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Che animale sono

Francesco Marsciani

Innanzi tutto una doverosa premessa relativa al titolo, che, nonostante possibili assonanze, non intende
né imitare né mettersi sulla scia del celebre L’animal que donc je suis di Derrida. In tutta onestà, il titolo è
stato fornito quando avevo deciso di accettare l’invito a partecipare a questo convegno, ma non sapevo
ancora come avrei affrontato il mio tema, né a dire il vero a cosa avrei tentato di dedicarmi. La prima
interpretazione possibile sarebbe dunque quella di intendere il titolo come una reazione interna ad un
atteggiamento vissuto fin dal principio come poco corretto, o poco rispettoso di alcune regole non
scritte ma vigenti, che cioè si va a parlare ad un convegno quando si ha qualcosa da dire e quel
qualcosa è in linea di massima già noto al momento dell’accettazione. Nel comportarmi come ho detto
mi sono probabilmente sentito un po’ un animale, nel senso di non conforme alle regole del buon
comportamento sociale e me lo sono detto io stesso dicendolo a voi.
Ma forse si potrebbe dire qualcosa di più.
Come probabilmente si è notato, questo titolo manca di una adeguata punteggiatura. Quel “che”
in apertura lascia intendere che la proposizione sia caricata in qualche modo di una forza illocutiva
che tuttavia non traspare adeguatamente. Con un punto e basta, un punto e a capo, quel “che” resta
orfano di valore. La lettura che vi ho proposto in sintesi or ora, già essa stessa non è abbastanza
rappresentata da una frase come quella, una frase dall’equilibrio incerto tra un avvio promettente e
una conclusione inconcludente. Perché si potesse intendere quel titolo come la dichiarazione di una
presa di coscienza sulla scorrettezza di un comportamento, sarebbe stato molto meglio chiudere quella
file di tre parole con un punto esclamativo. Si sarebbe sentita allora tutta la meraviglia e al tempo
stesso tutto lo sconcerto per una scoperta di abiezione. Sarebbe diventato un “oddio… che animale
sono!” e avrebbe portato con sé, già soltanto a partire da quella semplice aggiunta, una certa quantità
di cose da dire, come per esempio mettersi a riflettere sul perché, quando non ci si sente adeguati né
conformi rispetto ad una serie di norme da seguire, si possa pensare di essere un animale. Che cosa
implica, cosa presuppone, cosa dà per scontato e per implicito una formulazione come quella, quasi
un’interiezione in cui la Legge morale interna, il mio personale imperativo categorico, mi fa scoppiare
in un “che bestia che sono!”. Bestia? Animale o bestia? Ecco già una prima piccola cosa: coloriture
semantiche… animale vs bestia. Ci sono molti classemi di mezzo, si dirà… Certo, e dipende dai
contesti, infatti: per lo più si potrebbe forse dire (cosa interessante) che la bestia è un animale a cui è stata
tolta l’umanità (umanità che allora sarebbe da intendersi come un tratto interno dell’animalità) e proprio
per questo, tra l’altro, alla bestia è permesso di trasformarsi magicamente in umano a tutto tondo in
certi casi, come nel mondo magico, nell’universo favolistico de La bella e la bestia o di quel principe che
torna tale dopo aver vissuto un certo tempo da rospo (e mica da micetto o da fiero cavallo… no!
