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L'IDEA DI MONDO

piuttosto un atteso imprevisto. Come accade in ogni


ossimoro, i due termini sono in reciproca tensione, m :~
indisgiungibili. Se in questione fosse solo un salvifcu
imprevisto, o solo una lungimirante attesa, si avrebbe
a che fare, rispettivamente, con la pi insignifiante ca
sualit o con un banale calcolo del rapporto tra me7.:r.;
e fini. Invece, si tratta di una eccezione che sorprend e
specialmente chi l'aspettava; di una anomalia tanto preziosa e potente da mettere fuori gioco la bussola concettuale che, pure, ne aveva segnalato con precisione i l
luogo di insorgenza; di una discrepanza tra cause cd
effetti della quale si pu sempre cogliere la causa, sen:r.:\
che per questo ne risulti attutito l'effetto innovatore.
Alla fin fine, proprio l'esplicito rimando a un al teso imprevisto, ossia l'esibizione di una necessaria in completezza, a costituire il punto di onore di ogni teoria politica che disdegni la benevolenza del sovran o.

L'uso della vita


a Valerij Pavlovic

I.

Tatto

Nell'uso prevale il tatto a discapito della vista (del


theorein, dello sguardo teorico-contemplativo). L' oggetto visivo ci fronteggia da una certa distanza: indipendente dall'osservatore, esso passibile di una ricognizione disinteressata. L'uso non ha mai a che fare
con qualcosa che sta di fronte, quindi con un oggetto
in senso stretto, contrapposto all'Io. Che si tratti di
parole o di indumenti, di un lasso di tempo o di un
teorema, quel che si usa adiacente, collaterale, capace
di attrito. La cosa utilizzata retroagisce sul vivente che
la utilizza, trasformandone la condotta. la medesima
riflessivit che contraddistingue l'esperienza tattile:
chi tocca un ramo toccato a sua volta dal ramo che
sta toccando.
Tanto l'uso che il tatto non enucleano le propriet
caratteristiche di un ente, ma colgono 'la sua appropriatezza (o, viceversa, la sua refrattariet) all'attivit
in corso. L'uso segnato in lungo e in largo dall'interesse, nell'accezione pi letterale del termine: inter-esse, essere-tra, assorbimento in una relazione che lede

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L'IDEA DI MONDO

l'autonomia dei poli correlati. Preso dall'interesse per


l'arnese di cui si serve, l'agente non pu definirsi adeguatamente senza menzionare questo arnese, anche se
-' esso nulla aggiunge alla sua natura o essenza.

2.

Preposizioni

Il corrispettivo linguistico dell'uso non va cercato


nell'attribuzione di un predicato a un soggetto grammaticale. Il maneggio tattile, sottaciuto o travisato da
nomi e verbi, espresso piuttosto dalle preposizioni.
Esse collegano e sorreggono, sono i simboli dell'inter-esse, segnalano appropriatezze e attriti. Le preposizioni significano soltanto le relazioni che esse stesse
istituiscono; si conf9rmano alla situazione contingente, mettendo in luce ci che i grammatici medioevali chiamavano circumstantiae rerum; documentano
l'impiego che si sta facendo delle parole davanti alle
quali sono collocate. Usare qualcosa, per esempio un
elicottero o un enunciato ironico, vuoi dire: a un certo
scopo, in uno specifico contesto, per esibire una abilit o un ruolo, con l'ausilio di molteplici gesti, tra amici
o sconosciuti, da un certo luogo.
Nomi e verbi vengono usati dai parlanti, al pari di
qualsiasi altro utensile. Ma sono le preposizioni a dare
conto dell'uso in quanto tale, di quell'uso che peraltro, stando a Wittgenstein, determina il significato di
nomi e verbi. Il pensiero dell'uso un pensiero preposizionale.

L'USO DELLA VITA

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Glossa

Ammettendo per un momento che l'uso forgi il significato di


tutte le parole, occorre chiedersi per qual il significato della
parola 'uso'. Se rispondessimo che esso pure dipende dal modo
in cui usiamo questa parola, cadremmo in un circolo vizioso o in
un regresso all'infinito. A specificare fin nelle sfumature il significato di 'uso' invece il funzionamento di quei termini che, privi di un autonomo contenuto semantico, concorrono a formare e
a variare ogni sorta di contenuti semantici: 'per', 'con', 'in', 'tra' ,
'kat', 'durch' ecc. Le preposizioni sono la realt empirica, non7
ch la controfigura politeistica, dell'uso; l'uso l'idea, o il nome
comune, delle preposizioni.

3. Tavoletta di cera

L'uso l'attivit basilare da cui scaturiscono tanto la


produzione (poiesis) che l'azione politica (praxis). Poich la radice di entrambe, esso non pu essere equiparato all'una o all'altra. Suo tratto peculiare l'indistinzione di poiesis e praxis, o anche, ma lo stesso, la
loro inestricabile mescolanza. L'uso di un terreno o di
una informazione "politico" nella precisa misura in
cui anche "produttivo"; e viceversa. Secondo Aristotele, la poiesis confida nella tecnica (techne), mentre la
praxis fa conto sulla saggezza (phronesis, vocabolo che
sarebbe meglio tradurre, profittando del titolo di un
film di Spike Lee, con 'abilit nel fare la cosa giusta') .
Ebbene, nell'uso di un terreno o di una informazione,
la techne sempre intrisa di saggezza e la phronesis
di tecnica. Sarebbe un errore clamoroso criticare la
produzione e la politica in nome dell'uso. Quest'ul-

L'USO DELLA VITA

L'IDEA DI MONDO

timo diverge, s, dalla produzione e dalla politica, ma


soltanto perch la loro comune premessa. Ci vuole
molta spensieratezza per credere che A, retroterra e
co.n dizione di possibilit di B e di C, sia una sorta di
Crono intento a distruggere i suoi figli, ossia a screditare e divellere B e C. Cos fischiettando, si scambia la
matrice ancora non specificata di ogni operativit per
l'emblema di una esistenza inoperosa. Sono assicurati
gli applausi dei redditieri e dei mediocri letterati che
menano vanto della loro estraneit ai conflitti politici.
Spostiamo ora l'attenzione dall'uso come attivit
agli enti cui esso si applica. Nel modo di essere delle
cose usabili viene meno un'altra distinzione cara alla
tradizione filosofica: quella tra potenza e atto. La cucina, il computer, il dizionario di cui ci serviamo sempre
di nuovo sono indubbiamente realt in atto, dotate di
una forma inconfondibile, niente affatto latenti. Ma
la loro attualit, o presenza, ha molto in comune con
l'attualit, o presenza, di una tavoletta di cera su cui si
pu incidere qualsiasi testo. Le cose usabili sono atti
in cui prende corpo una potenza ancora inadempiuta,
mai esauribile del tutto dal cumulo dei suoi eventuali
adempimenti. Esse reificano questa potenza, esibendone l'incompiutezza nella loro concreta esistenza
spaziotemporale. La reificano, senza per attuarla._
Non mi sembra sbagliato dire che le cose usabili sono
la realt del possibile: ma, bisogna aggiungere, di un
possibile che resta pervicacemente tale. noto che l'enunciato su cui verte il paradosso del mentitore ('Io
mento'), se vero, allora falso; ma se falso, allora
vero. Analogamente, la cuciria, il computer, il dizio-

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nario, parenti prossimi della tavoletta di cera, se sono


considerati degli atti, prendono subito l'aspetto di potenze; ma se vengono intesi come potenze, non tardano a far valere la loro natura di atti. Anzich alternarsi
nel tempo, le due nozioni canoniche, dynamis e energheia, convergono e si sovrappongono. Si pensi alle figure ambivalenti studiate dalla psicologia della Gestalt:
in un medesimo intrico di linee si pu scorgere sia il
profilo di un coniglio sia quello di un'anatra. Anatra
e coniglio a un tempo ogni ente sottoposto all'uso.

