranno di evitare la critica del loro discorso riferendosi a quello che volevano dire, o abbandonando, o negando, in modo rapido, le loro stesse parole, al fine di chiudersi nel loro foro interiore o, in alternativa, lanciandosi in un discorso senza fine. Ma non accetteranno mai di prendere le loro parole come la sostanza stessa del loro pensiero: ci significherebbe esporsi troppo.

PRENDERE IL RISCHIO D PENSARE

Approfittiamo un istante dellantinomia che abbiamo identificato nei nostri timidi. Opponendo il fondo del pensiero a delle idee gi espresse, di fatto, non facciamo altro che opporre linfinito al finito, perch opponiamo lonnipotenza del virtuale alla finitudine del concreto, il potenziale indeterminato alla determinazione di ci che gi attualizzato. Il virtuale pu ogni cosa, tutto possibile, tutto pu ancora essere detto, mentre il concreto qui, presente, investito nellalterit del reale, radicato nel tempo e nello spazio. La parola che detta detta, lei perch specifica, implica una parola formata, un modo di essere, una particolare prospettiva. Anche se, per il solo fatto di pretendere che la parola non sia conclusa, possiamo sempre interpretarla, reinterpretarla, sovra-interpretarla, possiamo farle dire tutto ci che vogliamo, ci nonostante, questa parola ostenta gi qualcosa di particolare e, almeno di non ricorrere alla pi totale mala fede ci che lontano dallessere raro o escluso -, non potremmo pi farle dire qualsiasi cosa o trasformarla nel contrario di ci che gi esprime. Daltronde, questa stessa esclusione che disturba: il fatto che questa frase affermando, non importa quello che afferma, introduce necessariamente una negazione, come ci insegna Spinoza. Tutto ci che afferma, dal fatto stesso dellaffermazione, nega. Nega sia per commissione: rifiuta il contrario di ci che afferma. O altrimenti, nega per omissione, dimenticando di dire alcune cose, relegandole ad un secondo piano. Ma pi di un locutore si divincoler quel tanto che pu per rifiutare questa dimensione negativa della parola, in particolare la seconda, pi facile da occultare, rifugiandosi nella totalit del suo pensiero, in ci che potrebbe ancora dire. In questo senso, accettare la propria parola, o le proprie parole, come lespressione del proprio pensiero o, meglio ancora, come la sostanza stessa del pensiero (Hegel), o come i limiti del pensiero (Wittgenstein), lequivalente psicologico, o filosofico, dellaccettare ci che abbiamo fatto, ci che abbiamo compiuto, come la realt di ci che siamo (Sartre). In effetti, possiamo sempre rifugiarci in ci che potremmo essere, ci che avremmo potuto essere, ci che vorremmo essere, ci che ci ha impedito di essere, ci che siamo stati, ci che saremo, e queste diverse dimensioni virtuali dellessere o dellesistenza, anche se hanno sicuramente un senso e una realt, possono comunque rappresentare facilmente una sorta di alibi, di rifugio, di fortezza, per non 3

vedere e assumere ci che siamo. Il passato, il futuro, il condizionale, il possibile, o anche limpossibile, costituiscono tanti meandri per occultare il presente e lattuale. E se il nostro intento non assolutamente quello di dissimulare o neanche di sottostimare queste diverse dimensioni, che a loro modo compongono la ricchezza dellessere e della sua libert di concepire, vorremo comunque mostrare la trappola che queste rappresentano e mettere in guardia contro lutilizzo abusivo di questa molteplicit. Poich, se per spiegare ci che ci ha spinto alla soddisfazione dei desideri e alla ricerca del piacere abusiamo del presente, a discapito del passato, del futuro o del condizionale, per ci che concerne la realt delle nostre parole loccultiamo molto facilmente e disinvoltamente.

