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Penale Sent. Sez. 1 Num.

30323 Anno 2017


Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: SANDRINI ENRICO GIUSEPPE
Data Udienza: 06/10/2016

Corte di Cassazione - copia non ufficiale


SENTENZA
sul ricorso proposto da:

BRUNO FRANCESCO N. IL 27/05/1951

avverso la sentenza n. 4/2014 CORTE ASSISE APPELLO di


PALERMO, del 19/02/2015

visti gli atti, la sentenza e il ricorso


udita in PUBBLICA UDIENZA del 06/10/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ENRICO GIUSEPPE SANDRINI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. pAAp., 1 4
che ha concluso per

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Udito, per la parte civile, l'Avv

Uditi difensor Avv.


RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza pronunciata il 19.02.2015 la Corte d'assise d'appello di Palermo
ha confermato la sentenza in data 22.05.2013 con cui il GIP del Tribunale di
Palermo, all'esito di giudizio abbreviato, aveva condannato Bruno Francesco alla
pena di anni 30 di reclusione, oltre pene e statuizioni accessorie e oltre alle
pronunce risarcitorie in favore delle parti civili costituite, per il delitto di omicidio
di Enea Vincenzo, aggravato dalla premeditazione e dall'aver commesso il fatto,
in concorso con altri, durante la latitanza conseguente a mandato di cattura
emesso nei suoi confronti.
L'omicidio era stato commesso poco prima delle 8.00 del mattino dell'8.06.1982

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in Isola delle Femmine, davanti al lido balneare "Villaggio Bungalow", di
proprietà della vittima, dove il cadavere dell'Enea era stato rinvenuto attinto da
numerosi colpi d'arma da fuoco.
Le fonti di prova della responsabilità dell'imputato, valorizzate dalla sentenza
d'appello, sono costituite essenzialmente dalle dichiarazioni del figlio della
vittima, Enea Pietro, corroborate da quelle dei collaboratori di giustizia Mutolo
Gaspare, Onorato Francesco e Naimo Rosario, che avevano reso in tempi diversi
propalazioni de relato sulla causale del delitto e sui suoi autori (provenienti tutte
da soggetti intranei all'associazione mafiosa e occupanti nella stessa un ruolo di
primo piano), nonché dai riscontri tratti dalle dichiarazioni di altri familiari della
vittima e dagli accertamenti di p.g..
Enea Pietro, che all'epoca collaborava col padre nella sua attività di imprenditore
edile, aveva riferito ai carabinieri nell'immediatezza del fatto che la mattina del
delitto, dopo essere uscito a pesca verso le 6.00, nel passare davanti al
bungalow dove doveva incontrare il padre, aveva notato ferma a circa 200 metri
dall'ingresso una vettura Fiat 124 di colore bianco, che non aveva più rivisto
quando era ripassato sui luoghi dopo circa dieci minuti, allorchè aveva trovato il
cadavere del padre appena ucciso; in tale occasione aveva precisato, senza
tuttavia voler verbalizzare - allora - le sue dichiarazioni, che a bordo della Fiat
124 vi erano quattro persone, di una delle quali aveva descritto le fattezze, che
lo avevano guardato con circospezione, una anche additandolo agli altri
occupanti della vettura.
La reticenza inizialmente dimostrata da Enea Pietro era stata attribuita dai
carabinieri al clima di intimidazione e di omertà che aveva caratterizzato fin
dall'inizio le indagini, condizionando anche l'atteggiamento dichiarativo del teste
e inducendolo a non collaborare per timore di ritorsioni in danno dei propri
familiari; la verosimile causale dell'omicidio era stata individuata nell'attività di
impresario edile della vittima e nei contrasti insorti con gli interessi di soggetti
appartenenti alla criminalità organizzata operanti nel settore.