Glossa
Da alcuni decenni a questa parte, il processo di accumulazione capitalistico poggia in misura crescente, e talvolta preponderante, su risorse che possono essere usate pi volte da molti
soggetti, senza nulla perdere della loro consistenza iniziale: conoscenze, invenzioni, apparati comunicativi ecc. Ci spiega perch l'odierna produzione di merci sfoggi spesso quel connubio
di poiesis e praxis, prestazione lavorativa e azione politica, che
il segno di riconoscimento dell'attivit di uso. Spiega perch
le mansioni cui si adibiti in fabbrica o in ufficio richiedano la
phronesis non meno della techne. Spiega perch la materia prima
su cui si interviene sia potenza reificata, realt del possibile, tavoletta di cera. Predisposte a un uso ripetuto e plurale, le risorse
epistemiche e linguistiche sono per catturate, computate, scambiate come se fossero beni consumabili una sola volta e da un
unico soggetto. Per intendersi: una conoscenza biologica trattata alla stregua di un metro cubo di gas, di cui nulla resta dopo
essere stato bruciato. cos che l'economia politica, scienza della
scarsit, governa i fenomeni che pi la contraddicono e, anzi, fa
di essi il proprio autentico baricentro. Questo sistematico quid
pro quo, grazie al quale l'uso viene trasfigurato a consumo, l'asse portante del capitalismo contemporaneo, ma anche un focolaio della sua crisi permanente.

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L'USO DELLA VITA

L'IDEA DI MONDO

4 Quel che l'uomo pu fare di se stesso

,Usiamo macchine, scarpe, mappe in vista della


nostra vita, della sua conservazione e del suo potenziamento. Ma usabile , innanzitutto, la stessa vita in
vista della quale si usano macchine, scarpe, mappe.
l'uso di s, della propria esistenza, il presupposto e
l'architrave di tutti gli altri usi.
Sempre tattile, e per nulla visivo, il rapporto che
intratteniamo con la nostra vita. Non si d mai il caso
che essa si profili come un oggetto che ci sta di fronte, da indagare e rappresentare. N o n fine a se stessa,
ma aperta a utilizzazioni dissimili, la vita avvertita
dall'animale umano come qualcosa a portata di mano,
che incombe e preme, dal quale si toccati nel preciso
momento in cui lo si tocca.
Merito grande di Foucault di avere mostrato che nel
mondo classico il troppo celebrato precetto gnothi seauton, conosci te stesso, fu soltanto un tardo corollario, e
perfino una storpiatura, della ben pi fondamentale epimeleia heautou, cio dell'uso e della cura di s. Mentre
il gnothi implica la preminenza della vista, del theorein
con cui un soggetto imperturbabile scruta l'oggetto che
gli si para dinnanzi, l' epimeleia si risolve interamente in
un saggiare manipolativo. Non si tratta tanto di studiar
le proprie facolt (percezione, memoria, immaginazione
ecc.), quanto di affinare il modo di servirsene. Anzich
descrivere quel che l'uomo , occorre prospettare quel
che egli pu fare di se stesso grazie a un esercizio quotidiano il cui nome meno difettso forse spie! o play: al
.
. .
tempo stesso g10co e reCitaziOne.

161 .

Glossa
L'uso della vita legato a doppio filo all'uso del linguaggio.
Non concepibile l'epimeleia heautou, la cura di s, senza l'epimeleia logou, la cura dei propri discorsi. E viceversa, beninteso. Una osservazione di Wittgenstein (1969, pp. 154 sg.) aiuta
a chiarire la faccenda: "Un segno pur sempre l per un essere
vivente, dunque questa deve essere una cosa essenziale al segno".
-Gi, ma come si definisce un essere "vivente"? Sembra che qui
io sia pronto a definire l'essere vivente ricorrendo alla capacit di utilizzare un linguaggio segnico. E in effetti il concetto di
essere vivente ha una indeterminatezza del tutto simile a quella
del concetto "linguaggio". Per spiegare che cos' un segno linguistico, devo soffermarmi sull'impiego che ne fa un vivente; per
spiegare che cos' un vivente, devo menzionare la sua propensione a servirsi dei segni linguistici. Rimandando l'uno all'altro
e sostenendosi a vicenda, i due termini, vita e logos, rivelano la
loro comune indeterminatezza. Ora, proprio l'indeterminatezza a rendere possibile, anzi inevitabile, l'uso. Usabili, appunto
perch indetenninati, sono sia la vita sia il linguaggio; entrambi
abbisognano di una ininterrotta modulazione, cos da circostanziarsi in spartiti o copioni ben articolati (abitudini, ruoli, gerghi,
tropi retorici). A esprimere questa duplice usabilit provvede la
componente pi indeterminata del linguaggio: le preposizioni.
Ci che fissa e poi modifica i significati verbali , s, l'uso, come
recita lo slogan wittgensteiniano, ma, si badi, l'uso della vita da parte
dei parlanti. Quest'ultimo si realizza anche con i discorsi, ma ncin si
limita di sicuro a essi. Il contenuto semantico di 'quadro', 'amore',
'santit', 'soldi', 'addizione' non dipende tanto dal modo in cui utilizziamo tali vocaboli, quanto dall'intreccio di attivit linguistiche e
non-linguistiche in cui si esplica l'utilizzazione della nostra esistenza. Stanley Cavell ha scritto (1979, pp. 246 sg.): Non si possono
usare le parole per fare ci che noi facciamo con esse finch non si
iniziati alle forme di vita che danno a quelle parole lo scopo che
esse hanno nella nostra vita. Giusto, a patto per di intendere per
<<forme di vita>> niente di pi e niente di meno che i diversi usi cui
soggetta la vita.

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L'USO DELLA VITA

L'IDEA DI MONDO

5. L'animale maldestro
L'uso di s si fonda sul distacco da s. Mette radi-

~i nella ~ancata aderenza all'ambiente nel quale siamo nondimeno situati e alle pulsioni psichiche che di
volta in volta ci padroneggiano. A venire utilizzata
una esistenza con cui non sempre ci si immedesima,
che non si possiede appieno e che, pur non essendo
di certo estranea, neanche risulta pienamente familiare. L'uso della vita compare l dove la vita si presenta
come un compito e, insieme, come lo strumento che
consente di assolvere questo compito. Detto altrimenti: l'uso della vita attiene alla specie che, oltre a vivere,
deve rendere possibile la propria vita.
Nell'impiego del proprio corpo, l'animale umano
maldestro, esposto all'errore e al colpo a vuoto. In
un dibattito recente, un filosofo autorevole ha sostenuto che questo carattere difettivo, assente negli altri
animali, non impedisce tuttavia un uso di s anche nel
caso dell'uomo. Non sono d'accordo. Ritengo che si
possa parlare a buon diritto di uso di s soltanto (dunque non 'anche' o 'perfino') a proposito di un essere
maldestro, segnato da una parziale inettitudine, votato all'incertezza. Maldestro, o neotenico (cio cronicamente infantile), il vivente distaccato da s medsimo, che mai coincide del tutto con le sue opere e i suoi
giorni: ma, come dicevo poc'anzi, sono per l'appunto
questo distacco e questa non-coincidenza a consentire
l'uso della vita.

