Professional Documents
Culture Documents
Massimo Citi
***
***
***
***
– Perché piangi?
– Non piango.
Seraphine scuote il capo: – Piangevi, ti ho sentito.
– Non piangevo, ti ho detto. Togliti dai piedi!
Cora si sveglia ma non dice nulla. Agnés può tollerare gli
insulti, le botte, le minacce, ma non che qualcuna possa pensare
che lei sia una debole.
Involontariamente si volta verso la branda di Ada. Alla luce
senape dei fanali al sodio che illuminano il loro Quartiere ha per
un attimo la sensazione di vederla ancora al suo posto, a dormire
supina, il viso nascosto tra le braccia. Ma è una semplice
illusione. Adesso è là con uno di loro. O con tutti loro. A bordo
della loro nave o in qualche angolo nascosto della Terra. Forse le
hanno permesso di lavarsi. Prima di... Probabilmente le hanno
dato da mangiare. L'immagine che Agnés le ha mostrato non se
ne vuole andare dai suoi pensieri. Che cosa nascondeva dentro di
lei, quella ragazza. Che cosa nutriva nel suo corpo?
***
***
***
La luce verde si accende oltre il piccolo diaframma di
materiale plastico graffiato e opaco. Sulla plastica c'è una vecchia
scritta stampata: MadTosh Co. che nessuno nell'Arca sa che cosa
significhi. La stessa scritta, formata da caratteri con la medesima
curiosa forma (una «M» molto stretta e con le cuspidi molto
acute e la «T» di Tosh con le braccia tanto lunghe da tagliare le
cuspidi della M) compare accanto alla porta del Palazzo dei
Padri.
– Avanti, vai – dice qualcuno dietro di lei.
Il piccolo bagno è giù stato usato almeno da una trentina di
altre ragazze. Non c'è più acqua calda e la tazza è sporca.
Qualcuno ha lasciato una salvietta appallottolata sporca di
sangue mestruale nell'angolo dietro la porta. Male, i portinai
sono superstiziosi e dimostrano un orrore invincibile – misto a
un'attrazione cieca e balbettante – per tutto ciò che riguarda il
corpo femminile. Dovrebbe denunciare l'incidente ma
rischierebbe di essere la prima delle sospette. Ma se nessuno
denuncerà la presenza di quell'orrore a essere punite saranno
tutte le ragazze che hanno usato il bagno quella mattina. Cora
impreca a voce bassissima. Ha un paio di minuti per potersi
lavare e ha già sprecato diversi secondi cercando una soluzione
al problema creato da una cretina. «Se fossi Ada, che cosa farei?», si
chiede. Si stringe nelle spalle: Ada era tanto stimata da non
rischiare nulla. Ma lei, Cora, è una senza infamia e senza lode,
una qualunque che non è affatto certo che un giorno gli Amanti
vorranno. Con un'ispirazione improvvisa afferra la salvietta
sporca, sale in piedi sulla tazza e la fa passare tra le pale della
piccola elica sistemata all'inizio del condotto che, probabilmente,
un tempo serviva ad areare il locale ma che ora non funziona più
da chissà quanto tempo.
Scende e dà un'occhiata. Allunga il collo: per vedere la
salvietta sporca bisogna salire sulla tazza e guardare bene. Poco
probabile che una custode o un portinaio abbiano occasione o
voglia di farlo.
– Allora, hai finito? – grida qualcuno fuori dalla porta. Cora
bestemmia ad alta voce, orina e si bagna appena il viso e le mani.
Dovrà aspettare fino al mattino dopo per riuscire a usare di
nuovo il bagno.
***
Essere ricevuti da uno dei Padri il più delle volte non è un onore
ma una responsabilità gravosa, una frattura nella vita di tutti i
giorni che rischia di non essere più ricomposta.
Junex Taggart è seduto sulla bassa panca davanti alla Porta dal
primo turno mattutino. Ha ricevuto la convocazione per il
colloquio la sera precedente e ha dormito sonni tormentosi e
inquieti. Ai visi immobili e grigiastri dei Padri che si rifiutavano
di rispondere alla sue domande si sostituivano troppo spesso le
ombre lascive dalla pelle color dell'ambra illuminata dal fuoco
delle ragazze del Quartiere. Sogni bagnati i suoi, ha scoperto al
mattino, e ha cercato affannosamente di nascondere la vergogna
che gli impediva anche soltanto di guardare i suoi compagni, gli
altri junex.
