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Scetticismo

Annalisa Coliva

©Biblioteca essenziale Laterza, serie di Filosofia diretta da Tito


Magri

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Indice

Ringraziamenti

Avvertenza

Capitolo 1 Il paradosso scettico

1. Il paradosso scettico
2. Il paradosso scettico cartesiano
3. Il paradosso scettico humeano
4. Le due forme del paradosso a confronto
5. La riformulazione del paradosso: da paradosso sulla
conoscenza a paradosso sulla giustificazione
6. Il trilemma di Agrippa: regresso, mere assunzioni e
circolarità

Capitolo 2 Le risposte al paradosso scettico cartesiano

1. La negazione del principio di iteratività: l’esternismo e


l’epistemologia delle virtù di Sosa
2. La negazione del principio di chiusura epistemica: Dretske e
Nozick
3. La risposta contestualista: Cohen e DeRose
4. L’implosione del demone: Wright

Capitolo 3 Le risposte al paradosso scettico humeano

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1. La risposta naturalista: Strawson
2. La risposta disgiuntivista: McDowell
3. La risposta liberale: G. E. Moore e Pryor
4. La risposta conservatrice: Wright
5. Tra liberali e conservatori I: le strategie a priori di
Wedgwood e Sosa
6. Tra liberali e conservatori II: la risposta moderata

Appendice

Cos’altro leggere

L’autrice

3
Ringraziamenti

Desidero ringraziare….

Avvertenza

Benché in italiano “epistemologia” e “epistemologico” siano spesso


usati per indicare la filosofia della scienza e ciò che la
concerne, nel resto del volume li preferirò a “gnoseologia” e
“gnoseologico” per uniformità con l’uso inglese.

Inoltre, tutte le formule sono state messe in simboli in


Appendice, mentre nel corpo del testo se ne sono date delle
esemplificazioni discorsive.

Infine, è utile sottolineare che la letteratura sul tema dello


scetticismo, anche nell’ambito dell’epistemologia contemporanea, è
vastissima. La presente intende quindi essere una guida attraverso
solo alcuni dei nodi fondamentali del dibattito contemporaneo,
tesa, inoltre, ad affermare un particolare punto di vista sulla
questione, difeso a più riprese dall’autrice in numerosi articoli
specialistici.

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Capitolo 1

Il paradosso scettico

Molti di voi avranno visto il film The Matrix dei fratelli Andy e
Larry Wachowski. Come dice Morpheus a Neo, il protagonista:

Matrix è ovunque. È intorno a noi. Anche adesso, nella


stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci
alla finestra, o quando accendi il televisore. L'avverti
quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le
tasse. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi
per nasconderti la verità.

Morpheus, che è a capo di una squadra di difensori dell’umanità,


spiega a Neo che il mondo in cui ha abitato fin dalla nascita è
Matrix, un’illusoria realtà simulata costruita dalle macchine nel
1999, per poter controllare l’umanità. In realtà, ora sono nel
2199 e stanno per aver luogo le battute finali del conflitto tra
esseri umani e macchine, che deciderà le sorti della nostra specie
e chi avrà il dominio del mondo.

Se per un verso è inquietante pensare che tutto quello che si è


esperito nella propria vita fino a questo momento è in realtà
frutto di una simulazione informatica, per un altro lo è ancor più
avvedersi del fatto che, se l’esperienza è indistinguibile quale
che ne sia la causa – cioè la manipolazione da parte delle

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macchine, oppure l’interazione con la realtà –, nulla vieta che
anche quello che Neo sta esperendo in quel momento, cioè
l’incontro con Morpheus, possa essere, in verità, nulla più di una
simulazione. Molto del fascino di The Matrix dipende proprio dal
fatto che non si possa mai davvero sapere se Neo stia realmente
combattendo contro le macchine per salvare l’umanità, oppure se
anche questo sia un effetto della manipolazione da parte delle
macchine (o chissà di chi altri). Quindi, quale che sia la
“conclusione” cui pare giungere il film, e che qui non svelerò,
potrebbe in realtà non essere altro che l’ennesima simulazione
provocata dai computer.

Come molti altri film di fantascienza (si pensi a Bladerunner di


Ridley Scott, che pone il problema dell’identità personale), anche
The Matrix solleva un problema filosofico, che, in questo caso,
già Descartes nelle Meditazioni metafisiche (1641-1642) aveva
posto, proponendo l’ipotesi del sogno. Hilary Putnam in “Cervelli
in una vasca” (1981), lo ha invece riproposto in epoca
contemporanea in ambito filosofico. The Matrix solleva il problema
noto, in filosofia, come problema dello scetticismo circa il mondo
esterno. Cerchiamo di capire meglio di che cosa si tratta.

Almeno a una prima approssimazione, essere scettici significa


dubitare che si possano conoscere certi fatti o stati di cose. Il
problema, quindi, è di tipo epistemologico o anche gnoseologico,
non ontologico. Uno scettico non si impegna a dire, per esempio,
che è falso che vi siano oggetti fisici, come invece fa un
idealista, o che vi siano menti altrui, come potrebbe fare un
solipsista. Piuttosto, per ragioni che vedremo, nega che possiamo
sapere tanto che vi siano oggetti fisici o menti altrui, quanto
che non ve ne siano. Lo scetticismo, quindi, conduce a una forma
di agnosticismo motivato, visto che è sorretto da argomenti la cui

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cogenza può e deve ovviamente essere indagata. Questa forma di
agnosticismo va a sua volta tenuta distinta da altre, come ad
esempio l’agnosticismo di chi, non avendo mai considerato prima di
quel momento una questione, non è nella posizione di emettere un
verdetto motivato su di essa. Preciso infine che qui per
agnosticismo intendo il fatto che il soggetto non possa asserire
né che una proposizione né la sua negazione sono conosciute (o
giustificate, come vedremo in seguito). Questo di per sé non
stabilisce ancora che il soggetto non possa giudicare e quindi
credere l’una o l’altra proposizione e/o che non possa asserirle.
Queste conclusioni ulteriori, che per esempio lo scetticismo
antico, in particolare nella figura di Sesto Empirico, trasse,
dipendono a loro volta da argomenti complessi riguardanti la
natura del giudizio, della credenza e dell’asserzione, che
meriterebbero un libro a parte.

Come abbiamo implicitamente appena visto, ci sono molte forme di


scetticismo in filosofia: per esempio, vi è lo scetticismo circa
il cosiddetto “mondo esterno”, vale a dire il fatto che vi siano
oggetti materiali, quali tavoli, sedie, corpi umani, alberi e
quant’altro, che esistono indipendentemente dalle nostre menti e,
in particolare, dal fatto che li esperiamo. Vi è anche lo
scetticismo riguardo all’affidabilità dei nostri sensi: come
possiamo essere certi che non ci traggano sistematicamente in
errore, quando è per loro tramite che verifichiamo, in ogni
particolare occasione, se abbiamo percepito correttamente? Vi è
inoltre lo scetticismo riguardo alle menti altrui, che concerne la
possibilità di sapere se le persone intorno a noi hanno davvero
sensazioni, emozioni, credenze e desideri, o non siano piuttosto
degli automi che si comportano come se avessero quegli stati
mentali senza in realtà averli. Ancora, vi è lo scetticismo circa
l’induzione, che è inerente alla possibilità di sapere che quello

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che si è ripetuto costantemente in passato avrà luogo anche in
futuro. Si può inoltre essere scettici circa il passato: possiamo
davvero sapere che quello che crediamo sia avvenuto in un passato
remoto è effettivamente accaduto molto tempo fa e non sia invece
stato creato cinque minuti fa con tutte ciò che ci fa normalmente
credere che abbia avuto luogo molto prima? Sicuramente si
potrebbero citare altri tipi di scetticismo. Qui mi sono limitata
a enumerare quelli che sono stati maggiormente discussi nell’alveo
della tradizione filosofica occidentale, senza nessuna ambizione
di esaustività.

In questo libro prenderemo in esame principalmente lo scetticismo


sull’esistenza del mondo esterno, vale a dire circa l’esistenza di
oggetti fisici quali tavoli, sedie, corpi umani, ecc. È questo
infatti oggigiorno il tipo di scetticismo più discusso all’interno
della filosofia analitica. Inoltre, presenta analogie strutturali
con le altre forme di scetticismo, quindi è ragionevole supporre
che, se è possibile trovare una buona linea di risposta contro lo
scetticismo circa l’esistenza del mondo esterno, ciò potrà
rivelarsi utile per affrontare anche gli altri tipi di
scetticismo.

Lo scetticismo riguardo al mondo esterno è un argomento filosofico


relativamente recente e chiaramente databile: ha inizio con le
Meditazioni metafisiche di Descartes. Questa sua origine tarda non
è probabilmente casuale. Lo scetticismo antico aveva infatti una
finalità pratica: attraverso la sospensione del giudizio si
cercava di raggiungere una forma di atarassia – cioè di assenza
delle passioni – e, pertanto, di felicità. Esistevano quindi
persone che mettevano in atto lo scetticismo come stile di vita.
Revocare in dubbio l’esistenza del proprio corpo, che è un oggetto
materiale tra gli altri, sarebbe però stato in tensione col

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decidere di vivere da scettico: se fossimo agnostici circa la
nostra stessa esistenza, che senso avrebbe ricercare la felicità
attraverso la sospensione del giudizio?.

Nel passaggio dall’antichità alla modernità lo scetticismo perse


ogni finalità pratica e si trasformò da abito esistenziale a
strumento intellettuale, usato per indagare le fondamenta delle
nostre conoscenze (presunte). Due furono le conseguenze importanti
di questa nuova concezione: da un lato, il fatto di poter revocare
in dubbio anche la credenza nell’esistenza del mondo esterno e,
quindi, del proprio corpo. Dall’altro, il fatto che non vi furono
più scettici “esistenziali”, per così dire, ma solo filosofi
scettici, sempre pronti a indossare le vesti dell’uomo comune
nella vita di tutti i giorni. L’invivibilità dello scetticismo
circa l’esistenza nel mondo esterno fece sì che venisse confinato
all’ambito della sola speculazione filosofica o, al più, come
abbiamo visto, al genere letterario e cinematografico
fantascientifico.

1. Il paradosso scettico

Il fatto che lo scetticismo sul mondo esterno sia del tutto


ininfluente dal punto di vista pratico e che non vi siano veri
scettici non lo rende però meno inquietante. Infatti ci pone di
fronte a un preoccupante paradosso (Wright 1991, p. 89): da
premesse almeno a prima vista ovvie ci conduce alla conclusione
apparentemente inaccettabile che non sappiamo davvero che vi siano
oggetti materiali intorno a noi e, quindi, neppure che vi sia il
nostro corpo. Certo il paradosso non ci impedirà di accantonarlo e
di proseguire la vita di tutti i giorni. Tuttavia, fintanto che
non l’avremo diagnosticato ed eventualmente risolto (mostrando
perché le premesse ci sembrino plausibili ma possano essere false,

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o quanto meno parziali), rimarrà lì ad attanagliarci la mente,
benché solo nei nostri momenti filosofici.

Il paradosso scettico può essere, ed è stato, sostenuto in molti


modi diversi. Qui ci occuperemo principalmente solo delle due
versioni più potenti che ne siano mai state proposte, che si
devono rispettivamente a Descartes e a Hume. La trattazione però
non sarà in alcun modo né storicamente, né filologicamente
accurata: quello che mi preme evidenziare è la struttura del
paradosso, come possa essere sostenuto e quali strategie di
risposta si possano proporre.

2. Il paradosso scettico cartesiano

Consideriamo la seguente possibilità logica e metafisica: che vi


sia un genio maligno o un computer estremamente potente, nella
versione ammodernata di The Matrix o dei cervelli in una vasca di
Putnam, che produca in noi l’impressione di interagire con oggetti
fisici – tavoli, sedie, esseri umani, ecc. -. In realtà, però,
questo non è altro che un sogno, oppure un’apparenza prodotta da
un computer superpotente, con l’aggravante, nell’ipotesi di
Putnam, che saremmo dei meri cervelli in una vasca privi di un
corpo. Anche nella versione di Descartes l’esistenza del nostro
corpo può essere revocata in dubbio, ma l’ipotesi scettica
cartesiana non si impegna a sostenere che siamo in effetti privi
di un corpo.

L’ipotesi scettica testé descritta è una possibilità logica, in


quanto non è auto contraddittorio pensare che le cose possano
stare così. Ma è anche una possibilità metafisica perché vi è
almeno un mondo possibile in cui la nostra esperienza potrebbe in

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effetti essere opera di un sogno o di una sapiente simulazione
provocata da macchine molto potenti.

Ora, nessun metodo potrebbe permetterci di dirimere se stiamo


effettivamente vedendo e toccando oggetti fisici, oppure se stiamo
solo sognando o immaginando di farlo. Presumibilmente infatti ogni
metodo farebbe appello all’evidenza sensibile in nostro possesso,
ma, per ipotesi, questa è compatibile col fatto che la stiamo solo
sognando. Pertanto, non potremmo determinare se stiamo
effettivamente applicando il metodo, oppure se stiamo solo
sognando di farlo. Se però non siamo in grado di escludere di
stare sognando di applicare il metodo, non possiamo neppure sapere
che c’è un tavolo là ove ci sembra di vederlo: dopo tutto potrebbe
essere solo un sogno. Si noti, infatti, che, secondo la concezione
tripartita della conoscenza, per la quale sapere significa avere
una credenza vera e giustificata, potrebbe anche darsi che la
nostra credenza nell’esistenza del tavolo di fronte a noi sia
vera. Non sarebbe tuttavia giustificata, poiché non poggerebbe su
un’evidenza che, come tale, consenta di stabilire se in effetti è
prodotta dall’interazione con quell’oggetto materiale oppure no.

Si noti inoltre che, poiché questo varrebbe per ogni possibile


oggetto fisico, se non siamo in grado di escludere di stare
sognando, non possiamo neppure sapere che vi sia un mondo esterno.
(Descartes 1641-42, I; Stroud 1984, cap. 1). Ripetiamolo: potrebbe
esserci, ma noi non potremmo saperlo.

Si potrebbe obiettare che l’argomento si basa sull’assunzione non


scontata che i sogni siano indistinguibili dalle esperienze
veridiche. Inoltre, si potrebbe dire che fa appello a una
eziologia dell’esperienza molto complessa che è meno probabile di

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quella che considera quest’ultima come prodotta dall’interazione
causale con gli oggetti fisici.

In risposta a queste obiezioni, è importante rilevare che il fatto


che il paradosso scettico cartesiano poggi su una possibilità
logica e metafisica rende inefficaci le strategie di risposta che
si appellano al fatto che i sogni sono in realtà distinguibili
dalle esperienze reali (Austin 1962, pp. 48-49; ma già Descartes
nel capoverso finale delle Meditazioni metafisiche). E, in ogni
caso, siamo partiti da The Matrix per introdurre, in effetti, il
paradosso scettico cartesiano. In The Matrix le esperienze di Neo
non sono un sogno, ma il prodotto di una simulazione informatica
molto potente. Ciò consente di dire quindi che anche se i sogni
fossero sempre e per loro natura – e quindi necessariamente –
distinguibili dalla veglia, basterebbe variare le condizioni
iniziali del paradosso in sintonia con quelle di The Matrix, ad
esempio, per continuare a riproporlo.

Parimenti, il fatto che si stia considerando una possibilità


logica e metafisica fa sì che le risposte che fanno ricorso
all’inferenza alla spiegazione migliore (Peacocke 2004, pp. 92-3 e
Vogel 1990, 2005) siano inappropriate. Sostenere che è più
semplice spiegare la nostra esperienza supponendo che sia prodotta
dall’interazione con gli oggetti fisici, piuttosto che dall’azione
di un demone, o di qualche scienziato, oppure di una serie di
macchine in grado di produrre software molto potenti, nella
versione più recente del paradosso esemplificata da The Matrix,
non mostra quindi che sia logicamente e metafisicamente
impossibile che l’esperienza abbia un’origine causale diversa da
quella che riteniamo.

3 Il paradosso scettico humeano

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Supponiamo che un bambino non sappia se ci vede bene da lontano
oppure no. Non ha dei dubbi particolari, semplicemente non ha mai
considerato la questione e quindi non ha ancora un’opinione sulla
propria acuità visiva. Guarda allora di fronte a sé in lontananza
e vede l’insegna di un esercizio commerciale sulla strada. La sua
esperienza è tale che gli pare proprio ci sia scritto “BeLla”. Può
quindi ragionare come segue: “vedo che c’è scritto ‘BeLla’; se
vedo che lì c’è scritto ‘BeLla’, allora vedo bene; quindi vedo
bene”.

Intuitivamente c’è qualcosa che non va in questo modo di stabilire


se sa che vede bene. Per poter prendere come giustificazione per
“vedo che c’è scritto ‘BeLla’” l’esperienza che sta avendo deve,
infatti, già dare per scontato di vederci bene. In caso contrario,
quell’esperienza non è certo utile per giustificare la credenza da
cui il resto del suo ragionamento dipende. Potrebbe avere avuto
l’esperienza in questione quando l’insegna dell’esercizio
commerciale in realtà è “DeLia”. Come tutti i miopi sanno
benissimo, in lontananza è facile scambiare una “D” per una “B” e
una “i” per una “l”. Quindi, per poter prendere quell’esperienza
come giustificazione per “vedo che c’è scritto ‘BeLla’”, il
bambino deve poter dare per scontato che la sua vista funzioni a
dovere. Certo questo non esclude che ogni tanto possa sbagliarsi e
quindi che si stia sbagliando anche in questo caso. Ma, almeno per
avere una giustificazione fallibile (defeasible) per quella
credenza, deve in effetti dare per scontata la conclusione del
ragionamento che ha basato su di essa. Quindi quel tipo di
ragionamento non sembra potergli dare una (prima) giustificazione
per credere di vederci bene. Potremmo dire che quell’argomento
presuppone quello che doveva provare e, più in specifico, che
presuppone che si abbia già una giustificazione per credere la sua

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conclusione e non possa quindi essere usato per acquisirne una.
L’argomento appena presentato è quindi epistemicamente circolare.
Sebbene sia deduttivamente valido, perché è null’altro che un
esempio di modus ponens, è epistemicamente inefficace e lo è per
via del tipo di circolarità epistemica che possiamo riassumere
così: per avere una giustificazione (fallibile) per la sua prima
premessa si deve già avere una giustificazione per la sua
conclusione. Pertanto, l’argomento non può fornire una (prima)
giustificazione per credere la sua conclusione.

Ora, qualcosa di analogo può prodursi nel caso volessimo provare


di sapere che vi è un mondo esterno e cercassimo di farlo partendo
dalla nostra esperienza sensoriale che ci testimonia, per esempio,
che vi è la nostra mano qui di fronte a noi. Sulla scorta di tale
esperienza possiamo infatti ragionare come segue: qui c’è la mia
mano; se qui vi è una mano, certamente vi è un mondo esterno;
quindi il mondo esterno esiste. Questa, in effetti, è la versione
contemporanea della celebre “Prova del mondo esterno” data da
George Edward Moore nel 1939 (ma per i dettagli storici si veda
Coliva 2010a, cap. 1).

Anche in questo caso, per capire che cosa c’è che non va, è utile
chiedersi come conosciamo la premessa “Qui c’è la mia mano”.
Evidentemente la conosciamo sulla base della nostra esperienza
sensoriale: per esempio sulla base del fatto che vediamo una mano
di fronte a noi. Ma questo, di per sé, ci dà anche una
giustificazione per credere che qui vi sia una mano? La risposta è
evidentemente no: quell’esperienza potrebbe essere identica
qualora fosse il frutto di un’allucinazione, o di un sogno, o
delle simulazioni provocate dalle macchine diaboliche di The
Matrix. Quindi, può fungere da prova a favore di “Ecco qui una
mano”, solo se abbiamo già ragione di ritenere che sia stata

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prodotta dall’interazione con un oggetto fisico, in condizioni
ambientali normali e che i nostri sensi stiano funzionando a
dovere. Ciò però significa che la nostra esperienza può
costituirsi come giustificazione di “Ecco qui una mano” solo se
diamo già per scontato che vi sia un mondo esterno. Ma questo era
proprio quello che dovevamo provare di sapere. La prova
dell’esistenza del mondo esterno è pertanto circolare e, quindi,
non è una buona prova (Hume 1739-40, I, iii, 6 sviluppa questo
tipo di paradosso in particolare per l’induzione e Wright 1985,
2002, 2004 lo generalizza al caso del mondo esterno, ma cfr. Hume
1739-40, I, iv, 2).

4 Le due forme del paradosso scettico a confronto

Il paradosso scettico cartesiano poggia sul seguente presupposto:

Principio cartesiano*: sapere che qui vi è una mano implica


che non si sta sognando in questo momento. (Vd. Appendice)

Questo principio è intuitivo: il darsi della conoscenza esclude


che si diano quelle condizioni che la impedirebbero, come per
esempio il fatto di stare sognando. Se stessimo sognando, infatti,
potrebbe essere vero che qui c’è una mano, ma la nostra credenza,
ancorché vera, sarebbe del tutto accidentale e, quindi, non
sarebbe un caso di conoscenza, poiché non sarebbe giustificata.
Assumendo inoltre il

Principio di iteratività: se si sa che p, allora si sa anche


di sapere che p (vd. Appendice)

e il

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Principio di chiusura epistemica: se si sa che p e si sa che
p implica q, allora si sa che q (vd. Appendice)

si ottiene, da un lato, il Principio cartesiano nella sua


formulazione standard:

Principio cartesiano standard: se non si sa di non stare


sognando, allora non si sa che qui c’è una mano. (Stroud
1984, p. 24, Wright 1991, p. 91. Vd. Appendice).

Dall’altro, si ottiene la conclusione che non si sa che qui vi è


una mano. Informalmente la ragione è la seguente: supponiamo di
non sapere di non stare sognando e assumiamo per assurdo di sapere
di avere una mano. Il principio cartesiano standard ci dice che se
sappiamo di avere una mano, allora sappiamo di non stare sognando.
Questo genera una contraddizione con la supposizione di partenza;
pertanto dobbiamo negare di sapere di avere una mano.

È utile rappresentare in maniera schematica il ragionamento (vd.