6. Avere

Affermare che l'animale umano serba un distacco


nei confronti della sua stessa vita, delle pulsioni da cui
mosso, deUa lingua nella quale dimora, equivale ad
affermare che l'animale umano non questa vita, queste pulsioni, questa lingua, ma le ha. Il verbo 'avere', a
differenza di 'essere', esprime una relazione di appartenenza che, per, esclude risolutamente l'identit tra i
termini in essa coinvolti. Ed proprio il deficit di identificazione con le doti di cui si dispone a dischiudere la
possibilit di usarle con spregiudicatezza. Usiamo soltanto ci che abbiamo, mai ci che ci consustanziale
al punto da non riuscire a distinguercene.
Nel saggio 'tre' et 'avoir' dans leurs fonctions
linguistiques (I 960 ), mile Benveniste nota che il verbo 'avere', assente in molte lingue, trae origine dalla
precedente e assai pi diffusa costruzione 'y a x', 'il
cappotto a Giovanni'. Il consueto habeo aliquid, 'ho
qualcosa', non altro che "una variante secondaria e
di limitata estensione" (ivi, p. 233) di mihi est aliquid,
'qualcosa a me'. L'importanza filosofica di 'avere'
viene in piena luce non appena lo si riconduca all" essere-a' da cui deriva. Il soggetto logico, insomma colui
che ha, perde la sua posizione prominente, sancita dal
nominativo, acconciandosi al ruolo di complemento
declinato al dativo; non regge n introduce alcunch,
ma retto e introdotto dalla preposizione 'a'. Da 'a',
ma anche, a pari titolo, dalla preposizione 'presso': in
russo 'ho il libro' diventa u menja est' kniga, 'il libro
presso di me'.

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L'USO DELLA VITA

L'IDEA DI MONDO

Di grande interesse sono i casi in cui la costruzione.

'y a x' mette in risalto un requisito che contribuisce a


definire la natura di x. Vale a dire: uno di quei requisiti
in assenza dei quali x verrebbe meno all'istante. Si pensi
al sintagma coniato da Aristotele (Pol., I 2 53 a 9- I o) per
designare la nostra specie: zoo n logon echon, l'animale
che ha linguaggio, ossia l'animale a cui (o presso cui) il
linguaggio. E si pensi alla tesi che funge da stella polare
nell'antropologia filosofica di Helmuth Plessner (I 94 I,
pp. 67 sgg.): l'uomo ha un corpo, anzich limitarsi a
esistere in quanto corpo; lo ha perch pu trattarlo a
mo' di strumento, agire con esso e su di esso, servirsene
ai pi diversi scopi. Affine la constatazione carica di
meraviglia con cui si apre una poesia giovanile di Osip
Mandel'stam (I9I3, p: 9): M' dato un corpo (Dano
mne te lo) - che ne far io di questo dono cos unico e
mio?. In gioco, nel sintagma aristotelico e nella tesi di
Plessner, non un avere che si aggiunge all'essenza del
primate Homo sapiens (come accade invece negli enunciati 'il freddo era all'alpinista' e 'la paura presso il
soldato'), ma un avere che costituisce il nocciolo duro
di tale essenza. Niente affatto stravagante, il ricorso al
verbo 'avere' indica con precisione il rapporto che l'animale umano stabilisce con i suoi caratteri distinti~i.
Giacch sono a lui, il linguaggio, il corpo, le emozioni, l'immaginazione e perfino la vita gli si presentano
come qualcosa di imprescindibile, certo, ma anche di
estrinseco. L''essere-a' corrode l'egemonia della copula ''. Mentre 'x y ' ('l'uomo linguaggio', mettiamo)
proclama l'unit simbiotica di soggetto e predicato, 'y
a x' ('il linguaggio all'uomo') d a vedere uno scarto,

o almeno una imperfetta fusione, tra l'attributo e l'ente cui si attaglia. Lo scarto in questione non comporta,
ovviamente, che il primate Homo sapiens possa separarsi dalla sua natura o riplasmarla a piacimento, ma che
questa natura, n labile n cangiante, predisposta fin
dal principio a utilizzazioni dissimili.
Si usa quel che si ha. L'animale umano, presso il
quale sono la vita e il linguaggio, non cessa mai di farne uso. Egli ha, e quindi usa, la sua essenza. Ma usare
la propria essenza (ousia o quid est, nel lessico antico)
non cosa diversa dall'usare se stessi. In 'y a (o presso) x', sia y sia x si riferiscono a un unico e medesimo
soggetto, per esempio a una donna di nome Raissa. A
variare soltanto l'aspetto su cui si appunta il riferimento: se y denota Raissa come insieme di attitudini e
qualit usabili, x segnala invece, in Raissa, la capacit
di usare le attitudini e le qualit che sono a lei. Coesistono e interagiscono, qui, i due significati speculari .
dell'aggettivo latino habilis (che non a caso discende
in linea diretta da habere, 'avere'): 'prestarsi all'uso' e,
all'opposto, 'essere in grado di usare'. Questo aggettivo si addice tanto a una gonna comoda e ardita, quanto a colei che sa indossarla con studiata noncuranza.
L'uso di s riservato al vivente che, avendo la propria
essenza, habilis in entrambe le accezioni del termine.

7 Fenomeni istituzionali

L'utilizzazione della propria esistenza, prerogativa


e onere di un animale maldestro, richied e addestra-

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L'IDEA DI MONDO

mento, esercizi prolungati, procedimenti sperimentali, acquisizione di tecniche, osservanza di regole. Gli
tisi di s non sono istintivi, n quindi naturali o spontanei. Tutt'al pi, diventano tali: la loro facilit non
altro che una difficolt superata; la grazia che talvolta
li caratterizza lascia intravedere in controluce l'origina~ia goffaggine.
L'addestramento, le tecniche, le regole di cui si nutre l'inclinazione a servirsi della propria vita costituiscono il fondamento antropologico (cio metastorico)
delle istituzioni. A dire meglio: essi sono i fenomeni
istituzionali, pervasivi e multiformi, che, solo a certe
condizioni e mai per intero, si cristallizzano in vere e
proprie istituzioni. Va da s che i fenomeni istituzionali, ossia le tecnologie del s indagate da Foucault
(1988), sono un campo di battaglia, non un territorio
liberato. Questo campo persiste pressoch inalterato,
al pari della pastura eretta o della facolt di linguaggio; mutevoli e sorprendenti sono, invece, gli esiti della
battaglia. Le lotte di classe hanno come posta in palio
il modo in cui si usa la vita. Non mancano di inventare
usanze inaudite, in grado di confin~e quelle fin l prevalenti nel museo degli orrori. Modificando le forme
tradizionali della epimeleia heautou, possono generare
istituzioni in rotta di collisione con la sovranit statale
e la compravendita della forza-lavoro, con il Ministero
degli Interni e il Fondo Monetario Internazionale.
L'uso della vita si avvale di tecniche e ha sempre
una tonalit istituzionale. lecito supporre, anzi, che
proprio esso stia all'origine delle nozioni di 'tecnica' e
di 'istituzione'. Da ci segue che l'uso di s e delle cose