La sua attesa è via via scolorita a un senso di allarme che gli
morde lo stomaco e un'ansia che, non appena si impadronisce
dei suoi pensieri, lo fa profusamente sudare e gli rende possibile
rispondere ai cenni di saluto di chi passa per il lunghissimo
corridoio soltanto con uno scatto secco da giocattolo o da insetto.
Mentre attende che la piccola luce posta accanto alla porta passi
dal giallo al verde si rende conto che anche l'ansia l'ha ormai
abbandonato e che ora si sente svuotato e incredibilmente stanco.
Dev'essere la tattica preferita dai Padri per incontrare loro, i
giovani. Smorzare la loro naturale irruenza, farli sentire deboli,
vinti ancor prima che l'incontro abbia inizio.
La piccola luce è ancora gialla.
Non può essere sicuro di nulla, nemmeno che il Padre gli
aprirà e lo riceverà davvero. O che abbia qualcosa da chiedergli o
da dirgli. Forse, semplicemente, vuole misurare la sua umiltà,
quanto lui – Junex Taggart – è disponibile a dimenticare se stesso
per un Bene più grande.
Bene, se questa è la prova riuscirà a superarla.
Per quanto si senta stanco e il suo stomaco, vuoto dalla sera
precedente, gli lanci sempre più spesso segnali di sofferenza.
Nel corridoio non passa quasi più nessuno. Sono tutti nella
grande «Sala Mensa», come recita la scritta azzurra alla fine della
scala che conduce nei sotterranei. Una scritta di prima del
Passaggio, tracciata con i caratteri squadrati ed eleganti della
gente di prima.
Fortunatamente il profumo del cibo non arriva fin lì.
***
– Da dove arrivano?
Le altre ragazze sono ancora fuori, forse a giocare. Nella
baracca la luce dell'ultima pomeriggio è grigia e nera e loro due
sono nell'angolo più scuro.
Agnés scuote il capo e fa scorrere con un dito una foto sopra
l'altra.
Le cosce di una ragazza e quelle più scure e pelose di un
ragazzo, probabilmente uno Junex. Le gambe di lei sono aperte e
spiccano candide sulla coperta color tabacco, lui è sopra con le
cosce serrate. Ha natiche magre e nervose e mani sottili e lunghe
che tiene aperte accanto al busto di lei. Il corpo del ragazzo la
nasconde quasi completamente e, come sempre in quelle foto, le
polaroi, i volti e le teste sono fuori dall'inquadratura.
– Già, da dove arrivano, lo sai? – ripete Agnès, come se la
prima domanda non sono stata nemmeno pronunciata. Non
guarda verso di lei ma non riesce nemmeno a staccare lo sguardo
dalle immagini. Ha il respiro corto e tiene la voce bassa: – No,
non lo sai come non so lo io. Semplice. Noi siamo soltanto... bah,
non importa. – La fissa: –Allora, Cora. Chi siamo noi?
Si stringe nelle spalle: – Non lo so. – Afferra le foto e le
raccoglie una ad una: – Le ho trovate rovesciate sul fondo di uno
dei cassetti di Ada. Chiuse dentro una busta con la scritta : «Foto
sparse». Ma sarei pronta a giurare che ognuno dei nostri cassetti
contiene le stesse... le stesse «cartoline». – Si interrompe e ripesca
una foto delle gruppo: – Guarda questa. .. guardala bene. – dice
mostrandola .
– Ma che... stai scherzando?
Cora annuisce e muove la foto: – Infatti! Dai, dì, dì!
Agnés inizia un sorriso divertito ma non lo conclude: – È una
porcheria, ecco cos'è. Tipo uno spettacolino per junex un po'...
insomma ...
– Giusto. E questo?
– La pianti?
– No, – insiste – ti prego, dai.
– Che cosa vuoi che ti racconta? È troppo magrolina, troppo
pallida... – Si interrompe improvvisamente... – No, aspetta in
attimo... – Agnés scuote la testa e parla lentamente . – Aspetta,
aspetta. .. Non c'era. ..
– No, è molto semplice. Le abbiamo già viste tutte, è tutto qui.