Appendice):

(1) Non si sa “Non sto sognando” Assunzione


(2) Si sa “Ho una mano” Assunzione
(3) Si sa di sapere “Ho una mano” 2, Iteratività
(4) Si sa che se si sa “Ho una mano” Principio cartesiano*
allora non si sta sognando
(5) Si sa “Non sto sognando” 3, 4 Chiusura
(6) Contraddizione (1), (5)
---------------------------------------------------------------
(7) Non si sa “Ho una mano” 2,6 Reductio

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È utile ora confrontare tra loro questi paradossi per chiarirne
meglio la struttura. Le due forme del paradosso – ovvero il
paradosso cartesiano e quello humeano – divergono circa la loro
struttura epistemica. Infatti, mentre il paradosso cartesiano
mostra per via deduttiva che non possiamo sapere che vi è un mondo
esterno, date certe possibilità logiche e metafisiche, il
paradosso humeano mostra che, anche qualora sapessimo che qui vi è
una mano e anche se ciò implicasse la conoscenza dell’esistenza
del mondo esterno, quella conoscenza dipenderebbe
dall’informazione aggiuntiva che vi è un mondo esterno.
Quest’informazione, però, è proprio quello che dovremmo provare di
sapere e, pertanto, non la possiamo dare per scontata. Quindi,
l’argomento (vd. Appendice):

(1) Si sa “Ho una mano” Assunzione


(2) Si sa “Se ho una mano, allora c’è un mondo esterno” Assunzione
------------------------------------------------------------------
(3) Si sa “C’è un mondo esterno” 1, 2 Chiusura

è deduttivamente valido e può anche darsi il caso che abbiamo


effettivamente conoscenza della premessa (1) e che questa si
trasmetta alla conclusione attraverso l’inferenza corretta.
Eppure, secondo lo scettico humeano, l’argomento non può
effettivamente essere una prova della conclusione perché avere
conoscenza della premessa dipende dall’avere già l’informazione
aggiuntiva che vi è un mondo esterno. Quindi, se non sappiamo già
che esiste il mondo esterno, questo argomento non può certo
darcene conoscenza.

5 La riformulazione del paradosso nei termini di giustificazione


della credenza

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In ottemperanza all’impostazione metodologica per cui non siamo
interessati tanto all’adeguatezza storico-filologica della resa
del paradosso, quanto alla sua struttura, è importante notare che
oggigiorno si ritiene generalmente che il paradosso scettico non
riguardi solo la conoscenza dell’esistenza del mondo esterno, ma
anche il fatto che si abbia una giustificazione per credere che vi
sia (anzi, per alcuni, come ad esempio Wright 1985, 2002, 2004,
questa è la forma più interessante di scetticismo). Questo
contrasta chiaramente con la sua origine storica. Come è noto,
Descartes era alla ricerca di quelle conoscenze certe che
potessero servire da fondamenta per tutte le altre. Nel progetto
cartesiano il dubbio era infatti un metodo per vagliare le nostre
conoscenze e lo scetticismo circa il mondo esterno la via per
affermare che a fondamento di tutto il nostro sapere stanno verità
di ragione certe quali “Io penso, dunque sono”.

Nel progetto humeano, invece, una volta presupposto che tutte le


conoscenze provengono dai sensi, ne seguiva che la conoscenza
degli oggetti materiali, intesi come entità esistenti
indipendentemente dalla nostra percezione, non poteva essere
provata. Hume concludeva quindi che la credenza nell’esistenza
degli oggetti fisici non fosse razionalmente fondata e fosse in
realtà il prodotto di associazioni psicologiche tanto inevitabili
quanto non suffragate (né suffragabili) da argomentazioni
razionali (Hume 1739-40, I, iv, 2). Deputando lo studio della
conoscenza alla psicologia, Hume fu quindi il primo vero
“naturalizzatore” in epistemologia, due secoli prima di Quine
(1969)!

Lo spostamento del paradosso scettico dal piano della conoscenza a


quello della giustificazione ha anche conseguenze teoriche.
Infatti se, con i cosiddetti “internisti”, si ritiene che avere

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una giustificazione sia una condizione necessaria affinché una
credenza ammonti a conoscenza, il paradosso continuerà a investire
anche la nostra conoscenza. Per contrapposizione, infatti, se non
si ha una giustificazione per p, allora non si sa neppure che p
(vd. Appendice). Tuttavia, se, con alcuni dei cosiddetti
“esternisti” (Dretske, Goldman), non si pensa che la conoscenza
comporti avere una giustificazione per le proprie credenze vere,
ma sia sufficiente, a tal fine, che queste siano state formate
attraverso metodi affidabili, il paradosso parrebbe assumere un
aspetto un po’ meno inquietante. Potremmo infatti continuare ad
avere tutte le conoscenze sul mondo esterno che riteniamo
normalmente di avere, pur non essendo in grado di fornirne una
giustificazione.

Per i cosiddetti “eclettici”, invece, questa sarebbe una


consolazione soltanto momentanea. Il paradosso si potrebbe infatti
ripresentare al second’ordine e avrebbe come conseguenza che,
ancorché sia possibile ammettere che sappiamo, a nostra insaputa,
che vi è un mondo esterno, non saremmo in grado di sapere di
saperlo, non saremmo cioè in grado di dire se e come facciamo a
saperlo. Questa non sembra una conclusione meno inquietante della
precedente: gli esseri umani – per loro natura – non si
accontentano solo di sapere come stanno le cose, magari per grazia
ricevuta (fa poca differenza se la “grazia ricevuta” provenga
“dall’alto”, per così dire, oppure dalla natura che è così
benevola da averci concesso metodi affidabili per formare le
nostre credenze), ma aspirano anche a essere in grado di
rivendicare la loro conoscenza. Aspirano, cioè, a poter provare a
loro stessi di avere quelle conoscenze che magari in effetti hanno
davvero. Il paradosso scettico, quindi, sarebbe destinato a
restare con noi, semplicemente trasposto di livello (Craig 1987,
Wright 2004a, pp. 210-11).

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A questo punto un esternista potrebbe replicare che l’eclettico
sta facendo uso, nella sua risposta, di una concezione internista
di conoscenza, non al prim’ordine, ma al secondo, che un
esternista potrebbe non essere disposto a concedergli. Infatti
l’eclettico sta sostanzialmente dicendo che, ancorché si possa
sapere che p, pur non avendo una giustificazione che consenta di
rivendicare questa conoscenza, non se ne ha conoscenza al
second’ordine. Questo implica che l’eclettico sta qui usando una
concezione di conoscenza tale per cui, se non si ha una
giustificazione per p (che, in questo caso, è, a sua volta, “Si sa
che p”), allora non se ne ha neppure conoscenza e, quindi, non si
sa di sapere che p.

L’eclettico a sua volta potrebbe obiettare in due modi: potrebbe o


ribadire che la posizione esternista circa la conoscenza è
implausibile al second’ordine, appellandosi alla verità intuitiva
del fatto che gli esseri umani non si accontentino di sapere, ma
vogliano anche essere in grado di rivendicare la propria
conoscenza. Oppure potrebbe concedere il punto all’esternista,
ammettendo che possiamo sapere di sapere che p, ove “sapere” è
uniformemente inteso esternisticamente, ma sottolineare che è
egualmente inquietante ammettere che non possediamo in realtà
nessuna giustificazione per queste nostre conoscenze, né al primo
né al second’ordine. Per chiarire: se l’esternista avesse ragione
sapremmo, per esempio, che c’è un tavolo là ove ci sembra di
vederlo, se il nostro apparato sensoriale funziona a dovere e c’è
effettivamente un tavolo là ove lo vediamo. Inoltre, potremmo
avere conoscenza di tale conoscenza, se la nostra credenza di
second’ordine, formata sulla base di quella al prim’ordine, fosse
ottenuta a sua volta in maniera affidabile, tramite l’operazione
di un qualche meccanismo cognitivo che funziona a dovere (questa
per esempio è la posizione sulla conoscenza dei nostri stati

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mentali proposizionali, come la conoscenza, sostenuta da David
Armstrong). Tuttavia, secondo l’eclettico, non avremmo nessuna
giustificazione per quelle che dal punto di vista del soggetto che
le intrattiene sono credenze ma che, per l’esternista, sono di
fatto conoscenze. Non saremmo in grado, cioè, di esibire nessuna
giustificazione a sostegno della nostra credenza che vi è un
tavolo dove ci pare di vederlo, né della nostra credenza di
credere che c’è un tavolo dove ci pare di vederlo. Quindi potremmo
avere sì conoscenza, tanto al primo quanto al second’ordine, ma
non avremmo la possibilità di dire che si tratta, in entrambi i
casi, dal nostro punto di vista, di credenze giustificate e questo
è un risultato sufficientemente spiacevole (Dancy 1985, pp. 8-9).

L’esternista, a questo punto, potrebbe spostarsi dal piano della


conoscenza a quello della giustificazione e sostenere che non è
affatto detto che la giustificazione debba essere accessibile al
soggetto. La credenza che vi sia un tavolo di fronte a me potrebbe
quindi essere giustificata anche se non sono in grado di fornirne
una giustificazione. Per esempio, potrei essere giustificata a
credere che ci sia un tavolo di fronte a me perché lo vedo, anche
se non sono in grado di esplicitare la mia giustificazione. Ci
sono diverse proposte esterniste circa la giustificazione: c’è chi
ne fa una questione di affidabilità nei metodi di formazione
(Goldman 1975), e chi ne fa una questione di proprietà
controfattuali (Dretske 1971, 2005 e Nozick 1981. Esamineremo
invece più in dettaglio la proposta esternista raffinata di Sosa
nel prossimo capitolo, §1). Così, per i primi, sarei giustificata
perché la mia percezione è affidabile, e per i secondi perché la
credenza che vi è un tavolo dove mi pare di vederlo non si darebbe
nel mondo possibile più prossimo in cui non fosse vero che c’è un
tavolo di fronte a me. Quindi il paradosso scettico mostrerebbe
unicamente che possiamo non essere in grado di fornire

21
giustificazioni a sostegno delle nostre credenze su oggetti
fisici, ma da questo non seguirebbe che non le possediamo.

A questo punto è chiaro che la disputa diventa più che altro


verbale: dipende da quale nozione di giustificazione usiamo. È
però implausibile negare, io credo, che, a fianco della nozione
esternista di giustificazione, ve ne sia anche una internista, che
ha le seguenti caratteristiche: è uno stato mentale del soggetto,
per esempio una esperienza, oppure una credenza, il cui contenuto
non è escluso che dipenda dalle connessioni causali che il
soggetto intrattiene, o ha intrattenuto in passato, con l’ambiente
intorno a lui; è almeno in linea di principio accessibile al
soggetto e tale da dargli una ragione, fallibile, per credere vera
una certa proposizione. L’accessibilità al soggetto in linea di
principio garantisce in particolare che questi possa fare appello
ad essa per rivendicare la liceità delle proprie credenze da un
punto di vista epistemico, a qualsiasi ordine, se non addirittura
il fatto che siano conoscenze, qualora fossero anche vere.

Per avvedersi del fatto che non avrebbe senso cassare una nozione
di giustificazione siffatta, è sufficiente notare che, se qualcuno
ci chiedesse come facciamo a sapere che c’è un tavolo di fronte a
noi, non esiteremmo a dire “Perché lo vedo”: sfrutteremmo quindi
la nostra esperienza, di cui siamo coscienti introspettivamente,
come ragione per credere vero che ci sia un tavolo di fronte a
noi, anche se, ovviamente, potremmo essere vittime di
un’allucinazione e formare così una credenza falsa o, quanto meno,
ingiustificata.

Non solo, noi siamo sempre più o meno consapevolmente impegnati a


vagliare le nostre ragioni e a modificare le nostre credenze di
conseguenza. Se, ad esempio, scoprissimo che la nostra percezione

22
occorrente potrebbe essere viziata, sospenderemmo la credenza che
vi sia un tavolo di fronte a noi o, addirittura, potremmo arrivare
a credere il contrario. È quindi un aspetto saliente della nostra
vita di agenti razionali che siamo noi stessi, attivamente, a
vagliare le nostre ragioni e non solo a rispondere passivamente
alle condizioni ambientali e cognitive in cui, anche a nostra
insaputa, veniamo a trovarci.

Se vi è quindi una nozione legittima di giustificazione


accessibile almeno per principio al soggetto, allora il paradosso
scettico mostra che in realtà, quando si tratta della credenza
nell’esistenza degli oggetti fisici, non possediamo nessuna
giustificazione siffatta. Detto in altri termini: è vero che il
paradosso scettico mette in dubbio solo la possibilità della
giustificazione internisticamente intesa della credenza
nell’esistenza degli oggetti fisici. Poiché però si tratta di una
nozione di giustificazione legittima e non eliminabile a favore di
una nozione puramente esternista, ne segue che questo paradosso è
davvero problematico e che l’esternismo, lungi dal rappresentarne
una possibile soluzione, pare essere piuttosto un modo per non
confrontarsi con esso e, di fatto, cambiare discorso.

In conclusione: il paradosso scettico, nelle sue due forme, può


essere riproposto sostituendo al concetto di conoscenza quello di
giustificazione internisticamente intesa. Poiché questa è una
nozione legittima, ne segue che anche il paradosso lo è. Si tratta
quindi di vedere quali risposte siano state avanzate e se
funzionino. Ci dedicheremo a questo compito nei prossimi due
capitoli. Ora, però, passiamo brevemente in rassegna un altro tipo
di paradosso scettico per mostrare perché, una volta affrontati il
paradosso cartesiano e quello humeano, avremo anche svolto,
nell’essenziale, tutti i compiti filosofici principali che il tema

23
dello scetticismo riguardo al mondo esterno pone sulla nostra
agenda.

7. Il trilemma di Agrippa: regresso, mere assunzioni e


circolarità

Si deve ad Agrippa (I°-II° secolo d.C.), un filosofo greco della


scuola stoica, l’elaborazione di un importante trilemma, volto a
mostrare l’impossibilità di avere credenze giustificate (e,
quindi, nella misura in cui la conoscenza implica la
giustificazione, l’impossibilità anche di avere conoscenze). Il
trilemma può essere riassunto come segue. Se ogni nostro giudizio
o credenza deve essere giustificato, per essere epistemicamente
lecito, questo ci conduce a (i) un regresso all’infinito delle
giustificazioni. L’idea è quindi che non vi siano giustificazioni
ultime, come tali auto evidenti. Per fermare il regresso si può
quindi (ii) accettare un’ipotesi o fare un’assunzione che non sono
passibili di prova, ma questo non pare epistemicamente lecito,
perché, senza una prova, nulla vieta che quell’ipotesi o
quell’assunzione siano false o, quanto meno, tanto arbitrarie
quanto le loro negazioni o altre assunzioni incompatibili con
esse. Oppure, si può dare (iii) una giustificazione circolare
delle nostre assunzioni di base; ma anche questo non pare
epistemicamente lecito, visto che non si può provare qualcosa
dando per scontato che sia già giustificato.

L’esito aporetico cui sembra giungere Agrippa era funzionale al


progetto scettico antico di sospensione del giudizio. Tuttavia, va
notato come in realtà, da un punto di vista moderno e
contemporaneo, il trilemma non introduca nulla di nuovo o di
sostanzialmente diverso rispetto a quello che abbiamo già visto e

24
che vedremo parlando del paradosso scettico cartesiano e di quello
humeano. Vediamo perché.

Quanto a (iii) - la illeicità epistemica di giustificazioni


circolari -, abbiamo visto come questo sia il portato del
paradosso scettico humeano; e abbiamo anche visto come Hume stesso
indicasse (ii) – la formazione di un’assunzione senza
giustificazione – quale via d’uscita al problema. Evidentemente
nel capitolo 3, dedicato al paradosso scettico humeano, dovremo
discutere a lungo di questo tipo di risposta allo scetticismo e
vedere se e a quali condizioni possa essere epistemicamente
lecita.

D’altro canto, (ii) può anche essere una risposta all’esito del
paradosso cartesiano, ammesso e non concesso che, contrariamente a
quanto si sostiene in (i), non si possa trovare una
giustificazione, che a sua volta non richieda giustificazione, o
direttamente a favore della nostra credenza nell’esistenza del
mondo esterno, oppure contro l’ipotesi che le nostre esperienze
siano il prodotto di un sogno (o di qualche altra sapiente
manipolazione), o invero a favore di una qualche proposizione da
cui si possa derivare una giustificazione per l’una o l’altra di
queste credenze.

Quindi non è detto che il trilemma di Agrippa sia davvero così


fatale. Per riassumere: potremmo trovare giustificazioni ultime
per la nostra credenza che c’è un mondo esterno (o per escludere
di essere vittime di sogni persistenti o altre sapienti
manipolazioni, o per altre proposizioni che implichino queste
conclusioni). In assenza di tali giustificazioni ultime, potrebbe
risultare lecito abbracciare il secondo corno del trilemma, ovvero
la tesi che alla base delle nostre conoscenze vi sono assunzioni

25
che non possono essere giustificate, ma che sono tuttavia
epistemicamente lecite. Oppure potremmo abbracciare il terzo
“corno” del trilemma e ammettere giustificazioni circolari.

Dico subito che a me quest’ultima strada sembra davvero la più


problematica e che ritengo che la partita si giochi davvero solo
tra fondazionalisti di vario tipo, cioè tra chi ritiene che ci
possano essere giudizi giustificati che non abbisognano di esserlo
ulteriormente, e coloro che invece ritengono che alla base delle
nostre conoscenze vi siano assunzioni che, come tali, non possono
essere giustificate, ma che sono tuttavia epistemicamente lecite.

In questa sede, però, è opportuno accennare brevemente a una


particolare forma che le giustificazioni circolari potrebbero
avere: quella del coerentismo. L’idea, a grandi linee, sarebbe che
le nostre credenze si sostengano epistemicamente a vicenda, se
sono tra loro massimamente coerenti.

Il problema di questa proposta, quando si ha a che fare con il


paradosso scettico cartesiano, in particolare, è che non vi è
nulla di incoerente nell’idea che le nostre esperienze attuali non
siano altro che frutto di sogni o sapienti manipolazioni. Pertanto
essa non ci dà ragioni per credere di non essere in uno scenario
scettico di tipo cartesiano.

Più in generale, inoltre, è dubbio che la coerenza assicuri o,


quanto meno, corrobori la verità, a meno di non voler intendere
anche quest’ultima come portato della coerenza tra credenze.

Una forma un po’ diversa che le giustificazioni circolari


potrebbero avere è la seguente. Si potrebbe dire che le nostre
credenze empiriche appaiono giustificate dalle nostre esperienze.

26
Poiché, inoltre, esse implicano che vi sia un mondo esterno, e che
non si sia vittime di sogni o altre potenti allucinazioni, allora
abbiamo giustificazioni indirette per “Esiste il mondo esterno” e
“Non sto sognando in questo momento”. Avremmo giustificazioni
indirette per queste proposizioni perché è solo assumendole che
possiamo avere giustificazioni per le nostre credenze empiriche
ordinarie. Ma l’avere tante giustificazioni per queste ultime
corrobora indirettamente quelle ipotesi che le rendono
giustificate.

Si deve però notare che questo tipo di coerentismo appare dare per
scontato che si abbiano giustificazioni per le nostre credenze
ordinarie. Almeno alla luce del paradosso scettico cartesiano, ciò
non può essere assunto. Ciò detto, è chiaro che anche la via della
giustificazione circolare è una possibilità da indagare più a
fondo (capitolo 3 §§3-5 infra).

Quindi, il trilemma di Agrippa non introduce elementi


sostanzialmente nuovi rispetto al paradosso cartesiano e a quello
humeano. Tuttavia, io credo sia utile considerarlo per dare una
sistematizzazione delle possibili risposte ai due paradossi che
abbiamo introdotto in questo capitolo, relativamente alla loro
struttura. Le risposte che analizzeremo avranno pertanto le
seguenti caratteristiche strutturali:

a) Potranno dire che, almeno a determinate condizioni, abbiamo


giustificazioni dirette per credere, o addirittura sappiamo,
di non stare sognando e/o che esiste il mondo esterno; oppure
b) Diranno che queste sono assunzioni che facciamo, ancorché non
siano né giustificate, né giustificabili (né tanto meno
conosciute e conoscibili); oppure

27
c) Diranno che sono assunzioni che possono essere giustificate
(ed eventualmente conosciute) indirettamente, tramite le
giustificazioni che abbiamo per credere le proposizioni che
da esse dipendono.

Abbiamo inoltre visto come i paradossi scettici, in particolare


quello cartesiano, siano ottenuti per via deduttiva, tramite l’uso
di alcuni Principi. Un’altra classe di risposte, quindi, invece di
sostenere (a), (b) o (c), avrà la caratteristica di

d) Affermare che i Principi usati nella derivazione sono in


realtà scorretti.

È ora giunto il momento di considerare queste risposte nel


dettaglio.

28
Capitolo 2

Le risposte al paradosso scettico cartesiano

Riprendiamo il paradosso scettico cartesiano così come l’abbiamo


presentato nel primo capitolo sostituendo alla nozione di
conoscenza quella di giustificazione internisticamente intesa. È
utile vederne i passaggi perché questo ci permette di enucleare
chiaramente le assunzioni e i principi su cui si basa (vd.
Appendice).

(1) Non si ha giustificazione per “Non sto sognando” Assunzione


(2) Si ha giustificazione per “Ho una mano” Assunzione
(3) Si ha giustificazione per “Ho una mano” 2, Iteratività
(4) Si ha giustificazione per “Se si ha giustificazione per “Ho
una mano” allora non si sta sognando Principio cartesiano*
(5) Si ha giustificazione per “Non sto sognando” 3, 4 Chiusura
(6) Contraddizione (1), (5)
--------------------------------------------------------
(7) Non si ha giustificazione per “Ho una mano” 2,6 Reductio

Tradizionalmente si sono sollevate obiezioni in particolare


riguardo al passo 3 e al passo 5 dell’argomento, che fanno leva,
rispettivamente, sul Principio di iteratività dell’operatore
epistemico e sul Principio di chiusura dell’operatore epistemico
sotto un’implicazione nota. Le analizzeremo in quest’ordine.

1. La negazione del Principio di iteratività: l’esternismo e


l’epistemologia delle virtù di Sosa

29
Un primo tentativo per bloccare il paradosso scettico cartesiano
consiste nel negare il Principio di iteratività che, come abbiamo
visto, è necessario per derivare il paradosso cartesiano.
L’iteratività della conoscenza è chiaramente negata da alcuni
esternisti, come abbiamo visto nel primo capitolo. Secondo loro,
si può avere conoscenza anche là ove è impossibile sapere di
sapere. Per esempio: un bambino potrebbe sapere che c’è un albero
di fronte a lui, senza però essere in grado di sapere di saperlo,
cioè di sapere se e come lo sa. Abbiamo però già visto come si
potrebbe articolare la dialettica tra un internista e un
esternista e, in particolare, abbiamo già visto che il paradosso
scettico può e deve darsi sulla base di una nozione internista di
giustificazione, perfettamente legittima, sulla scorta della quale
il Principio di iteratività è incontestabile perché la
giustificazione è accessibile al soggetto per principio. Pertanto,
se si ha una giustificazione per credere che p, allora si ha anche
una giustificazione per credere di essere giustificati a credere
che p. Esemplifichiamo: supponiamo che io creda che c’è la mia
mano qui di fronte a me. La mia giustificazione sarà data dalla
percezione che sto avendo in questo momento (che è uno stato
mentale conscio). Ma, per ipotesi, ho accesso ai miei stati
mentali e quindi ho anche una giustificazione (introspettiva) per
ritenermi giustificata (percettivamente) a credere che p.

