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Emanuel Di Marco

1949-2009
In viaggio attraverso sei decenni
di lingua della pubblicità

Introduzione
Se il più antico messaggio commerciale è datato 1691, pubblicato all’interno del
“Protogiornale veneto Perpetuo”, è senza dubbio dal XIX secolo che la
comunicazione pubblicitaria assume contorni che raggiungeranno, nei decenni, forme
sempre più vicine alla concezione contemporanea di lingua della pubblicità. E la
definizione di lingua, associata al termine pubblicità, non sorprende, come
ampiamente sottolineato da studi linguistici ma anche, negli ultimi decenni, semiotici,
anche se molteplici sono risultate essere le scuole di pensiero in merito a quella che
dovrebbe essere la reale collocazione della lingua pubblicitaria all’interno del vasto
scenario offerto dalla lingua nel suo insieme. La tendenza pare ad ogni modo essere
quella di considerare quello in questione un linguaggio settoriale, un ambito
linguistico capace tuttavia di poggiare su regole proprie, precise ma in costante
evoluzione. Meritano di essere quindi riportate le parole di Mario Medici (La Parola
Pubblicitaria, 1986): «La manifestazione pubblicitaria del secolo XX, specialmente
dagli anni cinquanta in poi, è formidabile. Quella scritta, soprattutto murale, costringe
a un costante, continuativo, inarrestabile esercizio di lettura che senza dubbio si
colloca tra i fattori primi dell’acquisizione generale di conoscenza o competenza, di
unificazione e di evoluzione della nostra lingua nazionale».
In questa sede analizzeremo gli ultimi sei decenni di linguaggio pubblicitario scritto
attraverso una breve raccolta di manifesti e ritagli di giornale a partire dal 1949 e, tre
per decennio, sino al 2009. Un periodo, quello preso in esame, nel quale a partire
dalla ripresa economica postbellica la pubblicità e il suo linguaggio si pongono
attraverso una presenza massiccia e, almeno in apparenza, fortemente dinamica,
sempre più all’attenzione del Paese. Il secondo dopoguerra si caratterizza anche per
una forte ricerca di quello che risulterà essere l’arma in più di almeno due decenni di
pubblicità, su carta stampata e non solo: lo slogan. Ma gli anni ’50 rappresentano
anche un punto di rottura e immediata svolta nell’ambito del linguaggio pubblicitario,
col passaggio dalla fase cosiddetta dell’advertising a quella ancora in corso della
publicity, nella quale, sottolinea Roberto Giacomelli, «il prodotto perde […] la

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propria materialità e si carica di connotazioni logico-simboliche mercè le quali viene
inserito in uno specifico ed esplicito campo nozionale e semantico».

Che si possa parlare di linguaggio settoriale lo si comprende anche in virtù della


presenza di un lessico specialistico proprio dei pubblicitari e, per certi versi,
difficilmente comprensibile dai non addetti ai lavori. Sono cinque i punti da
analizzare se si prendono in considerazione le inserzioni su carta stampata:
- il visual, cioè l’immagine
- lo headline, il titolo o il messaggio principale
- il bodycopy, il testo vero e proprio del suggerimento commerciale
- il pay off, detto anche baseline, cioè la frase che chiude il testo
- il logotipo, logo o marchio dell’azienda.
Ne consegue che quello pubblicitario possa essere considerato, a ragione, un testo
sincretico, caratterizzato dalla compresenza di più codici linguistici. Torna utile, in
questo senso, l’analisi semiotica: come ricorda Gianfranco Marrone, infatti, le prime
analisi a carattere semiologico della pubblicità risalgono agli anni ’60, a cura di
Umberto Eco e Rolando Barthes. Venticinque anni più tardi la sistematizzazione del
tema delle funzioni degli eventi comunicativi da parte di Roman Jakobson consentirà
di analizzare ad un ulteriore livello il linguaggio pubblicitario, che sfrutta in
particolare le funzioni conativa (quella per cui si cercano effetti sul destinatario) ed
emotiva o espressiva (la capacità che ogni emittente ha di esprimere emozioni e
sentimenti all’interno del messaggio).