MALTRATTARE LA PAROLA

Arriviamo a ci che potrebbe quindi minacciare la parola timorosa. I Sofisti individuano in modo molto giudizioso due critiche essenziali contro Socrate, riguardo il suo modo di discutere, o piuttosto di interrogare. Prima di tutto, Tu mi forzi a dire ci che non voglio dire. Poich Socrate, dallorecchio agguerrito, ascolta ci che una frase qualsiasi dice e ci che nega, ed esige dal suo interlocutore un interruzione, un arresto sullimmagine, affinch renda conto di questa frase, affinch si renda conto della propria frase. Daltronde, rendere conto per lui diventa praticamente la definizione stessa del pensare, o del filosofare, poich ragionare indica proprio il dar le ragioni di qualche cosa. Socrate invita, quindi, il proprio interlocutore a ritrovare la genesi, per non dire larcheologia, del suo proposito, al fine di coglierne il senso e la realt. Non una genesi singolare, quella dellintenzione del locutore, ma la genesi del senso, luniversalit del termine. Ora questa realt, visibile attraverso le parole, molto spesso dimenticata, o negata dallautore delle parole, per il semplice fatto che non pronto ad accettarne la realt al di l dellintenzione specifica che lo spingeva a pronunciarle. Intenzione che ahim per lui! non che una parte infima e limitata della realt offerta attraverso queste parole: lintenzione riduttrice. E stranamente, luditore attento, estraneo allintenzione delle parole, percepir meglio questa realt oggettiva della parola, poich non sar animato e accecato dal desiderio personale che lha motivata. Ma il locutore, ben inteso, spesso rifiuter linterpretazione delluditore, che spesso considerer come intempestiva ed intrusiva, se non addirittura illegittima ed alienante. Si considerer lunico detentore del senso delle proprie parole, pretender confiscare ogni interpretazione a favore della sua sacrosanta intenzione. Come se la nostra parola fosse riducibile al semplice senso che noi pretendiamo accordargli, spesso in modo tergiversato ed assurdo. Questo sradicamento da s, questa lacerazione dellessere tra un s e la parola, ritenuta esserne la proiezione, il crogiolo stesso della pratica socratica: sondare labisso dellessere, lavorare lanfrattuosit che costituisce la nostra singolarit frantumata. Come non ribellarsi contro un intervento cos abusivo, contro una proposta cos tendenziosa? Prospettiva insopportabile nello psicologismo diffuso. La seconda critica, assolutamente conforme alla prima, Tu vivisezioni il mio discorso in piccoli frammenti. Sentimento sgradevole che suscita questa dissezione con i bisturi di un insieme, preteso armonioso, nel quale abbiamo messo molto sforzo e amore, piccolo pezzo di essere individuale, briciola amabile della nostra persona, composto con grazia, assemblaggio che presentiamo al mondo come un campione scelto di noi stessi. E se la nostra messinscena verbale ci lascia insoddisfatti, se non la consideriamo allaltezza del nostro pensiero, o non totalmente adeguata ad esso, allora siamo ancor pi sensibili allanalisi che qualcun altro potr farne, siamo pi nervosi rispetto alla sorte che potrebbe infliggergli. Ed una buona ragione per protendere ad essere insoddisfatti del nostro discorso: il fatto che nel nostro discorso cerchiamo sempre di dire tutto, 4

includere tutto, in ogni caso lo pretendiamo. O si tratta di dire la verit pi compiuta di ci che pensiamo, o di dirne la totalit, lintegralit, attraverso lenumerazione infinit e generalmente confusa delle cause e delle circostanze. Cerchiamo di coprire tutti gli angoli, di prevedere le obiezioni e di prevenire i giudizi critici, agghindando la nostra parola con ogni paravento possibile, al fine di renderla imparabile. Ora, cosa fa Socrate: prende un piccolo pezzo della nostra opera darte, che sceglie nel modo pi arbitrario, o incongruo, al fine di esaminarlo e di triturarlo in ogni senso, ignorando totalmente ci che abbiamo potuto affermare in un altro momento, non fosse che allistante precedente. Lui ignora lestensione o la bellezza del nostro discorso e pretende interrogarci su un aspetto specifico di ci che abbiamo abbordato, come se non avessimo detto niente altro, esigendo di rispondere con una parola corta e precisa, se non addirittura con un semplice si e no, riducendo tutta lampiezza del nostro pensiero ad un semplice giudizio: quello di un assentimento o di un rifiuto ad unidea specifica. Idea specifica che sicuramente sincastra in una sorta di tranello infernale che conduce alla critica precedente: linterlocutore ci obbliga ad affermare ci che non abbiamo detto e che non desideriamo dire. Decontestualizza la parola e in seguito domanda di prendere una posizione riguardo la radicalit del suo senso.