Una variante attuale particolarmente interessante di esternismo si


deve a Ernest Sosa (2007): il maggior teorico contemporaneo della
cosiddetta “epistemologia delle virtù” (virtue epistemology). La
caratteristica per noi più interessante della proposta di Sosa è
che, pur ascrivendosi all’alveo delle posizioni esterniste in
epistemologia, ne evita gli aspetti più crudi, aggiungendo
all’affidabilità dei metodi di formazione delle credenze il

30
requisito che manifestino effettive virtù cognitive del soggetto e
siano in qualche modo ispezionabili. Vediamone i dettagli.

Secondo Sosa, bisogna distinguere tra “conoscenza animale” e


“conoscenza riflessiva”. Per la conoscenza animale devono essere
soddisfatte le seguenti condizioni. La credenza deve essere
accurata (accurate), cioè vera; competente (adroit), ovvero
ottenuta attraverso l’esercizio di una competenza cognitiva del
soggetto; e, infine, appropriata (apt), vale a dire vera perché
competente. Esemplifichiamo con un esempio caro a Sosa: quello di
un arciere. Il suo tiro è accurato se colpisce il bersaglio; è
competente se manifesta l’abilità dell’arciere di tirare con
l’arco; ma è solo se colpisce il bersaglio in virtù dell’esercizio
di tale competenza che è anche appropriato. Si potrebbe infatti
immaginare un caso in cui venti dapprima contrari e poi favorevoli
spostino la freccia per poi rimetterla in linea col bersaglio.
L’averlo colpito in questo caso non dipenderebbe dalla competenza
dell’arciere e quindi il suo tiro non sarebbe appropriato.

Per Sosa, la conoscenza animale è credenza appropriata: cioè


credenza vera ottenuta per mezzo dell’esercizio di una competenza
cognitiva. Le competenze cognitive sono molteplici: ad esempio, la
percezione, la deduzione, la testimonianza, ecc. Tali competenze
si manifestano solo in condizioni normali, che riguardano sia
l’ambiente circostante il soggetto, sia la sua situazione
cognitiva complessiva. Per esempio, la percezione si esercita
competentemente solo quando le condizioni di luce sono normali e
il soggetto è cognitivamente lucido.

Secondo Sosa, vi è poi la conoscenza riflessiva che dipende


dall’avere conoscenza animale del fatto che si ha conoscenza
animale di p. Detto diversamente, la conoscenza riflessiva è

31
conoscenza animale di p appropriatamente creduta. Facciamo un
esempio: si ha conoscenza riflessiva di p – “Ho una mano” – se la
credenza è vera, è creduta in base alla propria percezione, che
manifesta una capacità cognitiva del soggetto e, inoltre, si
ritiene vero che p sulla scorta di una meta-competenza esercitata
in condizioni normali. Secondo Sosa, la meta-competenza in
questione è “ la competenza di default di dare per scontato che le
condizioni siano appropriatamente normali, assenti segni specifici
che indichino il contrario” (Sosa 2007, p. 108). Quindi, se posso
dire a me stessa di avere formato la credenza di avere una mano,
sulla scorta di una percezione avuta in condizioni in cui nulla
indicava che potessero essere anormali, ho anche conoscenza
riflessiva che p.

Ora, a suo avviso, l’avere conoscenza animale di p, cioè di una


proposizione empirica come “Ecco la mia mano”, basata sulla
propria esperienza visiva, non è inficiato dall’ipotesi scettica
del sogno. Infatti, è vero che c’è un mondo possibile vicino al
nostro in cui quella credenza sarebbe falsa, visto che in quel
mondo staremmo solo sognando di avere una mano. Tuttavia questo
dimostra solo che quella credenza è “insicura” (unsafe), ma non
dimostra che sia inappropriata. Quindi, nel nostro mondo, in cui è
prodotta attraverso l’esercizio competente delle nostre facoltà
percettive, essa ammonta a conoscenza. L’ipotesi del sogno non ci
priva quindi delle nostre conoscenze animali ordinarie.

Già qui, a mio avviso, sorge un problema, perché nell’ipotesi del


sogno classica non è affatto detto che non abbia una mano e quindi
che la credenza che io ce l’abbia, in condizioni normali, sia
“insicura”. Quello che è messo in discussione è che io formi in
maniera appropriata la credenza di avere una mano. Quindi,
l’ipotesi del sogno classica non mostra tanto che la nostra

32
credenza di avere una mano nel mondo attuale è “insicura”, ma che
potrebbe essere, dopo tutto, inappropriata.

Ovviamente si può replicare rinforzando l’ipotesi scettica in


maniera tale da rendere falsa la credenza “Ho una mano”. Inoltre,
si può salvaguardare l’idea che lo scenario scettico non dimostri
che, nel mondo attuale, la credenza “Ho una mano”, formata sulla
base della percezione esercitata in condizioni normali, è
inappropriata. Concediamolo, per il momento, anche se ci dovremo
ritornare a breve.

Ora, pur sostenendo che l’ipotesi del sogno non ci priva della
conoscenza animale di “Ecco qui una mano”, Sosa stesso ammette che
non possiamo sbarazzarci ipso facto dello scetticismo cartesiano.
Con la mossa esternista raffinata che abbiamo visto ne blocchiamo
l’indesiderata conseguenza di non avere conoscenza animale di
verità banali come “Ecco qui la mia mano”. Non riusciamo però a
dimostrare a noi stessi che la particolare credenza che p che
stiamo intrattenendo or ora sia effettivamente ottenuta attraverso
l’esercizio competente delle nostre facoltà cognitive e non sia
piuttosto il frutto di un sogno dall’apparenza veridica. Il
paradosso scettico cartesiano si ripropone quindi al livello
superiore come riguardante non la conoscenza animale di p, ma la
conoscenza riflessiva di p.

Tuttavia, secondo Sosa, a ben guardare possiamo avere anche


conoscenza riflessiva di p. Questo perché l’ipotesi del sogno
rende sì “insicura” la nostra credenza che la credenza che p sia
stata formata in modo affidabile, ma non la rende inappropriata.
La rende insicura perché nel mondo possibile in cui stessimo
sognando, riterremmo falsamente di aver formato in maniera
affidabile la credenza che p. Ma non la rende inappropriata perché

33
le condizioni, in quel mondo possibile, non sarebbero quelle
normali. Quindi, in quel mondo, la nostra credenza non sarebbe
basata sulla manifestazione della nostra meta-competenza. In primo
luogo perché, secondo Sosa, i sogni sono qualitativamente diversi
dalla veglia e avremmo quindi dei segnali che le condizioni non
sono quelle normali. In secondo luogo, perché in un sogno le
nostre facoltà percettive non funzionerebbero a dovere. Quindi,
l’ipotesi del sogno, per quanto non remota, renderebbe solo falsa
la nostra credenza che le nostre facoltà percettive siano
affidabili, ma non la renderebbe inappropriata, stante le
condizioni alle quali l’abbiamo effettivamente formata, che sono
diverse da quelle che si darebbero nel sogno. Non rendendola
inappropriata, non inficia il fatto che si tratti di conoscenza.
Quindi, secondo Sosa, nell’esercizio usuale delle nostre facoltà
percettive, in cui diamo per scontato che siano tendenzialmente
affidabili, assenti segni contrari, otteniamo tanto conoscenza
animale quanto conoscenza riflessiva di “Ecco una mano”.

Il problema della strategia di Sosa, a mio avviso, riguarda


proprio la difesa del fatto che avremmo conoscenza riflessiva di
“Ecco qui una mano” tale da eludere il dubbio scettico. Come
abbiamo già visto nel primo capitolo (§2), può essere che i sogni
siano normalmente distinguibili dalla veglia, ma questo non
esclude che sia metafisicamente possibile che siano
indistinguibili; né esclude altri scenari scettici costruiti in
modo tale che l’esperienza risulti soggettivamente indistinguibile
da quella che si avrebbe in condizioni normali. Inoltre, è vero
che le facoltà percettive esercitate nel sogno non sarebbero
esercitate in condizioni normali, se con ciò s’intende che vengano
esercitate durante la veglia del soggetto, quand’è consapevole e
lucido e si trovi in presenza degli oggetti che sono causalmente
responsabili delle sue percezioni. Ma ciò non esclude che il

34
contenuto della sua esperienza sia soggettivamente indistinguibile
da quello che sarebbe se le sue facoltà percettive fossero state
esercitate in condizioni normali. Mi pare quindi che nello
scenario scettico si possano produrre condizioni soggettivamente
indistinguibili da quelle normali, tali per cui il soggetto si
troverebbe a dare per scontato che i suoi sensi abbiano funzionato
a dovere nel formare la credenza “Ecco qui una mano”, quando così
non è stato.

Se così è, considerando la nostra credenza occorrente “Ecco qui


una mano” e valutando le condizioni alle quali l’abbiamo formata,
non saremmo certo in grado di escludere che sia il frutto di un
sogno o di un’altra manipolazione sapiente. Non mi pare quindi
facile sostenere che avremmo conoscenza riflessiva di “Ecco qui
una mano”, tale da eludere il dubbio scettico. Infatti, la
credenza di averla formata in maniera affidabile potrebbe
facilmente essere falsa, cioè potrebbe essere falsa in un mondo
possibile non lontano dal nostro. Ma, soprattutto, le condizioni alle
quali la crederemmo falsamente potrebbero facilmente risultare
soggettivamente indistinguibili da quelle normali. La nostra
credenza non sarebbe quindi appropriata e, non essendolo, non
ammonterebbe a conoscenza.

In alternativa, potremmo ammettere (cfr. Stroud 1994) che, se


siamo fortunati e, di fatto, stiamo percependo una mano, in
condizioni normali, assenti segni contrari, allora abbiamo sia
conoscenza animale, sia conoscenza riflessiva di “Ecco una mano”.
Ma ciò non toglie il punto scettico che non possiamo sapere, qui e
ora, se siamo nel caso fortunato oppure no. Ciò è sufficiente a
mostrare che non abbiamo ora una giustificazione internamente
accessibile per credere di sapere, in maniera animale o
addirittura riflessiva, di avere una mano.

35
Per quanto sofisticato e interessante, l’esternismo di Sosa non
sembra pertanto in grado di eludere il dubbio scettico cartesiano,
almeno quando questo venga posto come dubbio riguardante il
possesso di una giustificazione soggettivamente accessibile per
escludere di stare sognando e, conseguentemente, per sapere, o
avere giustificazione per credere, che vi sia una mano là ove ci
pare di vederla.

2. La negazione del Principio di chiusura epistemica: Dretske e


Nozick

Un secondo tentativo per bloccare il paradosso scettico consiste


nel negare il Principio di chiusura dell’operatore epistemico
sotto implicazione nota (abbreviato in Principio di chiusura
epistemica) che, come abbiamo visto, è fondamentale per derivare
il paradosso cartesiano. Questa strategia è stata tradizionalmente
proposta per limitare i danni dello scetticismo (Dretske 1971,
Nozick 1981). Si dà infatti per scontato che non si possa sapere
(o avere una giustificazione per credere) di non stare sognando.
Si dà cioè per buona l’ipotesi scettica cartesiana che costituisce
il passo (1) dell’argomento cartesiano. Tuttavia, si cerca di
evitare la conclusione (7) che non abbiamo nessuna conoscenza (o
nessuna giustificazione per le nostre credenze) sugli oggetti
fisici che ci circondano.

Tradizionalmente, questa strategia di risposta al paradosso


scettico cartesiano si è accompagnata a una concezione esternista
della conoscenza (e/o della giustificazione). Molto sommariamente,
si è pensato che per avere conoscenza (o giustificazione) per le
proposizioni empiriche ordinarie fosse sufficiente escludere le
alternative rilevanti, senza dover per questo essere in grado di
escludere quelle irrilevanti. Ora, quand’è che un’alternativa

36
sarebbe rilevante? Quando potrebbe darsi facilmente. Si può
mettere la cosa anche in termini di mondi possibili e di loro
relazioni: le alternative rilevanti sono quelle che si danno nei
mondi possibili più vicini a quello attuale. Quindi, per esempio,
un’alternativa rilevante di “Ho due mani” basato sulla mia
esperienza visiva occorrente è che non le abbia perché sono stata
vittima di un incidente stradale. Ahimé, il mondo possibile in cui
potrebbe darsi una tale eventualità non sembra essere molto
distante da quello reale. Un’alternativa irrilevante, invece, è
quella in cui non ce le ho perché sono solo un cervello in una
vasca, che ha allucinazioni come di mani; oppure quella in cui
sono vittima delle macchine diaboliche di The Matrix. Esse mi
darebbero l’impressione di vedere le mie mani, ma in realtà si
tratterebbe solo di ologrammi e potrei benissimo esserne priva.
Tuttavia, secondo i teorici delle alternative rilevanti, questi
mondi possibili sono molto lontani dal nostro.

Ora, è chiaro che la nozione di alternativa rilevante è in parte


relativa e, in ogni caso, il fatto che io stia solo sognando di
vedere le mie mani non sembra affatto essere un’ipotesi remota;
certo non tanto remota come quella di essere solo un cervello in
una vasca, oppure vittime di Matrix, o ingannati da un genio
maligno. Ma accantoniamo queste perplessità, per esporre la
teoria.

Secondo Dretske e Nozick i soggetti saprebbero di avere due mani


perché, nel mondo possibile in cui si dà un’alternativa rilevante,
non crederebbero di averle; mentre non saprebbero di non stare
sognando o di essere vittime di Matrix perché nel mondo possibile
in cui si dessero queste alternative non crederebbero né di stare
sognando, né di essere vittime di Matrix. Questa concezione
esternista della conoscenza (o della giustificazione) è stata

37
soggetta a molte critiche. Qui non le ripercorreremo. Piuttosto,
mi preme sottolineare che la critica al Principio di chiusura
epistemica non comporta necessariamente una concezione esternista
di conoscenza o di giustificazione. È in questa sua forma
internista che lo analizzeremo più nei dettagli.

Il Principio di chiusura epistemica può essere esemplificato come


segue (vd. Appendice):

(1) Si ha giustificazione per P


(2) Si ha giustificazione per P implica Q
----------------------------------------
(3) Si ha giustificazione per Q

Assumiamo che P sia “Si ha giustificazione per p”; che p, a sua


volta, sia “Ho una mano” e Q sia “Non q”, ove q è “Sto sognando”.
Ne segue che se ho una giustificazione per ritenermi giustificata
a credere che qui c’è una mano e se ho una giustificazione per
credere che avere una giustificazione per credere di avere una
mano implica il fatto di non stare sognando, allora ho anche una
giustificazione per credere di non stare sognando. La prima
assunzione è scontata in un’ottica internista; la seconda è la
conversa del Principio cartesiano*, anch’esso noto, ovvero che
possedere una giustificazione per una credenza sul mondo esterno
implica che non si stia sognando; quindi anche la conclusione
appare scontata.

Ora, il problema nasce dall’usare il Principio di chiusura


epistemica per contrapposizione (vd. Appendice):

(1) Non si ha giustificazione per Q


(2) Si ha giustificazione per P implica Q

38
--------------------------------------
(3) Non si ha giustificazione per P

Quindi, se non abbiamo una giustificazione per “Non sto sognando”,


allora non abbiamo neppure una giustificazione per ritenerci
giustificati a credere “Ecco qui una mano”. Tuttavia, in un’ottica
internista questo comporta che non si abbia neppure una
giustificazione per “Ecco qui una mano”. Poiché stiamo dando per
scontato che non si possa avere una giustificazione per credere di
non stare sognando, ne segue che, se valesse il Principio di
chiusura epistemica, l’argomento scettico andrebbe a buon fine e
mostrerebbe che non abbiamo nessuna giustificazione per le nostre
credenze ordinarie sugli oggetti fisici. Questa conclusione è
davvero inquietante perché mostrerebbe che riteniamo di avere
giustificazioni per credere proposizioni del tutto comuni come
“Ecco una mano”, oppure “Sono seduta di fronte al mio computer”,
ma che in realtà non abbiamo nessuna giustificazione per queste
nostre credenze comuni. La nostra situazione epistemica sarebbe
quindi compromessa in maniera drammatica. Non solo non abbiamo
giustificazione per credere di non stare sognando in questo
momento (o di non essere vittime delle macchine diaboliche di The
Matrix), ma non abbiamo neppure giustificazione per credere che ci
sia la nostra mano là ove ci pare di vederla, o che siamo
effettivamente seduti di fronte a un computer, o addirittura che
abbiamo un corpo. Mentre la prima forma di ignoranza è forse
accettabile, perché non inficerebbe la nostra situazione
epistemica ordinaria, la seconda, invece, minerebbe proprio
quest’ultima.

Se però potessimo negare il Principio di chiusura epistemica, la


conclusione scettica drammatica – cioè che le nostre credenze
comuni non sono giustificate - non seguirebbe.

39
Ora, prima di vedere come si possa negare il Principio di chiusura
epistemica, è utile notare che per molti si tratta di un principio
difficilmente dubitabile. Esso infatti ci consente di estendere le
nostre conoscenze o giustificazioni tramite argomenti
deduttivamente validi, che partono da premesse conosciute o almeno
giustificate. Per tale ragione il Principio di chiusura epistemica
sembra essere fondamentale e difficilmente rinunciabile.

A sostegno del rifiuto del Principio di chiusura epistemica si usa


spesso il seguente argomento. È certamente giustificato ritenere
che, se vi sono delle zebre nella gabbia di uno zoo, allora non vi
sono dei muli sapientemente travestiti da zebre. Supponiamo quindi
di avere una giustificazione percettiva per credere che ci siano
delle zebre nella gabbia. Da ciò non si può però inferire di avere
una giustificazione percettiva per credere che nella gabbia non vi
siano muli sapientemente travestiti da zebre. Infatti, la stessa
evidenza sarebbe compatibile con la presenza di muli travestiti da
zebre nella gabbia. (Torneremo in seguito a più riprese su questo
esempio in questo capitolo e nel prossimo).

Pertanto il Principio di chiusura epistemica non è valido in


assoluto. In particolare, non è valido quando le conseguenze delle
nostre credenze giustificate sono le cosiddette “implicazioni
pesanti” (heavyweight implications) (Dretske 2005), come, ad
esempio, “C’è un mondo esterno”, o “Non sto sognando”.

Le implicazioni pesanti sono tali perché non le possiamo conoscere


né giustificare. Quindi, se il Principio di chiusura epistemica
non è valido in assoluto, dal fatto che non possiamo escludere di
stare sognando non segue necessariamente che non siamo
giustificati a credere che qui vi sia una mano. Perciò Descartes
ha ragione a ritenere che non possiamo avere una giustificazione

40
per credere di non stare sognando, ma ha torto a ritenere che
questo ci impedisca di avere credenze sugli oggetti fisici intorno
a noi perfettamente giustificate.

Si noti che l’argomento contro il Principio di chiusura epistemica


non dice che il principio non vale in assoluto, ma solo in certi
casi; cioè quando si utilizza per ottenere una giustificazione per
proposizioni assai particolari. Segnatamente quelle per cui non
possiamo avere conoscenza o giustificazione. Quindi, ammesso e non
concesso che sia un buon argomento, avrebbe solo l’effetto di
limitare la validità del Principio di chiusura epistemica e non di
negarlo in assoluto. Esso varrebbe quindi in un sacco di casi e,
in particolare, nei casi ordinari in cui, per esempio, otteniamo
una giustificazione per “Ci sono pagine scritte” a partire dalla
premessa giustificata percettivamente “Ecco un libro” e dalla
premessa nota a priori che un libro è composto di pagine scritte.

Ma consideriamo alcune delle obiezioni principali avanzate contro


l’argomento a favore della negazione del Principio di chiusura
epistemica. In primo luogo, è stato fatto notare (Wright 1985) che
l’esempio della zebra può venire riformulato come un caso di
fallimento di trasmissione della giustificazione dalle premesse
alla conclusione, cioè come un caso in cui accade ciò che lo
scetticismo humeano ritiene che accada con la prova del mondo
esterno a partire da una premessa come “Ecco qui una mano” (cfr.
capitolo 1, §3). Quindi, l’esempio della zebra non dimostra che
non vale il Principio di chiusura epistemica, ma, al limite, che
non ne vale un altro; cioè il

Principio di trasmissione della giustificazione: un argomento


logicamente valido trasmette la giustificazione dalle premesse
alla conclusione se (e solo se) è possibile per suo tramite

41
acquisire una (prima) giustificazione per credere la
conclusione.

In particolare un argomento trasmette la giustificazione se (e


solo se) l’avere una giustificazione per le premesse non
presuppone che si abbia già una giustificazione per la sua
conclusione. Il caso delle zebre in uno zoo e della prova di Moore
sarebbero quindi casi in cui per poter avere una giustificazione
per le rispettive premesse “Ecco una zebra” e “Ecco una mano” si
deve già avere una giustificazione per “Non si tratta di muli
sapientemente mascherati” e per “Esiste il mondo esterno”, oppure
per “Non sto sognando”. Viceversa, la propria esperienza non
potrebbe costituirsi come giustificazione per “Ecco una zebra” o
“Ecco una mano”. Quindi gli argomenti delle zebre nello zoo e di
Moore sono fallaci ma non dimostrano che non vale il Principio di
chiusura epistemica, bensì che fallisce il Principio di
trasmissione della giustificazione.

Anzi, è importante notare che in effetti il fallimento del


Principio di trasmissione della giustificazione implica che valga
il Principio di chiusura epistemica. Infatti è solo quando ci deve
già essere una giustificazione per la conclusione per poter avere
una giustificazione per le premesse che l’argomento non può dare
una (prima) giustificazione per credere la conclusione. Pertanto è
solo quando si ha la seguente struttura argomentativa che può
darsi un caso di fallimento di trasmissione della giustificazione:

(1) Si ha giustificazione per P


(2) Si ha giustificazione per P implica Q
----------------------------------------
(3) Si ha giustificazione per Q

42
Ove l’avere una giustificazione per Q è condizione necessaria al
darsi della giustificazione per P. Ma questo schema, come abbiamo
testé visto, non è altro che lo schema del Principio di chiusura
epistemica.