L'USO DELLA VITA

circostanti non mai esente da regole. Adottando il


lessico di Wittgenstein: non mai sprovvisto di una
grammatica. Per evitare equivoci, bisogna introdurre,
qui, una distinzione concettuale. Le regole non sono
norme giuridiche. Tra le une e le altre non vi soltanto
una disomogeneit logica, ma anche un contrasto irriducibile. La regola fa corpo con l'uso, lo innerva e ne
innervata, non sussiste al di fuori di esso. Si potrebbe dire: l'utilizzazione della vita , insieme, attivit
bisognosa di misurazione e unit di misura, condotta
da controllare e strumento di controllo. Al contrario,
la norma giuridica scissa dall'uso, postula la sua sospensione (reale o ipotetica), lo trascende, gli applica
surrettiziamente criteri ricavati dallo scambio delle
merci (equivalenza dei prodotti scambiati, punizione
del debitore, risarcimento del creditore ecc.).
Chi assimila le regole alle norme, ignorando la loro
bellicosa eterogeneit, crede che l'uso possa eludere ed
esautorare la sfera del diritto in virt della sua sregolatezza, dunque in quanto resta immune da qualsivoglia
grammatica vincolante. una illusione perniciosa.
L'impiego variato della propria esistenza estraneo
alle norme giuridiche, e talvolta arriva addirittura a
scardinarle, soltanto perch si giova a ogni passo di
regole. Gli imperativi della legge stentano a stringere
la presa sui comportamenti collettivi l dove vigano
le prescrizioni e le unit di misura di una grammatica.
Se si misconosce la centralit delle regole nell'uso di
s, ci si consegna inermi, che lo si sappia o meno, al
dominio delle norme.

168

8. Il pronome 'noi'

l'

!l

.l
l

,j

L'USO DELLA VITA

L'IDEA DI MONDO

Lungi dal prediligere la solitudine, l'uso di s si inscrive fin dal principio nella sfera pubblica, accomunando il singolo vivente a una moltitudine pi o meno
estesa di suoi simili. Anche o soprattutto per questo
esso un fenomeno istituzionale (tassello permanente
deile istituzioni strettamente intese, inclini a ogni sorta di metamorfosi). Non anonimo, ma neanche interiore, l'uso di s mette capo al pronome 'noi'.
Inviso ai filosofi squisiti perch simbolo di sguaiate
insurrezioni operaie e portavoce della sordida complicit tra gli oppressi, questo pronome si colloca a
mezza strada tra la prima persona grammaticale, l"io'
che prende la parola,, e le altre due, il 'tu' cui rivolto
il discorso e l" egli' che all'enunciazione in corso resta
estraneo. mile Benveniste (1946, p. 278) osserva che
il 'noi' non una moltiplicazione di oggetti identici, bens un congiungimento tra l"io' e il 'non-io' .
Il 'non-io' implicito nel 'noi' pu assumere due volti
diversi: 'me + voi' o 'me + loro'. Nel primo caso, il
'noi' attesta l'unit dell"io' con una pluralit di 'tu'
compresenti ('voi'); nel secondo caso, invece, il 'noi'
indica la convergenza tendenziale tra l"io' e un insieme di 'egli' per il momento assenti ('loro' ).
Nell'utilizzazione della vita, sempre imperniata
sul 'noi', prevale ora la prossimit familiare del 'me +
voi', ora la distanza non priva di incognite (e anche di
rischi) del 'me + loro'. In ambedue i frangenti, per,
questo 'noi' qualcosa di diverso dal congiungimento di elementi definibili[ ... ]. Il motivo che ' noi' non

un 'io' quantificato o moltiplicato, un 'io' dilatato


oltre la persona, accresciuto e nello stesso tempo con
contorni vaghi (ivi, p. 28o, corsivo mio). Quel che
ciascuno fa del proprio corpo, va imputato di sicuro a
un 'io', ma a un 'io' che, dando libero corso alle pulsioni e alle facolt preindividuali che sono in lui, in
procinto di deporre i panni metafisici e giuridici della
persona. Il 'noi' indica il transito dal singolare al comune, nonch quello dal comune al singolare. un
segno dinamico, un commutatore, una soglia. Delinea
una terra di nessuno sulla quale non possono accampare diritti di propriet n l"io' vanitoso n il 'si' irresponsabile. precisamente in questa terra di nessuno
che prende dimora la epimeleia heautou.
Singolare e comune a un tempo, l'uso di s raffigurato nel modo pi congruo da due locuzioni del
francese popolare. Nella parlata del nord si trova un
paradossale, e per illuminante, je sommes, 'io siamo'.
Nel franco-provenzale, ci si imbatte nel suo equivalente speculare, nous suis, 'noi sono' (cfr. iv i, p. 28 I).
L'impiego della propria esistenza, intessuto di tecniche e regole, un fenomeno istituzionale il cui motto
araldico suona pressappoco cos: io usiamo, noi uso.

9 Limiti e crisi dell'uso


Nulla si comprende dell 'uso della vita da parte
dell'animale maldestro, se si trascura il peso del desueto, il contatto sconcertante con l'inconsueto, l'eventualit sempre incombente dell'abuso. Queste tre

I 70

L'IDEA DI MONDO

nozioni negative, cangianti storicamente per quel che


riguarda il loro contenuto, non sono per mai assenti
h ella epimeleia heautou. Attorniano come un'ombra
l'uso riuscito (ovvio, automatico), gli conferiscono
una inconfondibile fisionomia, contribuiscono insomma alla sua definizione.
La vita , insieme, attivit di uso (nella quale vige
l'indistinzione tra produzione a azione politica) e cosa
usabile (qualificata dalla giustapposizione di atto e
potenza). Merita l'appellativo di desueto o di inconsueto tanto un aspetto particolare di quella cosa usabile che la vita, quanto uno dei modi in cui si manifesta
la vita come attivit d'uso. Qui, tuttavia, trascurer la
differenza tra le due possibilit, !imitandomi a qualche
considerazione gene~ale.
Desueto un antico impiego delle nostre energie e
dei nostri talenti, ora non pi praticato, diventato anzi
bizzarro. Di esso rimangono le tecniche e le regole,
ossia la grammatica. Ma poich separata dall'uso effettivo, questa grammatica si riduce a reliquia psicologica. La forma di vita colpita dalla desuetudine rassomiglia a una tavoletta di cera riempita fino ai bordi da
una fitta ragnatela di scritte: atto, ma non pi potenza.
Inconsueto un impiego di noi stessi ancora sporadico e titubante. Vi gi un presagio di uso, ma soltanto un presagio, giacch mancano le tecniche e le regole
che dell'uso reale sono una componente indispensabile.
Alla luce dell'inconsuetudine, la vita si profila come un
coacervo di possibilit fluttuanti o, se si preferisce, di
frasi ipotetiche e smozzicate per la cui scrittura ci sembra di non avere a disposizione una tavoletta di cera.