INQUIETUDINE DELLA PAROLA

Potremmo credere che il fatto di subire un abuso interpretativo che infastidisce il locutore, preoccupato che non si faccia dire alle sue parole ci che lui non desidera dire, o altra cosa rispetto a ci che desidera dire, ma ci sembra che la questione sia pi profonda o pi grave di ci. In effetti, per destabilizzare il suo interlocutore, e tutti potranno farne esperienza, basta a volte domandargli di ripetere ci che ha appena detto, assumendo unaria interessata. Puoi ripetere ci che hai appena detto, e vedremo il nostro uomo prendere unaria sorpresa e cominciare subito a difendersi, senza che labbiamo il minimo criticato. Molto spesso non ripeter ci che ha detto, in primo luogo perch lui stesso non ha realmente fatto attenzione alle sue parole, ci che in s gi significativo. O perch sentendosi minacciato vorr giustificarsi piuttosto che ripetere le parole gi pronunciate, o altrimenti, trasformer le sue parole iniziali, cominciando la sua frase con Ci che volevo dire. Una sorta dinquietudine o anche di panico lo invade, senza che tuttavia, e oggettivamente, nulla indichi una critica qualsiasi. Anche se qui possiamo evocare a mo di spiegazione, o di circostanza attenuante, una sorta di traumatismo sociale. Gli esseri umani fanno cos poca attenzione alla parola dellaltro, o lignorano perch, semplicemente, sentono che ci non li riguarda, o la contestano perch le loro idee sono differenti da quelle dellaltro, o peggio ancora, le rifiutano semplicemente perch sono gli altri che pronunciano le parole incriminate. Senza dubbio, cos che funziona questa dinamica sociale, vettore del traumatismo precedentemente citato. Mancando tutti del rispetto per la parola dellatro, ogni locutore pi o meno coscientemente convinto che il suo uditore cercher loccasione per criticarlo. Un'altra sfumatura dapportare alla nostra questione : la dimensione culturale. Infatti, alcune culture sono pi predisposte alla critica che altre, ma quelle in cui la critica considerata come una carenza delle buone maniere e delle convenzioni sociali esprimeranno la loro reticenza, il loro disprezzo, o il loro disinteresse, sia con uneducata approvazione, sia con lespressione manifesta di un interesse, che tutti sanno sostanzialmente superficiale, effimero, addirittura ipocrita. Ma ci siamo accorti che le societ in cui le maniere sono pi cortesi non sono necessariamente quelle dove regna la minor insicurezza quanto allo statuto della parola individuale. Diciamo che ogni gruppo umano ha i propri modi dautorizzare, di giustificare, o anche dincoraggiare il discredito dellaltro.