Un modo per capire meglio perché questo non è un risultato


implausibile consiste nell’interpretare il Principio di chiusura
epistemica come un principio “sintattico” che ci dice solo come si
comporta l’operatore epistemico in determinate circostanze. Al
contrario, il Principio di trasmissione della giustificazione
andrebbe inteso come un principio “semantico”, nel senso che entra
nel merito delle condizioni alle quali si può dare la
giustificazione che figura in uno o più passi dell’argomento. Esso
ci dice, per contrapposizione, che un argomento non è in grado di
fornirci la (prima) giustificazione per credere la sua conclusione
se (e solo se) è solo avendo già quest’ultima che si può avere una
giustificazione per una delle premesse (nei nostri esempi la (1)).
Quindi, in simboli, un modo per rappresentare la differenza tra il
fallimento del Principio di chiusura epistemica e il fallimento
del Principio di trasmissione della giustificazione è il seguente
(vd. Appendice):

Fallimento del Principio di chiusura epistemica

(1) Si ha giustificazione per P


(2) Si ha giustificazione per P implica Q
----------------------------------------
(3) Non si ha giustificazione per Q

Fallimento del Principio di trasmissione della giustificazione

(1) Si ha giustificazione per P

43
(2) Si ha giustificazione per P implica Q
----------------------------------------
(3) Si ha giustificazione per Q

Dovremo tornare a lungo sui rapporti tra questi due principi nel
prossimo capitolo. Per il momento è sufficiente riassumere quanto
visto fin qui dicendo che non sembra che l’argomento delle zebre
nello zoo portato dai detrattori del Principio di chiusura
epistemica sia efficace. Esso pare piuttosto mostrare che,
talvolta, fallisce un altro principio solo apparentemente simile
ad esso, ossia il Principio di trasmissione della giustificazione.

Un’altra obiezione più recente, che è stata mossa contro alla


negazione del Principio di chiusura epistemica, è che darebbe
luogo a “congiunzioni abominevoli” (DeRose 1995). Si potrebbe
infatti continuare a dire (o giudicare) “So (o ho una
giustificazione per credere) di avere una mano, ma non so (o non
ho giustificazione per credere) di non stare sognando (o di non
essere vittima delle macchine diaboliche di The Matrix)”.

Anche in questo caso è importante notare come ci sia margine di


risposta: un conto è descrivere correttamente la nostra situazione
epistemica e un altro dar conto della legittimità di certe
asserzioni. Per dirla diversamente: un conto è chiarire a quali
condizioni si diano conoscenza e giustificazione, un altro è
chiarire a quali condizioni sia appropriato fare asserzioni
epistemiche. All’epistemologia interessano solo le prime (Sosa
2000), mentre le seconde pertengono, semmai, alla filosofia del
linguaggio.

È evidente però che questa strategia di risposta debba chiarire


perché suoni strano fare asserzioni che la teoria predice abbiano

44
un contenuto vero. Inoltre, va notato che sarebbe una situazione
un po’ imbarazzante quella in cui si fosse in possesso di una
verità che non potrebbe però essere asserita in maniera
appropriata.

Pritchard (2005a) ha sostenuto che l’asserzione suona strana


perché viola la massima griceana della qualità, che prescrive di
asserire solo ciò per cui si abbia una giustificazione (o
addirittura che sia oggetto di conoscenza). Ora, se è vero che non
abbiamo giustificazione per credere di non stare sognando, allora
è ovvio che commettiamo un’infelicità pragmatica asserendolo.

Tuttavia, mi pare che il problema sia un po’ più spinoso. Infatti


l’asserzione che suona strana non è “Non sto sognando”, ma “[So (o
ho giustificazione per credere) di avere una mano] e non so (o non
ho giustificazione per credere) di non stare sognando”. E questa è
un’asserzione vera, dato che, secondo i detrattori del Principio
di chiusura epistemica, entrambi i congiunti sono veri. Non solo:
a loro avviso avrei anche ottime giustificazioni per entrambi i
congiunti. Quindi non è chiaro in che modo il ricorso alle massime
griceane possa spiegare perché l’asserzione suoni strana.

Inoltre, anche solo giudicare quella congiunzione è molto


controintuitivo. Quest’impressione, però, non si può spiegare
facendo riferimento a massime conversazionali che regolano la
felicità pragmatica dell’atto linguistico dell’asserzione. Quindi
non è chiaro come si possa replicare alla versione non linguistica
dell’obiezione.

Personalmente credo che l’obiezione non sia fatale, ma che possa


essere affrontata solo nel momento in cui si sia in possesso di

45
nozioni, e si siano afferrate distinzioni, che verranno introdotte
nel prossimo capitolo (§6).

3. La risposta contestualista: Cohen e DeRose

I contestualisti sono d’accordo con Dretske e Nozick che non


possiamo sapere (o avere una giustificazione per credere) di non
stare sognando, almeno in certe circostanze, come vedremo.
Tuttavia, non rifiutano il Principio di chiusura epistemica
(DeRose 1999, Cohen 2005). Con ciò, però, non vogliono neppure
concludere che non sappiamo, o non abbiamo giustificazioni per
credere, che, per esempio, qui vi sia una mano. Per farlo,
sostengono che le condizioni di verità dell’enunciato “S sa (o è
giustificato a credere) che p” variano a seconda del contesto in
cui si trova il soggetto che lo asserisce, che potrebbe essere
diverso dal soggetto che ha asserito “p”. Se colui che fa
l’attribuzione di conoscenza si trova nel contesto ordinario, gli
standard da soddisfare sono bassi e quindi il soggetto S sa tanto
che qui vi è una mano quanto di non stare sognando. Viceversa, se
colui che fa l’attribuzione epistemica si trova nel contesto
scettico, gli standard da soddisfare sono molto più alti e S non
sa né di non stare sognando né, pertanto, che qui vi è una mano.
Quindi, come nel caso del rifiuto del Principio di chiusura
epistemica, anche qui ci troviamo di fronte a una strategia di
contenimento dei danni: non si confuta lo scetticismo ma si cerca
di impedire che abbia conseguenze per le nostre prassi epistemiche
ordinarie in cui vogliamo continuare a dire di avere conoscenze (o
almeno giustificazioni per le nostre credenze) sugli oggetti
fisici.

46
Per chiarire meglio la struttura della strategia contestualista, è
utile mettere in evidenza che, nella derivazione del paradosso
cartesiano, abbiamo le seguenti premesse (vd. Appendice):

(1) Non si ha giustificazione per “Non sto sognando”


(2) Si ha giustificazione per “Ho una mano”

(3) Avere giustificazione per “Ho una mano” implica avere


giustificazione per “Non sto sognando” (Principio
cartesiano standard relativo alla giustificazione)

Ora, secondo il contestualista, quando sono in vigore gli standard


più bassi, vale (2) ma non (1); quando sono in vigore quelli più
alti, vale (1) ma non (2), mentre (3) vale in tutti i casi. Il
paradosso da cui si otterrebbe che non sappiamo mai di avere una
mano e di non essere vittime di un sogno – dando per scontato che
la conoscenza dipenda dall’avere giustificazione, non importa se
internisticamente o esternisticamente intesa –, quindi, è solo
apparente, perché deriva da una equivoco. È infatti solo nel
contesto scettico che vale (1) e, dato (3), si deriva la negazione
di (2). D’altro canto, almeno nel contesto scettico è vero che non
sappiamo di avere una mano. Per converso, nel contesto ordinario
sappiamo tanto di avere una mano (2), quanto la negazione di (1);
sappiamo cioè di non stare sognando.

Il contestualismo è stato oggetto di critiche per il fatto che non


è chiaro che “sapere” e “essere giustificati” siano sensibili al
contesto come invece è evidente che lo siano “io”, “domani”,
“piatto”, “alto”, “tagliente”, ecc. I dati linguistici e le
intuizioni dei parlanti non sembrano confermare chiaramente questa
ipotesi circa il funzionamento dei nostri termini epistemici. Earl
Conee (2005), per esempio, ha sostenuto che la variabilità nelle

47
attribuzioni di conoscenza che a volte si rileva tra i parlanti
può dipendere dal passaggio da un contesto in cui si parla in
maniera lasca, a uno in cui si parla in maniera rigorosa. Quindi
le condizioni di verità di “S sa che p” non sarebbero sensibili al
contesto. Parlando propriamente “S sa che p” è vero (o falso) in
maniera assoluta. Tuttavia, a volte, per varie ragioni
pragmatiche, non parliamo propriamente. Un esempio è quando
diciamo che la Francia è esagonale. Non c’è nessun contesto in cui
ciò è vero. Però, a volte, tanto per dare un’idea della forma di
quel paese, facciamo come se fosse vero. Conee ha anche
giustamente messo in luce che alla filosofia non importa se,
parlando all’ingrosso, abbiamo conoscenza, ma solo se l’abbiamo
davvero. Quindi, in filosofia, le condizioni di verità di “S sa
che p” sarebbero assolute e fissate in base a condizioni
stringenti. (Resta ovviamente da discutere, secondo Conee, se
siano quelle poste dallo scetticismo cartesiano, oppure altre meno
severe).

Un’altra obiezione, imparentata a questa, sollevata da Ernest Sosa


(2000), consiste nel dire che il contestualismo confonde le
condizioni alle quali è o no appropriato fare asserzioni in cui si
fanno attribuzioni di conoscenza, con le condizioni alle quali
essa si dà. Solo queste ultime sono rilevanti per l’epistemologia,
mentre le prime, al più, possono riguardare la filosofia del
linguaggio.

Cohen (2005) ha risposto facendo notare come le intuizioni dei


parlanti non siano sempre probanti per decidere se un termine è o
no sensibile al contesto. Si pensi al caso di “simultaneo”, prima
e dopo l’avvento della teoria della relatività. Inoltre, ha messo
in evidenza come anche facendo filosofia oscilliamo tra standard
diversi per l’attribuzione di conoscenza. Quando consideriamo i

48
casi Gettier, ad esempio, siamo tutti disposti ad ammettere che
sappiamo un sacco di cose; non così quando consideriamo lo
scetticismo cartesiano. (I casi Gettier, così chiamati dal filosofo
che per primo li mise in evidenza (Gettier 1963), sono tali che il
soggetto ha una credenza vera e giustificata, almeno all’apparenza, ma
non diremmo che ha conoscenza. Si può quindi concludere o che,
contrariamente alla concezione tripartita classica, la conoscenza non è
credenza vera e giustificata; oppure che le condizioni a cui si dà la
giustificazione non sono quelle originariamente intese dalla tradizione
filosofica, ma devono essere opportunamente rinforzate per tener conto in
maniera appropriata della loro origine causale).

Infine, il contestualismo epistemico non si occupa delle


condizioni di asseribilità di “S sa che p”, ma delle sue
condizioni di verità e, come abbiamo visto, sostiene che queste
ultime sono sensibili al contesto. Quindi, la conoscenza stessa è
sensibile al contesto, secondo i contestualisti; non solo la
correttezza della sua attribuzione.

Vi sono poi altre obiezioni sollevate in sede di analisi dal punto


di vista della filosofia del linguaggio. La prima è che se le
condizioni di verità di “S sa che p” variano in base al contesto,
allora non è chiaro come ci possa essere genuino disaccordo tra,
ad esempio, uno scettico e un filosofo del senso comune, che
impiegano standard diversi. Dopo tutto, infatti, non riterremmo
che A e B siano in disaccordo tra loro quando l’uno asserisce “Io
sono nato a Milano” e l’altro lo nega, visto che stanno parlando
di persone diverse.

La seconda è che se, per i contestualisti, gli standard epistemici


che valgono sono quelli di chi fa l’attribuzione di conoscenza,
non si vede come questi possa successivamente ritrattare la sua
affermazione. Dopo tutto, infatti, nel momento in cui l’ha fatta

49
vigevano standard diversi da quelli che valgono per lui nel
momento della ritrattazione. Tuttavia, il contestualismo implica
che gli standard applicati nel momento in cui è stata fatta
l’attribuzione siano quelli giusti per valutare semanticamente “S
sa che p” e che quindi rimangano gli unici validi anche quando,
successivamente, si vorrebbe dire che non lo sono più.

A entrambe queste obiezioni si può cercare di dare risposta


introducendo una forma di contestualismo diversa – nota in
letteratura col nome di “relativismo della verità” – proposta da
John MacFarlane (2005). Lo stratagemma è quello di dire che gli
standard che determinano la verità di “S sa che p” non sono né
quelli di chi ha affermato “p”, né quelli di chi ha asserito “S sa
che p”, bensì quelli di chi valuta l’attribuzione di conoscenza,
che in linea di principio potrebbe essere diverso tanto dall’uno
che dall’altro (ma ovviamente potrebbe anche essere identico). In
questo modo il problema della ritrattazione potrebbe essere
facilmente risolto, poiché gli standard del valutatore potrebbero
variare nel tempo e quindi una stessa persona potrebbe giudicare
falsa una propria affermazione precedente di “S sa che p”.

Il problema del disaccordo, invece, è meno facilmente risolvibile,


io credo. Certo la condizioni di verità di “S sa che p” non
varierebbero al variare degli standard dei soggetti che fanno o
negano l’attribuzione. Però è indubbio che tali soggetti
valuterebbero semanticamente quella proposizione alla luce di
standard diversi. Non potendo stabilire che solo uno tra questi
sia quello corretto, il problema del disaccordo si riproporrebbe,
ancorché spostato a un livello diverso.

MacFarlane ha proposto di intendere il disaccordo quindi come


relativo ai propri standard. A dire, rispetto agli standard di A,

50
che ritiene vero “S sa che p”, quello che dice B, che ritiene
falso “S sa che p”, genera una contraddizione e questo basta a
rendere conto dell’idea che A e B siano in disaccordo tra loro.

L’obiezione che si può muovere a questo resoconto del disaccordo


tra A e B è che dipende dal non tenere conto del fatto che
l’affermazione di B “‘S sa che p’ è falso” è fatta in base agli
standard di B, che, per ipotesi, differiscono da quelli di A. Ed è
certamente dubbio che questa estrapolazione dell’affermazione di B
dagli standard rispetto ai quali è stata fatta sia lecita, oppure
il modo corretto di rendere conto delle dispute tra fautori di
posizioni diverse riguardo a “S sa che p”.

Quale che sia il fato di queste obiezioni, mi pare opportuno


rivolgere l’attenzione a un altro genere di perplessità, che
ammette, pro tempore, che il contestualismo sia plausibile
rispetto ai dati linguistici in nostro possesso, all’oscillazione
tra standard diversi in epistemologia e, infine, come tesi sulla
conoscenza (e/o la giustificazione) e non solo sulle condizioni in
cui la sua attribuzione risulta correttamente asseribile.

La prima obiezione di questo gruppo nasce dal domandarsi che cosa


determina il passaggio da un contesto all’altro. Secondo DeRose
(1995), a tal fine è sufficiente asserire che S sappia o meno che
p. Ora, se la proposizione in questione è “insensibile”
(insensitive), cioè è tale che la crederemmo vera anche nel mondo
possibile più vicino in cui fosse falsa, come ad esempio “Non sto
sognando”, allora ciò farebbe automaticamente salire gli standard.
Pertanto, in questo caso, S non saprebbe né di non stare sognando,
né di avere una mano. Tuttavia, se la proposizione p fosse
“sensibile” e quindi tale che non la crederemmo vera nel mondo
possibile più vicino in cui fosse falsa, come ad esempio “Ecco qui

51
la mia mano”, allora gli standard rimarrebbero bassi. Sapremmo
quindi tanto di avere una mano, quanto di non stare sognando.
Pertanto, è solo quando si introducono ipotesi scettiche come
quella cartesiana che gli standard salgono in maniera tale da
privarci della conoscenza anche delle proposizioni che riteniamo
comunemente di sapere.

Ora, il problema sorge quando colui che fa l’attribuzione di


conoscenza e il soggetto che asserisce che p sono la stessa
persona. Supponiamo che si tratti di me, cioè di un individuo con
una vita del tutto normale, che però è quanto meno stato toccato
dalla filosofia. Allora, so o non so che qui c’è una mano? Sono o
non sono giustificata a crederlo? Lo so ora nei panni della
persona comune e ora invece che mi viene in mente Descartes non lo
so più? Ma se adesso metto da parte la filosofia, allora lo so di
nuovo? La mia situazione epistemica sarebbe assolutamente
instabile.

Supponiamo invece che, una volta che si sia stati toccati dalla
filosofia, non si possa più usare standard ordinari: ma allora
poveri filosofi! Non saprebbero più nulla, al contrario di coloro
che ignorano la filosofia. Forse sanno di non sapere. Ma, si noti,
questa è una ben magra consolazione. Secondo Socrate, infatti,
sapere di non sapere è una consolazione perché l’ignoranza di come
stanno le cose è comune tanto al filosofo quanto alla persona non
toccata dalla filosofia. Tuttavia, solo il primo ha conoscenza
almeno di una cosa: precisamente della sua ignoranza. Secondo il
contestualismo, invece, la persona non toccata dalla filosofia
saprebbe un sacco di cose che invece il filosofo non saprebbe.
L’esercizio filosofico, quindi, distruggerebbe la conoscenza
invece di renderci semplicemente consapevoli della nostra
ignoranza.

52
Ovviamente il contestualista potrebbe assorbire il colpo e
sostenere che le cose stanno proprio così e tanto peggio per
coloro tra noi che si preoccupano di ipotesi scettiche. Questa,
però, non sarebbe una risposta molto soddisfacente dal punto di
vista filosofico. In fin dei conti ne risulterebbe che il miglior
antidoto contro lo scetticismo sarebbe semplicemente quello di non
curarsene!

Un’altra obiezione dipende dal notare che “sapere” è un verbo


fattivo, da cui segue cioè la verità di quello che si sa. (Poiché
la nozione di giustificazione non è necessariamente fattiva,
questa obiezione non si applica immediatamente a una versione del
contestualismo che, rinunciando a parlare di conoscenza, si
accontentasse di parlare di giustificazione, internisticamente
intesa). Quindi se so che qui c’è una mano, segue che qui c’è una
mano. Secondo i contestualisti, nel contesto ordinario, so che qui
c’è una mano. Inoltre, sia l’implicazione, sia la sua premessa,
sembra che siano conosciute in ogni contesto. Questo però implica
che si sappia in ogni contesto che qui c’è una mano! (Williamson
2001, Wright 2005, Moruzzi in conversazione. Le conclusioni che ne
traggo sono però un po’ diverse da quelle tratte da Wright e
Moruzzi, vd. Appendice).

Un contestualista potrebbe negare che in ogni contesto si sappia


che nel contesto ordinario si sa che qui c’è una mano. In
particolare, se si è nel contesto scettico, non si può ammettere
che in quello ordinario si sappia che qui c’è una mano.

Il problema di questa risposta, a mio avviso, è che l’attrattiva


principale del contestualismo sta nel consentire la conoscenza nel
contesto ordinario. Se però, dal punto di vista dello scettico,
non può essere garantita, neppure nel contesto ordinario, per

53
quale ragione dovremmo abbracciare il contestualismo? In
particolare, in che senso il contestualismo sarebbe una risposta
allo scetticismo? In fin dei conti il contestualismo sembra
semplicemente dare ragione allo scettico, con l’unica consolazione
che questi avrebbe ragione solo nel suo contesto. Tuttavia questo
è il contesto in cui ci troviamo quando facciamo filosofia, o,
quanto meno, quando, come in questo libro, ci occupiamo di
scetticismo. Quindi la risposta contestualista appare estremamente
antifilosofica. Ripetiamolo: il miglior antidoto contro lo
scetticismo sarebbe quello di non occuparsene.

Un altro modo di avvedersi di quanto il contestualismo sia


insoddisfacente come risposta filosofica al problema scettico
cartesiano dipende dal notare che, per un contestualista, tanto lo
scettico cartesiano quanto la persona non toccata da esso hanno
ragione, dal proprio punto di vista. Non si vede quindi in che
senso possano essere tra loro in disaccordo, visto che ognuno di
essi ha ragione in base ai propri standard. Se il prezzo
dell’immunità allo scetticismo è che questo risulti corretto in
base ai suoi standard, non si capisce come il contestualismo possa
essere una risposta allo scetticismo cartesiano. Se, d’altro
canto, il contestualismo è davvero un modo per limitare i danni
dello scetticismo, confinandoli a standard che si ritengono solo
raramente operativi, non si vede come possa rendere conto della
rilevanza anche solo filosofica dello scetticismo. Perché, anche
in filosofia, si dovrebbe prendere sul serio un problema che in
realtà non ci tocca davvero mai?

Quest’ultimo corno del dilemma, a sua volta si può sviluppare in


due domande distinte. La prima è: è mai possibile che lo
scetticismo sia stato avvertito da tanti filosofi anche insigni
come uno dei problemi centrali della filosofia, se in realtà ha

54
così scarsa rilevanza? La seconda, invece, è: perché il
contestualista epistemico gli si dedica, visto che alla luce della
sua stessa dottrina esso appare come perlopiù irrilevante?

A queste domande il contestualista dovrebbe rispondere dicendo che


si dedica al problema dello scetticismo per dissipare il malinteso
senso di rilevanza che gli è stato accordato dalla filosofia
precedente, cieca alla dipendenza contestuale di “sapere” e
“essere giustificati”. Ritenere lo scetticismo importante sarebbe
dunque uno di quei caratteristici “bernoccoli” intellettuali che,
secondo la metafora wittgensteiniana, ci siamo fatti sbattendo
contro i limiti del nostro linguaggio. Vedendone invece il
corretto funzionamento – cioè la dipendenza dal contesto delle
nostre attribuzioni epistemiche – il problema dello scetticismo
non si risolve, né, propriamente, si dissolve giacché non
sparisce. Tuttavia viene confinato a un ambito in cui perde ogni
rilevanza rispetto alle nostre prassi ordinarie.

Ma abbiamo già visto nel capitolo 1 come nel passaggio


dall’antichità alla modernità lo scetticismo sia stato messo da
parte rispetto alla vita comune. Potrebbe quindi anche essere
confinato a problema marginale della filosofia. Ciò non toglie che
non si sia ancora trovata una risposta ad esso e, anzi, che per un
contestualista, questa situazione sia inevitabile. La domanda da
porsi è: è davvero così? Non possiamo fare di meglio?