1
Enea Pietro aveva reso nuove dichiarazioni il 9.05.2000, nelle quali precisava di
aver riconosciuto senza ombra di dubbio, tra le persone presenti a bordo della
Fiat 124 (indicata come di colore beige) che aveva visto nei pressi del villaggio
bungalow verso le 7.30 del mattino del giorno in cui il padre era stato ucciso,
Bruno Francesco, all'epoca latitante, il quale lo aveva salutato; indicava il
movente dell'omicidio nelle attività imprenditoriali del padre, che aveva rifiutato
la proposta dell'imputato di diventare suo socio occulto per consentirgli di
investire denaro nell'edilizia, nonché nel contrasto insorto con la società BBP,
costituita da Bruno Giuseppe, Bruno Pietro (entrambi parenti dell'imputato) e
Pomerio Giuseppe, proprietaria di un fabbricato denominato Costa Corsara

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edificato su un terreno limitrofo a quello sul quale Enea Vincenzo aveva costruito
una palazzina, di cui non riusciva a vendere gli appartamenti perché il fabbricato
della BBP aveva ecceduto la cubatura consentita, appropriandosi di un terreno
che doveva costituire oggetto di permuta con l'Enea e impedendo così il
perfezionamento del negozio, fino a provocare il fallimento dell'impresa della
vittima; nel corso della conseguente lite giudiziaria con la BPP, Enea Vincenzo
aveva subito atti intimidatori, come incendi e danneggiamenti, che lo avevano
indotto ad avvicinarsi, per tentare una mediazione, all'imprenditore edile
D'Agostino Benedetto, a sua volta ucciso.
Enea Pietro riferiva altresì di essere stato minacciato di morte a seguito della
ricerca di informazioni sull'omicidio del padre, in particolare mediante una
telefonata anonima ricevuta dalla madre, che lo avevano indotto ad allontanarsi
da Isola delle Femmine per timore di ritorsioni; le minacce subite avevano
trovato conferma nelle dichiarazioni dei familiari dell'Enea (la madre, le sorelle, il
fratello), che avevano riferito di aver appreso dal loro congiunto il
coinvolgimento dell'imputato nel delitto, nonché le relative causali nella lite con
la società BPP e le intimidazioni subite da Enea Vincenzo prima di essere ucciso.
Mutolo Gaspare, nelle conformi dichiarazioni da lui rese il 14.07.1993 e il
7.05.2010, aveva riferito che l'omicidio dell'Enea era stato deciso perché la
vittima non rispettava le sollecitazioni della famiglia mafiosa locale, capeggiata
da Riccobono Rosario, e di aver appreso dal Riccobono e da altri sodali le relative
modalità organizzative ed esecutive in occasione di riunioni avvenute il giorno
precedente e nella stessa tarda mattinata del delitto nella villa del Riccobono,
venendo a conoscenza che del gruppo di fuoco aveva fatto parte l'imputato.
Onorato Francesco aveva riferito a sua volta di aver appreso dal Riccobono che
Bruno Francesco era un soggetto a lui vicino negli anni 1982-1983, attivo nella
zona di Isola delle Femmine, e che l'omicidio dell'Enea era stato voluto dalla
famiglia mafiosa locale, e tra gli altri anche dal Bruno, perché la vittima
disturbava gli affari mafiosi nel settore dell'edilizia.

2
Anche Naimo Rosario aveva riferito informazioni apprese in diverse occasioni e
da diversi soggetti sulla causale dell'omicidio, dovuto a motivi di costruzioni, di
terreni e di soldi, e sulla sua riconducibilità a una decisione della famiglia mafiosa
locale, capeggiata dal Riccobono, persona con la quale l'imputato, molto
considerato nell'ambito di cosa nostra, era a diretto contatto; la decisione di
uccidere Enea era stata presa senza avvertire il vertice dell'organizzazione
mafiosa, come il Nainno aveva appreso direttamente da Riina Salvatore in
occasione di un incontro nel 1985; il collaboratore aveva altresì appreso da Troja
Antonino che questi aveva ucciso l'Enea, insieme al Bruno e ad altri soggetti, per
ordine del Riccobono.