Le abbiamo già viste. Tutte. E non possiamo cancellarle. Né
ricordarle ... Né dimenticarle .. .
***
***
È entrato.
– È permesso? Posso entrare? – chiede. Silenzio.
Incerto tra il dubbio e il timore procede lentamente,
appoggiando un piede dietro l'altro. La stanza è vuota, ben
illuminata dalla grande finestra alle spalle delle scrivania e con il
fuoco nel caminetto sonnacchioso e pigro. Ovunque libri, carte,
opuscoli, frammenti. Taggart guarda senza vedere, combattuto
tra il desiderio bruciante di entrare e la paura profonda di essere
sorpreso e scacciato tra gli spettri. Afferra frammenti di
immagine – disegni, immagini, schemi – senza riuscire a
riconoscerli e ricordarli, mentre con la voce continua come un
demente a compitare: «maestro ... maestro».
La stanza è grande e altre due porte si aprono sul fondo, una
di seguito e una di fianco. Il maestro deve trovarsi oltre una delle
porte, una socchiusa e l'altra ben serrata.
– Maestro, sono lo Junex Taggart! – ripete ad alta voce.
Silenzio.
Più lontano, quasi inafferrabile, il suono costante e vago che
proviene degli altri piani, che soltanto i suoi sensi sovralimentati
gli permettono di afferrare. Potrebbe essere reale o essere
soltanto un sogno o un'illusione o, forse, il ricordo ormai perduto
della gente che tanti e tanti prima viveva e lavorava in quel
palazzo.
Non ripete più il suo messaggio e spinge la porta.
Vede due cose insieme. Il maestro, riverso a terra, con l'abito
alzato sino al ventre pallido e canuto e un grande armadio
semiaperto dove è appeso una lunga serie di grandi abiti scuri.
Lo junex si immobilizza incapace di capire. Senza pensare
avanza fino all'armadio e afferra uno degli abiti per una manica.
L'abito oscilla lentamente, con una gravità assorta. Li ha sempre
visti sempre e soltanto da lontano ma non può sbagliarsi: è uno
degli abiti degli Amanti. Si volta verso il maestro quasi volesse
illudersi che il suo sia soltanto un sonno temporaneo, una breve
assenza dalla quale ritornerà presto. Vorrebbe chiedere, capire.
Trovare una spiegazione pulita e normale a tutti i dubbi che
improvvisamente gli affollano la mente. «Se loro sono gli
Amanti ... » tutti i suoi pensieri partono da li e vanno in ogni
direzione. «Loro sono gli invasori» oppure «Loro sono i successori
degli invasori» o anche, «Sono loro i sostituti degli Amanti»... Certo,
tutto è possibile e ragionevole, se non fosse che per i Padri gli
Amanti sono il Nemico, coloro contro i quali ogni giorno
scagliano le loro maledizioni.
Dà un'altra scossa all'abito per vederlo oscillare ancora come
un grande pesce preso all'amo. Vorrebbe non essere mai entrato
lì dentro. Si guarda intorno. Per terra, accanto al corpo del
maestro ci sono piccole foto dal margine più alto in basso. Si
china e ne afferra una. Una donna, una ragazza nuda sdraiata su
un letto con le gambe aperte, il capo tagliato fuori dall'immagine.
Le altre immagini sono sullo stesso tema. Una rassegna
monocolore di nudi uguali, tristi e vuoti come ricordi di nessuno.
Li guarda uno dopo l'altro cercando stupidamente di
riconoscerle, mentre il maestro giace silenzioso, con un sorriso
vuoto che ride del suo smarrimento. Ci sono altre scatole, lì
intorno. Contengono altre immagini molto simili. Nessuna di
essa permette di riconoscere il soggetto della foto. Tante,
interminabili polaroid di corpi femminili nudi e anonimi.
Scaglia il pacchetto di foto lontano e si alza in piedi, la testa
che rimbomba per l'improvviso salto di pressione. Nessun
rumore. Esce dalla stanza e ritorna allo studio. Non può
chiamare aiuto né cancellare quell'ultima mezz'ora trascorsa lì
dentro. Esce di corsa. Nel corridoio non c'è nessuno. Fugge, più
veloce che può, verso i quartieri degli junex.
***