Una prima analisi lessicale e strutturale


Dicembre 1949. La rivista Tempo pubblica un annuncio
singolare, valido esempio di pubblicità collettiva. In
questo caso a richiedere l’attenzione del lettore sono le
compagnie assicurative. Se il concetto di assicurazione
era senza dubbio ben noto già all’epoca (Il Grande
dizionario italiano dell’uso fa risalire il termine
“assicurazione” a Franco Sacchetti: «E l’uno mercatante
asicura il navilio de l’altro per danari»), importante
risulta essere in questo frangente il sensibilizzare la
popolazione in merito, nel caso specifico, al rischio
incendi. Felice l’utilizzo del termine polizza, conosciuto
già nel 1291 nella variante pollizza. La definizione di
polizza di assicurazione verrà quindi in seguito fornita
dal Tramater: «Il contratto fatto per mano di notaro o
sotto sigillo privato, per cui un particolare s’obbliga a riparare i danni e le perdite che
accaderanno a un bastimento o al suo carico nel tempo d’un viaggio». Perdite,
appunto: «L'idrante spegne l'incendio ma non risarcisce il danno» precisa quindi il
testo, che si conclude con un velatamente ironico «Assicuratevi con chi volete ma
assicuratevi». Un’epoca, questa, in cui la fantasia da parte degli inserzionisti non
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manca. Il visual è composto da un vigile del fuoco atto, non si comprende a dire il
vero con quale risultato, a spegnere un incendio il cui esito per le tasche del
consumatore risulterà essere, in assenza di assicurazione, nefasto. Assolutamente
valido l’impatto grafico dell’annuncio.
E di qualità del visual è necessario parlare anche in
presenza della pubblicità (1952) di una nota carne
in scatola, che ad uno slogan efficace affianca in
un legame che si rivela indissolubile la mano di
Benito Jacovitti, la cui carriera si incrociò a più
riprese col mondo della pubblicità. Se è vero che un annuncio di qualità vede il visual
complementare al titolo, in questo caso l’artifizio ha regalato un successo notevole.
Un ruolo determinante nel mondo della comunicazione pubblicitaria è stato svolto
dalle aziende attive nel mondo dei detersivi e, più in generale, dell’igiene. Nel ’54
Unilever pubblica su Tempo una reclame che merita di essere presa in esame. Se la
tecnica del confronto è ancora oggi in voga, meno utilizzata, se non del tutto
scomparsa, è l’autocelebrazione quale miglior prodotto del mondo. All’insistenza
ripetitiva del nome del prodotto (del tutto assente invece quello della casa), a più
riprese seguito da un punto esclamativo per
rafforzare il termine, si affianca un bodycopy
studiato nei minimi particolari. Nessun tecnicismo,
piuttosto una semplicissima spiegazione dell’effetto
provocato dal prodotto. Di sicuro effetto il vocabolo
nerastra, che il Gradit data 1730 e che oltre a
indicare ciò che tende a un colore scurissimo
rimanda a un, per citare il Battaglia, «colorito molto
scuro per effetto di un’alterazione fisiologica, di una
malattia». Quest’ultimo utilizzo fu fatto proprio da
D’Annunzio, che in Orsola, narra «Camilla, la
sorella, l'unica parente, presso al letto, pallidissima,
tergeva le labbra nerastre». In questo caso il visual
vede in primo piano, anziché due testimonial
conosciuti, due casalinghe. L’obiettivo è quello di
rendere ancor più credibile, attraverso le parole di
utenti abituali del detersivo, l’annuncio.