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La Corte territoriale rilevava che le dichiarazioni testimoniali di Enea Pietro non
necessitavano di riscontri, una volta positivamente superato il vaglio di credibilità
e di intrinseca attendibilità; che non era emerso alcun motivo per cui l'Enea
dovesse calunniare l'imputato, a distanza di 18 anni dal delitto e dopo aver
lasciato definitivamente i luoghi, quando il clima intimidatorio era ormai
superato; che la reticenza iniziale dell'Enea trovava logica spiegazione nelle
minacce subite e nel timore di ritorsioni verso i familiari; che il particolare sulla
presenza in loco della Fiat 124 era stato riferito agli inquirenti fin dall'inizio; che
il timore nutrito nei riguardi del Bruno era giustificato dalla sua caratura
criminale di appartenente al clan mafioso del Riccobono, all'epoca ricercato per
un altro omicidio da lui commesso; che le divergenze riscontrabili rispetto alle
primigenie dichiarazioni del'Enea erano minimali e spiegabili col decorso del
tempo; che il movente dell'omicidio indicato dall'Enea aveva trovato riscontro
nelle indagini di p.g., anche con riguardo alla controversia insorta con la BPP e
alle ragioni della stessa; che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
realizzavano la convergenza del molteplice e provenivano da soggetti la cui
credibilità era stata verificata in numerosi processi, mentre gli aspetti di
genericità del loro propalato trovavano spiegazione nella natura de relato delle
dichiarazioni e nell'assenza di diretta partecipazione al delitto.
2. Ricorre per cassazione Bruno Francesco, a mezzo dei difensori, deducendo con
unico motivo violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione agli artt.
546, 125, 192, 530 cod.proc.pen., 110, 575, 99 cod.pen..
Il ricorso deduce la nullità assoluta della sentenza impugnata per inesistenza di
una valida motivazione, essendosi il giudice d'appello limitato alla pedissequa
ripetizione delle argomentazioni del GUP, rispetto alle quali l'unico elemento di
difformità era costituito dalla diversa valutazione dell'apporto fornito dai
collaboratori di giustizia Mutolo, Onorato e Nainno.
Dopo aver riportato la sequenza e i contenuti delle dichiarazioni rese dal figlio
della vittima, Enea Pietro, segnalandone gli aspetti contraddittori e inattendibili,
Lr/
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il ricorso rileva che la sentenza d'appello aveva omesso di considerare che
l'Enea, nelle sue dichiarazioni iniziali oggetto della confidenza non verbalizzata,
aveva identificato il soggetto descritto come uno degli occupanti della vettura
Fiat 124 che aveva notato in sosta verso le 7.30 del mattino, poco prima del
delitto, presso i bungalow dove era stato commesso l'omicidio, in un giovane che
due settimane prima si era intrattenuto a parlare con l'amico Cardinale Antonino
nel bar "La plaia" di Isola delle Femmine, individuato dalla p.g. in Fanara
Giuseppe, del quale l'Enea aveva successivamente ritrattato l'identificazione;
deduce l'assenza di riscontri dell'attribuzione della ritrattazione dell'Enea a un
clima di omertà e intimidazione smentito dallo stesso teste; rileva l'inconsistenza

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del movente del delitto indicato dal Mutolo a molti anni di distanza sulla base di
pretese informazioni de relato; evidenzia le divergenze riscontrabili nelle
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e censura l'avvenuto riconoscimento
dell'imputato, da parte dell'Enea, a diciotto anni di distanza dall'omicidio, dopo
aver serbato un lungo e ingiustificato silenzio, nonostante il Bruno fosse persona
da lui sicuramente conosciuta.
Il ricorso riporta le censure dedotte nei motivi d'appello alle quali la sentenza
impugnata non aveva dato risposta; contesta l'affermazione della Corte
territoriale secondo cui i motivi di gravame si erano limitati a un esame
parcellizzato dei singoli elementi di prova senza considerare la valenza di prova
testimoniale che doveva riconoscersi alle dichiarazioni di Enea Pietro, non
necessitanti di riscontri esterni una volta superato il vaglio di credibilità; richiama
la contestazione articolata e globale degli argomenti che il giudice di primo grado
aveva posto a fondamento della sentenza di condanna, svolta nei motivia
d'appello, e deduce la circolarità delle dichiarazioni accusatorie provenienti dai
componenti della famiglia della vittima, che avevano tutti riferito quanto appreso
dalla medesima fonte, rappresentata da Enea Pietro, di cui la difesa aveva
dimostrato l'inattendibilità.
Il ricorso lamenta la lettura incompleta degli atti processuali da parte della
sentenza impugnata, basata esclusivamente sulle dichiarazioni di Enea Pietro, di
cui censura la valutazione frazionata, rilavando che il teste aveva taciuto per
vent'anni la circostanza della chiamata telefonica anonima, di natura minatoria,
da lui ricevuta con l'intimazione di cessare le ricerche sulle cause dell'omicidio
del padre, e di cui era rimasto ignoto l'autore; deduce l'assenza di connessione
tra l'omicidio di Enea Vincenzo e quello di D'Agostino Benedetto, che il
collaboratore Gaspare Mutolo aveva ascritto a una diversa causale, scaturita
dalla mancata esecuzione a regola d'arte dei lavori di costruzione della villa di
Spatola Bartolomeo; censura la motivazione della sentenza di condanna basata
su congetture e moventi inesistenti, privi di riscontro negli atti processuali,