4. L’implosione del demone: Wright

Secondo Wright (1991), questa possibilità c’è ed è davvero


eclatante: il paradosso scettico cartesiano, se analizzato nei
dettagli, implode. Questo significa che le risorse su cui si basa
– cioè le premesse, la logica sottostante e la motivazione

55
filosofica delle premesse – sono in tensione tra loro al punto che
si può mostrare che le premesse non possono essere giustificate.
L’argomento è piuttosto complesso e qui potremo solo presentarne
le linee essenziali. L’idea di base è che quando si produce
l’argomento scettico dobbiamo essere sicuri almeno di una cosa:
che le nostre facoltà intellettive stiano funzionando a dovere. Se
non ne siamo certi, non si vede perché dovremmo prenderlo sul
serio. Ma come possiamo esserne certi? Non potrebbe forse darsi il
caso – non verificabile dal punto di vista della prima persona –
che ci sembri solo che le nostre facoltà intellettive stiano
funzionando a dovere? Ma, se così stanno le cose, non si capisce
perché dovremmo prendere seriamente l’argomento scettico
cartesiano.

Perplessità analoghe sono state sollevate sia da Wittgenstein in


Della certezza (1969), sia, più recentemente, da Ernest Sosa
(2007, pp. 13-14, 20). L’idea è che se si stesse sognando allora
si starebbe anche sognando di pensare, ragionare, formare credenze
e conclusioni, ma, in realtà, non si starebbe facendo nulla di
tutto questo. Un po’ come chi sognando dica “piove”, non starebbe
veramente asserendo che piova; o chi immaginando che piova, dica
“piove”, non per questo crederebbe che piova.

Più schematicamente: se l’argomento cartesiano va a buon fine,


sappiamo che dalle sue premesse, chiamiamole P1 e P2, segue che
non abbiamo una giustificazione per p (ove “p” è una proposizione
empirica). Ora, alla luce del fatto che, una volta aperta la
strada alle ipotesi scettiche, non possiamo essere certi che le
nostre facoltà intellettive funzionino a dovere, possiamo ritenere
che l’argomento mostri anche che non abbiamo una giustificazione
per una proposizione p qualsiasi la cui giustificazione è
ottenibile per via di ragione. Tuttavia, anche le premesse

56
dell’argomento scettico cartesiano sono proposizioni la cui
giustificazione è ottenibile per via di ragione. Questo conduce
però a una contraddizione. Si può infatti dimostrare che, dopo
tutto, potremmo avere giustificazione per “Non sto sognando” (vd.
Appendice).

Secondo Wright, le premesse del paradosso scettico cartesiano e la


loro motivazione filosofica sono quindi tra loro inconsistenti.
Tuttavia, se le premesse del paradosso non possono essere
giustificate, non c’è neppure un vero paradosso scettico
cartesiano cui dover dare risposta!

Come è possibile raggiungere un risultato così strabiliante quando


a tutta prima ci sembrava ovvio che le premesse del paradosso
fossero giustificate? E, in particolare, quando ci pareva scontato
che non si potesse avere una giustificazione per “Non sto sognando
in questo momento”? La risposta di Wright è che certo non possiamo
acquisire una giustificazione per “Non sto sognando in questo
momento”, poiché ogni possibile giustificazione dipenderebbe
dall’avere già escluso di stare sognando. Tuttavia, è possibile
ritenere, seguendo Wittgenstein in Della certezza, che siamo
giustificati a crederlo per default. “Non sto sognando in questo
momento” è quindi una “proposizione cardine” (Wittgenstein 1969,
§§341, 343, 655), la cui giustificazione non dipende dal mettere
in atto nessuna procedura – percettiva, o intellettiva – ed è
invece funzione del particolare ruolo che svolge nel sistema
complessivo delle nostre credenze.

Secondo Wright, questa osservazione apre la strada per una


“strategia unificata” (Wright 2004a, p. 174) di risposta sia la
paradosso scettico cartesiano sia a quello humeano. Il punto della
strategia unificata è quello di mostrare come possano esserci

57
giustificazioni non evidenziali ma per default per credere sia di
non stare sognando, sia che vi sia un mondo esterno. Per tale
ragione, rimandiamo al prossimo capitolo (§4), la discussione
critica della strategia unificata proposta da Wright. Occorre però
rilevare che si tratterebbe di un tipo di risposta fondazionalista
al trilemma di Agrippa (cap. 1, §7), poiché sostiene che ci
possano essere giustificazioni ultime per queste nostre credenze
basilari.

Qui mi preme solo rilevare come sia stato sostenuto che


l’implosione riguarderebbe solo l’argomento del sogno (cfr. Sosa
2007, p. 21). Altre ipotesi scettiche più radicali, come quella
dei cervelli in una vasca o The Matrix, sembrerebbero compatibili
col fatto di formare credenze e condurre ragionamenti corretti,
presumibilmente perché potrebbero essere costruite in maniera tale
da lasciare intatte queste nostre facoltà cognitive.

Ciò non toglie, però, che ci potrebbero essere ipotesi scettiche


ancora più radicali che in quegli stessi scenari potrebbero darci
l’illusione di pensare e ragionare, esattamente come accade
nell’ipotesi del sogno, secondo Wright e Sosa.

Quindi, per concludere questo capitolo sull’argomento del sogno:


benché appaia scontato che non possiamo produrre evidenze per
giustificare il fatto di credere di non stare sognando in questo
momento, o di non essere vittime di potenti ipotesi scettiche,
l’essere desti e in possesso delle nostre facoltà intellettive è
una precondizione per ogni attività cogitativa, anche quella di
chi volesse intrattenere eventuali dubbi scettici. Dovremo quindi
vedere se non è una mera assunzione arbitraria, cioè se sia
possibile o giustificarla per default, come ritiene Wright, o,

58
quanto meno, rivendicarne la razionalità, pur concedendo che non
possa essere epistemicamente giustificata.

59
Capitolo 3

Le risposte al paradosso scettico humeano

Riprendiamo il paradosso humeano sostituendo alla nozione di


conoscenza quella di giustificazione (vd. Appendice):

(1) Si ha giustificazione per “Ho una mano” Assunzione


(2) Si ha giustificazione per “Ho una mano” Assunzione
implica “Esiste il mondo esterno”
--------------------------------------
(3) Si ha giustificazione per “Esiste il mondo esterno” 1, 2
Chiusura

Come abbiamo già visto nel capitolo 1 (§3) e nel capitolo 2 (§2),
il paradosso scettico humeano non contesta la validità logica
dell’argomento. Quindi, se abbiamo effettivamente una
giustificazione per “Ecco qui una mano”, abbiamo anche
giustificazione per la conclusione “Esiste il mondo esterno”
attraverso l’inferenza corretta. Non solo, questo paradosso
concede anche che si possa avere una tale giustificazione. Esso
agisce solo sul piano squisitamente epistemico, poiché si
interroga sulla natura della giustificazione per “Ecco qui una
mano”. L’idea è che, affinché vi sia una giustificazione
percettiva per “Ecco qui una mano” non è sufficiente avere
un’esperienza con quel contenuto rappresentazionale e fenomenico.
Dopo tutto, quell’esperienza potrebbe essere soggettivamente

60
identica anche qualora fosse prodotta in condizioni non standard,
come abbiamo visto a iosa nei capitoli precedenti. Quindi, per
avere una giustificazione percettiva è necessario avere sì quel
tipo di esperienza, ma si deve inoltre assumere che vi sia un
mondo esterno. Ora, secondo lo scettico humeano una tale
assunzione è razionale solo se vi è una giustificazione in suo
favore. Ma questo è proprio quello che vorremmo ottenere
attraverso l’argomento testé presentato. Esso non può quindi
produrre una prima giustificazione per “Esiste il mondo esterno”.
Se non vi è altro modo di ottenerla – e lo scettico humeano
sostiene che non vi sia – allora non vi è nessuna giustificazione
per la nostra credenza nell’esistenza del mondo esterno.

Ora, il primo problema che ci si può porre è perché mai, per avere
una giustificazione percettiva per “Ecco qui una mano” quando si
ha un’esperienza con quel dato contenuto si debbano fare
assunzioni collaterali che, per di più, dovrebbero essere a loro
volta giustificate. A favore della visione alternativa si può
anche portare il dato fenomenologico che nessuno di noi, quando
acquisisce giustificazioni percettive per credenze empiriche
specifiche riguardanti oggetti materiali intorno a sé, intrattiene
l’assunzione “Esiste il mondo esterno” e, meno che mai, sarebbe in
grado di produrne una giustificazione. Per rinforzare il punto, si
potrebbe aggiungere che anche i bambini hanno credenze sugli
oggetti intorno a loro giustificate tramite l’esperienza ma non
hanno né il repertorio concettuale per intrattenere
quell’assunzione, né, tanto meno, alcuna capacità di addurne una
giustificazione.

A questa perplessità si può rispondere notando come si sia a lungo


creduto che solo le credenze potessero fungere da giustificazione
per altre credenze e che pertanto la struttura della

61
giustificazione anche di credenze empiriche basate sulla
percezione dovesse essere di tipo inferenziale. Secondo questo
modello, la nostra giustificazione per credere che qui vi è una
mano sarebbe dunque data dalla credenza “Ho un’esperienza come di
una mano qui di fronte a me”. Poiché, però, potrei avere
esattamente la stessa esperienza anche se non vi fosse davvero una
mano di fronte a me e se la stessi solo sognando, quella credenza
può fungere da giustificazione per “Vi è una mano di fronte a me”
solo se si assume già che vi sia un mondo esterno, correttamente
rappresentato dalla mia esperienza. Tuttavia, poiché questo è ciò
che l’argomento dovrebbe provare, esso è circolare e non può
servire a darci una (prima) giustificazione per credere che vi sia
un mondo esterno. Più schematicamente, secondo il modello della
giustificazione qui in oggetto, dovremmo pensare alla struttura
della giustificazione come data dall’inferenza seguente in cui
(1)-(5) sono tutte credenze:

(1) Ho un’esperienza come di una mano qui di fronte a me


(2) Esiste un mondo esterno
(3) Vi è una mano qui di fronte a me
(4) Se vi è una mano qui di fronte a me, vi è un mondo
esterno

--------------------------------------------------------------
(5) Vi è un mondo esterno

Si noti che l’argomento, così ricostruito, non è deduttivamente


valido poiché potrebbero essere vere sia (1) sia (2), ma (3)
potrebbe essere falsa. Tuttavia, (2) è necessaria per far sì che
(1) possa essere considerata almeno una giustificazione fallibile
(defeasible) di (3). Questo però è del tutto in sintonia con
l’argomento di Hume (Wright 2004a, pp. 169-70). Quindi la non

62
validità logica dell’argomento non pone nessun problema allo
scetticismo di tipo humeano, che, facendo leva solo sull’ovvia
circolarità dell’inferenza, mostra che non possiamo neppure avere
una giustificazione fallibile per (5), meno che mai una
giustificazione conclusiva (conclusive reason).

Quanto agli argomenti fenomenologici e riguardanti i bambini


portati a supporto dell’obiezione che stiamo analizzando è utile
notare che qui stiamo considerando le cosiddette giustificazioni
proposizionali. Le giustificazioni proposizionali sono quelle che
esistono a favore di una certa proposizione p, come ad esempio
“Ecco qui una mano” o “Esiste il mondo esterno”, nello “spazio
astratto delle ragioni”, indipendentemente dal fatto che vengano
mai considerate dai soggetti e indipendentemente, inoltre, dal
fatto che addirittura vi siano dei soggetti che intrattengano
quelle proposizioni nella loro mente; indipendentemente, cioè, dal
fatto che vi siano soggetti che le credano.

Le giustificazioni proposizionali vanno poi distinte da quelle


doxastiche, che sono quelle giustificazioni proposizionali che si
annettono (o meno) alle credenze effettivamente intrattenute da un
soggetto. Quindi, nel nostro caso, visto che siamo dei filosofi
che stanno considerando certe proposizioni, stiamo anche
trafficando in giustificazioni doxastiche nel senso che ci stiamo
domandando se queste credenze che abbiamo siano o no giustificate
proposizionalmente.

Infine, le giustificazioni proposizionali e doxastiche sono da


distinguersi da quelle giustificazioni proposizionali che sono
razionalmente a disposizione dei soggetti. Supponiamo che vi sia
un soggetto che crede che ci sia una mano di fronte a sé sulla
base della propria esperienza sensoriale, e ammettiamo inoltre che

63
questa sua credenza goda di una giustificazione proposizionale.
Immaginiamo però che abbia credenze collaterali, come ad esempio
la credenza di soffrire spesso di allucinazioni molto realistiche.
Data questa sua credenza collaterale il soggetto potrebbe trovarsi
nell’impossibilità di avvalersi razionalmente della
giustificazione proposizionale esistente per la credenza che
intrattiene.

Quindi, per concludere, il paradosso scettico humeano riguarda


l’esistenza o meno di giustificazioni proposizionali per “Esiste
il mondo esterno”. Pertanto, è vero che nella vita di tutti giorni
non facciamo dipendere le nostre giustificazioni percettive dal
possesso di una giustificazione per una tale assunzione e che
siamo disposti ad accordarle anche ai bambini che non sarebbero
neppure in grado di intrattenere quella proposizione. Tuttavia,
questo non mostra che nello “spazio astratto delle ragioni” le
giustificazioni percettive non dipendano dal fatto che si debba
assumere, in maniera giustificata, che vi sia un mondo esterno.

1. La risposta naturalista: Strawson

In un influente saggio del 1985 sir Peter Strawson ha sostenuto,


ritenendo in questo modo di stare esponendo la posizione di
Wittgenstein in Della certezza (Wittgenstein 1969), che il
paradosso scettico humeano non possa trovare risposta diretta. Non
possiamo quindi fornire una giustificazione per “Esiste il mondo
esterno”. Tuttavia, secondo Strawson, non tutti i dubbi sono
rilevanti. In particolare non lo sarebbero quelli riguardanti
quelle credenze che ci troviamo ad avere “per natura”.

Ora, se Hume aveva sostenuto che “Esiste il mondo esterno” è un


tipo di credenza che abbiamo per via di certe connessioni

64
psicologiche tanto involontarie quanto per noi inevitabili, data
la nostra struttura cognitiva, Wittgenstein, secondo Strawson,
avrebbe sostenuto che quella ed altre credenze sono per noi
scontate e inevitabili perché è proprio della nostra forma di vita
ritenerle tali. Nella lettura che Strawson propone di Della
certezza, venendo cresciuti all’interno della nostra comunità
verremo anche addestrati a dare per scontate quelle credenze che
fungono da fondamenta dei nostri giochi linguistici. Tra queste vi
sarebbe appunto la credenza nell’esistenza del mondo esterno, che
svolge un ruolo essenziale per i nostri giochi linguistici dal
momento che ci consente di considerare le esperienze sensoriali
che abbiamo come vertenti su oggetti materiali.

Secondo Strawson, quindi, Wittgenstein avrebbe proposto un


naturalismo che, con John McDowell (1994), potremmo chiamare della
“seconda natura” – il frutto cioè dell’addestramento e
dell’acculturazione all’interno della comunità umana – a fronte
del naturalismo della “prima natura” – il portato cioè delle
nostre strutture cognitive in gran parte biologicamente
determinate – di cui Hume fu invece il primo sostenitore.

I dubbi sollevati dallo scettico sarebbero quindi propriamente


innaturali, nel senso specifico che andrebbero contro quello che
per noi è naturale credere (per le ragioni testé esposte) e,
sebbene legittimi – cioè ammissibili da un punto di vista logico e
metafisico –, sarebbero del tutto implausibili e ineffettuali.

Ora, va notato in primo luogo che la lettura che Strawson offre di


Della certezza è problematica sotto il profilo esegetico. Si
tratta ovviamente di una questione molto complessa che non
possiamo affrontare in questa sede con l’attenzione che merita.
Tuttavia, è forse utile rilevare che non vi è accordo sul fatto

65
che Wittgenstein abbia sostenuto una forma di naturalismo,
ancorché sui generis nella sua ultima opera. Inoltre, va notato
che vi sono almeno altre due letture altrettanto e probabilmente
più accreditate oggigiorno di Della certezza. Secondo la prima tra
queste, che qui non potrò che schematizzare, Wittgenstein avrebbe
sostenuto una posizione più radicale di quella che gli attribuisce
Strawson: proposizioni come “Esiste il mondo esterno” non
sarebbero proposizioni empiriche, passibili di verifica e
controllo, ma regole. Più esattamente, sarebbero norme di
rappresentazione linguistica ed evidenziale. Quindi, è una regola
del nostro linguaggio che la classe degli oggetti fisici – cioè
degli oggetti che esistono indipendentemente dal fatto che siano
percepiti – non è vuota per cui possiamo dire cose come “a è un
oggetto fisico”; “a esiste da prima che l’umanità esistesse”,
ecc.; ed è inoltre una regola del nostro gioco linguistico
dell’acquisire evidenze che le esperienze sensoriali che abbiamo
vengano riferite a oggetti che esistono indipendentemente da
quelle stesse esperienze sensoriali (o da altre, ovviamente). I
dubbi scettici, quindi, sarebbero non solo innaturali, ma del
tutto insensati, cioè illegittimi, poiché non ha senso dubitare di
una regola. Si può discutere se sia o no utile averla, ad esempio,
ma certo non ha senso chiedersi se una regola rappresenti
correttamente uno stato di cose, e, di conserva, sollevare il
dubbio che lo faccia. Posso infatti chiedermi sensatamente se è
utile fermarsi al semaforo rosso, ma non ha senso che mi chieda se
la regola “Fermati al semaforo rosso” rappresenti correttamente
uno stato di cose indipendente da essa; né, pertanto, ha senso
sollevare un dubbio al riguardo.

La seconda lettura, invece, sostiene che Wittgenstein abbia


proposto di vedere proposizioni quali “Esiste il mondo esterno”
come giustificate, ancorché non tramite evidenze sensibili, né

66
tramite argomenti a priori, ma, per così dire, per default.
Dovremo tornare in seguito (§4) su questa interpretazione. Per il
momento, però, è sufficiente notare che il dubbio posto dallo
scettico riguardo a “Esiste il mondo esterno” mostrerebbe per
l’appunto solo che non possiamo fornirne né una giustificazione
percettiva, né una per via di ragione, ma ciò non esclude che sia
giustificata in altro modo. Quindi il dubbio scettico non sarebbe
né innaturale, né tanto meno insensato, ma sarebbe basato sul
disconoscimento di un terzo tipo di giustificazione che si dà per
la proposizione in questione (e per altre, come vedremo nel §4).

In secondo luogo, lasciando da parte la questione esegetica circa


la corretta interpretazione di Wittgenstein, bisogna notare come
il naturalismo non possa plausibilmente essere una risposta al
paradosso scettico. Quest’ultimo è fin da sempre ineffettuale,
come abbiamo visto nel primo capitolo, ma, ciononostante,
legittimo su un piano logico e metafisico. Pertanto, ci si deve
confrontare con esso mostrando se e in che modo poggi su
assunzioni sbagliate o quanto meno parziali. D’altro canto, non è
un caso che il naturalismo – ancorché della “prima” e non della
“seconda” natura – sia l’esito cui approdò Hume proprio in ragione
del suo scetticismo. Intendo dire che Hume non vide mai il
naturalismo come una risposta allo scetticismo, ma come la sua
ovvia conseguenza: poiché lo scetticismo mostrerebbe
correttamente, in questa prospettiva, che non possiamo avere
giustificazioni né esperienziali né raziocinative per “Esiste il
mondo esterno” e non contemplando giustificazioni di altro genere,
la conseguenza da trarre è che a fondamento di tutte quelle che
noi riteniamo conoscenze vi sono assunzioni che facciamo in
maniera arazionale, cioè senza alcuna giustificazione – vuoi per
ragioni di struttura cognitiva o di inculturazione –. Se
l’obiettivo fosse quindi quello di rintracciare le fondamenta

67
razionalmente sicure delle nostre prassi epistemiche, ne viene
semplicemente che è un fine irraggiungibile, perché al fondamento
vi sarebbero solo assunzioni a loro volta non razionalmente
fondate. (Torneremo nel §6 su questa conclusione).

A questo punto è però utile chiarire che l’esito scettico appena


descritto può essere letto in due modi diversi: uno propriamente
scettico, un altro, invece, di tenore wittgensteiniano e fatto
proprio da molta letteratura epistemologica recente che si ispira
a Della certezza. La lettura scettica di questo esito sostiene che
visto che non abbiamo giustificazioni per le nostre credenze di
base, non ne abbiamo neppure per quelle che da esse dipendono.
Quindi, visto che non abbiamo una giustificazione per “Esiste il
mondo esterno”, dato che vale il Principio di chiusura epistemica,
non ne abbiamo neppure una per “Ecco qui una mano”. In questa
prospettiva lo scetticismo è davvero distruttivo: non solo mostra
che non vi è giustificazione per una delle nostre credenze di
base, ma mostra anche che tutte le nostre credenze sono
ingiustificate (e quindi, a fortiori, che non abbiamo conoscenze,
se la conoscenza ammonta a credenza vera giustificata).

Per contro, la lettura non scettica sostiene che, benché non vi


sia una giustificazione per “Esiste il mondo esterno” e che, in
effetti, tale giustificazione non possa esserci, per le ragioni
esposte dallo scettico, le credenze che riposano su assunzioni
come questa possono tuttavia essere giustificate, proprio tenendo
salde queste stesse assunzioni. Come vedremo (§6, ma cfr. capitolo
2, §2) questo comporterà anche il rifiuto motivato e circoscritto
del Principio di chiusura epistemica. In questa prospettiva, però,
è evidente che lo scetticismo non avrebbe quelle disastrose
conseguenze che lo scettico vorrebbe o, comunque sia, ritiene che

68
abbia. Dopo tutto, la gran parte delle nostre credenze
risulterebbe essere giustificata se non addirittura conosciuta.