Proprio da bestia, da bestia un po’ schifosa ..). La bestia… l’altro polo dell’animalità, cioè il bordo più
lontano da noi entro quella dimensione animale che ci è comune, dimensione peraltro riempita a tutti i
passaggi (o forse meglio dire curvature o pieghe o nodi e snodi, a dispetto di Aristotele) da tutte le
forme possibili dell’animale: cane e gatto nei nostri soggiorni, nei nostri giardini, ma allora anche lupo
e tigre sulla linea oppositiva dell’addomesticamento; Furia cavallo del west o Ronzinante, cavallo
errante di Iberia; toro furioso che sbuffa dalle narici e mucca sacra che dondola in mezzo ad un
mercato esotico; aquile e passerotti, ma anche pappagalli parlanti e gabbiani assassini; lucertole e
vipere; topi da esperimento nei laboratori e ratti nelle fogne; cammelli e pecore, stessa faccia ma stile
assai diverso; elefanti intelligenti e stupide galline; le gazze che, pur ladre, non si rubano mai il partner
e che come i piccioni e altri sono da assumere come modello di stabilità coniugale, mentre con i
conigli, pare, le cose vanno diversamente; … e poi le bestie, quell’altra cosa laggiù, la bestia aliena
(“quella bestia di Alien”!) e tutti i sauri di prima dell’asteroide; e il coccodrillo è una bestia o un
animale? e l’orso bianco è un animale ma il grizzly è una bestia feroce, o no? E lo squalo è una
macchina bestiale mentre i branchi di piranhas sono società aggressive che bisogna tener lontane con
rispetto e riverenza… e gli insetti cosa sono, che sembrano Alien ma senza cuore, eccetto le api forse,
addolcite nel loro intimo dal miele e dalla pappa reale “che fa così bene”… poi ci sono i lombrichi, che
sono animali lontani ma non sono bestie per l’unica ragione, forse, che a nessuno è mai venuto in
mente che possano trasformarsi in principi con un po’ di magia, e in effetti perché un lombrico
dovrebbe trasformarsi in principe?
Dicevo classemi. È il gioco che si può proporre: montare e spostare classemi come tasselli per
costruire delle figure. Animali o bestie? Uomini o bestie? E quando si fa sesso con gli animali (ce ne
parlerà tra poco Giuditta) si è animali a nostra volta o addirittura bestie che strapazzano l’animalità
che l’umanità ha perduto? Dipende, si dirà: forse è diverso fare sesso con uno squalo o fare sesso con il
vostro caro cagnolino. Comunque per quest’ordine di questioni basterà cliccare su Google Search…
Torniamo a noi, cioè al titolo che mi sono dato. Il punto esclamativo mi avrebbe indotto a sentirmi
animale, se non addirittura bestia, dato che gli animali non fanno certe cose; gli animali sono sinceri,
sono semplici e diretti, sono brava gente che neppure sa cos’è l’inganno, a parte alcuni curiosi
fenomeni di simulazioni e cammuffamenti di cui Paolo ci parlerà di nuovo in questi giorni. Ma sono
allora subdoli e infidi? Certo, lo sappiamo bene: non possiamo attribuire categorie così umane, troppo
umane, e etico-culturali al comportamento animale, così sociali, per così dire, ma allora perché si
capisce quando mi do dell’animale se mi comporto male? Semplicemente perché dimostro di non
sapere, come un animale non sa, comportarmi in modo conveniente? Ma quanti animali si
comportano in modo più conveniente degli umani in tante occasioni! Fedeltà, affidabilità, coraggio,
una certa qual forma di saggezza spesso. E soprattutto quel che è è, quel che non è non è e se talvolta
si inganna qualcuno è sempre per sopravvivere o dar da mangiare ai propri piccoli. Comportamento
sconveniente? Dovremmo dire piuttosto “al di là delle convenienze”, giustamente, poiché sono le
convenienze ad essere qualcosa di umano e quando dico che il mio comportamento sconveniente si
esprime come un comportamento animale sto evidentemente forzando un po’ le cose: se il
comportamento animale è al di là delle convenienze, allora o sto espellendomi dall’universo
dell’umano e mi dichiaro, insieme agli animali, al di là delle convenienze, pur colpevolmente, o sto,
forse indebitamente, convocando gli animali nell’universo dei giudizi di convenienza. D’altra parte è
anche vero che non tutti gli animali sembrano così estranei ai nostri sistemi di regole e aspettative.