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nonchè il giudizio di affidabilità attribuito alle dichiarazioni di Enea Pietro, autore
di propalazioni deliranti; rileva che la sentenza impugnata non aveva precisato
quali fossero le interessenze tra l'imputato e la società B.B.P., lamentando il
travisamento della prova sul preteso sconfinamento territoriale (smentito anche
documentalmente) nell'edificazione del complesso turistico Costa Corsara,
indicato come causa della controversia con la vittima alla quale i soci della B.B.P.
erano invece estranei, riguardando la lite esclusivamente i rapporti tra Enea
Vincenzo e i proprietari (gli eredi Cardinale) del terreno confinante col lotto,
edificato dall'Enea, interessato dal frazionamento e da permuta parziale, lite che
era stata definita in epoca antecedente il delitto così da consentire alla vittima di

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sbloccare la vendita degli appartamenti, come confermato dal coniuge dell'Enea.
3. I difensori delle parti civili costituite hanno depositato memorie con cui hanno
chiesto che il ricorso di Bruno Francesco sia rigettato o dichiarato inammissibile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è complessivamente infondato e deve essere rigettato, per le ragioni
che seguono.
2. Priva di fondamento è, anzitutto, la censura rivolta dal ricorrente alla sentenza
impugnata di essersi limitata a recepire e riprodurre acriticamente la motivazione
della decisione di primo grado, senza confrontarsi con le doglianze proposte
avverso la stessa dalla difesa dell'imputato nei motivi d'appello e senza
rispondere in modo adeguato alle relative ragioni di gravame.
Dal raffronto testuale delle decisioni di primo e di secondo grado emerge invece
che la sentenza d'appello ha affrontato ed esaminato il nucleo essenziale delle
censure dell'appellante, ed è pervenuta alla conferma dell'affermazione di
colpevolezza dell'imputato sulla scorta di una propria, autonoma, rilettura delle
risultanze istruttorie, che ha valorizzato particolarmente la fonte di prova
rappresentata dalle dichiarazioni testimoniali del figlio della vittima, Enea Pietro,
che la sentenza del GIP aveva utilizzato principalmente come elemento di
riscontro delle propalazioni dei collaboratori di giustizia Mutolo, Onorato e Naimo.
La motivazione della sentenza gravata, sotto tale profilo, va dunque esente da
censura; per scrupolo argomentativo, deve comunque essere ribadito
l'orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui il ricorso da parte del
giudice d'appello alla motivazione per relationem, facente riferimento a quella del
provvedimento di primo grado, deve ritenersi in via di principio consentito, e non
produce alcuna nullità, allorché le argomentazioni del provvedimento richiamato
risultino congrue rispetto alle esigenze giustificative di quello che le recepisce, e
dalla lettura di quest'ultimo emerga che il giudice d'appello ha preso cognizione
delle ragioni sostanziali del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e
ritenute coerenti con la sua decisione (Sez. 6 n. 53420 del 4/11/2014, Rv.

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L
261839; Sez. 6 n. 48428 dell'8/10/2014, Rv. 261248).
In particolare, è stata ritenuta legittima da questa Corte la motivazione per
relationem della sentenza di secondo grado che recepisca in modo critico e
valutativo quella della sentenza impugnata, limitandosi a ripercorrere e
approfondire alcuni aspetti del complesso probatorio oggetto di contestazione da
parte dell'appellante, omettendo di esaminare quelle doglianze dell'atto di
appello che avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza di primo grado
(Sez. 2 n. 19619 del 13/02/2014, Rv. 259929), specie se le censure formulate
nell'atto di impugnazione non contengano elementi di sostanziale novità rispetto
a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata

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(Sez. 2 n. 30838 del 19/03/2013, Rv. 257056).
L'osservanza di tali principi, ai quali va data continuità, risulta verificata all'esito
della lettura coordinata delle due sentenze di merito che hanno condannato
l'imputato per l'omicidio di Enea Vincenzo, avendo la sentenza d'appello
legittimamente rivisitato e integrato, mediante una più puntuale valorizzazione
della capacità dimostrativa attribuita alla testimonianza di Enea Pietro, l'impianto
motivazionale della decisione di primo grado, che aveva già esaminato e vagliato
in modo esaustivo l'intero complesso dei dati probatori acquisiti a carico del
Bruno, e rispetto alle cui valutazioni le doglianze proposte nei motivi d'appello
non deducevano elementi di reale novità.
3. Le ulteriori censure del ricorrente che sono dirette principalmente a criticare la
credibilità soggettiva di Enea Pietro e l'attendibilità intrinseca attribuita dalla
sentenza impugnata alle sue dichiarazioni - con particolare riguardo
all'affidabilità del riconoscimento nella persona dell'imputato di uno dei soggetti
presenti a bordo dell'autovettura Fiat 124 che il teste aveva visto ferma in sosta
nelle prime ore del mattino dell'8.06.1982 nelle adiacenze del luogo (il lido
balneare "villaggio bungalow" di Isole delle Femmine) dove, in immediata
successione temporale, era stato consumato l'omicidio del padre, riconoscimento
operato dall'Enea per la prima volta nelle dichiarazioni rese il 9.05.2000, a
diciotto anni di distanza dal fatto - non si confrontano adeguatamente col dato
testuale per cui la sentenza d'appello ha individuato nel narrato dell'Enea uno
degli elementi, per quanto rilevante, di prova della responsabilità del Bruno, che
si inserisce in un quadro dimostrativo più ampio e convergente, composto anche
dai contenuti delle propalazioni di tre collaboratori di giustizia e dalle
dichiarazioni degli altri familiari della vittima, ulteriormente convalidato da
elementi di riscontro tratti dagli accertamenti investigativi compiuti dai
carabinieri all'epoca del delitto, quadro la cui univoca concludenza probatoria era
già stata argomentata e valorizzata dal GIP nella sentenza di primo grado.
La Corte distrettuale ha verificato, con argomentazioni congrue che si saldano a

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quelle del GIP, l'affidabilità complessiva delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia Mutolo, Onorato e Naimo, già validata in altri processi, provenienti da
soggetti organicamente inseriti nell'organizzazione mafiosa di "cosa nostra", con
specifico riguardo all'autonomia reciproca delle rispettive propalazioni de relato
(frutto di informazioni e confidenze ricevute in tempi e contesti diversi, da fonti
primarie - quantomeno parzialmente - differenti) e alla sussistenza del requisito
della convergenza del molteplice sul nucleo essenziale del narrato concernente il
coinvolgimento dell'imputato nella decisione e nell'esecuzione dell'omicidio, le
causali del delitto e l'indicazione dei relativi mandanti negli esponenti della
famiglia mafiosa locale, capeggiata da Riccobono Rosario, alla quale apparteneva

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(anche) il Bruno, coi cui illeciti interessi economici la vittima era entrata in
conflitto nell'esercizio della sua attività imprenditoriale.
La sentenza impugnata ha giustificato con la natura de relato delle informazioni
riferite dai collaboranti le imprecisioni, di (ritenuto) carattere non decisivo,
ravvisabili nelle loro dichiarazioni, e ha dato conto della sostanziale convergenza
del loro racconto con quello di Enea Pietro in ordine alle ragioni fondamentali
dell'omicidio del padre, dovute alla sua attività di impresario edile, e alla causale
"mafiosa" del delitto, in cui l'imputato era coinvolto in veste di compartecipe del
sodalizio criminale capeggiato dal Riccobono e di soggetto direttamente
interessato alle relative attività illecite.
La Corte di merito ha spiegato in termini che non presentano aspetti illogici (e,
comunque, certamente non manifestamente illogici), ma che hanno trovato anzi
riscontro in altre acquisizioni istruttorie, le ragioni della tardività del
riconoscimento dell'imputato - come uno degli occupanti della Fiat 124 ferma sul
luogo del delitto - operato da Enea Pietro solo nell'anno 2000, mentre nelle
dichiarazioni rese ai carabinieri nell'immediatezza del fatto (e che allora non
aveva voluto verbalizzare) il teste non aveva fatto riferimento al Bruno; sul
punto, la sentenza d'appello ha valorizzato il clima di omertà esistente all'epoca
e il timore suscitato nel figlio della vittima dalle gravi intimidazioni che avevano
preceduto e seguito l'esecuzione dell'omicidio, e che lo avevano anche
personalmente riguardato, inducendo l'Enea a essere reticente con gli inquirenti
per evitare ritorsioni e non mettere in pericolo la propria vita e quella dei suoi
familiari, tanto da determinarsi a lasciare i luoghi e trasferirsi altrove a seguito
delle minacce di morte che aveva ricevuto qualora non avesse smesso di cercare
informazioni sulle ragioni dell'uccisione del genitore; il superamento, per effetto
del decorso di un ampio intervallo temporale e del mutato contesto
circostanziale, dell'originario clima di paura giustificato dalla caratura criminale
del Bruno (allora latitante e ricercato per un altro omicidio), spiega dunque -
secondo i giudici di merito - la tardività della decisione di Enea Pietro di rendere (