Testi sì, ma non necessariamente. Ne è convinta la Moto Guzzi, che nel ’55 decide di
sfruttare appieno la forza dell’immagine, accompagnata da
pochi dettagli e dal nome del mezzo in questione, che
racchiude in sé tutte quelle emozioni che l’azienda intende
suscitare nei potenziali compratori. Galletto, che
nell’accezione di uomo vivace ci giunge dal 1892 ma come
«uomo che corteggia le donne con intraprendente
spavalderia» è addirittura di circa quattro decenni prima, è
quindi non solo un due ruote ma anche, e forse soprattutto, uno stile di vita.
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Giungono gli anni sessanta e, con essi, le prime avvisaglie di ciò
che diverrà consumismo sfrenato. «Oggi anche voi potete avere un
Philips e vantarvene» ci ricorda che il prodotto presentato può
anche contribuire positivamente al raggiungimento di un preciso
status sociale. Non più quindi solo merce come semplice elemento
di consumo, ma anche come maschera da esibire quotidianamente.
Lo stile del testo sopra citato è semplice, e sfrutta l’allocutivo voi in
quel doppio ruolo che consente di rivolgersi al pubblico in genere e,
attraverso una forma di cortesia, al singolo cliente.
Si parlava di consumismo. Il 13 maggio 1962 la Domenica del
Corriere pubblica un annuncio tutto dedicato alla festa della
mamma. Un visual il cui intento risulta essere evidente accompagna uno slogan
semplice quanto efficace, con gioco di allitterazioni sulla “d” (dolce, dono, donato) e
sulla “t” (donato, vita). Passano poco meno
di tre settimane e la stessa Domenica del
Corriere ci offre una reclame di tutt’altro
tenore: ad essere pubblicizzato in questo
caso è il Ddt, e lo headline lascia spazio a
ben poche interpretazioni. Il tutto ruota sul
verbo sterminare, presente sul territorio
italiano dal trecento (1396) e derivante dal latino ex
terminare, che significa scacciare. Anche in questo caso il
testo punta sull’allitterazione della lettera “t”, oltre che sulla
scelta di utilizzare insetticida in luogo di pesticida, termine
dal significato più generico. Il Ddt vivrà in questi anni un
periodo di splendore, prima della quasi generale messa al
bando avvenuta tra gli anni ’70 e gli anni ’80.
Trasferiamoci al 1974 per esaminare
brevemente una pubblicità che
ancora oggi merita di essere
menzionata per il clamore che
comportò. Lo slogan «Chi mi ama
mi segua» di Jesus Jeans, a un solo
anno di distanza dal «Non avrai altro
jeans al di fuori di me» che costò
una minaccia di scomunica e il sequestro di tutti il materiale
prodotto, sfrutta appieno il contributo offerto dal visual. «Ci
piaceva provocare una reazione, entrare con grimaldello
entro le attese del nostro lettore» sono le parole di
Emanuele Pirella, fondatore dell’agenzia Lowe Lintas
Pirella Göttsche e creatore della campagna pubblicitaria
sopra citata.
Che la sinergia tra immagine e titolo sia un ingrediente
chiave della comunicazione pubblicitaria lo si comprende
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anche in presenza della doppia pagina a colori che Fiat dedica, è il novembre del ’76,
al modello 126 Personal. Il testo è sì chiaro, caratterizzato da un sintagma nominale e
da una frase scissa con messa in rilievo di un complemento di tempo, ma è evidente
quanto in questo caso conti la contestualizzazione fornita dal visual, che offre una pur
breve storia dei mezzi il cui sviluppo nell’arco di otto lustri ha portato alla creazione
del mezzo qui pubblicizzato.
Con l’avvicinarsi degli anni ottanta prendono forma alcune tra le prime grandi
campagne pubblicitarie che il nostro Paese abbia registrato. Il prodotto in questione,
un sempreverde come le gomme da masticare Big Babol, giunge sul mercato
affiancato da una massiccia presenza di spot televisivi e su
carta stampata che, grazie anche alla presenza di un
testimonial come Daniela Goggi, si impongono da subito
all’attenzione del pubblico. Si notino, entreremo nel dettaglio
più avanti, la dislocazione a sinistra del gruppo verbale nella
frase «è più grande il suo pallone», l’utilizzo del presente
indicativo, l’assenza di maiuscole e di fatto anche di
punteggiatura, eccezion fatta per i tre puntini che introducono
la baseline, e la ripetizione della locuzione «più grande».
Interessante l’utilizzo di morbidone, che come accrescitivo di
morbido il Gradit data al XX secolo, ma che il Grande
dizionario della lingua italiana fa risalire alla figura di Pietro Aretino («Stavasi là dal
popolo…una soda tacca di femina grandona, bellona, morbidona al possibile, e se
puttana po’ essere di buona natura, ella era di quelle»).

Da gomme da masticare a caramelle il passo è breve.