2. La risposta disgiuntivista: McDowell

Con l’opera di John McDowell (1994) è diventato uso comune


ritenere che le percezioni – e non le credenze – possano
giustificare le nostre credenze empiriche direttamente. Ciò
significa che, trovandosi a percepire per esempio una mano di
fronte a sé, il soggetto è in uno stato mentale che, come tale, lo
giustifica a formare la credenza “Ecco qui una mano di fronte a
me”. Ovviamente questo sposterebbe il problema scettico solo di un
passo se quello stato mentale fosse identico a quello in cui il
soggetto si troverebbe qualora stesse solo avendo un’allucinazione
come di una mano di fronte a sé, o se la stesse meramente
sognando. Per McDowell, però, non vi è un “fattore comune” tanto
alle percezioni veridiche, quanto a quelle illusorie, cioè
un’esperienza con quel contenuto rappresentazionale e fenomenico
(McDowell 1982). Secondo McDowell, infatti, lo stato mentale di
vedere una mano di fronte a sé e quello di avere un’illusione come
di una mano di fronte a sé (o un sogno con quel contenuto) sono di
tipo diverso e mutuamente esclusivi. Quindi, o sto vedendo una
mano qui di fronte a me e questo mi dà una giustificazione non
inferenziale - cioè diretta – per “Ecco qui una mano di fronte a
me”, che si trasmette alla conclusione; oppure la sto solo
allucinando o sognando e non ho nessuna giustificazione per “Ecco
qui una mano”, né, di conseguenza, per “Esiste il mondo esterno”.
La struttura della giustificazione, nel caso rilevante è quindi la
seguente:

(0) Vedo qui una mano di fronte a me


(1) Vi è una mano qui di fronte a me

69
(2) Se vi è una mano qui di fronte a me, vi è un mondo
esterno
----------------------------------------------------------------
(3) Vi è un mondo esterno

Va ribadito che (0) non è una credenza intrattenuta dal soggetto,


bensì la sua percezione che gli dà immediatamente una
giustificazione per (1). Ora, stando così le cose, mentre la
concezione classica della giustificazione rende la prova
chiaramente circolare poiché “Esiste un mondo esterno” compare sia
come premessa sia come conclusione, la concezione disgiuntivista
non presuppone in nessun modo la conclusione dell’argomento, che
ci dà quindi una giustificazione per credere che vi sia un mondo
esterno.

È utile menzionare per completezza che il pendant di questa tesi,


sul versante del contenuto percettivo, è che per McDowell
quest’ultimo è di natura concettuale. Vale a dire che solo
creature dotate dei concetti necessari per una caratterizzazione
canonica di un dato contenuto percettivo possono avere, secondo
lui, una percezione con quel contenuto. Ne viene quindi che chi
non avesse il concetto di mano, poniamo, non potrebbe avere una
percezione con quel contenuto rappresentazionale. (In realtà
sarebbe forse sufficiente avere i concetti di questo e di oggetto
fisico e la capacità di riconoscerlo nel tempo, ma non possiamo
addentrarci oltre sull’argomento in questa sede). L’idea di
McDowell si può illustrare meglio considerando quelle che sono due
facce della stessa medaglia. Da un lato, McDowell non vuole
considerare la percezione come un processo in due tempi in cui, al
primo stadio si ha un contenuto rappresentazionale non concettuale
e, al secondo, una sua concettualizzazione. Dall’altro, ritiene
che le percezioni abbiano volta a volta il contenuto che hanno

70
perché sono il frutto dell’esercizio passivo di capacità
concettuali che possediamo. Questo esercizio passivo di capacità
concettuali già possedute dal soggetto si concretizza nel fatto
che, posti di fronte a una mano, il contenuto della nostra
percezione ci è già dato come concettualizzato in quel modo. È la
percezione stessa, per un soggetto dotato dei concetti pertinenti,
che gli manifesta una mano data a lui come una mano, ove
quest’ultima occorrenza di “mano” va intesa come una presentazione
di quel concetto al soggetto percipiente nel mentre che gli si
offre una sua esemplificazione “in carne ed ossa”.

Ovviamente quest’ultima tesi è stata oggetto di un fervente


dibattito, perché escluderebbe che per esempio animali e infanti
possano avere percezioni rappresentazionalmente identiche a quelle
dei soggetti adulti dotati dei concetti necessari a descriverle in
maniera canonica.

Non solo, comporterebbe anche il problema che l’acquisizione di


molti concetti risulterebbe circolare. Esemplifichiamo col caso
del concetto di rosso: se per avere il concetto di rosso, poniamo,
si deve essere in grado di riconoscerne un esempio quando ce lo si
trova di fronte, e se, per avere una percezione di rosso, fosse
necessario possedere già il concetto di rosso, non si vede come
sia possibile acquisire quel concetto.

Il problema potrebbe risolversi adottando una qualche forma di


innatismo almeno su alcune classi di concetti; ma, a sua volta,
l’innatismo concettuale è una posizione assai problematica. Quindi
la cura potrebbe rivelarsi peggiore del male.

Più in generale, il dibattito sul contenuto percettivo vede


oggigiorno prevalere numericamente e, io credo, a ragione, i

71
teorici del cosiddetto contenuto non concettuale. Tra questi, i
più noti sono Christopher Peacocke (1992) e, più recentemente,
Tyler Burge (2010). Secondo la loro prospettiva, non è necessario
avere i concetti utili a una caratterizzazione canonica di un dato
contenuto percettivo per poter avere una percezione con quello
stesso contenuto. Ora, se questa posizione è, a mio avviso,
sicuramente da preferire sul piano della filosofia della
percezione, perché risolve il problema delle percezioni di animali
e infanti, e non dà luogo a teorie circolari circa l’acquisizione
di molti nostri concetti, né mette capo all’innatismo, non è
chiaro che sia una posizione facilmente sostenibile sul versante
epistemologico.

Il problema è il seguente: abbiamo detto che le percezioni come


tali dovrebbero dare una giustificazione per le credenze empiriche
corrispondenti al soggetto che le ha. Siamo qui però
tendenzialmente in un ambito latamente internista circa la
giustificazione per cui è necessario non solo che il soggetto si
trovi in quello stato mentale, per avere una giustificazione per
la credenza empirica corrispondente, ma che quella percezione sia
in qualche modo soggettivamente saliente. Il soggetto deve avere
quindi consapevolezza (awareness) del contenuto della sua
percezione (se non anche del fatto che quel contenuto sia appunto
il contenuto di una percezione e non, poniamo, di un’illusione
percettiva, di un’immagine mentale, ecc.). D’altro canto, per
ipotesi, il soggetto non ha i concetti necessari per una
caratterizzazione canonica di quel contenuto. Questo quindi rende
difficile dar conto del fatto che si trovi in uno stato mentale
che possa davvero giustificare l’eventuale credenza
corrispondente. Sembra cioè che, in assenza dei concetti
pertinenti, il contenuto percettivo possa risultare
sottodeterminato rispetto al ruolo giustificativo che dovrebbe

72
svolgere. Mi permetto qui di illustrare con un esempio di vita
vissuta. Mio figlio Leonardo a dieci mesi giocava spesso col
cellulare della nonna di forma oblunga e blu. Vedi caso, la nonna
ha anche un porta occhiali rigido dalla forma e dal colore
analoghi. Ogni tanto Leonardo prendeva il portaocchiali e se lo
portava all’orecchio, così come faceva col cellulare. È evidente
che, in assenza dei concetti di cellulare e porta occhiali
rispettivamente, avendo una percezione dal contenuto non
concettuale molto simile, se si volesse sostenere che questo è
sufficiente a dare una giustificazione per l’eventuale credenza
corrispondente, si dovrebbe inferire che chi si trovasse nelle
condizioni di Leonardo avrebbe una giustificazione per, poniamo,
“Ecco qui un cellulare”. Ma, intuitivamente, non pare che le cose
stiano così e non paiono stare così perché il soggetto non sembra
in grado di discriminare tra una percezione di un cellulare e una
di un porta occhiali. Una tale capacità di discriminazione, per
quanto a volte fallibile, sembra invece necessaria per poter avere
una giustificazione percettiva per “Ecco qui un cellulare” (oppure
per “Ecco qui un porta occhiali”).

Questo a mio avviso non va inteso come un argomento contro la


teoria del contenuto non concettuale della percezione. Va però
interpretato come un argomento che mostra che, per poter avere un
ruolo giustificativo, il mero contenuto percettivo non concettuale
è insufficiente. In particolare, benché io ritenga sia vero che
anche creature prive dei concetti pertinenti possano avere
percezioni dallo stesso contenuto di quelle che hanno, in quelle
condizioni, i soggetti dotati di tali concetti, credo che, per
poter avere un ruolo genuinamente giustificativo, quelle
percezioni debbano essere concettualizzate. È infatti solo
concettualizzandole che possiamo introdurre quegli elementi
discriminativi che le rendono giustificative per le credenze

73
corrispondenti. In altre parole, credo che, quando siamo
interessati a questioni epistemologiche, dobbiamo ammettere che
solo per le creature dotate dei concetti pertinenti e per le quali
quindi il mondo si presenta, nella percezione, come
un’attualizzazione di determinati concetti, le percezioni possano
come tali svolgere un ruolo genuinamente giustificativo. In questo
McDowell ha ragione, a mio avviso. Però questa concettualizzazione
può avvenire e, secondo me deve di fatto avvenire, sulla base di
capacità percettive che le preesistono e che sono comuni agli
esseri umani adulti, agli infanti e a molti animali. Ovviamente a
noi esseri umani adulti questo processo non si dà,
fenomenologicamente, in due tempi. Questo, però, a mio modo di
vedere, è semplicemente il portato del fatto che siamo già in
possesso dei concetti pertinenti e abbiamo familiarità col mondo
che ci circonda.

Fatto questo lungo excursus sul contenuto percettivo e le


condizioni alle quali una percezione può giustificare direttamente
la credenza empirica corrispondente, passiamo a valutare la
risposta di McDowell allo scetticismo. Per ripetere, secondo
McDowell, una volta ammesso che percepire una mano o sognare di
averla sono stati mentali mutualmente esclusivi, che nulla hanno
in comune, se si dà il primo, si è giustificati a credere che vi
sia una mano di fronte a sé e, invero, per McDowell, se ne ha vera
e propria conoscenza, da cui discendono anche la giustificazione e
la conoscenza di “Esiste il mondo esterno”. Nell’altro caso invece
no; ma non è necessario essere in grado soggettivamente di
determinare in quale stato ci si trovi per avere una
giustificazione per quella credenza, qualora appunto si stia
effettivamente vedendo una mano e non la si stia meramente
sognando.

74
Ammettiamo quindi con McDowell che vedere una mano e sognare di
vederla siano due stati mentali mutuamente esclusivi. Supponiamo
anche che se si sta vedendo una mano, questo dia una
giustificazione immediata – cioè non inferenziale – per “Vi è una
mano qui di fronte a me”. Concediamo inoltre – cosa che McDowell
stesso accetta e che deve accettare se vuole argomentare contro lo
scettico e non cambiare discorso – che al soggetto non sia (né
possa essere) evidente se stia effettivamente vedendo una mano,
oppure se la stia solo sognando, poiché il contenuto di quei due
stati mentali è (almeno in linea di principio) soggettivamente
identico. Che cosa permette quindi di assumere di stare vedendo
una mano (0), invece di starla solo sognando e quindi essere nello
stato mentale descrivibile come (0*) “Sto sognando (o avendo
l’allucinazione) di avere una mano di fronte a me)”, da cui,
ovviamente non discenderebbe nessuna giustificazione per (1)-(3)?
Nulla, a meno di non presupporre di essere nel lato della
disgiunzione favorevole, cioè quello in cui non stiamo sognando,
ma stiamo avendo percezioni provocate dall’interazione con oggetti
fisici. Questo però equivale ad assumere quello che si doveva
provare: che vi sia un mondo esterno con cui siamo in relazione
causale attraverso i sensi. Pertanto il disgiuntivismo non evita
la circolarità del paradosso humeano, ma, anzi, la ripropone
(Wright 2002, pp. 302-4).

3. La risposta liberale: G. E. Moore e Pryor

In un celebre saggio del 1939, dal titolo “Proof of an external


world”, George Edward Moore sostenne di poter dare una prova
dell’esistenza del mondo esterno. Moore intendeva il suo argomento
come diretto contro l’idealismo e non contro lo scetticismo, ma
fin da subito la sua prova venne letta anche e soprattutto come un
argomento contro lo scetticismo. La prova di Moore originale aveva

75
una struttura un po’ diversa, ma oggigiorno viene resa perlopiù
come segue:

1) Ecco una mano


2) Se qui vi è una mano, allora vi è un mondo esterno
--------------------------------------------------
3) Vi è un mondo esterno

Secondo Moore, la prima premessa è giustificata sulla scorta della


sua esperienza occorrente di una mano di fronte a sé (e, secondo
lui, è addirittura conosciuta). La seconda premessa è giustificata
a priori, sulla base della riflessione sui nostri concetti di mano
e mondo esterno; la conclusione, infine, è ottenuta tramite modus
ponens. Quindi, secondo Moore, la sua è una buona prova: visto che
le premesse sono giustificate – se non addirittura conosciute – e
la conclusione segue dalle premesse, la conclusione è essa stessa
giustificata – o perfino conosciuta – contrariamente a quanto
ritiene uno scettico.

Come ho accennato, in realtà Moore non credeva che questa prova


fosse sufficiente a risolvere il paradosso scettico. Non riteneva
infatti di aver dato anche una prova del fatto di conoscere (o
essere effettivamente giustificato a credere) la premessa (1) e,
secondo lui, per controbattere a uno scettico sarebbe stato
necessario farlo.

Moore sostenne anche che gli sembrava inequivocabilmente più certo


di vedere una mano di fronte a sé, che non di essere vittima di un
sogno e che pertanto era più certa la conclusione che vi fosse un
mondo esterno da cui quell’esperienza dipendeva di quanto non
fosse la sua controparte scettica. Tuttavia, Moore stesso si rese

76
conto del fatto che uno scettico non sarebbe stato molto
impressionato da un argomento siffatto.

Uno scettico potrebbe dire, infatti, che quello che a Moore sembra
essere certo, o più certo di altro, non dimostra che le cose
stiano come gli paiono. Più in generale, lo scettico sta
sollevando una possibilità logico-metafisica la cui probabilità
soggettiva non deve essere maggiore di quella della sua
controparte non scettica per dar luogo al paradosso. Pertanto
Moore rimase sempre insoddisfatto dalla sua prova, intesa come
argomento antiscettico.

Dal punto di vista dello scetticismo humeano, poi, è chiaro che la


prova di Moore è in realtà l’esemplificazione di quello stesso
paradosso. Ripetiamolo: secondo lo scettico humeano, per avere una
giustificazione percettiva per (1) non è sufficiente avere solo
un’esperienza con il contenuto rappresentazionale e fenomenico
come di una mano. È necessario altresì assumere che sia stata
prodotta dall’interazione col mondo esterno e questa assunzione,
per essere razionale, deve essere a sua volta giustificata. Quindi
la prova non può dare una prima giustificazione per credere che vi
sia un mondo esterno. Posto che non vi sia altro modo di
giustificare quell’assunzione, (3) risulterà ingiustificata e
ingiustificabile.

Tuttavia, in anni recenti, la prova è stata ripresa con favore,


nell’ambito dell’epistemologia contemporanea, ad opera di Jim
Pryor. Secondo Pryor (2000, 2004), si può sostenere che abbiamo
credenze percettive basilari (perceptual basic beliefs), che
formiamo direttamente sulla scorta dell’esperienza e che siamo
giustificati ad avere immediatamente, senza bisogno di nessuna
informazione aggiuntiva. Questo è il cuore di quella che Pryor

77
(2000) considera la posizione del cosiddetto “dogmatista” o
“liberale” circa la giustificazione delle credenze empiriche di
cui Moore e lui stesso sono, sempre secondo Pryor, gli esempi più
chiari. Tra queste credenze percettive basilari vi è “Ecco qui una
mano”, quando viene formata sulla base della nostra percezione. Se
così stanno le cose, cioè se non abbiamo bisogno di nessuna
giustificazione per (3) per avere una giustificazione per (1),
allora abbiamo una giustificazione diretta per (1) che si
trasmette a (3) attraverso l’inferenza corretta. L’argomento non è
quindi circolare.

Tuttavia, Pryor non vuole sostenere che la prova abbia successo


contro lo scetticismo. Secondo lui, infatti, essa è sì inefficace,
ma per mere ragioni dialettiche, non per ragioni epistemiche: lo
scettico, infatti, dubita dell’esistenza del mondo esterno, cioè
ritiene (probabilmente) falso che vi sia, e, quindi, non concede
che si abbia una giustificazione percettiva per (1). Poiché (1)
non è giustificato dal punto di vista scettico, non c’è nessuna
giustificazione che si possa trasmettere da (1) a (3) attraverso
l’inferenza corretta. Secondo la ricostruzione di Pryor, quindi,
lo scettico non considera circolare l’argomento di Moore, ma lo
ritiene semplicemente non in grado di produrre una giustificazione
per (3), poiché parte con una premessa che non è giustificata,
almeno dal suo punto di vista.

La prima cosa da notare è che Pryor, al contrario di Moore, in


effetti pensa che “Ecco qui una mano” sia una credenza percettiva
basilare. Moore non lo credeva perché riteneva che noi avessimo
conoscenza diretta solo dei sense data e quindi, al più, che
potessimo avere conoscenza diretta solo di una parte della mano,
quella appunto visibile quando la teniamo alzata di fronte a noi.
Quindi, al massimo, avremmo potuto avere una giustificazione

78
diretta solo per una credenza come “Ecco una superficie di una
mano”.

Moore nutriva inoltre dei dubbi sulla natura dei sense data e
oscillava tra l’identificarli con le superfici visibili degli
oggetti e il considerarli delle entità mentali. Quest’ultima
concezione renderebbe assai problematica l’attribuzione a Moore
della tesi che vi siano credenze percettive basilari alla maniera
di Pryor. In effetti, Moore stesso sostenne che per avere una
giustificazione per una credenza empirica come (1) sulla base
della propria evidenza sensoriale fosse necessario anche già dare
per scontato che vi sia un mondo esterno. Ma anche lasciando da
parte queste perplessità di ordine esegetico, rimane qualche
dubbio circa la natura di queste credenze percettive basilari.

In primo luogo, ammesso che vi siano, come se ne determina


l’estensione? Per Pryor, infatti, un’esperienza come di un
poliziotto di fronte a sé, o di una zebra, non dà una
giustificazione immediata per “Ecco un poliziotto (o una zebra) di
fronte a me”. La ragione è che la persona potrebbe essere solo
vestita da poliziotto ma non esserlo; o, analogamente, che
potrebbe esserci un mulo sapientemente mascherato da zebra. Ma
allora anche l’oggetto che mi pare essere una mano, data la mia
esperienza visiva attuale, potrebbe essere un pezzo di plastica
abilmente contraffatto in modo tale da sembrare proprio una mano
umana; e così via per molte altre credenze empiriche.

Forse il problema della determinazione della classe delle credenze


percettive basilari si può risolvere supponendo che basti arrivare
a qualcosa di molto generico come “Ecco qui un oggetto fisico, con
certa forma e certo colore (ed eventualmente altre caratteristiche
tattili e olfattive)”.

79
Ora, però, è chiaro che per Pryor le credenze percettive basilari
devono vertere su oggetti materiali, sennò non potrebbero servire
come punti di partenza per un argomento contro lo scetticismo
humeano. Ma, in secondo luogo, è ovvio a questo punto che dovremmo
avere una qualche giustificazione per credere che avere
semplicemente un’esperienza come di un oggetto fisico con certa
forma e colore posto di fronte a noi ci dia subito una
giustificazione per la credenza nell’esistenza di quell’oggetto
materiale e disconfermi quindi la controparte scettica di quella
credenza.

Pryor ammette infatti che, qualora si stesse sognando che qui vi è


un oggetto materiale con certa forma e colore, si avrebbe
un’esperienza soggettivamente identica a quella che si ha quando
lo si vede veramente. L’esperienza, come tale, sembra pertanto
giustificare tanto (1) “Ecco qui un oggetto materiale con certa
forma e colore” quanto (1*) “Sto sognando che qui vi sia un
oggetto materiale con certa forma e colore”. Quindi, l’esperienza
può dare una giustificazione per “Ecco qui un oggetto materiale
con certa forma e colore” solo escludendo già il caso sfavorevole.
Può dunque fungere da giustificazione di (1) solo assumendo già la
conclusione dell’argomento.

Una prima risposta, proposta da Timothy Williamson in


conversazione, consiste nel dire che la nozione di giustificazione
in gioco è quella di giustificazione fallibile. Quindi, si può
avere una giustificazione non conclusiva per (1) “Ecco qui un
oggetto materiale con certa forma e colore” pur non assumendo (3).
Pertanto l’argomento non sarebbe circolare.

Penso si possa ribattere a Williamson che Pryor dà per scontato


che l’esperienza dia solo una giustificazione fallibile per (1).

80
Il punto è che perché sia una giustificazione pertinente (ancorché
fallibile) per (1) e non per (1*) si deve già assumere, magari
implicitamente, che vi sia un mondo di oggetti fisici con cui si
sta interagendo causalmente. (3) è quindi presupposto e
l’argomento continua a essere circolare.

Inoltre, c’è chi ha sostenuto (Cohen 2000 e 2002) che ogni teoria
che sostenga forme di “conoscenza basilare” (basic knowledge) si
espone al problema della cosiddetta “conoscenza facile” (easy
knowledge) o del cosiddetto “bootstrapping” (“autopromozione”).
Vediamo meglio di che cosa si tratta. Intanto per “conoscenza
basilare” si intendono tutte quelle proposte che affermano che
possiamo avere giustificazione immediata – di tipo internista o
esternista – (e addirittura conoscenza) per credere per esempio
che qui vi sia una mano sulla scorta della nostra esperienza.
Quindi l’obiezione non si applica solo alla proposta di Pryor, ma
anche alle teorie affidabiliste della giustificazione, secondo le
quali, visto che la percezione è una facoltà generalmente
affidabile, se “Ecco qui una mano di fronte a me” è una credenza
basata sulla propria percezione occorrente, allora è giustificata.
Anzi, in effetti è stata originariamente formulata proprio contro
le teorie affidabiliste, ma è stata recentemente estesa anche alla
proposta di Pryor. Vediamola ora nella forma che ha preso
ultimamente.

Supponiamo che io abbia un’esperienza con contenuto


rappresentazionale e fenomenico come di un muro rosso di fronte a
me. Stante la concezione liberale della struttura della
giustificazione, essa mi dà immediatamente una giustificazione per
“Ecco un muro rosso di fronte a me”, il che mi permette di avere
anche una giustificazione per “Non sono di fronte a un muro bianco
illuminato di rosso”, oppure per “Non sto avendo l’illusione

81
percettiva di un muro bianco illuminato di rosso”, posto che la
prima proposizione esclude la seconda e la terza. Quindi,
semplicemente sulla scorta della mia esperienza attuale, posso
escludere di essere vittima di un’illusione percettiva. Questo,
però, sembra intuitivamente sbagliato.

Non sono a conoscenza di risposte conclusive a questa obiezione.