L'USO DELLA VITA

Il desueto e l'inconsueto costituiscono i limiti


dell'uso. Limiti temporali, dato che il primo ne incarna il passat e il secondo ne adombra il futuro. l'uso
presente della vita a ritagliare l'ambito del desueto e
quello dell'inconsueto, istituendo cos il proprio passato e il proprio futuro. Si tratta quindi di limiti interni, tracciati unicamente da ci che vine delimitato. A
loro volta, per, il desueto e l'inconsueto determinano
l'identikit del processo che circoscrivono, ossia fissano le caratteristiche salienti dell'uso presente della
vita. Nelle sue manifestazioni quotidiane, l'utilizzazione della nostra esistenza oscilla tra i due antipodi,
e di entrambi serba tracce vistose. Capita a volte di
scorgere nel desueto le sembianze dell'inconsueto, ma
anche, all'incontrario, di riconoscere in ci che non
sappiamo ancora maneggiare il sosia, o almeno l'eco,
di ci con cui non abbiamo pi dimestichezza. In tal
modo, non si fa che portare al diapason il movimento oscillatorio che contraddistingue in ogni sua piega
l'impiego attuale della propria vita.
Se il desueto e l'inconsueto sono i limiti (temporali) entro cui ha luogo l'uso di s, l'abuso decreta la
crisi di quest'ultimo. Sia chiaro: un gesto o una frase
non risultano abusivi in base a una norma giuridica.
In questione piuttosto il contrasto tra due lati mai
separabili dell'uso stesso: il suo essere a un tempo
unit di misura e realt misurata, metro e corpo dotato di una lunghezza empirica, complesso di regole
e comportamento contingente cui le regole si applicano. L'inseparabilit dei due lati non implica affatto
la loro armonia. L'abuso una mossa nell'uso della

172

ti
l!

L'IDEA DI MONDO

vita che contraddice, o travalica, quelle regole senza


' le quali non sarebbe ... una mossa nell'uso della vita.
La mossa abusiva pu essere inibita in nome delle regole in essa incorporate, ma pu anche con~r~bui~e ~
una modificazione di tali regole. In entrambi 1 cas1, s1
alle prese con la crisi dell'uso ordinario. Una cr~si la
cui possibilit accompagna come un basso contmuo
l' epimeleia heautou. L'uso della vita non altro ~h e un
abuso tenuto a freno o, alternativamente, valonzzato
per la formazio~e di una nuova grammatica ..
Un cenno va riservato, infine, all'abuso rad1cale. Esso
consiste nel sospendere, o addirittura nell'abrogare, l'uso in quanto tale, trasformandolo in qualcosa di diver:so:
per esempio in un ,atteggiamento soltanto produ~t~vo
(pura poiesis), o in un atteggiamento soltanto pohtKO
(praxis esente da ibridazioni). Abusiva una techne senza phronesis, o una phronesis senza techne. Cos co~e
abusivo in sommo grado il passaggio dall'uso della v1ta
al suo consumo vorace o indolente. La vita consumata
somiglia a un barile di petrolio o a un cibo, beni ~he
si annullano nel momento stesso in cui sono goduti; la
vita usata ha molto da spartire, invece, con una lingua o
con una scrivania, cose che conservano a lungo l~ loro
potenzialit dopo che ce ne siamo serviti.

Il

o. La cura di s

Secondo Foucault, l'uso della vita esige una ininterrotta cura di s. Il motivo intuibile: non potremmo
servirei efficacemente della nostra esist~nza, se non

L'USO DELLA VITA

173

adottassimo giorno dopo giorno i provvedimenti necessari per fare di essa uno strumento ben temperato,
duttile, polivalente. Accurato chi predispone il proprio organismo psicofisico ai pi vari impieghi, preoccupandosi di garantire la sua costante maneggiabilit.
Nelle lezioni pubblicate con il titolo L'ermeneutica
del soggetto (2001), Foucault analizza le forme che ha
preso la cura di s nella societ ellenistica e nel cristianesimo delle origini. Ecco qualche esempio risaputo:
l'esame di coscienza, il rendiconto epistolare a un amico degli eccessi e delle carenze che hanno costellato il
pomeriggio appena trascorso, gli esperimenti mentali
sui diversi modi di reagire a eventi imprevisti, i precetti ascetici, la confessione, l'accorta amministrazione di
una vocazione o di una abilit, il ragionamento controfattuale ('se non fossi il musica o la cortigiana che
in effetti sono, allora agirei cos e cos'), l'allenamento
a recitare la parte di molti personaggi della commedia umana, l'evocazione congetturale di emozioni attualmente non condivise, la prontezza nel passare la
frontiera tra generi di discorso del tutto eterogenei.
Che cosa ricaviamo da questo elenco (e dal suo prolungamento virtuale)? Qual , insomma, il midollo del
concetto di cura?
Balza agli occhi che le pratiche in cui si riversa la
preoccupazione per la propria utilizzabilit consistono, a loro volta, in una peculiare utilizzazione di s. La
cura, che prepara a ogni sorta di maneggio tattile della
vita, gi, in quanto tale, un tastarsi e un maneggiarsi
da parte del vivente. Pi che un preambolo dell'uso,
essa il suo raddoppiamento riflessivo. Saggiando il

174

li
l

L'USO DELLA VITA

L'IDEA >I MONDO

nostro organismo psicofisico mediante simulazioni


'ed esperimenti, usiar(lO questo organismo allo scopo di
renderlo sempre pi usabile. In breve: la cura un uso
alla seconda potenza. L'esame di coscienza, l'ascesi, il
ragionamento controfattuale ecc. sono gremiti di tecniche e di regole la cui funzione eminente di facilitare l'acquisizione delle tecniche e delle regole da cui
dipendono i molteplici usi particolari dell'esistenza.
La cura di s il modo pi originario di usare la vita.
Sennonch, nella cura, la vita in quanto cosa usabile
coincide senza residui con la vita in quanto capacit di
usare; e, reciprocamente, la capacit di usare si presenta
fin dal principio con le fattezze di una cosa usabile. Ci
che tendiamo a manipolare con gli esercizi spirituali, o
con lo sforzo di immedesimarci in situazioni immaginarie, non altro che la nostra stessa tendenza a manipolare: la cura di s cura dell'anima come principio
di attivit e non gi come sostanza (Foucault 1988, p.
21). Allorch trattata essa pure come unacosa usabile,
la capacit di usare (sinonimo del principio di attivit
di cui parla Foucault) si rapprende in usanze, ossia in
un complesso di abitudini, disposizioni, posture.
Le usanze generate dalla cura, cio da quel~'uso
dell'esistenza che mira al potenziamento della facolt
di fare uso dell'esistenza, sono l'ambito in cui godiamo di noi stessi (del 'noi' che indica sia 'me+ voi' sia
'me+ loro'). Nel De doctrina christiana (l, 20), Agostino di Ippona contrappone l'uti, l'uso di qualcosa in
vista di qualcos'altro, al frui, il godimento di un oggetto per quel che esso , senza alcuna finalit estrinseca. E si chiede se gli uomini debban~ godere di s,

175

ovvero usare, o godere e usare insieme. Nelle usanze,


l'uti e il frui non si elidono, ma neanche si fondono.
Ferma restando la loro discrepanza, l'usare e il godere
si intersecano come due rette perpendicolari. Quando
si sedimenta in abitudini e disposizioni, la cura di s
include tanto il godimento dell'uso (o meglio, della capacit di usare), quanto l'uso del godimento. La duratura differenza tra uti e frui non esclude, anzi consente
e avalla, l'applicazione dell'uti alfrui e delfrui all'uti,
ossia una relazione in forma di chiasmo.