Nell’81 Golia Bianca propone una campagna che diverrà
storica nel mondo pubblicitario. L’arma in più, in questo
caso, è composto dallo slogan, che sfrutta un tecnicismo, la
parola velopèndulo (datata 1866, si tratta del
prolungamento posteriore del palato duro), ma anche e
soprattutto scommette su un neologismo, il verbo
sfrizzolare, che il Grande dizionario italiano dell’uso
registrerà sette anni più tardi, come
annunciò in quel periodo Pino
Corrias (Tuttolibri, 1988).
Sfrizzolare, che il Battaglia definisce
«solleticare con una gradevole sensazione frizzante», fu opera
dell’affermata creativa Annamaria Testa, che riguardo questa
pubblicità ricorda: «Ho usato termini pertinenti, l’unica parola
stravagante è sfrizzola, voce di un verbo sfrizzolare costruito
per assonanza con l’aggettivo frizzante. Eppure l’effetto finale è
quello di un linguaggio inventato, una specie di grammelot fatto
di suoni in grado di esprimere un senso, e contemporaneamente

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fatto di parole dal significato corretto». L’annuncio si chiude con un «Provare per
credere» che assume un carattere imperativo.
Il 1981 lascia in dote anche una serie di annunci, sia su periodici che sottoforma di
manifesti, nel quale pur rinnovandolo il Gruppo Sangemini punta su un titolo ormai
entrato nell’immaginario collettivo: «Liscia, gassata… o Ferrarelle?». Per cercare di
conferire una nuova luce ecco un visual particolarmente curioso, che sfrutterà
personaggi del calibro di Napoleone e della Gioconda. Cambia, rispetto il titolo
originario, la punteggiatura. Immancabile invece
lo slogan ancora oggi attuale «Effervescente
naturale», frase nominale attraverso la quale
l’azienda espone rapidamente i propri punti di
forza: l’effervescenza appunto (termine del 1869,
derivante dal francese effervescent che il Gradit
diretto da Tullio De Mauro data al 1755), e un
concetto, quello di natura e più in generale di geniunità, che avrà particolare fortuna
nel mondo pubblicitario.
Di formula interrogativa occorre parlare anche in presenza di una pubblicità nella
quale Zucchi punta evidentemente sui doppi sensi. In questo caso a rivolgersi al
potenziale acquirente è direttamente il prodotto commercializzato, una trapunta nello
specifico. Non passi inoltre inosservata la frase nominale, con rima, «Biancheria per
allegria» presente nel logotipo, slogan che rappresenta l’unico elemento comune tra
tutti i vari momenti, anche televisivi, che hanno caratterizzato questa campagna.

Anni novanta, tempo di rivoluzioni tecnologiche. Nintendo, leader nel settore


videoludico, lancia nel ’90 la console portatile Game Boy. Accattivante lo headline,
composto dalla locuzione «Il potere nelle tue mani». E non
si tratta dell’unica forma nominale presente. Il bodycopy,
nel quale l’azienda rafforza ulteriormente l’uso del tu, una
scelta dettata certamente dalla spesso giovanissima età del
pubblico a cui si rivolge, è una vera e propria miscellanea
di tecniche diverse. Tecniche retoriche, come l’iperbole
(«nello spazio di una mano, un divertimento grande come
la fantasia») e l’allitterazione della “c” («Così compatto
che lo porti sempre con te, così grande che ti sfida
con…»), ma anche grafiche e sintattiche, con in particolare
l’uso di frasi marcate. Dettata da una linea aziendale
precisa anche la scelta di utilizzare un anglicismo come
videogames - composto del verbo latino video, vedo, e del
sostantivo inglese game, gioco - che pure ha il suo
omologo italiano in videogioco.
Se Nintendo strizza quindi l’occhio direttamente ai più piccoli, Falqui per le
caramelle Zigulì (nome che curiosamente deriva dall’automobile russa Lada-Vaz
Zhiguli) si rivolge ai genitori, e lo fa servendosi di un visual a forte carica emotiva e
di uno slogan, ripetuto anche in apertura di bodycopy, che sfrutta ancora una volta lo
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stile nominale. Il testo si serve di una sintassi lineare e del
presente indicativo, con forte presenza del verbo essere.