Di solito gli affidabilisti sostengono che non sono i soli a
incorrere nell’obiezione e che l’alternativa alla loro proposta è
lo scetticismo, che è un male peggiore della “conoscenza facile”.
Nel caso di Pryor, invece, credo che ingoi la pillola, per così
dire, e che insista sul carattere fallibile della giustificazione
che otterrebbe per la conclusione dell’argomento, cercando così di
mitigare un po’ la forza dell’intuizione che ci dice che seguendo
il procedimento appena descritto non pare proprio che si possa
ottenere una giustificazione per escludere di essere vittime di
un’illusione percettiva.

Però insistere sul carattere fallibile della giustificazione è, a


mio avviso, ancora una volta poco convincente. Il punto
dell’obiezione, infatti, non è tanto che la nostra esperienza da
sola non può escludere con certezza che potremmo essere vittime in
quel determinato caso di un’illusione percettiva. Piuttosto il
punto è che un’esperienza da sola non ci dà nemmeno più ragione di
credere “Ecco qui un muro rosso” che non “Ecco qui un muro bianco
illuminato di rosso”. Per avvedersene è sufficiente notare che
potrebbe essere fenomenologicamente identica sebbene prodotta in
circostanze non standard. Quindi non si vede come, da sola, senza
l’informazione collaterale che sia ottenuta tramite l’interazione
causale con oggetti materiali e per mezzo dell’operazione
tendenzialmente affidabile dei sensi, possa giustificare, ancorché
in maniera fallibile, la proposizione “Ecco qui un muro rosso”.

82
A questo punto si potrebbe ammettere per amore di discussione,
contrariamente all’internismo cui Pryor dice di volere attenersi,
che si possa avere una giustificazione percettiva immediata per
(1) senza presupporre (3), se l’esperienza è affidabile.

Sorgono però due problemi. Il primo è il bootstrapping classico.


Senza alcuna informazione collaterale sull’affidabilità dei sensi,
o sull’esistenza del mondo esterno, ma semplicemente sulla scorta
dell’esperienza, della deduzione e dell’induzione, che sono
considerate fonti affidabili di conoscenza, posso arrivare ad
avere la credenza giustificata (esternisticamente) che i miei
sensi funzionino a dovere e che vi sia un mondo esterno:
l’esperienza occorrente mi dà una giustificazione
(esternisticamente intesa) per “Ecco qui un muro rosso”, che a sua
volta mi può dare, per via deduttiva, una giustificazione per “I
miei sensi stanno funzionando a dovere” e per “C’è un oggetto
fisico”. Reiterando la procedura certo numero di volte, otterrei
quindi induttivamente una giustificazione (esternisticamente
intesa) per le proposizioni più generali “I miei sensi funzionano
a dovere”, “Ci sono oggetti fisici” e anche, ad esempio, “Non sono
vittima di illusioni percettive” e “Non sono vittima di un sogno
lucido e persistente”. Questo però sembra intuitivamente
scorretto.

Un affidabilista o un esternista raffinato come Sosa potrebbe


insistere che invece si avrebbe una giustificazione
esternisticamente intesa per le proposizioni generali appena
menzionate (o addirittura conoscerle). Ma questo solleverebbe il
secondo problema, che è il seguente: quando si ha a che fare con
lo scetticismo, come abbiamo visto nel capitolo 1 (§5) e nel
capitolo 2 (§1), non ci si accontenta solo di possedere una
giustificazione esternisticamente intesa, ma si vuole anche essere

83
in grado di rivendicarla. Consideriamo più in dettaglio la
questione. Per poter rivendicare una giustificazione per (1)
sembra necessario sostenere anche che la propria esperienza è
prodotta dall’interazione con un universo di oggetti fisici,
dall’operazione di sensi che funzionano a dovere e in assenza di
sogni lucidi e persistenti. Quindi, per poter rivendicare la
propria giustificazione per (1), si deve assumere (3), cioè che si
sia nel caso favorevole in cui esiste un mondo esterno, con cui si
è in relazione causale, oppure che i propri sensi funzionino a
dovere e che non si sia vittime di sogni lucidi e persistenti. Ma
a loro volta queste assunzioni dovrebbero essere indipendentemente
giustificate ed esserlo in maniera tale che si sia in grado di
rivendicarne la giustificazione. Ora, nell’ipotesi affidabilista o
esternista di Sosa, ammettendo il bootstrapping, sarebbero
giustificate esternisticamente, ma non si vede come un soggetto
possa razionalmente rivendicare una tale giustificazione. Questa
giustificazione infatti vi sarebbe ma per ragioni esterne
all’individuo, il cui darsi effettivo non può essergli
soggettivamente noto (Stroud 1994, Wright 2007).

In ultimo, merita una più attenta valutazione la ricostruzione che


Pryor dà della posizione scettica. Per lui lo scetticismo è “una
malattia” che non dovremmo prendere e da cui possiamo curarci
avendo bene a mente la concezione corretta della struttura della
giustificazione empirica, che, ovviamente, per Pryor è offerta dal
dogmatismo. Inoltre, secondo lui, lo scettico che dubita (3)
ritiene (molto probabilmente) falso che vi sia un mondo esterno.

Ora, partendo da quest’ultima affermazione, è chiaro che Pryor sta


fraintendendo la posizione scettica. Come abbiamo visto nel
capitolo 1 (§1) lo scettico non è un idealista e non sostiene una
posizione ontologico-metafisica, ma epistemica. Quindi non si

84
impegna a sostenere che sia (probabilmente) falso che vi siano
oggetti fisici. Piuttosto, ritiene che non sia giustificato né
credere che vi siano, né credere che non vi siano. Inoltre, lo
scettico sostiene il proprio agnosticismo sulla base di argomenti,
come quello dell’indistinguibilità dell’esperienza quale ne sia la
causa, che fanno sì leva su possibilità logico-metafisiche, ma
che, se si dà per scontato, come Pryor fa, che quest’ultime siano
legittime, sono difficilmente opinabili.

Se si intende la posizione scettica in questi termini, è ovvio che


rispondere allo scettico dicendo che invece la propria esperienza
come di un oggetto fisico è sufficiente a dare una giustificazione
per la credenza empirica corrispondente sembra essere una
petizione di principio.

Può ovviamente darsi che i paradossi scettici siano risolvibili e


che, una volta che lo siano, ci appaiano come “malattie”
dell’intelletto – “bernoccoli”, avrebbe detto Wittgenstein – che
abbiamo preso per colpa nostra, mal comprendendo qualche aspetto
cruciale della questione. Però è difficile curare una malattia se
non se ne rimuovono le cause e se non lo si fa, trattandosi di
malattie dell’intelletto, in maniera che possa risultare
convincente per l’ammalato stesso. Quindi, semplicemente ribattere
allo scettico che, nonostante la possibile indistinguibilità dai
sogni o dalle allucinazioni, le esperienze che abbiamo ci danno,
come tali, una giustificazione immediata per le credenze empiriche
corrispondenti, non pare sufficiente per ottenere questo secondo
scopo e, pertanto, per curarci davvero dalla malattia
intellettuale che ci affligge.

4. La risposta conservatrice: Wright

85
L’idea che i paradossi scettici riguardino la giustificazione al
second’ordine e che rappresentino quindi delle “crisi di coscienza
intellettuale” (Wright 2004a, pp. 167, 209-11) è alla base della
risposta anti-dogmatica al paradosso scettico humeano recentemente
proposta da Crispin Wright.

Wright nota come alla base di ogni paradosso scettico, sia esso
cartesiano oppure humeano, vi è l’assunzione non ulteriormente
motivata che l’unico tipo di giustificazione per le implicazioni
pesanti – “Non sto sognando in questo momento” ed “Esiste un mondo
esterno” – debba essere acquisita per mezzo dell’esperienza. Nel
caso del paradosso cartesiano questo fa sì che non potremmo mai
sapere se il test per verificare se stiamo sognando in questo
momento sia stato effettivamente eseguito e questo rende
impossibile avere una giustificazione per credere che vi sia
davvero il mondo esterno; nel caso invece del paradosso humeano
questo fa sì che vi sia sempre bisogno dell’informazione
collaterale che vi è un mondo esterno, che rende circolare ogni
tentativo di provare che vi sia.

Ritenendo di stare sviluppando alcune idee di Wittgenstein in


Della certezza (§§342, 151 in particolare, ma si vedano anche
§§56, 82, 318, 628), in cui si dice che appartiene alla “logica” e
al “metodo” delle nostre ricerche che certe proposizioni non
vengano dubitate, Wright sostiene che sia possibile approntare una
strategia di risposta unificata ai due paradossi (Wright 2004a,
pp. 174-5), volta a rivendicare il fatto che abbiamo una
giustificazione per default (entitlement) per le implicazioni
pesanti. Una giustificazione per default non è acquisita né per
mezzo dell’esperienza, né per mezzo della ragione. Secondo Wright,
infatti, non è certo per mera riflessione sul concetto di sogno,
oppure di mondo esterno, oppure di mano (o di un qualunque altro

86
oggetto fisico specifico), che possiamo acquisire una
giustificazione - in questo caso a priori – per credere di non
stare sognando in questo momento, oppure per credere che vi sia un
mondo esterno oppure una mano di fronte a noi. Né possiamo
acquisire giustificazioni siffatte per via empirica, se lo
scettico cartesiano e quello humeano hanno ragione. L’idea quindi
è che siamo giustificati per default – che lo riconosciamo oppure
no – a credere di non stare sognando o che vi sia un mondo
esterno.

Più precisamente, Wright ritiene che abbiamo una giustificazione


per default per accettare “Non sto sognando in questo momento” e
“Esiste il mondo esterno”. Un’accettazione si distingue da una
credenza, secondo lui, per il fatto che mentre quest’ultima
dipende da un qualche tipo di evidenza – empirica o a priori – e
dà luogo o a comportamenti manifesti o ad altre credenze; la prima
non si basa su alcun tipo di evidenza, pur dando luogo allo stesso
tipo di conseguenze cui mettono capo le credenze. Quindi, secondo
Wright, siamo giustificati ad accettare certe proposizioni per
default, ma non a crederle.

Non affronterò qui la questione esegetica se la lettura che Wright


dà di Wittgenstein sia plausibile. Mi limito semplicemente a
rilevare che è assai discussa e discutibile e che ve ne sono di
alternative. Abbiamo già visto infatti l’interpretazione
naturalista che Strawson dà di Della certezza e, nello stesso
paragrafo (§1), abbiamo accennato al fatto che vi è un’altra
lettura secondo la quale proposizioni come “Esiste il mondo
esterno” (e molte altre) hanno, per Wittgenstein, una funzione
normativa e non possano quindi essere in alcun modo giustificate.

87
Si potrebbe inoltre obiettare che la strategia di Wright non è
messa meglio di quelle di Dretske e Nozick e dei contestualisti,
perché non pare offrire una risposta diretta allo scetticismo, ma
limitarsi a contenerne i danni. Infatti, il paradosso scettico
mostra che non possiamo acquisire una giustificazione per credere
che non stiamo sognando in questo momento, oppure per credere che
vi sia un mondo esterno e Wright in effetti concede che questa sia
una conclusione legittima.

A mio avviso, però, la strategia di Wright è almeno sulla carta


superiore a quelle à la Dretske-Nozick e al contestualismo perché
punta a offrire una diagnosi del paradosso scettico che, se
corretta, mostrerebbe che questo si basa sull’assimilazione
indebita della giustificazione tout court alla sola
giustificazione evidenziale, acquisibile in particolare per via
empirica. Quindi non si limiterebbe a contenere i danni del
paradosso scettico, bensì mostrerebbe che dipende da una
concezione troppo ristretta e apparentemente immotivata della
giustificazione. Si tratterebbe perciò di una vera e propria
risposta al paradosso scettico perché, benché non sostenga che
dipenda da un vero e proprio errore nell’argomento, mostrerebbe,
qualora andasse a buon fine, che questo si basa su una concezione
parziale della giustificazione. In particolare, nel caso del
paradosso scettico cartesiano, la prima premessa – che non abbiamo
giustificazioni per “Non sto sognando in questo momento” – sarebbe
falsa, se la nozione di giustificazione comprendesse anche quelle
per default oltre a quelle evidenziali. Nel caso di quello
humeano, invece, se si ammettessero le giustificazioni per
default, allora si avrebbe la giustificazione per “Esiste il mondo
esterno”, necessaria, a sua volta, per avere una giustificazione
percettiva per “Ecco una mano”.

88
Secondo Wright, però, per rivendicare la nostra giustificazione
per “Non sto sognando in questo momento” e “Esiste il mondo
esterno” abbiamo bisogno di due argomenti diversi. Analizziamoli
in quest’ordine.

Sia P una presupposizione di un qualunque progetto cognitivo se


dubitare di P comporterebbe dubitare dell’importanza, o della
possibilità di eseguire competentemente quel particolare progetto.
Supponiamo inoltre che: (i) non abbiamo nessuna ragione sufficiente
per credere che P sia falsa; e che (ii) ogni tentativo di
giustificare P comporterebbe altre presupposizioni che non sono
più certe di P, così che se qualcuno volesse giustificare P, si
impegnerebbe implicitamente a un regresso infinito di progetti
cognitivi.

Assumiamo quindi che P sia “Non sto sognando in questo momento”. È


chiaro che, se P fosse revocata in dubbio, non potremmo più
pensare che un qualunque progetto cognitivo (in particolare uno di
tipo empirico) possa essere eseguito competentemente. Tuttavia,
proprio perché se stessimo sognando non potremmo saperlo, non
abbiamo neppure nessuna ragione sufficiente per credere che P sia
falsa. Inoltre, ogni tentativo di giustificare P comporterebbe
delle presupposizioni: per esempio, che i nostri sensi funzionano
a dovere e che vi è un mondo esterno che è correttamente
rappresentato dalla nostra esperienza. Se però volessimo
giustificare queste presupposizioni, dovremmo essere in grado di
giustificare P e, quindi, ci troveremmo coinvolti in un regresso
di progetti cognitivi.

Secondo Wright, dobbiamo quindi concludere che “Non sto sognando in


questo momento” è una presupposizione di tutti i nostri progetti
cognitivi (di tipo empirico e raziocinativo) per la quale abbiamo

89
quindi una giustificazione per default; pertanto, è razionale
credere di non stare sognando in questo momento, anche se non
possiamo di fatto acquisire nessuna giustificazione evidenziale per
tale credenza.

Se il paradosso scettico cartesiano è bloccato, non significa però


che lo sia quello humeano. Secondo Wright, infatti, questo primo
argomento permette solo di rivendicare la giustificazione per
default per “Non sto sognando in questo momento” e, quindi, la
legittimità razionale dell’uso delle nostre facoltà percettive e
raziocinative, non della nostra credenza che vi sia un mondo
popolato di oggetti fisici che tali facoltà ci permetterebbero di
conoscere. Per questo secondo fine c’è bisogno di un altro
argomento.

Per ammissione stessa di Wright, si tratta di un argomento molto


più abbozzato del primo, che può essere riassunto così: (i) per
avere una concezione oggettiva dell’esperienza la si deve pensare
come dovuta dall’interazione con oggetti che esistono
indipendentemente da questa. (ii) Abbiamo una concezione oggettiva
dell’esperienza. (iii) Dunque dobbiamo avere la concezione di
oggetti che esistono indipendentemente dalla nostra esperienza.

Wright è perfettamente consapevole che questo argomento non impone


di fatto la nostra ontologia, ma la rende solo ammissibile.
Tuttavia, ritiene che questo sia quanto di meglio si possa fare
per rivendicare la nostra giustificazione per default per “Esiste
il mondo esterno”.

Bisogna notare che questo secondo argomento si basa su una


concezione tendenziosa dell’esperienza, il cui requisito di
oggettività impone che la si pensi come vertente su oggetti che

90
esistono indipendentemente da essa. Un idealista potrebbe invece
ritenere che l’esperienza, per essere oggettiva, debba
semplicemente presentare uniformità che non dipendono
necessariamente dal pensare che gli oggetti esistano
indipendentemente dall’essere esperiti. Per esempio, invece che
ritenere che la mia esperienza dello schermo del computer di
fronte a me sia oggettiva solo se la si può considerare prodotta
dall’interazione con un oggetto che esiste indipendentemente dal
fatto che lo si esperisca, si potrebbe ritenere che sia oggettiva
se presenta uniformità spazio-temporali che possano giustificare
certe generalizzazioni. Ad esempio: se guardo in questa direzione,
avrò questa particolare esperienza di una macchia più o meno
quadrata con certi colori e certa luminosità. Se guardo invece da
quest’altra prospettiva, avrò un’altra esperienza di una macchia
di forma più o meno rettangolare con certi colori e certa
luminosità. Se guardo domani nella stessa direzione in cui sto
guardando ora, avrò esperienze identiche a quelle di oggi (o molto
simili e coerenti con quelle passate). Posso quindi decidere di
chiamare “schermo di computer” l’insieme di tali esperienze e non
quell’oggetto la cui esistenza dovrebbe essere indipendente da
quelle e che si suppone esserne la causa. Inoltre, presupporre che
l’uniformità e la coerenza nel tempo delle esperienze dipenda dal
fatto che vi sia un oggetto materiale (un computer), che esiste
indipendentemente dal fatto che lo si percepisca, significherebbe
presupporre qualcosa che non ci è garantito dall’esperienza
stessa: per tutto quello che ne sappiamo, tale uniformità potrebbe
dipendere dal fatto che vi sia uno scienziato, o un demone, che
producono quelle rappresentazioni nella nostra mente.

Ora, va sottolineato che questa obiezione non è tesa ad affermare


la plausibilità dell’idealismo, ma solo il fatto che se seguiamo
Wright rischiamo di giustificare la legittimità razionale

91
dell’assumere che vi siano oggetti fisici tramite un argomento di
tipo trascendentale che poggia su premesse discutibili. Vedremo in
seguito (§6)se, a questo proposito, si può fare di meglio.

Consideriamo ora invece la questione più generale della natura


delle giustificazioni per default. C’è per esempio chi ha
sostenuto (Pritchard 2005b, Jenkins 2007, Williams 2011) che si
tratterebbe non di giustificazioni epistemiche, che corroborano la
verità delle proposizioni in questione, ma pragmatiche. A dire,
non ci darebbero ragioni per credere che sia vero che non stiamo
sognando o che c’è un mondo esterno, ma solo buone ragioni di tipo
pragmatico per fare come se le cose stessero così, visto che
questo ci consentirebbe di mantenere quei “progetti cognitivi” che
ci appartengono e che sono per noi utili e importanti.

Credo ci sia del vero nell’obiezione, ma anche che non colga


quello che, secondo me, è il problema principale della strategia
di Wright. Come si ricorderà, Wright vuole sostenere che in
effetti lo scettico ha torto a ritenere che le nostre assunzioni
di base non siano giustificate. Certo non lo sono in maniera
evidenziale (cioè tramite l’esperienza o ragionamenti a priori),
ma lo sono appunto per default. D’altro canto, le giustificazioni
per default sono, secondo Wright stesso, giustificazioni non al
prim’ordine, ma al secondo. Non si tratta infatti di
giustificazioni che ci danno ragioni, per quanto fallibili, per
credere che sia vero che non stiamo sognando o che c’è il mondo
esterno. In questo senso, quindi, non possono aiutarci a risolvere
il paradosso scettico. Anzi, a ben guardare, non fanno che
ammetterne l’esito, cioè che vi siano assunzioni basilari, che
stanno a fondamento di molti nostri “progetti cognitivi”, come
tali non giustificabili. Quello che le giustificazioni per default
fanno, se funzionano, è darci, semmai, una spiegazione del perché

92
non sia razionalmente sbagliato o immotivato fare queste
assunzioni che, come tali, sono però ingiustificate e
ingiustificabili. Quindi non è lo scettico ad avere una concezione
troppo parziale di giustificazione, che, se corretta tramite le
giustificazioni per default, può far sì che queste assunzioni
siano dopo tutto giustificate. Piuttosto è Wright che non si
avvede del fatto che le giustificazioni per default, che altro non
sono se non argomenti a priori, non sono giustificazioni per
credere vere certe proposizioni, ma per darci una rassicurazione
del fatto che assumere quelle proposizioni, senza che ve ne sia
una giustificazione, è razionalmente accettabile.

Si potrebbe mettere il punto in modo un po’ diverso ma forse utile


a chiarire confrontando la posizione di Wright e quella di un
esternista. Quest’ultimo avrebbe giustificazioni per le
proposizioni di tipo (1) o (3), che rendono le credenze in quelle
proposizioni giustificate e quindi razionali. Tuttavia, quelle
giustificazioni non si possono utilizzare come giustificazioni per
ritenere giustificatamente che le credenze con P come contenuto
siano razionali, aprendo così una “crisi di coscienza
intellettuale”. Wright, invece, avrebbe al più giustificazioni per
“Assumere che esista un mondo esterno (o di non stare sognando) è
razionale”, ma non ne ha per “Esiste il mondo esterno”. Cioè
avrebbe giustificazioni per ritenere vero che assumere che P sia
razionale ma non avrebbe giustificazioni per P – cioè evidenze che
corroborino la verità di P – che renderebbero giustificata
quell’assunzione. Se ne avesse, d’altro canto, avrebbe ipso facto
ragioni per credere che P e non si vede quindi perché dovrebbe
accontentarsi di mere assunzioni.

A questo punto si pone la questione se le giustificazioni per


default di Wright sortiscano almeno questo secondo scopo, quello

93
cioè di dirci perché assumere certe proposizioni come tali
ingiustificate (e ingiustificabili) sia dopo tutto razionale. La
mia impressione è che anche da questo punto di vista siano
problematiche. Come ho già brevemente rilevato, il primo argomento
offerto da Wright sembra mostrare che, poiché formare credenze
empiriche sulla scorta delle nostre esperienze è un progetto
cognitivo per noi importante – io direi addirittura
imprescindibile –, non possiamo non accettare di non stare
sognando. Ma questa è una giustificazione chiaramente pragmatica,
che fa leva sul fatto che il metodo conoscitivo di cui
l’assunzione “Non sto sognando in questo momento” è la base è per
noi utile o addirittura necessario. Uno scettico non avrebbe – io
credo – nessuna ragione di obiettare al fatto che per noi è utile,
o persino imprescindibile, assumere quelle proposizioni. Potrebbe
quindi insistere che, evidentemente, ciò non dimostrerebbe che
quelle proposizioni sono epistemicamente giustificate, cioè che vi
siano ragioni per ritenerle vere. Quindi, mi pare, la strategia
antiscettica di Wright sarebbe del tutto inefficace.