PENSARE MEDIANTE LALTRO

Ritorniamo a Socrate. Stranamente, lui si interessa moltissimo alla parola dellaltro. Aggiungiamo anche che non potrebbe pensare senza laltro. Altrimenti, potremmo domandarci perch questuomo dal viso cos grottesco trascorreva il suo tempo a ricercare la compagnia dei suoi simili soprattutto in vista di praticare linterrogazione filosofica. Non aveva nulla di meglio da fare, questuomo dallo spirito agile e sagace? Perch perdere il proprio tempo con chiunque e a proposito di, quasi, qualsiasi cosa? Alcuni dei personaggi che Platone ci descrive non sono molto brillanti, perch per Socrate la ricerca della verit non conosce molti limiti, n presupposti stabiliti. Tutto buono, quando si tratta di scavare il bene, il vero o il bello, e se c ostacolo, questostacolo diventa il crogiolo stesso dellessere e delluno. Socrate vuole fare opera di carit? Milita per unumanit migliore? Si annoierebbe da solo, impacciato in una solitudine filosofica, alla guisa del mitico filosofo della caverna? Vuole convincere? In fondo, per lui anche la verit non che un pretesto. Ha bisogno di cercare qualche cosa che ignori, sondare lanima umana e, se molti filosofi sondarono la loro, lui si sente spinto dal suo dmone a esplorare tutte quelle che passano, le une e le altre, nel contempo, pi promettenti, pi deludenti e pi ricche. Non bisogna cercare qui una teleologia: Socrate non cerca niente, semplicemente cerca, cerca di cercare. Ma questa ricerca gli procura molte noie. Prima di tutto, perch senza volerlo e, senza dubbio, senza saperlo, o senza volerlo sapere, rompe i codici stabiliti. Troppo occupato dal suo desiderio, accecato dalla sua passione, non sa nulla n vede nulla, lui non esiste pi: lui cerca. Cane da caccia che insegue la sua preda fino alla sua tana, pesce torpedine che paralizza chi entra in contatto con lui, tafano che pizzica e tormenta colui che lo avvicina: le metafore persuasive non mancano per spiegare o giustificare il suo assassinio. La morte di Socrate, gesto inaugurale della filosofia occidentale, non totalmente inevitabile? Ma perch il fatto di questionare laltro potrebbe rendere la sua presenza cos insopportabile per i suoi concittadini ateniesi, che nel mito socratico non rappresentano nientaltro che lessere umano nella sua generalit? Certamente alla lunga, vivere con un tale personaggio pu rivelarsi difficile, in particolare per i suoi parenti, ma perch si attirerebbe un tale odio? Sicuramente, un odio che non si attirerebbe se si accontentasse di essere in disaccordo con i suoi simili e neanche se non facesse che insultarli, come i cinici. Ma il questionare filosofico bisogna crederlo decisamente pi corrosivo dellaffermazione. Si interessa da troppo vicino alla parola dellaltro, e laltro in verit, contrariamente a ci che spesso proclama, non desidera che ci si interessi da troppo vicino alla sua parola. Poich laccesso che conduce dalla sua parola fino al suo pensiero troppo diretto, il legame tra il suo pensiero e il suo essere troppo esplicito. E se lindividuo, a partire dalla sua pi tenera infanzia, mette tutto in opera pur di dimenticare la propria finitudine, la sua imperfezione, la sua infermit e immoralit, non per accettare che una specie di perverso sbarchi e, in modo irrispettoso, intrusivo e brutale, domandi come si nomina questo handicap, o questa piaga che con molto sforzo nascondiamo, mentre i vicini girano pudicamente e automaticamente lo sguardo se mai qualcosa dovesse esser svelato solo un tantino. Che specie simpatica che quella delluomo, che spende tante energie per nascondere la sua natura individuale, realt di cui si vergogna, una natura specifica che arriviamo a considerare, n pi n meno, come una di quelle malattie dallorigine incerta di cui bisogna nascondere sia lesistenza che la causa. senza dubbio per questa ragione che lui ignora la sua vera natura, quella dessere umano.

CATTIVE MANIERE

In conseguenza alla realt socratica e ai conflitti che genera, risulta il termine finale o iniziale della messa in accusa: Tu devi avercela con me, o altrimenti, Le tue intenzioni devono essere cattive. Poich, non naturale interessarsi in tal modo ai discorsi e al pensiero altrui, non normale interrogare in una simile maniera, invece di dire e di affermare, decorticare in un modo cos abusivo la pi piccola parola che ascoltiamo considerato indecente. Una rottura delle tradizioni che mette in questione landamento abituale. Perch, se un tale comportamento non fosse considerato perverso, allora, non potremmo che ammirare un simile uomo, un saggio capace di una tale ascesa, di una simile indigenza, animato da una tale fiducia nellaltro e che, quale che sia il suo consimile, crede in permanenza di poter scoprire la verit. Giacch, ci che in fin dei conti anima Socrate. Ma ahim, la fragilit umana, la sua insicurezza, percepisce questo procedimento fiducioso e seducente come unaggressione. Questionare qualcuno dichiarargli la guerra, volerlo umiliare, significa provare a ridurlo a nulla o, in breve, obbligarlo a pensare e, soprattutto, obbligarlo a pensare a se stesso. Conosci te stesso! Cos tu conoscerai luniverso e gli dei. Infatti, che significherebbe loggetto conosciuto se ignorassimo lo strumento del pensiero, lo spirito stesso, come lo ricorda Hegel? Ora, precisamente la conoscenza del nostro spirito che ci spaventa. Poich, se siamo sedotti quando qualche filosofo che parla bene ci spiega lapertura dellanima umana, considerata nella sua generalit, o quando comprendiamo, o intravediamo laccecamento o la banalit nella quale vivono i nostri concittadini, tuttavia, quando ci accorgiamo che il discorso si indirizza a noi personalmente, allora, ci smontiamo violentemente. Questo non si fa!