La pubblicità si è da sempre servita anche dei cosiddetti


wellerismi, ossia affermazioni attribuite direttamente a
persone conosciute o, come nel caso della pubblicità che
andremo ad esaminare, meno conosciute. Nel 1993 la Oil
of Olaz, nel dare parola alla più classica ragazza della
porta accanto, uno stile acqua e sapone tipico degli anni
novanta (si pensi al successo della trasmissione Non è la
Rai), utilizza in apertura stile nominale e anafora, sulla
quale ci soffermeremo nella sezione dedicata alla retorica.
Una frase nominale rappresenta anche il logotipo («Per una
pelle giovane e frescia»), mentre il testo a differenza di annunci analoghi punta
sull’assenza di tecnicismi. Diversa la tecnica utilizzata per la creazione del nome del
prodotto (Hydro-Gel), che gioca con un’assonanza,
quella col termine inglese hydrogen, idrogeno in
italiano. Termine, quest’ultimo, che non viene mai
menzionato all’interno del bodycopy: la sensazione è
che si giochi sulla tecnica dei false friends, per usare
ancora il linguaggio anglosassone, puntando sulla
massiccia presenza del concetto di idratazione, simile
a hydrogen per una semplice questione di assonanza.

Questa iniziale breve analisi si chiude quindi con una


panoramica sui primi anni del nuovo millennio. Una
tendenza riscontrata è quella di ricalcare, spesso in
maniera del tutto fedele, le reclame del medesimo
prodotto proposte su diversi mezzi di divulgazione. È
il caso della già citata Fiat, la cui divisione
Professional nel 2007 propone uno slogan nel quale il
nome del mezzo viene separato con un punto dal
resto dello slogan, divenendo frase nominale e al
contempo focalizzando l’attenzione del lettore su di
esso. Il concetto espresso è rafforzato in maniera
decisiva dalla presenza in qualità di testimonial del
portiere della nazionale azzurra di calcio Gianluigi
Buffon, la cui nomea di miglior rappresentante al
mondo nel proprio ruolo consente un efficace
parallelismo con la vettura reclamizzata. Siamo di
fronte a un caso, già analizzato, in cui visual e testo
vivono un legame indissolubile. Maggiore prestigio

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viene quindi regalato dal logotipo contenente la locuzione «Veicoli commerciali da
sempre», altra forma di tipo nominale.
Sarà invece una virgola, sorretta da un’impostazione grafica ben precisa, a separare i
due sintagmi dello spot che l’azienda agricola casearia Medeghini proporrà sulla
rivista femminile Tu il 7 ottobre 2008: «Grattugiato Medeghini, la pasta ringrazia»
gioca su una metafora, umanizzando un prodotto in questo caso alimentare,
ampiamente sfruttata in pubblicità ma non solo.
Chiudiamo questa prima sezione mantenendoci in tema alimentare ma affrontare un
annuncio le cui caratteristiche, dal punto di vista della tecnica linguistica, risultato del
tutto differenti rispetto quelle appena descritte. L’azienda in
questione, la Saiwa, pubblica nel marzo di quest’anno quella
che si potrebbe definire la più completa sintesi di ciò che la
comunicazione pubblicitaria ha sviluppato negli ultimi
tempi: logo del produttore
ben in vista, nome della
merce ad aprire la pagina,
apparsa il 16 marzo su
Sorrisi e Canzoni, visual dal
doppio scopo (mostrare il
prodotto ma anche mettere
a proprio agio il lettore
attraverso l’utilizzo di una
forma a cuore), slogan con tanto di assonanza tra i
termini buono e colesterolo e una serie di tecnicismi
che infondono un certo prestigio al biscotti qui
presentato, «con pochi grassi saturi, Omega3 e le
fibre di Betaglucano d’avena (si noti la maiuscola)
che aiutano a ridurre l’assorbimento del
colesterolo». Una tecnica, questa, il cui utilizzo si fa
sempre più crescente in molteplici ambiti.