Glossa

Nell'epoca del capitalismo, la vita da usare si presenta come


forza-lavoro. Questo termine designa la potenza di produrre. O
meglio: designa tutte le potenze fisiche e mentali insite in un corpo
umano (facolt di linguaggio, abilit motoria, memoria, attitudine
all'apprendimento ecc.), a condizione per che esse siano indirizzate alla produzione. Comprata e venduta prima ancora di attuarsi
in specifiche operazioni lavorative, la dynamis che porta il nome
di forza-lavoro il punto di applicazione della moderna cura di s.
Occorre salvaguardare e qualificare e accrescere la propria potenza di produrre, ovvero la propria utilizzabilit all'interno dell'impresa capitalistica. Incessante e perfino frenetica la cura di s che
prepara un uso di s da parte di altri.
L' ermeneutica del soggetto>>, scandita da esercizi spirituali e
giochi di ruolo, ormai parte integrante del concetto di forza-lavoro. E contribuisce non poco a determinare il valore di scambio
di quest'ultima. L'esame di coscienza, lo studio dei modi in cui
bisogna reagire all'imprevisto, l'allenamento a recitare copioni
diversi, finanche la confessione, rifioriscono negli stages, nei corsi aggiornamento, insomma nella "formazione ininterrotta" cui
sono obbligati i lavoratori salariati. La cura dell'anima praticata
dagli stoici e dalle prime comunit cristiane ha un equivalente
caricaturale, ma non infedele, nell'atteggiamento oculato e guar-

I76

L'IDEA DI MONDO

L'USO DELLA VITA

mitolo~

dingo dei pezzeJ ti della terra che indulgono all'infame


gema secondo il ~uale ciascuno di essi sarebbe "imprenditore dt
se stesso".

r I. Sul palcoscenico

- La recitazione
l teatrale riepiloga e amp l'fi
.
1 ca 1 procedimenti mediJnte i quali l'animale maldestro, che mai si
identifica app~eno con le azioni e le passioni di cui protagonista, si s~rve della sua esistenza. Modello impareggiabile di uso della vita e di cura di s l'attivit dell'attore. La riflessiJ ne filosofica sull' epimeleia heautou toc,ca
il culmine nelle teorie (lontanissime da rovelli e vezzi
filosofici) chelhannodissezionato questa attivit, esami~
nandone una per una le articolazioni. Pi delle opere d1
Marco Aurelib e di Tertulliano, conviene tenere sott' occhio gli scritti di Stanislavskij, Mejerchol'd, Brecht, Grotowski. Per ricostruire con precisione le tecnologie del
s, occorre vagliare le tecniche cui ricorrono guitti e
mattatori allorch allestiscono, e poi eseguono, la rappresentazione di un dramma o di una commedia.
La cura di s, volta a garantire e a perfezionare l'utilizzabilit del proprio organismo psicofisico, si dispiega con eccezionale nitore nell'arco di tem~o in eu~
l'attore prende confidenza con il personaggio che Sl
accinge a interpretare. In vista della futura performance sul palcoscenico, egli affronta un assiduo lavoro su
se stesso, durante il quale si mette alla prova con im~
provvisazioni, indagini introspettive, test congegnati
dall'immaginazione, variazioni della gestualit e della ,

I 77

dizione. Secondo Stanislavskij (1957, pp. 4I sgg.), per


chi si prepara all'uso di s davanti a un pubblico, nulla
pi importante della reviviscenza (perei ivanie),
ossia del reperimento all'interno della propria esperienza biografica di avvenimenti e stati d'animo analoghi a quelli che segnano la sorte del personaggio.
Affinch il gioco di analogie abbia corso, necessario
che l'attore si coltivi, viaggi, frequenti mostre d'arte
e locali malfamati, collezioni con la meticolosit di
un botanico i pi diversi modi di vivere e di parlare. Stanislavskij ritiene, inoltre, che l'interprete debba
suddividere preliminarmente la parte assegnatagli (ovvero l'impiego che del suo corpo far sulla scena) in
una serie di compiti (zadaCi) particolari: carezzare
un giocattolo infantile durante un monologo venato
di nostalgia, lasciare intendere con una smorfia che di
quell'uomo cortese non bisogna fidarsi, fissare il cielo come se ci si aspettasse una impossibile rivelazione
ecc. Inutile dire che la reviviscenza e l'individuazione di compiti adeguati alle circostanze sono soltanto
esempi, scelti un po' casualmente, delle tecnologie
del s esibite dalla recitazione teatrale.
Considerato nel suo insieme, il training cui si sottopone l'attore nella fase che precede la messa in scena
di una pice non fa che prolungare e intensificare la
meditatio stoica. Cardine decisivo della cura di s, la
meditatio consiste nel collocarsi, per mezzo del pensiero, in una situazione fittizia nella quale bisogna imparare a destreggiarsi: si tratta insomma di diventare
colui che muore, o gode, o combatte sulle barricate,
o sprofonda nella disperazione. Grazie a questa pro-

L'IDEA DI MONDO

L'USO DELLA VITA

iezione mentale, ci si familiarizza con ruoli che prima


poi capiter di interpretare, elaborando in anticipo
gesti e battute appropriate. La meditatio un esercizio
di recitazione senza testimoni; gli esercizi di recitazione sono una meditatio pubblica, che prevede fin dal
principio il coinvolgimento degli spettatori. L'attore
inoperoso incarna una generica capacit di usare se
stesso: se si vuole, egli un 'per', un 'con', un 'tra',
un 'in' ancora non inseriti in una frase dotata di senso. L'attore impegnato nel training, non diversamente
dallo stoico dedito alla meditatio, comincia invece ad
applicare a sintagmi determinati ('la fuga di re Lear',
'la cocente delusione che mi aspetta') le preposizioni a
valenza libera di cui portatore.

Glossa

Nel teatro contemporaneo, il training, ossia la cura di s, costituisce spesso il fine ultimo dell'attivit dell'attore. Ci si prepara a una messa in scena sempre differita, soltanto ipotetica,
comunque inessenziale. La scuola di Grotowski ha radicalizzato
questa inclinazione a scindere l'interminabile potenziamento
della propria utilizzabilit da qualsivoglia utilizzazione effettiva. Come un ballerino pago dei quotidiani esercizi alla sbarra, o
un cantante desideroso unicamente di proseguire i suoi vocalizzi
propedeutici, l'attore nutre una tenace ripugnanza a passare dalle
prove allo spettacolo. La divaricazione tra training ed esecuzione contingente, cura e uso di s, un tratto distintivo delle attuali
forme di vita. Nella figura dell'attore interessato esclusivamente
al training si rispec.chia l'abitante delle metropoli che, volendo
rimanere sempre disponibile a tutte le parti possibili (al ruolo
del bohmien come pure a quello dell'informatico di successo
o, perch no, del rivoluzionario intransigente), si tiene alla larga
da ogni interpretazione univoca. Corrispondenza troppo vaga,
)

1 79

per. Ne propongo un'altra, pi circoscritta, non saprei dire se


alternativa o complementare alla prima. La predilezione dell'at'tore per un processo di formazione indipendente dalla messa in
scena condivisa, su scala pi ampia, dal lavoro intellettuale precario: noto, infatti, che la relativa autonomia di cui esso gode
nell'acquisizione e nell'arricchimento delle sue competenze linguistico-cognitive destinata a rovesciarsi in assoluta subordinazione allorch l'impresa capitalistica fa realmente uso di esse.
Il contrasto tra training e performance , forse, il sismografo di
conflitti prossimi venturi. Nel rigonfiamento senza precedenti
della cura di s trapela l'esigenza di sperimentare un diverso uso
della vita, ovvero modi inediti di calcare il palcoscenico.