Presente quando il fedele Fido, un bel pastore tedesco che vive in famiglia da anni e anni,
all’improvviso si avventa sul neonato e lo fa fuori in quattro e quattro otto? Non è tanto il fatto che ci
rimaniamo male, che ci sembra che si sia comportato senza gratitudine, senza rispetto, senza tutta la
fedeltà che ci si aspetta da Fido; il problema più serio è che siamo costretti a interpretare quel suo gesto
come un giudizio suo nei nostri confronti e dobbiamo ammettere, soprattutto se facciamo gli psicologi
e non apparteniamo a quella sventurata famiglia, che chi ha tradito la fiducia dell’altro, chi ha
cambiato le carte in tavola di una relazione che sembrava consolidata e pacifica, siamo stati noi ai suoi
occhi, che lo abbiamo sostituito nei nostri affetti con un nuovo arrivato che probabilmente Fido fatica
perfino a riconoscere come umano. E poi a che varrebbe che lo riconoscesse come umano? Siamo
sicuri che gli animali (ma quali, in realtà?) ci riconoscano come umani? Quella di “umano” è una
categoria culturale o una categoria naturale (e so bene che una domanda come questa tende a
sparigliare alcune opposizioni un po’ troppo frettolose)? Non è forse un poco presuntuoso quell’adagio
per cui la maggior parte di loro non può reggere il nostro sguardo, oppure l’altra convinzione per cui

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una volta che abbiamo preso in mano (fosse solo per salvarlo dalla strada) un piccolo di porcospino, la
madre lo rifiuterà essendo che gli si è appiccicato addosso il nostro odore (odore di umanità… cosa
sarà poi?) o ancora quella per cui tra animali quelli che hanno a che fare da vicino con gli umani
vengono considerati dei paria, vengono evitati e questo produce tutta la deriva per cui agli occhi dei
lupi i cani sono dei venduti?
Se dunque metto un punto esclamativo dietro al mio “che animale sono!” i problemi che si rischia
di dover affrontare sono molti e, mi pare, anche piuttosto confusi.
Si può sempre provare con l’altra alternativa che consisterebbe nel mettere un bel punto
interrogativo: che animale sono? Non insisterò su questa possibilità che tuttavia, lo si intravede già,
potrebbe portare molto lontano, forse più della precedente. Già, per esempio, si apre l’alternativa
immediata che consiste nel decidere se mi sto chiedendo che animale sono tra gli animali, cioè quali
sono quelle caratteristiche che fanno sì che un uomo sia quell’animale che è, invece di essere un altro,
che cosa lo caratterizza come quell’animale specifico, oppure, se mi concedo la libertà di fare
scorribande nella letteratura, chiedermi che animale sono significherebbe chiedermi a quale casella di
una tassonomia più o meno immaginaria appartengo io, che prima di tutto, cioè prima di essere un
umano, sono proprio io. Io so di essere uno scorpione, ma anche un drago, non so bene a quale tipo
fisiognomico poter essere associato (dovreste dirmelo voi), ma ci sono come ben si sa uomini-cavallo,
uomini-maiali, uomini-gatti, uomini-cocker, e chi più ne ha più ne metta. Chiedersi che animale si è, o
anche (che è lo stesso) dirselo come se si sapesse già la risposta, impone che si stabilisca a quale
tassonomia si fa riferimento, sempre che ci si voglia dare qualche regola per non andare alla deriva in
un gioco di possibili composizioni, scomposizioni e ricomposizioni di tratti, di qualia, di caricature. E
poi c’è il problema di sapere a che serve, che è un problema di tutte le classificazioni, che possono
avere una vocazione puramente sistemica, epistemica e vagamente scientifica, o una vocazione più
pragmatica. Essere un’aquila ha qualche conseguenza? E essere una volpe? Una cicala o una formica?
Al di là degli usi più o meno pedagogici o formativi di queste attribuzioni (si pensi pure a Esopo o a La
Fontaine…) il problema dell’appartenenza a qualche specie animale, come individui o come gruppi,
pone un problema del tutto simile a quello del totemismo: si viene per così dire simbolizzati o invece
significati da queste categorie? La zanzara è un segno e non necessariamente un animale fastidioso (ne
parlavano Del Ninno e Fabbri qualche tempo fa rileggendo Lévi-Strauss), così se a Siena sono della
Contrada del Riccio non necessariamente sono un tipo pungente. Il totemismo pone un problema di
interesse generale che è quello della categorizzazione in quanto tale e allora l’universo degli animali
(diciamo quello di tutte quelle cose viventi là che tendenzialmente non siamo noi e che talvolta si
mescolano addirittura con altri universi fatti di piante o di minerali o chissà) non è altro che una zona
articolabile dell’universo semantico e funge da sponda, da puntello e certificazione, per quel pensiero
oppositivo (“logico”, tra molte virgolette) che l’umanità spesso si arroga come propria caratteristica
specifica.