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Morfologia
Sul piano verbale il tempo maggiormente sfruttato dalla lingua pubblicitaria è
certamente il presente indicativo: «Il più rivoluzionario sistema di idratazione», «Il
gesto più dolce, per il tuo bambino, è una pallina Zigulì», «I migliori arrivano dove
gli altri non arrivano», «La pasta ringrazia». Importante anche la presenza
dell’imperativo, il cui utilizzo può assumere gradazioni diverse, ponendosi come
comando ma anche nelle vesti di un consiglio, bonario ma anche ferreo:
«Assicuratevi con chi volete ma assicuratevi», «Scopri, nei suoi occhi, che la felicità
ha il dolce gusto di limone, ecc…». Non manca la forma congiuntiva («Chi mi ama
mi segua»), andata perdendosi tuttavia soprattutto negli ultimi tre decenni. Molto
interessante il massiccio utilizzo dei superlativi relativi in locuzioni come «La
biancheria più pulita del mondo», «il più grande successo dell’anno» e anche in «il
gesto più dolce». Praticamente assenti i superlativi assoluti. Un ulteriore modo per
aumentare il grado dell’aggettivo è l’uso di così, come ad esempio nella frase «così
compatto che lo porti sempre con te, così grande che ti sfida con oltre 5 videogames
diversi». Sul piano quindi dell’utilizzo dei pronomi personali - non nel caso di «Oggi
anche voi potete avere un Philips e vantarvene - si tende spesso ad omettere il
pronome soggetto. Si noti poi la presenza del clitico ci nella forma di complemento
indiretto riferito a cose («È dal 1936 che ci stiamo lavorando». L’annuncio di Philips
presenta anche una struttura, quella che vede il ne lessicalizzato saldato direttamente
al verbo. Non manca il dimostrativo neutro ciò in sostituzione di quello: «Per lavare
tutto ciò che deve essere trattato con riguardo non c’è niente di meglio che Omo!».
Da segnalare infine l’uso del prefissoide idro- in idro-reintegrante.

Sintassi
La sintassi nei testi in questa sede analizzati è caratterizzata in particolare da paratassi
e frasi nominali («Il potere nelle tue mani», «La buona carne in scatola»), come già a
più riprese sottolineato in precedenza. Merita di essere sottolineata la sola presenza di
frasi nominali, che cioè non contengono sintagma verbale, la pubblicità di
Simmenthal del ’52: «La buona carne in scatola. Simmenthal in ghiaccio».
Non mancano i casi di ordine marcato, con frasi scisse come la sopra citata «È dal
1936 che ci stiamo lavorando» ed «e fra i denti è un morbidone». Quest’ultima non è
l’unica forma di questo tipo presente nella reclame pubblicata nel 1979, la quale
regala in apertura un «è più grande il suo pallone». Tra le dislocazioni a sinistra ecco
«un dolce dono a chi ci ha donato la vita» e «Un modo buono per aiutare a ridurre il
colesterolo». Da rimarcare anche «Per ottenere la biancheria più pulita del mondo
occorre Omo».
Non mancano espedienti di ogni genere per cercare di ridurre la formalità
dell’annuncio: il professor Carlo Bascetta a tal proposito spiega (Il messaggio
pubblicitario, 1964): «Alcune formule pubblicitarie appaiono decisamente ricalcate
sulla sintassi del parlato, ma per la diffusione ricevuta sono diventate moduli
stereotipi, frasi fatte, assumendo addirittura dignità di figura, come ad esempio la

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formula “sì, ma” che è un modo di entrare in discorso; chi non ha sentito ricalcare sia
pure in modo scherzoso le formule “Sì d’accordo ma l’aranciata S. Pellegrino è
un’altra cosa”, oppure “Salute sì, ma al primo accenno di raffreddore Rinoleina”?».
Tra le pubblicità qui prese in esame impossibile non menzionare, anche se negli anni
modificata, la fortunata formula interrogativa contratta «Liscia, gassata… o
Ferrarelle?» presente sin dagli anni settanta e quel «Chi mi ama mi segua» rilanciato
con forza ma che tuttavia è presente sin dal XIV secolo, pronunciata dal monarca
francese Filippo il Bello e non, come spesso si tende a credere, nel Vangelo.