12.

Effetto di straniamento

La radice di ogni uso di s, anche o soprattutto di


quello che ha luogo nella recitazione teatrale, un
persistente distacco da s. Soltanto il vivente che stent. a identificarsi con le azioni che compie e le parole
che dice in grado di utilizzare la propria vita come
uno strumento; egli soltanto ha la facolt di interpretare l'uno o l'altro personaggio davanti a un pubblico.
Dimostrando un notevole acume filosofico, Bertolt
Brecht si proposto di mettere in scena la condizione
che rende possibile qualsiasi messa in scena (nonch,
in generale, qualsiasi uso della vita) : il distacco da s,
per l'appunto. Anzich restare il fondamento celato
della sua prestazione professionale, la non identificazione con ci che fa e dice deve essete esibita senza
remo re dall'attore. Componente irrinunciabile della
recitazione di una parte la presa di distanza da essa.
Brecht ha chiamato Verfremdungseffekt, effetto di

I So

L'IDEA DI MONDO

straniamento, questa presa di distanza. Il Verfremdungseffekt, che i filosofi squisiti dileggiano come
una vecchia cianfrusaglia di pessimo gusto, porta in
superficie la radice recondita dell'uso di s, o, con pi
enfasi, d sembianze empiriche al presupposto trascendentale di tale uso. E scusate se poco.
L'abilit dell'attore brechtiano sta nel conferire un
aspetto innaturale, o addirittura inquietante, a vicende
e caratteri e modi di pensare con cui gli spettatori hanno la massima dimestichezza. La trasformazione di
ci che abituale-rassicurante in un insieme di fenomeni sorprendenti-minacciosi somiglia per certi versi
alla metamorfosi da cui scaturisce, secondo Freud, il
sentimento del pertUrbante. Con una differenza: a diventare estranea e spaventosa, nel teatro di Brecht,
l'attuale realt sociale e politica, non una remota protezione di cui godemmo nell'infanzia. Mentre il perturbante perlustrato da Freud ha una struttura diacronica (ci che un tempo fu abituale ritorna ora con un
volto minaccioso), il perturbante che Brecht intende
produrre di bel nuovo grazie al Verfremdungseffekt
rigorosamente sincronico (risulta minaccioso proprio
ci che adesso passa per abituale).
Per ottenere l'effetto di straniamento, l'attore proferisce le battute che gli spettano come se f~ssero citazioni tra virgolette, senza alcuna immedesimazione,
ma, anzi, nell'atteggiamento di chi prova stupore, di
chi contraddice (Brecht I 940, p. 98). E suggerisce con
accorgimenti di ogni tipo che le scelte compiute dal suo
personaggio non sono le sole concepibili: reciter in
modo da dare la pi chiara evidenza all'alternativa, da

L'USO DELLA VITA

r8r

far s che la sua interpretazione lasci intravvedere anche


le altre possibilit, mentre quella che si realizza sulla
scena non che una delle varianti possibili. [... ] Tutto
ci che egli non fa, dovr insomma essere contenuto e
racchiuso in ci che fa (ibid. ). Per mettere in risalto
il tenore storico dei fatti narrati, ovvero la loro caducit, l'attore assumer l'aria di chi getta su di essi uno
sguardo retrospettivo, mostrando di sapere quel che
accaduto in seguito (cfr. Brecht I949, 50-51). Scrive Brecht: La presa di distanza che lo storico compie
verso avvenimenti e modi di vivere del passato, l'attore
deve compierla verso gli avvenimenti e i modi di vivere
del presente (Brecht 1940, p. Ior). Nelle Tesi sul concetto di storia, quando intima allo storico materialista
di non immedesimarsi nell'epoca studiata, di segnalare le possibilit non realizzate di cui essa era gravida,
di tenere conto degli sviluppi intervenuti dopo il suo
tramonto, Walter Benjamin non chiosa qualche scipito
pensierino messianico di Scholem, ma attinge a piene
mani alle tesi di Brecht sulla recitazione teatrale.
Quale modello di uso di s desumibile dalla performance di un attore capace di provocare l'effetto di
straniamento? Come si ripercuote sulla epimeleia heautou la presa di distanza dal ruolo che si interpreta?
Che cosa significa utilizzare la propria vita esibendo
di continuo, con apposite tecniche, la condizione che
rende possibile ogni utilizzazione della vita, ossia la
non identificazione con ci che si fa e si dice? A me
sembra che il Verfremdungseffekt collochi l'uso di s
in prossimit dei suoi limiti: il desueto e l'inconsueto.
E che renda palpabile la crisi cui esso sempre espo-

182

L'IDEA DI MONDO

sto: l'abuso. Allorch prende l'atteggiamento di chi


prova stupore per le battute che recita, o allude ai
comportamenti alternativi che avrebbe potuto tenere
il suo personaggio, l'attore brechtiano tratta le battute
declamate e la condotta effettiva del personaggio come
_qualcosa che non pi o non ancora in uso, oppure
come qualcosa che viola le regole da cui l'uso dipende. Lo straniamento non implica, per, che l'attore si
astenga dal rappresentare vicende e tipi umani ben definiti, contentandosi di formulare commenti saccenti.
Anche se (o, per Brecht, proprio perch) non si immedesima con le loro gesta, egli sar un toccante zio
Vanja o un Macbeth memorabile. Parimenti, un uso
della vita che prenda le distanze da s medesimo, rivelando la sua fisionomia desueta o inconsueta o abusiva, non cessa affatto di essere un uso determinato e
contingente della vita. Lungi dall'attenuarle, la presa
di distanza accentua a dismisura la determinatezza e
la contingenza. La non identificazione con ci che di
volta in volta si fa e si dice diventa un elemento costitutivo di questo fare e di questo dire. N ellenistico n
- protocristiano, l'addestramento a fare uso finanche dei
limiti e della crisi dell'uso contraddistingue pittosto
l' epimeleia heautou del materialista contemporaneo.
L'effetto di straniamento il suo esercizio spirituale.