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piena e completa testimonianza su tutto ciò che aveva effettivamente visto la
mattina dell'omicidio, ivi inclusa la presenza in loco dell'imputato, persona che
egli non avrebbe avuto ragione di accusare falsamente a così tanti anni di
distanza dall'episodio criminoso.
L'esistenza, all'epoca dell'omicidio e subito dopo di esso, del clima di omertà e
delle condotte intimidatorie - descritte da Enea Pietro - che avevano riguardato
tanto Enea Vincenzo, che aveva dovuto subire danneggiamenti e incendi nei
propri cantieri prima di essere ucciso, quanto gli stretti congiunti della vittima,
ha trovato riscontro, secondo la conforme ricostruzione delle risultanze
probatorie operata sul punto da entrambe le sentenze di merito, sia nelle

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indagini di p.g. allora svolte, sia nelle dichiarazioni testimoniali di altri
componenti del nucleo familiare della vittima, in particolare la moglie Cataldo
Giuseppa e la figlia Enea Maria Teresa, sui contenuti minatori delle telefonate
anonime da esse ricevute nei mesi successivi al delitto, in cui l'ignoto
interlocutore le aveva avvisate che se Enea Pietro avesse continuato a fare
domande sull'omicidio del padre avrebbe fatto la stessa fine del genitore; al
riguardo non sussiste, perciò, la circolarità degli elementi di riscontro lamentata
dal ricorrente, in quanto le circostanze appena indicate sono state riferite dagli
altri congiunti della vittima come frutto di propria scienza diretta, e non per
averle apprese de relato da Enea Pietro, e sono state perciò correttamente
valorizzate dai giudici di merito come elementi di conferma esterna del racconto
di quest'ultimo, che è stato adeguatamente vagliato nella sua attendibilità
intrinseca ed estrinseca.
4. La sentenza impugnata non è dunque incorsa nei vizi di legittimità lamentati
dal ricorrente, e la condanna dell'imputato non è stata fondata dalla Corte
distrettuale su una lettura parziale e incompleta degli atti processuali, basata
esclusivamente sulle dichiarazioni, in tesi difensiva inaffidabili, di Enea Pietro,
senza fornire risposta ai motivi d'appello.
La rilettura delle risultanze istruttorie operata dalla sentenza d'appello non si
pone, come si è detto, in sostanziale contrasto con la motivazione della sentenza
di primo grado, avendo la Corte distrettuale ribadito la capacità dimostrativa
delle propalazioni dei collaboratori di giustizia che erano già state ampiamente
scandagliate e giudicate affidabili dal GIP, ed avendo riconosciuto autonoma
efficacia probatoria alle dichiarazioni testimoniali di Enea Pietro che già il primo
giudice aveva ritenuto attendibili e idonee a riscontrare, insieme agli altri
elementi apportati dalle dichiarazioni dei prossimi congiunti della vittima e dalle
emergenze investigative, le chiamate in reità effettuate a carico dell'imputato dal
Mutolo, dall'Onorato e dal Nainno.
Il nucleo fondante e decisivo della prova della responsabilità dell'imputato