Non possiamo seguire oltre questa strada. L’avevo già detto: ci porterebbe un po’ troppo lontano.
Torniamo a noi. Torniamo al titolo. Abbiamo aggiustato la punteggiatura e con essa abbiamo dato
un po’ ragione di quel “che” con cui l’enunciato si apre. Due forze illocutive, due possibili abissi in cui
andare a finire, con oltretutto, laggiù in fondo, non pochi canali oscuri che li collegano. Li abbiamo
intravisti. Resterebbero in ballo ancora gli altri due elementi: “animale” e “sono”. Prenderli
separatamente? Sull’animale in quanto tale ho l’impressione che, pur senza volere, o forse per colpa
della grammatica, della pura funzione dichiarativa di quel “che”, alcuni sospetti li abbiamo già
avanzati. Animale chi? Animale cosa? Animale perché? Animale/animali, uomini e bestie, l’animale
che è in noi, tutta quell’umanità che abita nel profondo l’animale e la sua natura, insomma di nuovo la
stessa storia insopportabile dal titolo Natura/Cultura.
Sì perché tutto torna sempre lì e, diciamocelo sinceramente, se di questi tempi ci è venuto in mente
di parlare di semiotica e animali, tutto dipende dal revival antropo-filosofico sull’opposizione madre di
tutte le catastrofi (sarà Latour, sarà Descola, sarà Viveiros de Castro, sarà tutta la debole gregarietà e
sudditanza che fa fibrillare a ondate successive noi semiologi senza più casa né origine, ma non si vede
bene perché doverci impegnare a dire la nostra su una questione di cui non sappiamo granché).

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Più interessante, mi pare, è la questione di quel “sono”. Autoaffermazione di esistenza, o
autodichiarazione di un processo individuativo avvenuto, attestazione di una presenza a sé, e tuttavia
declinata, nel nostro enunciato problematico, secondo un’appartenenza, attraverso un legame
associativo che ci “fa essere” animale. Vi è nell’enunciato la presupposizione di un’istanza che lega
l’affermazione della propria esistenza (dice «sono») ai tratti di un’animalità su cui insiste, che deve
poter significare, giacché di fatto significa. Quel che significa resta tutto da decidere, l’abbiamo visto
ampiamente, ma il fatto stesso che l’enunciato significhi pone la questione dell’effettività di un nesso:
per qualcuno “essere animale” ha senso, prende a significare, e essere animale, per quel tanto che si
rende attuale in un’enunciazione prodotta o colta, è diventarlo, è mettersi nella condizione di farsi
intendere come animale, come animale “che si è”, beninteso, come animale di cui si attesta l’essere.
Già, perché “sono” è voce del verbo essere e questo fatto non è privo di conseguenze, o
quantomeno suggestioni.
Nel mio intervento per il convegno di Palermo Zoosemiotica 2.0 avevo provato a sviluppare tramite
due semplici descrizioni di caso, alcune articolazioni delle scene discorsive che costituiscono il tessuto
dei nostri rapporti effettivi, diciamo dei nostri incontri, con individui appartenenti a diverse specie
animali. Come mi era già capitato in tempi meno sospetti, ragionando sui rapporti tra uccelli e
contadini, la mia attenzione era stata intrappolata, per lo più anche se non esclusivamente,
dall’organizzazione e dalle trasformazioni della dimensione spaziale della scena. È evidente, perché è
sempre vero, che la dimensione spaziale non sta in piedi da sola, (che una semiotica dello spazio, detto
per inciso, incontra precisamente questo svantaggio e cioè che lo spazio, direbbe il celebre fisico, è
sempre spazio-tempo) e tuttavia sembra imporsi al ricercatore come quell’insieme di fenomeni
dominanti che gli permettono di accedere con più facilità al “che cosa”, alla struttura, alla sistematicità
di una rete sincronica di relazioni (saranno i poteri dei “sensi esterni” contro una certa
indeterminazione del “senso interno”, sarà la forma immediata delle fenomenalità, sarà quel che sarà,
la metafora reggente dello strutturalismo è essenzialmente spaziale). Ebbene, forse lasciarsi attrarre dal
nesso che si è stabilito, un po’ per caso, tra “essere” e “animale” nell’enunciato che funge da titolo, può
aiutarci a porre in maniera più diretta una questione un po’ curiosa e del tutto ipotetica. Si può
immaginare un campo di rapporti strutturali, ma secondo una forma del divenire allora, tra l’animalità
e il tempo, o, giocando a invertire le categorie, tra l’animale e la temporalità? Essere animali, non
potrebbe ritrovarsi sotto la luce di una domanda aurea ormai, e certo fin troppo ingombrante, come il
famoso titolo Sein und Zeit? Non potremmo esplorare l’animalità enunciata sotto il segno del tempo?