3. Gli appunti di regia di Wittgenstein

L'uso di s consiste i:n un intreccio di attivit linguistiche e non-linguistiche, discorsi e gesti taciturni,

L'USO DELLA VITA

domande e
fisiche, preghiere e ginocchia piegate.
sotto questo profilo, la recitazione teatrale un manuale prestigioso dei modi in cui
l'animale
utilizza la propria esistenza. La
'attore, infatti, ha il suo baricentro
sempre problematica, tra le battute
ne e i movimenti o le espressioni fi. le pronuncia. La fragilit di affetti
imperituri pu essere evocata sul pal;)Ul.ldl!lu se le parole 'tutto passa' sono acsobrio allargamento delle braccia.
E lo stesso
ovviamente, per la rappresentazione
della sorpresa o della noia, nonch per l'annuncio che
la cena servita
C' di pi. allestimento di uno spettacolo illaboratorioin cui l
scomposto l'intreccio di discorsi e
gesti che
l'uso della vita. Predisponendosi
a interpretare la lsua parte, l'attore imita il chimico: separa
. ci che in natura si presenta sempre
Vi una fase iniziale in cui
mescolato, anzi
un pugno, sorride, fugge, senza
egli deambula,
sono un ostacoloper l'azione, ne
nulla dire: le p l
guastano l'
e la fluidit. Secondo Stanislavskij,
prove opportuno che l'attore rinunci
durante le
del testo, sostituendole con suofischi, monotoni ta-ta-ti. Pi tardi, la
La sentenza di Goethe, in
,
cede
il posto a quella dell'epnnc1p10 era
in principio era il verbo. Ora la
vangelista
la scena: i movimenti e gli
parola domina
elaborati in precedenza sembrano
atteggiamenti

I 84

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jl

L'IDEA DI MONDO

disturbare l'intensit dei dialoghi. Ci si scambiano frasi


in uno stato di inerzia, senza nulla fare. Va da s che, in
ultimo, l'attore-chimico deve riunificare ci che fin l
ha tenuto diviso: le battute diventano allora un addentellato dei gesti, i gesti un ingrediente delle battute.
Sospendendo e poi ripristinando il sodalizio tra
attivit linguistiche e non-linguistiche, l'interprete
di una pice mette in luce l'ordito della forma di vita
umana (ovvero, ma lo stesso, l'ordito dell'uso della vita da parte degli animali umani). E d ragguagli
preziosi su un passaggio cruciale dell'antropogenesi.
Enunciati che faticano a inserirsi nella sequenza di gesti e movimenti, intraprese non verbali che stentano a
integrarsi con quel che si dice: tutto lascia pensare che
questa duplice difficolt abbia segnato per un periodo non breve il processo di formazione della nostra
specie. L'attore che intravede nella parola un intralcio
all'azione, o nell'azione un indebolimento della parola, riproduce in proporzioni lillipuziane il training
evolutivo dell'animale loquace.
Negli ultimi vent'anni della sua vita, Ludwig Wittgenstein non ha mai perso di vista il nesso indissolubile che lega assieme parlare e agire, semantica e motilit
corporea. Il suo campo d'indagine coincide in larga misura con i problemi che assillano attori e registi durante
la preparazione di uno spettacolo. Anche Wittgenstein,
come la gente di teatro, ricostruisce analiticamente il
connubio di enunciati e gesti mediante una miriade di
esperimenti, o meglio, di prov e. Si chiede, per esempio,
come bisogna immaginare la scena, solo in apparenza
semplice, di un operaio edile che ordina all'aiutante di

L'USO DELLA VITA

passargli una lastra (cfr. Wittgenstein 1953, 2); o quali sono le manifestazioni verbali e fisiognomiche del
dubbio, dell'attesa, del dolore. Egli chiama Sprachspiele queste prove sperimentali. Il termine tedesco viene
reso in italiano c on giochi linguistici. Propongo una
traduzione diversa: recite linguistiche. La variante legittima, giacch il verbo spielen (come l'inglese to play)
significa tanto giocare quanto recitare e suonare. Ma la
traduzione alternativa presenta anche qualche vantaggio da un punto di vista schiettamente teorico. In linea
di principio, un gioco pu essere soltanto verbale; una
recita, mai. Un gioco eseguito con le parole si limita
a presupporre certe pratiche non-linguistiche; la recita,
invece, mette esplicitamente a tema l'intersezione tra
queste pratiche e i discorsi, attestando la loro inscindibilit. Un gioco (elencare i colori che si conoscono,
per esempio) si staglia sullo sfondo di una forma di vita
(quella del pittore o del commerciante di fiori); la recita
include in s il preteso sfondo, lo rende appariscente, ne
fa una figura in altorilievo (si elencano i colori mentre
si danno gli ultimi ritocchi a una tela o si lega un mazzo
di fiori).
Sia le recite linguistiche di Wittgenstein sia le rappresentazioni teatrali non concedono nulla all'invisibile. Non svolge alcuna funzione, in esse, l'interiorit
psicologica. Quel che accade sul palcoscenico, vale a
dire il reciproco rimando tra discorsi e azioni, basta e
avanza a dare conto di sentimenti, pensieri, intenzioni, desideri, ipocrisie, pene, titubanze. Lo spettatore
non ha mai bisogno di ipotizzare l'influenza di stati
mentali occulti per comprendere la condotta di Am-

I 86

L'USO DELLA VITA

187

L'IDEA DI MONDO

.leto o della locandiera goldoniana. Wittgenstein rivela


una genuina vocazione teatrale quando scrive (1967a,
225): l moti dell'animo si vedono. Chi coglie al
volo l'allegria o l'ira di una persona, non risale certo
dal volto sorridente o minaccioso a un processo psichico retrostante: il volto atteggiato in un certo modo
offre un ritratto esauriente del moto dell'animo; o meglio, esso questo moto. L'attore conosce le emozioni
provate dal personaggio che interpreta nella precisa
misura in cui in grado di rappresentarle agli spettatori. Wittgenstein estende questa clausola, che del teatro l fulcro, a ogni animale umano. A suo giudizio,
un uomo in balia della tristezza o della meraviglia non
sa niente di pi, del sentimento da cui posseduto, di
quel che pu comunicare a un amico con un impasto
ben calibrato di discorsi e azioni: Una cosa la presento a me stesso soltanto nel modo in cui la presento
anche all'altro (ivi, 66 5). L'appello a stati mentali
non osservabili per spiegare il senso degli enunciati e
le motivazioni dei comportamenti silenziosi diventa
necessario se, e soltanto se, si separano indebitamente
gli enunciati dai comportamenti. In ambito teatrale:
se, e soltanto se, le due fasi preparatorie di uno 'Spettacolo- movimenti scenici senza battute e poi, all'inverso, battute senza movimenti scenici - non fossero
superate dalla ripristinata commistione di dire e fare.
il palese intreccio di attivit linguistiche e non-linguistiche a gettare luce sui singoli risultati delle une
e delle altre. I gesti delucidano le parole, le parole illustrano i gesti: spiegheremo le parole ricorrendo a
un gesto, e un gesto ricorrendo a parole (ivi, 227).

L'invisibile il meschino premio di consolazione per


coloro che ignorano o fraintendono il visibile.
noto che Stanislavskij imponeva agli attori di
ripetere decine di volte 'buona sera', conferendo a
questa trita formula di saluto sfumature semantiche e
pragmatiche sempre diverse. ugualmente noto che,
per Wittgenstein, la medesima domanda, la medesima
preghiera, il medesimo resoconto di un fatto assumono i pi vari significati all'interno delle innumerevoli
recite linguistiche cui partecipiamo da protagonisti o
da comparse. Le istruzioni che un regista impartisce
all'attore sul modo di interpretare lo struggimento di
Otello dopo l'assassinio di Desdemona, o l'euforia del
seduttore per un 's' dal sen fuggito, non sono altro
che Sprachspiele wittgensteiniani: riguardano cio la
mutevole commessura tra parole e gesti. E viceversa: nel descrivere gli Sprachspiele attinenti al dubbio,
all'attesa, al dolore, Wittgenstein d indicazioni stenografiche, ma non vaghe, a un ipotetico attore. Le
sue recite linguistiche sono, a tutti gli effetti, appunti
di regia.

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