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nell'omicidio di Enea Vincenzo è stato individuato e argomentato da entrambe le
sentenze di merito, sia pure con una diversa accentuazione dell'importanza
dell'una rispetto all'altra fonte dimostrativa, nella convergenza fondamentale
delle propalazioni de relato dei collaboratori di giustizia, da un lato, e delle
dichiarazioni testimoniali - frutto di scienza diretta - del figlio della vittima,
dall'altro, e nella capacità dei rispettivi narrati di riscontrarsi reciprocamente sui
dati essenziali della partecipazione del Bruno al delitto e sulla causale mafiosa (di
tipo locale) dell'omicidio, idonea a spiegare il concorso dell'imputato alla relativa
commissione in qualità di appartenente alla famiglia mafiosa (allora capeggiata
dal Riccobono) i cui interessi illeciti erano entrati in conflitto con le attività della

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vittima nel settore dell'edilizia.
In relazione a tali elementi essenziali della ricostruzione probatoria del fatto e
della responsabilità dell'imputato la sentenza impugnata ha esplicitato in modo
congruo le ragioni del proprio convincimento e si è confrontata con le doglianze
dell'appellante, costituenti sostanziale riproposizione degli argomenti difensivi già
disattesi dalla decisione di primo grado, ritenendole infondate sulla scorta di un
percorso motivazionale immune da vizi logico-giuridici, che si salda a quello del
GIP; la verificata esistenza di un vaglio complessivamente adeguato della
capacità dimostrativa posseduta dagli elementi portanti della ricostruzione
accusatoria nei confronti del Bruno, che risponde alle censure principali del
ricorrente, comporta dunque l'assolvimento dell'obbligo motivazionale gravante
sul giudice di merito (e su quello d'appello in particolare), il quale - come è stato
chiarito con orientamento costante da questa Corte - non è tenuto a compiere
un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame
dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche
attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in
modo logico e adeguato, le ragioni del proprio convincimento, dimostrando che
ogni fatto decisivo è stato considerato, così da potersi ritenere implicitamente
disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate,
siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 4 n. 26660 del
13/05/2011, Rv. 250900; Sez. 6 n. 20092 del 4/05/2011, Rv. 250105; Sez. 4 n.
1149 del 24/10/2005, Rv. 233187).
L'incensurabilità, in sede di scrutinio di legittimità, dell'apparato motivazionale
della sentenza d'appello, che discende dalla riscontrata confutazione degli
argomenti costituenti l'ossatura principale dei motivi di gravame dell'imputato,
toglie perciò rilevanza alla doglianza - sulla quale la difesa ha particolarmente
insistito nel ricorso - diretta a censurare l'insufficienza o l'incongruenza della
risposta fornita dalla Corte territoriale alle critiche rivolte nell'atto di appello
all'individuazione, da parte di Enea Pietro, di una delle ragioni di attrito tra il

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padre e il Bruno, precedenti l'omicidio, nello sconfinamento immobiliare del
complesso turistico di proprietà di una società - la B.B.P. - partecipata (anche)
da parenti dell'imputato in danno del lotto limitrofo edificato da Enea Vincenzo,
che aveva pregiudicato le successive operazioni di frazionamento catastale, di
permuta e di vendita degli appartamenti delle palazzine costruite dalla vittima,
determinando l'insorgenza di una lite e il fallimento della sua impresa;
l'accertamento della reale dinamica della relativa vicenda, di natura civilistica, e
del ruolo del Bruno nella società coinvolta (B.B.P.), riveste infatti un obiettivo
ruolo secondario, e non decisivo, nella ricostruzione complessiva degli elementi
di prova acquisiti e valorizzati dai giudici di merito a carico dell'imputato.

Corte di Cassazione - copia non ufficiale


5. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali; l'imputato, soccombente nei confronti delle parti civili, deve
inoltre essere condannato a rifondere alle stesse, i cui difensori sono comparsi in
udienza rassegnando le proprie conclusioni, le spese sostenute nel presente
giudizio, che si liquidano nelle misure rispettive indicate nel dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali,
nonché a rimborsare le spese sostenute per questo giudizio dalle parti civili Enea
Pietro, che liquida in C 4.059,80, di cui C 59,80 per esborsi ed C 4.000,00 per
onorari, oltre spese generali (15%), iva e cpa, e, cumulativamente, Cataldo
Giuseppa, Enea Riccardo, Enea Rosalia, Enea Maria Teresa, Enea Valerio, Enea
Elisa, che liquida in complessivi C 8.000,00, oltre spese generali (15%), iva e
cpa.
Così deciso il 6/10/2016

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