Potremmo partire da un problema di enunciazione per ritrovare poi alcune figure del tempo
enunciato che, non saprei quanto in realtà, sembrano ben disposte ad assumere configurazioni
temporali riconoscibili.
1) Il problema della presenza. Ho detto un problema di enunciazione. In realtà non si tratta tanto
di un problema, quando del fatto che nell’incontro con l’animale la temporalità resta ancorata al
presente del discorso. Non so quanto si debba o si possa attribuire all’animale questo tratto, questa
caratteristica di produzione enunciazionale, né se in realtà un tale eventuale tratto sia davvero così
determinante, ma quello che sto cercando di mettere a fuoco è più un’articolazione della struttura
formale dell’enunciazione che una definizione del comportamento animale in quanto tale che, lo
confesso ancora una volta, non so bene cosa sia.
Quando intorno all’animale viene a prodursi senso, quando l’incontro con l’animale è un incontro
in cui si effettua un enunciato e quindi enunciatore ed enunciatario si istanziano costituendosi come
attori coinvolti in uno scambio, quando passando accanto ad un cancello vengo assalito dall’abbaiare
di un cane, quando un toro mi fissa al di là dello steccato, anche quando una zanzara sfugge al palmo
della mia mano per poi tornare all’attacco, io avverto l’installazione di una spazialità fatta di primi
piani e di profondità, di angoli per nascondersi, miei o loro, di distanze di fuga, di avvicinamento, di
tensioni tra un troppo vicino e un non abbastanza lontano, o viceversa, un troppo lontano e un non
abbastanza vicino se si tratta del cucciolotto con cui intendo giocare o dell’uccello di cui voglio scoprire
la collocazione del nido. In quanto abitanti un mondo che è un mondo intersoggettivo e quindi mondo
per tutti, lo spazio che gli dà forma è uno spazio nel quale sono previste occupazioni parziali, uno
spazio di distribuzioni (c’è un posto per me e uno per te, per i nostri corpi rispettivi) e spostamenti, è

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uno spazio dove scorrono sguardi e odori, dove ci si scambiano carezze o morsi o incornate, nel quale
il movimento segnala le distanze, le lunghezze, le dimensioni. Ora, si potrebbe provare a sostenere che
nell’incontro tra umani anche la dimensione della temporalità si articola secondo una certa
prospettiva, lontananze o vicinanze, prossimità o estraneità di ordine temporale. Potremmo dire che
negli incontri tra umani l’enunciazione produce necessariamente scansioni su una scala che contempla
passato e futuro come valori attuali. Si viene da lontano sulla linea del tempo; già . . . quindi quanto
lontano esattamente? L’enunciato lo esprime. Si va lontano sulla linea del tempo . . . già, quindi
quanto lontano esattamente? L’enunciato probabilmente lo esprime. Ad esempio: guardandoti negli
occhi, «vuoi sposarmi?»; quanto futuro c’è in questo enunciato pronunciato al presente? Il tempo della
preparazione delle nozze? I fatidici sette anni prima del divorzio? Tutta una vita da vivere insieme?