ACCETTARE LA FINITUDINE

Dunque, come riconciliarsi con la propria parola e quindi riconciliarsi con se stessi, se non accettando di vedere le aperture e le tare che affliggono il nostro discorso, se non contemplando le rigidit che ne costituiscono lelaborazione e intravedendo i limiti che ne rappresentano lestensione? Riconciliarsi con la propria parola, significa accettare la finitudine, limperfezione, a rischio di un profondo sentimento di ridicolo. Non amiamo i nostri genitori e i nostri vicini a discapito dei loro difetti o dei loro tic? Dobbiamo essere ciechi per amare coloro che ci circondano? Se questo il caso, rischiamo seriamente di smontarci non appena gli occhi si aprano, per effetto dellusura del tempo o in contraccolpo a qualche avvenimento fortuito e generalmente drammatico. La stessa cosa accade nel rapporto con noi stessi. Possiamo sicuramente provare, coscientemente o no, a trattenere lillusione di una trasparenza, di un benessere, di una soddisfazione, di una contentezza qualunque, rischiando la compiacenza effimera, o frammentaria, e una delusione certa. qui che Socrate in questione, o il suo equivalente, lo straniero dei dialoghi tardivi, pu esser considerato come il nostro vero amico. Colui che osa parlarci in assoluta franchezza, colui che osa puntare il dito verso laltrove. Questaltrove quello che ci obbliga a portare dei paraocchi, poich come il classico cavallo da carretta, non potremmo sopportare certe realt laterali: ci renderebbero nervosi. Guardiamo dritto davanti a noi e perseguiamo il nostro cammino senza preoccuparci delle richieste che arrivano dai margini e che ci farebbero esitare, dubitare, che potrebbero addirittura paralizzarci. Socrate ci interpella: Ehi amico, vedi quello che accade qui? Che pensi di questo, o di quello? Cos ci ascolta mentre rispondiamo, con la falsa ingenuit che lo caratterizza. Ma lumano furbo, cos come il cane o il felino, lui sa sentire il vento. Istintivamente vede la bestia sopraggiungere. Ed qui che si trova lesperienza cruciale, il momento della decisione, quella che separa gli umani dagli umani. Vuole reagire biologicamente e fuggire o aggredire colui che minaccia la sua integrit esistenziale? O invece, percepir questuomo dallaspetto e dal discorso strano come il 7

vero amico che non ha mai incontrato? Lamico che non ha amici. Linnamorato senza amante. Colui che animato da una passione senza oggetto. O invece, ne lui stesso loggetto, anche ignorando chi ne sia il soggetto, quale ne sia il soggetto. Ben inteso, un amico divertente, dallumorismo pi che strano: qual questironia che solo una bugia? Come possiamo dargli fiducia? E carne o pesce? E a mo di discorso, ci interroga. Peggio ancora, ci costringe alla scelta miserabile se ce n veramente una tra un si e un no, tra un questo e un quello. Perch visibile che molte di queste domande sono tranelli. Ma allo stesso modo, poich noi ci siamo lanciati in questa prospettiva impossibile, vediamo come questuomo, che non ha nulla di umano, possa ancora volerci del bene. Giustamente, non ce ne vuole, del bene. qui il suo principale interesse. Lui, non vuole che il suo proprio bene, lo cerca, ha bisogno di noi, lo dice, non che un quarto dironia, quando domanda a tutti e a ognuno di diventare il suo maestro, il maestro che cerca da sempre. Sicuramente, a termine, la frequentazione di un tale essere non pu diventare che insopportabile. Ma ha mai domandato a qualcuno di vivere con lui? I suoi interlocutori sono numerosi, sembra che ne cambi frequentemente con il susseguirsi dei dialoghi, e ci non deve essere una casualit. Coloro che dice di amare cambiano con il succedersi dei dialoghi. Platone, che far di questessere la sua prelibatezza, prima di lanciarsi verso la propria traiettoria, lha conosciuto solo per breve tempo. Ci spiega senza dubbio la passione che lo anima. A termine, leffetto corrosivo dellinterrogazione non pu che provocare lallontanamento.