Retorica
Emanuele Pirella celebra così l’importanza delle figure retoriche nell’ambito della
comunicazione pubblicitaria (2001): «Avevo imparato che le rime, le assonanze, le
allitterazioni, il ritmo poetico erano strumenti di pregio da mettere da parte e da
utilizzare quando si trattava di dar forma a un’idea». D’altronde la retorica, precisa
Bice Mortara Garavelli (1989), «governò e insegnò il “parlare ornato” come veicolo
di persuasione». Passando in rassegna gli ultimi decenni di comunicazione
pubblicitaria, si nota la grande importante che proprio tutta una serie di sistemi
retorici ha avuto nel momento in cui i creativi si sono trovati dinanzi alla necessità di
sviluppare annunci, nello specifico su carta stampata.
Uno dei più sfruttati artifizi è certamente l’iperbole. Ne sono un esempio «la
biancheria più pulita del mondo» e «Il potere nelle tue mani». In evidente calo l’uso
della rima, con Big Babol che sviluppa «è più grande il suo pallone…e fra i denti è
un morbidone» e Zucchi che si affida al pay off «Biancheria per allegria». Più vivo lo
sviluppo di allitterazioni: «un dolce dono a chi ci ha donato la vita» sfrutta “d” e “c”,
«Oggi anche voi potete avere un Philips e vantarvene» usa “v” e, nonostante la
diversa pronuncia in lingua originale del nome della marca, “p”. Sempre la “p” è
ripetuta in «è più grande il suo pallone».
Di anafora, tecnica che consiste nella ripetizione di una o più parole all'inizio di frasi
o in poesia di versi successivi, si può quindi parlare in presenza di: «Niente grassi,
niente coloranti, niente profumi». L’uso della sinestesia è invece realizzato nello
headline di Zigulì «Il gesto più dolce».
Si è invece già parlato della citazione di Jesus Jeans «Chi mi ama mi segua», mentre
una sorta di accumulazione la si ha all’interno dell’annuncio degli insetticidi Ddt,
capaci di battersi con «scarafaggi formiche tarme eccetera».

Grafia
Una prima interessante distinzione va fatta esaminando l’uso di maiuscole e
minuscole. Ci si limita a seguire le più classiche regole grafiche nella campagna del
1949 dedicata alle assicurazioni, mentre l’annuncio del detersivo Omo pone in primo

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piano il nome stesso del prodotto reclamizzato, così come effettuato da Philips.
Interamente maiuscolo anche il titolo della pubblicità sul Ddt, mentre Big Babol opta
per un testo caratterizzato da sole minuscole. Rafforzano invece termini che già
rappresentato tecnicismi le maiuscole di Betaglucano e Omega3, con il chiaro intento
di infondere ulteriore fiducia nel potenziale cliente.
Da evidenziare in chiusura la presenza delle virgolette, che introducono il discorso
diretto di Oil of Olaz (nella pubblicità di Omo il discorso diretto si sviluppa invece
direttamente nell’ambito del visual), e quello del corsivo, che viene sfruttato da
Zigulì per la frase d’apertura.

Conclusioni
La sensazione, a margine di una pur sbrigativa analisi degli ultimi sessant’anni di
comunicazione pubblicitaria (una storia che, è bene sottolinearlo, si è sviluppata
senza sosta soprattutto negli ultimi due secoli), è che la presenza sempre più elevata
di tecnicismi e forestierismi e il contemporaneo calo dello sfruttamento di forme
letterarie e in particolare poetiche, sia da considerare ormai una costante in una
società nella quale il prodotto deve anche, spesso, indicare un preciso stile di vita. Sul
linguaggio pubblicitario, che ha dimostrato di possedere un evidente appeal sui
parlanti, si è molto dibattuto anche e soprattutto a livello linguistico: ci si trova di
fronte a una fonte di arricchimento per la lingua italiana oppure la strada imboccata è
quella della mercificazione linguistica? Le parole di Maria Grazia Corti (1978)
lasciano aperto questo dilemma: «Il rapporto che si instaura fra il linguaggio della
pubblicità e la lingua italiana è duplice: da una parte questo linguaggio sfrutta e
accentua le possibilità espressive dell'italiano contemporaneo, d'altra parte, tendendo
a creare la parola-merce, cioè l'assoluta corrispondenza fra il marchio e l'oggetto,
favorisce quel fenomeno di anemia della lingua, che è oggi in uso chiamare
reificazione o mercificazione linguistica».

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