Anche un gattino bagnato e affamato sul bordo di una strada ti guarda negli occhi e molti umani
leggono in quello sguardo una richiesta di matrimonio, eppure l’enunciato non esce dal suo presente:
sembra più semplicemente un «aiuto», «tirami fuori dai guai», se proprio vogliamo articolare una
forma proposizionale su quella che certamente è un’enunciazione in atto. Cosa c’è dunque? Quanto
dipende da quello che il gattino fa, o quanto dipende da quello che io proietto nel suo comportamento
per farlo significare? Storie vecchie . . . Ma forse non è un problema . . . come da tempo cerco di
mettere a fuoco, il senso del mondo dipende dall’enunciatario, e in seconda istanza dal modo in cui si
sta nello scambio enunciazionale. Nel mondo-enunciato qualcosa si fa intenzione di senso e vorrei
scoprire, sempre che l’ipotesi sia valida, cosa consente ad un umano di farsi incarnazione di
un’intenzione di senso in cui la temporalità è scandita secondo la linea del tempo e cosa lo impedisce
invece, in una certa misura, agli animali, in un’altra misura alle piante e in una misura ancora diversa
al mondo inorganico e alle stelle.
L’animale ci convoca nel presente temporale, si presenta nell’ora di una enunciazione attuale. È
curioso: il presente dell’enunciazione animale, in realtà, è un presente dotato di una qualche scansione
sulla linea del tempo, e tuttavia locale, secondo un’articolazione interna della simultaneità, non
proiettata (debrayata) su un prima e un dopo se non per quel tanto che il prima e il dopo restano legati
agli effetti percepibili di e su uno stato della circostanza, nel senso della possibilità di una convocazione
al presente, appunto, di tutti i suoi tratti. È una differenza di gradi, o invece si tratta di un salto di
qualità? Se tengo d’occhio un interlocutore umano non posso non leggere nel suo interagire tratti del
passato (suo, mio, nostro); se tengo d’occhio la volta celeste non posso non sentirmi proiettato in una
dimensione temporale che esorbita i tempi significanti della mia vita attuale; se tengo d’occhio un
interlocutore animale (e in diversa misura anche un vegetale . . . quindi forse un vivente? Potrei dirlo?)
mi trovo a dover distinguere tra stati multipli e diversi: l’addomesticamento, l’imprinting, l’affezione
(pensiamo ai primati), l’istinto di sopravvivenza, la precognizione dei terremoti o dei temporali, e
tuttavia non posso non sentirmi riportato ad un presente che è un intorno, quell’insieme di tratti che
convergono sulla realizzazione di senso attuale; sta per sopraggiungere un terremoto e appunto quel
terremoto non è nel futuro bensì “sta per sopraggiungere”, ora, qui, sotto di noi, nel presente
temporale e non ci sono terremoti nel futuro come non ce ne sono stati nel passato.
2) Tra storia e discorso. Potremmo riproporre la distinzione benvenistiana tra storia e discorso per
tentare di sciogliere questo nodo. Nel discorso animale (chiamiamolo dunque così) non ci sarebbe
storia, per dire che passato e futuro non hanno, come dire?, economie autonome possibili. Non c’è
storia perché non vi è autonomizzazione delle scansioni temporali, bensì convergenza sul valore “al
presente”. Nel discorso animale non ci sarebbe neppure la terza persona, allora. Ma questo non è vero
o non lo è necessariamente, lo sappiamo: se lo dicono tra di loro e lo dicono anche a noi quando c’è un
pericolo in arrivo, quando un predatore sta minacciando il gruppo: il giaguaro è dunque, per chi lo
avvista, scimmia, corvo o pecora che sia, un terzo che appare sulla scena dell’enunciato che il grido
d’allarme allestisce per i compresenti. Solo sembrerebbe non esserci oggettivazione, ovvero proiezione
di un’entità in una dimensione fuori dal presente attuale. Anche in questo caso potremmo dire non
esserci autonomizzazione delle figure enunciate poiché la scena enunciata è una scena che non sembra
dipendere da una preliminare proiezione su una dimensione terza, su un altrove o su un allora che si
sfilino, per così dire, dal discorso in atto.