UN AMICO CHE NON VUOLE IL NOSTRO BENE

Tuttavia, ci che rende Socrate vivibile, come abbiamo gi detto, ci che lo rende un vero amico, proprio il fatto che lui non vuole il nostro bene. Non vuole convincere di nulla, non desidera mostrarci il vero cammino. Ci questiona, semplicemente, e ci invita a vedere, a vedere ci che non vediamo, ci che non vogliamo vedere, a vedere ci che insopportabile. In questo senso, ci invita a morire. Poich se filosofare apprendere a morire, qui non questione di una morte ulteriore e finale, ma di quella di ogni istante. Quella che incombe, cos come la spada di Damocle, al di sopra delle nostre teste stordite dallinfatuazione del quotidiano. Divertimento pascaliano. Le nostre idee sono costituite da queste molteplici opinioni che ci bastano per giocare le regole del gioco. Gioco della societ, gioco della famiglia, gioco dei desideri e delle ambizioni personali, ricerca della felicit, della grande o della piccola felicit. La perseveranza nellessere, il conatus spinoziano, troppo spesso concepito come quello di una pura esteriorit. Vivere assume generalmente il senso di una molteplicit di obbligazioni, interne ed esterne, che si tratterebbe di soddisfare, sia bene che male. Pertanto, lessere non che uno, per Socrate come per Spinoza, anche se questa unit non esclude nessuna molteplicit, anzi al contrario. Tuttavia, il frammento ne la sostanza viva, poich non si tratta neanche di prendere il volo verso un al di l dellal di l dove si anniderebbe ogni realt. Come ben racconta il mito della caverna, il filosofo che noi siamo non saprebbe vivere fuori dalla caverna: il suo luogo di predilezione. in noi lamico che ci da una cattiva coscienza, colui che lasciamo parlare per riderne alla prima occasione, e dopo ci arrabbiamo per farlo tacere. Poich non siamo sempre e spesso dellumore adatto per farci interrompere o per farci turbare il nostro piccolo tran-tran, per farci travolgere lequilibrio instabile che bene o male riusciamo comunque a far funzionare. Filosofare, pensare limpensabile, un impensabile che non ci permette affatto di esistere. Ci obbliga allevidenza, al certo, allatteso. Preferisce il certo, ama il probabile, e teme 8

limpossibile. Di quando in quando, per inoperosit, per stanchezza, o per risorgiva dellessere, autorizza il sorgere dello straordinario, dellimprevisto, dellinaudito. A dosi omeopatiche, o per un tempo ristretto e spesso in modo perverso. Lamore, il divertimento, la visione mistica, lebbrezza, sono altrettante maniere con cui la vita si distrae da se stessa, per gioco e per oblio. La filosofia esige una simile rottura in modo cosciente, deliberato e costante. Ovviamente, ognuno avr conosciuto, in un momento o in un altro, un attimo filosofico, questistante in cui il senso precipita, in un altro senso o nellinsensato. E il vissuto di questistante potr generare, anche se raramente realizzare, un desiderio daltrove, non laltrove in cui vivere, ma laltrove che la vita. Anche se qualcuno, anche qui lo spirito straordinariamente furbo, cerca di instaurare una vita fuori dalla vita, al di l della vita. Riconciliarsi con la propria parola, cos come riconciliarsi con i propri vicini, implica il fatto di non avere pi delle aspettative e, quindi, di non essere pi frustrati o delusi, o meglio ancora, di non poter essere delusi e frustrati. Ci, comunque restando, non implica assolutamente labbandono dello spirito critico, anzi al contrario. Perch, molto spesso, ci che impedisce di impegnarci in unanalisi corrosiva e profonda delle intenzioni e degli esseri, il timore della perdita, attraverso il timore del contrasto, della ferita, o semplicemente quella della suscettibilit oltraggiata. A partire dal momento in cui non sussiste nessun desiderio di conservare un attaccamento altro che quello legato alla ricerca comune della verit, generata per se stessa, cosa resta da temere ? Molto naturalmente, se non sottoposto a maltrattamenti nel suo impeto, se non ha preso labitudine ad ostacolarsi di pensare, lo spirito pensa: lui sa ci che percepisce in un rapporto intimo e dinamico con la matrice dei pensieri che ha costituito durante gli anni. Ben inteso, queste matrici saranno pi o meno elaborate, pi o meno fini e pi o meno fluide, ma costituiranno comunque per ogni soggetto pensante launa/misura di ogni nuovo pensiero, il riferimento attivo, il luogo originario, quello da cui tutti i pensieri provengono, dove tutti i pensieri fanno ritorno. daltronde in questo senso che la parola accesso allessere, che la parola finisce di essere un discorso. Poich in questintimit con se stessi, loggetto del pensiero non pi un oggetto, ma il soggetto stesso. Il soggetto pensante diviene, allora, loggetto diretto del pensiero, la mediazione diviene il luogo dellimmediato, di un immediato cosciente e riflesso.

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