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Ma dovremmo cercare di stare attenti a non dire, da un lato, troppe banalità, ché in buona parte
queste lo sono, dato che, ancora una volta, sembra illegittimo operare per attribuzioni tra figure del
discorso e funzioni attanziali sotto la solita e potente tendenza a ontologizzare o, che è lo stesso, ad
assegnare qualificativi a “cose” date o “tipi di cose”. Quello che si può tentare di fare è ricostruire una
modalità di produzione di senso, attraverso la messa in gioco delle forme dell’enunciazione, entro la
quale alcune posizioni formalmente valorizzate (ad esempio la distanza o la prossimità della scena
enunciata rispetto al discorso) vengono assunte o attribuite, non voglio dire neppure
preferenzialmente, se non per quel tanto che si ammetta di sussumere categorie socio-psicologiche, e
dunque riconosciute come elementi di genere, motivi, temi ricorrenti. E questa potrebbe essere la
stessa cautela che torna utile di fronte al rischio opposto rispetto alle banalità, che è quello delle tesi
metafisiche, in cui anziché dire l’ovvio si spara, per così dire, l’inusuale affermandone necessità e
oggettività.
Quello che sembra fare il discorso animale (discorso con l’animale, suo e su di esso, intendo), il discorso
che coinvolge l’animale, ma anche l’animale che è umano e l’animale bestiale, secondo una linea di
tensione semantica potenzialmente discretizzata da tante scansioni di ampiezza variabile, è pervertire il
quotidiano, aprire uno spazio esorbitante rispetto alle desemantizzazioni delle pratiche abituali e
consentire in questo modo l’accesso a quella dimensione che sentiamo come perduta à jamais, che è
precisamente quella del discorso come emergenza, come evento e suo orizzonte sempre rinnovato.
L’animale sembra essere (insieme ad altro ovviamente: in altri modi e con altre valorizzazioni la
vecchia quercia e l’esile giunco, o il cielo stellato e gli abissi infuocati) una figura che si mette in gioco
per poter articolare l’uscita dall’umano, che non avrebbe alcun valore se non si stagliasse come “l’altro
dell’umano”, ma che proprio per questo consente all’uomo che parla (intendo dire capace di
rappresentazione… e non è detto che tanti animali veri, cioè diciamo altre specie, non ne siano dotate
a modo loro) consente dicevo di varcare per un istante la frattura, quella crepa dell’imperfezione,
oltrepassare la soglia dei semantismi e dei significati, per poter gettare dal di fuori un’occhiata sulle
condizioni del linguaggio.
Si faccia conto delle regole, delle regole come sistemi di regole, a un tempo linguistiche e sociali,
cioè semiotiche, e si pensi a quanto l’animale, l’Animale con l’A maiuscola, torna ad abitare tutti i
racconti, i miti e le trame in cui si manifesta l’esorbitante. Ed ecco allora nuovamente il tempo: essere
animale è temporalizzare l’enunciato secondo un sistema di categorie che esorbitano rispetto alle
regole delle convenzioni, rispetto alle cause che muovono le oggettivazioni, rispetto alle scadenze e
cadenze sociali della vita. Essere animale è essere in un Presente che si può allargare o restringere non
dico indefinitamente poiché si tratta di un vivente, ma secondo una scala altra, molto al di sotto o al di
sopra dei limiti del tempo umano, perché la riduzione al presente del discorso, il richiamo ad esso, la
natura sempre embrionale che l’animale sembra avere rispetto alla produzione degli enunciati, sempre
in avvio, per così dire, sempre a regime, sempre al di qua della storia, sempre qui dove siamo (“che
animale sono”, appunto), questo riportare il discorso al suo farsi, ci aiuta o costringe non già a ridurre
il tempo all’istante che passa, bensì a passare in una diversa sfera della temporalità, quella dove un
Gatto con gli stivali si fa beffe di tutte le regole prevedibili perché il suo presente è un presente
irrimediabilmente spostato, sempre un poco in anticipo su qualunque previsione, su qualunque “post
hoc ergo propter hoc”, su qualunque calcolo.
Di solito, in questi scenari dell’immaginario, l’uomo, quello che si lascia facilmente collocare nella
terza persona dei nostri enunciati, risulta più stupido e incapace di queste bestie veloci, acute, furbe,
possenti, supereroiche. Ma c’è anche un altro modo di stare al di là della nostra stupidità e forse è il
modo in cui agli animali possiamo chiedere più suggerimenti: c’è una nostra stupidità messa in ridicolo
dall’animale più stupido che si conosca, quantomeno per antonomasia, e finisco dunque citando il
poeta, per salutarvi e ringraziarvi dell’attenzione:

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo


Rosso e turchino, non si scomodò
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
pubblicato in rete l’11 dicembre 2018

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