Il secondo argomento, invece, ci dice che per avere la concezione


dell’esperienza che abbiamo non possiamo non assumere che vi siano
oggetti fisici. Ho già avuto modo di rilevare come non sembra
scontato sostenere che le cose stiano così. Per ripetere, la
concezione dell’esperienza come oggettiva potrebbe dipendere,
secondo un idealista, da regolarità e uniformità nelle nostre
percezioni senza bisogno di far leva sull’assunzione che vi sia un
mondo esterno.

In alternativa, si potrebbe dire che di fatto abbiamo uno schema


concettuale in cui la categoria di oggetto fisico non è vuota.
Poiché ci è utile avere uno schema concettuale siffatto, abbiamo
anche una giustificazione per assumere che vi siano oggetti

94
fisici. Ma, a questo punto, è ovvio che uno scettico potrebbe
ammettere che al fine di avere lo schema concettuale che abbiamo
sia necessario assumere che vi sia un mondo esterno, ma sostenere
che, per l’appunto, questo non esclude che, in effetti, non vi
siano oggetti fisici e che il nostro schema concettuale andrebbe
rivisto di conseguenza; oppure che, pur mantenendo il nostro
sistema concettuale, è metafisicamente possibile che le
descrizioni per cui lo utilizziamo siano sistematicamente
scorrette.

Si potrebbe a questo punto far leva sull’esternismo semantico e


dire che, affinché i nostri pensieri (e le loro controparti
linguistiche) abbiano quel contenuto, devono esistere gli oggetti
fisici su cui vertono. (Questo argomento è stato sostenuto in
varie guise da autori come Putnam (1981), ma anche,
sorpredententemente, da Wittgenstein (1969, §369)).

In risposta bisogna notare due cose. La prima è che l’esternismo


semantico è una tesi non scontata e quindi che l’argomento
potrebbe essere impugnato qualora si affermasse l’internismo,
nell’ambito della filosofia della mente e del linguaggio. La
seconda è che, anche se l’esternismo fosse corretto, imporrebbe
solo che si sia stati, o che almeno talvolta si sia ancora, in
relazione causale con gli oggetti fisici con questo garantendo che
i nostri pensieri (e asserzioni) abbiano certo contenuto. Ciò,
però, non stabilisce che noi siamo in grado di sapere se stiamo
ancora o stiamo in questo momento interagendo effettivamente con
tali oggetti, oppure no. In altri termini, la tesi semantica,
ammesso e non concesso che sia corretta, ne implica una ontologico
metafisica, ma non ha effetto sul problema epistemico sollevato
dallo scetticismo. E, d’altro canto, che l’esternismo semantico
sia da sempre aperto a obiezioni di tipo epistemico è evidente per

95
il fatto stesso che pone le condizioni di individuazione del
contenuto al di là delle capacità di riconoscimento del soggetto.
Nel caso di Oscar e il suo gemello, discusso da Puntam (1975) (o
nel caso dei pensieri singolari alla Evans (1982) e McDowell
(1984)), due soggetti potrebbero avere contenuti di pensiero
fenomenologicamente identici del tipo “Ecco dell’acqua” e “Questa
è la mia mano” e solo uno avere effettivamente un pensiero
sull’acqua o il pensiero singolare in questione. L’opacità del
contenuto semantico, quindi, che è l’effetto dell’esternismo
semantico, è da sempre una condizione favorevole alla
compatibilità, almeno a certe condizioni, tra esternismo semantico
e scenari scettici.

Quindi, per concludere, a me pare che la strategia delle


giustificazioni per default approntata da Wright non risolva il
paradosso scettico. Non fornisce infatti giustificazioni al
prim’ordine – che corroborino cioè la verità di proposizioni come
“Non sto sognando” e “Esiste il mondo esterno” –, ma solo
giustificazioni per ritenere che fare certe assunzioni, vertenti
su proposizioni come tali ingiustificate, sia razionale. Inoltre,
a ben guardare, le ragioni che offre a giustificazione
dell’assumere quelle proposizioni sono, al più, di tipo pragmatico
e quindi del tutto compatibili con la posizione scettica.

5. Tra liberali e conservatori I: le strategie a priori di


Wedgwood e Sosa

Come c’era da attendersi la disputa tra liberali à la Pryor e


conservatori à la Wright ha recentemente dato luogo a proposte
alternative, che cercano di sostenere una sorta di via di mezzo
tra queste due prospettive. Si tratta di risposte in fieri, perciò

96
difficili da valutare pienamente, ma che meritano ciononostante un
accenno.

Il tratto comune di queste strategie è che cercano, ancorché con


strumenti diversi, di dare una giustificazione a priori di
assunzioni molto generali come “Esiste il mondo esterno” e “Non
sono vittima di un sogno lucido e persistente”. Come vedremo,
però, questo comporta anche una revisione massiccia e non scontata
della nozione stessa di a priori. In ogni caso è ovvio che in
questo modo sposano per un verso l’idea di Wright che queste
assunzioni per essere razionali debbano essere giustificate e, per
un altro, rifiutano la strategia delle giustificazioni per default
propugnata da Wright stesso e si pongono l’obiettivo più ambizioso
di dare giustificazioni a priori per credere vero che vi sia un
mondo esterno e che non si sia vittime di un sogno lucido e
persistente.

A mio modo di vedere, il fatto di cercare di fornire


giustificazioni a priori per queste assunzioni è sufficiente per
farne tutte delle varianti della posizione conservatrice di
Wright. Ma vedremo come gli autori che prenderemo in
considerazione non la pensino propriamente così. Iniziamo quindi
col primo tra questi: Ralph Wedgwood.

Secondo Wedgwood, si può mostrare anche con strumenti semi formali


desunti dal calcolo delle probabilità che un’esperienza col
contenuto rappresentazionale e fenomenico di una mano non può
giustificare, da sola, “Non sto sognando di vedere una mano di
fronte a me ora”. Come tale, infatti, farebbe addirittura
innalzare la probabilità dell’ipotesi scettica specifica contraria
(cfr. §3). Quindi, secondo Wedgwood, questo dimostra, di contro
alla posizione liberale, che l’esistenza di una giustificazione

97
per escludere di essere nello scenario scettico specifico
compatibile con l’esperienza che si sta avendo in quel momento è
una conseguenza necessaria dell’avere una giustificazione
percettiva per “Ecco qui una mano”. Tuttavia, secondo Wedgwood,
tale giustificazione non spiega, contrariamente a quanto sostiene
il conservatore, il fatto che l’esperienza che si sta avendo sia
una giustificazione per credere “Ecco qui una mano”. Anzi, è
proprio il fatto che, come vuole il liberale, si sia
immediatamente giustificati a credere proposizioni come “Ecco qui
una mano” sulla scorta della propria esperienza, che spiega perché
si sia giustificati a credere che esiste un mondo esterno o che
non si sia vittime di un sogno lucido e persistente.

Il tipo di giustificazione a priori che abbiamo per queste


proposizioni, infatti, dipende da una sorta di argomento
bootstrapping, che fa leva sul fatto di essere giustificati a
formare credenze empiriche direttamente sulla scorta delle proprie
esperienze occorrenti, purché non vi siano ragioni per credere il
contrario. Tuttavia è un argomento bootstrapping un po’ diverso da
quelli che abbiamo visto nel §3, per il fatto appunto di essere a
priori. Vediamolo nei dettagli.

Si supponga che ci sia un processo di ragionamento razionale che


possa condurre ciascun soggetto che possieda i concetti pertinenti
e abbia capacità cognitive adeguate a credere queste proposizioni,
da qualunque stato mentale si trovi. Per sua natura, tale
ragionamento non è empirico e dà quindi ai soggetti che lo possono
condurre una ragione a priori per credere quelle proposizioni. Si
assuma inoltre che tutte le seguenti pratiche di formazione di
credenze siano necessariamente razionali, per ogni soggetto che
abbia i concetti e le capacità cognitive pertinenti: (i) la
pratica di prendere le esperienze al loro valore nominale, in

98
assenza di ragioni contrarie, per formare le credenze empiriche
corrispondenti; (ii) la pratica di inferire “Ho un’esperienza con
contenuto che P e non vi sono ragioni per credere il contrario” a
partire dalla propria credenza che P riguardante un oggetto
fisico, basata sulla propria esperienza occorrente; (iii) la
pratica di formare la credenza condizionale “Se P allora Q” in
risposta all’avere razionalmente inferito la proposizione Q dalla
supposizione della proposizione P; (iv) la pratica di formare
credenze per via deduttiva a partire da proposizioni che si
credono già razionalmente; (v) la pratica di formare credenze
sulla base di inferenze alla spiegazione migliore a partire da
proposizioni che si credono già razionalmente.

Dati (ii) e (iii) è razionale formare la credenza condizionale “Se


ho un’esperienza con contenuto che P e non ci sono ragioni
contrarie, allora P”. Ma questa credenza è incompatibile con
proposizioni scettiche specifiche come “In questo momento sto
sognando che P”. Questo tipo di ragionamento, inoltre, è possibile
per un gran numero di proposizioni empiriche P 1…Pn. Quindi, dato
(iv), è razionale formare la credenza che congiunge ciascuna delle
credenze condizionali specifiche “Se ho un’esperienza con
contenuto che P1 e non ci sono ragioni contrarie, allora P1; e se
ho un’esperienza con contenuto che P2 e non ci sono ragioni
contrarie, allora P2; … e se ho un’esperienza con contenuto che P n
e non ci sono ragioni contrarie, allora Pn”. Se questa congiunzione
è vera, richiede una spiegazione. Dato (v) la spiegazione migliore
è che, se non ci sono ragioni contrarie, allora le mie esperienze
sono per lo più affidabili, il che è incompatibile con le ipotesi
scettiche del tipo “Sono vittima di un sogno lucido e persistente”
e “Non c’è un mondo esterno”. Pertanto, questo processo di
ragionamento razionale, detto “ragionamento bootstrapping a
priori”, può condurre qualunque soggetto dotato dei concetti e le

99
capacità cognitive pertinenti a credere la negazione delle ipotesi
scettiche e spiega quindi perché abbiamo una giustificazione a
priori per farlo. Infine, è importante rilevare che, se Wedgwood
ha ragione, vi sarebbero giustificazioni a priori per proposizioni
empiriche contingenti, come “Non sto sognando in questo momento”,
che, invero, sarebbero giustificate a priori anche se fossero
false, qualora si fosse in uno scenario scettico.

Come si è detto, questo argomento riposa sull’assunzione (i) e


cioè che la pratica di prendere le esperienze al loro valore
nominale, in assenza di ragioni contrarie, per formare le credenze
empiriche corrispondenti sia razionale. Wedgwood ammette
esplicitamente di non aver fatto nulla per dimostrare la liceità
di questa assunzione. Chiaramente uno scettico humeano la negherà:
dal suo punto di vista, se non si ha già una giustificazione per
escludere di essere in uno scenario scettico (per quanto
specifico), non si può razionalmente prendere la propria
esperienza al suo valore nominale per formare le credenze
empiriche corrispondenti.

A dire il vero, in altra sede Wedgwood (2011b) fornisce un


argomento atto a stabilire la razionalità del formare credenze
empiriche prendendo l’esperienza al suo valore nominale, in
assenza di ragioni contrarie, che fa leva essenzialmente sul fatto
che, per avere certi concetti, è necessario formare credenze che
comportano l’uso di quei concetti, immediatamente sulla scorta di
esperienze con quel contenuto rappresentazionale. (Un argomento
analogo si può trovare in Peacocke 2004). Non importa qui entrare
nei dettagli, né dilungarsi sul fatto – opinabile – che l’assenza
di credenze collaterali faccia sì che tali pratiche di formazione
delle credenze vengano dette “a priori”. Dopo tutto, infatti,
rimangono pur sempre fondate epistemicamente sull’esperienza.

100
Quello che si deve rilevare, piuttosto, è che anche qualora sia
vero che almeno talvolta quelle pratiche debbano averci condotto a
credenze vere, ciò non impedisce, come d’altronde Wedgwood stesso
ammette, che ci si affidi ad esse anche in scenari scettici in cui
non produrrebbero credenze vere. Quindi non si vede in che senso
possano essere utilizzate nel tentativo di dare una risposta
convincente al paradosso scettico.

Vi è poi un problema ulteriore che ha a che vedere con la


stabilità della proposta di Wedgwood, ovvero con la perplessità
che possa ricadere su l’una o l’altra delle posizioni da cui vuole
prendere le distanze. Se, infatti, c’è una giustificazione
immediata per “Ecco qui una mano”, data la propria esperienza
sensoriale e l’assenza di ragioni contrarie, perché questo non
dovrebbe dare anche una giustificazione per la negazione delle
ipotesi scettiche? Che cosa c’è di sbagliato nell’inferenza da
“Ecco qui una mano” – che, per ipotesi, è una premessa
giustificata immediatamente dalla propria esperienza in quelle
condizioni – a “Esiste il mondo esterno” o “Non sto sognando in
questo momento”? Non è chiaro, visto che Wedgwood non nega il
Principio di chiusura epistemica e non si impegna sul fatto che
l’argomento à la Moore sia un esempio di fallimento della
trasmissione della giustificazione. Quindi la posizione intermedia
di Wedgwood sembra collassare sulla tesi liberale di Pryor.
D’altro canto, se Wedgwood sostenesse che l’esperienza da sola non
può dare una giustificazione per “Ecco qui una mano”, perché
questo ipso facto darebbe una giustificazione per escludere di
essere in uno scenario scettico e sostenesse anzi che l’avere una
giustificazione percettiva per quella proposizione ha come
conseguenza necessaria che vi debba essere una giustificazione per
“Esiste il mondo esterno” o “Non sto sognando in questo momento”,
allora ricadrebbe nella posizione conservatrice di Wright.

101
Il fatto che possa sembrare altrimenti dipende, secondo me, da una
confusione tra giustificazioni in possesso dei soggetti e
giustificazioni proposizionali, causata forse dall’internalismo
forte sottoscritto da Wedgwood, secondo il quale ogni qual volta
si parla di giustificazioni si sta di fatto parlando di
giustificazioni effettivamente possedute dai soggetti. Sia come
sia, ricorderemo che la differenza tra Pryor e Wright si misura
invece sul piano delle giustificazioni proposizionali. In questa
prospettiva, se si è convinti, come lo è Wedgwood, che le
esperienze da sole non possano giustificare la credenza nella
negazione delle ipotesi scettiche, ma che, a tal fine, vi debbano
essere giustificazioni indipendenti, allora si è già dei
conservatori; poco importa se, dal punto di vista delle
giustificazioni disponibili ai soggetti, queste giustificazioni si
acquistino dopo aver acquisito la capacità di formare credenze
empiriche sulla scorta delle proprie esperienze e le capacità
cognitive e concettuali necessarie a riflettere su tale prassi.
Infine, è solo dal punto di vista delle giustificazioni
disponibili ai soggetti che, una volta ammesso che le esperienze,
come tali, non possono giustificare la credenza in ipotesi
antiscettiche, si può continuare a pensare, in qualche modo in
linea col dogmatista, che le esperienze come tali giustifichino
direttamente i soggetti a formare le credenze empiriche
corrispondenti. È infatti solo da questo punto di vista che è
plausibile l’idea che i soggetti non debbano già avere una
giustificazione per credere nella negazione delle ipotesi
scettiche al fine di formare credenze empiriche sulla scorta delle
loro esperienza in assenza di ragioni contrarie. Ma, ripetiamolo,
la disputa tra Wright e Pryor è sulle giustificazioni
proposizionali e, stando così le cose, la posizione di Wedgwood è
instabile. Ricade infatti ora su quella liberale di Pryor, ora su

102
quella conservatrice di Wright e non pare offrire un’alternativa a
nessuna delle due.

Infine, abbiamo visto che per Wedgwood vi sono proposizioni


empiriche contingenti come “Non sto sognando in questo momento”
che sono giustificate a priori e che continuerebbero a esserlo
anche se fossero false, qualora ci si trovasse, per esempio, in
uno scenario scettico.

Ora, non è questa la sede per una discussione approfondita della


nozione di a priori. Merita però una menzione il fatto che se così
fosse si mostrerebbe come gli argomenti volti a dare una
giustificazione a priori per queste proposizioni non ne
dimostrerebbero in alcun modo la verità. Si produrrebbe quindi la
conseguenza paradossale che il possederne una giustificazione a
priori sarebbe del tutto compatibile con la verità dell’ipotesi
scettica, il che renderebbe questa strategia di risposta allo
scetticismo quanto meno dubbia rispetto al progetto di trovare una
soluzione al paradosso scettico.

Un’altra proposta, al momento molto più abbozzata di quella di


Wedgwood, che sostiene che proposizioni come “Esiste il mondo
esterno” sono addirittura conosciute a priori (e quindi vere), è
stata recentemente formulata da Ernest Sosa (2011). Secondo lui,
possiamo spiegare come abbiamo conoscenza di certe proposizioni,
tra cui “Esiste il mondo esterno”, facendo appello alla nozione di
competenza razionale, anche se non siamo ancora in grado di
spiegare in dettaglio come tale competenza funzioni. Il resoconto
è il seguente.

Il soggetto S ha una intuizione umana competente razionalmente che


P se e solo se: (i) semplicemente la comprensione di P lo spinge

103
ad assentire a P, indipendentemente dal fatto che S abbia qualche
altra ragione che lo spinga ad assentire a P oltre alla
comprensione di P; (ii) il meccanismo che lo spinge ad assentire a
P, sulla base della comprensione di P, indipendentemente da ogni
altra base razionale, è una competenza epistemica; (iii) tale
meccanismo opera negli esseri umani generalmente nel corso
abituale del loro sviluppo, visto che dà ai soggetti i concetti
costitutivi di P insieme alla propensione ad assentire a P.

Ora, il punto rilevante per i nostri scopi è che una competenza


razionale siffatta darebbe luogo a una conoscenza intuitiva di P,
cioè a una conoscenza che non è basata sull’esperienza. Sosa
infatti ritiene che avere conoscenza di proposizioni empiriche
specifiche come “Ecco qui una mano”, sulla scorta della propria
esperienza, dipenda a sua volta dal fatto di avere conoscenza di
proposizioni come “Esiste il mondo esterno”. Quest’ultima
conoscenza non può però a sua volta ottenersi per mezzo
dell’esperienza. In questo senso la conoscenza che avremmo di tale
proposizione sarebbe a priori, benché dipendente dal funzionamento
di una nostra competenza epistemica, di cui peraltro ignoriamo la
natura e il funzionamento.

Come ho detto, la proposta di Sosa è molto abbozzata ed è quindi


difficile valutarla appieno. Viene però da chiedersi che cosa
aggiunga all’idea a priori classica per cui potremmo avere
conoscenza di “Esiste il mondo esterno” semplicemente attraverso
la riflessione sui concetti coinvolti nella caratterizzazione di
quella proposizione. Viene inoltre da domandarsi come possa
contrastare l’obiezione che, per quanto ci sembri intuitivo
assentire a “Esiste il mondo esterno”, potremmo, ciò non di meno,
trovarci in uno scenario scettico. In altre parole, benché
assentire a “Esiste il mondo esterno” sia per noi naturale, posto

104
che abbiamo i concetti in gioco, un tale assenso spontaneo non
pare sufficiente per determinare che sia vero che c’è un mondo
esterno intorno a noi e quindi a determinare che sappiamo che vi
è.

Ovviamente si potrebbe dire che se un assenso siffatto è l’effetto


dell’esercizio di una reale competenza epistemica, ciò garantisce
che verta su proposizioni vere. Ma, a questo punto, è necessario
dire qualcosa in più sulla natura e l’operare di una tale
competenza per garantire che “tenga traccia” della verità.

Inoltre, si può immaginare che questa competenza possa essere


stata attivata in condizioni tali da dar luogo solo a credenze
vere (in effetti a conoscenze), ma che, successivamente, essendo
stati inseriti a nostra insaputa in uno scenario scettico,
continui a operare ma non garantisca più la verità delle
proposizioni credute per suo tramite e quindi il fatto che le
conosciamo.

Anche in questo caso, quindi, saremmo giunti alla conclusione


controintuitiva che si possano avere credenze giustificate a
priori ma false; il che ancora una volta rende dubbia l’efficacia
antiscettica della strategia a priori.

6. Tra liberali e conservatori II: la risposta moderata

Tiriamo un po’ le somme. Per prima cosa abbiamo visto che nella
disputa tra Wright e Pryor è ormai da più parti rilevato, anche
facendo appello a strumenti formali desunti dal calcolo delle
probabilità (White 2006), che quest’ultimo ha torto a ritenere
che, in assenza di ragioni contrarie, l’esperienza possa essere
una giustificazione immediata per “Ecco qui una mano”, senza

105
assumere o dare per scontato – certamente in maniera implicita –
che vi sia un mondo esterno. Questo però non implica ipso facto,
di contro a quello che sostiene Wedgwood, che vi debba essere una
giustificazione a priori per quella proposizione. Né implica,
contrariamente a quanto ritiene Wright, che, perché sia
razionalmente legittimo credere “Ecco qui una mano” sulla base
della propria esperienza, si debba avere una giustificazione – non
empirica, né strettamente a priori, ma per default – per “Esiste
il mondo esterno”. Al di là infatti dei problemi specifici cui
vanno incontro le strategie a priori o della giustificazione per
default, che abbiamo analizzato nei §§4-5, tutto quello che segue
dalla critica alla posizione liberale è solo che per avere una
giustificazione empirica basata sulla propria esperienza
occorrente, in assenza di ragioni contrarie, bisogna fare delle
assunzioni collaterali e, in particolare, che vi sia un mondo
esterno, che i propri sensi funzionino perlopiù a dovere e che non
si sia vittime di un sogno lucido e persistente. Quindi, a rigore,
rimane da esplorare più a fondo l’ipotesi che la struttura della
giustificazione empirica non sia né quella proposta dai liberali,
né quella avanzata dai conservatori, ma sia, in effetti, quella
che potrebbe essere sostenuta dai cosiddetti “moderati”. Per
ripetere: per avere una giustificazione per proposizioni
specifiche come “Ecco qui una mano”, c’è bisogno, in assenza di
ragioni contrarie, oltre che dell’esperienza appropriata, anche di
un’assunzione collaterale riguardante una o più delle
“proposizioni pesanti” appena menzionate. In questo modo, la
propria esperienza occorrente può costituirsi come giustificazione
per “Ecco qui una mano” piuttosto che per la sua controparte
scettica “Sto sognando di vedere una mano”, anche se ovviamente si
tratta di una giustificazione fallibile.

106
Dire che si può meramente dare per scontato che vi sia un mondo
esterno, ancorché non si abbia nessuna giustificazione per farlo,
né empirica né per default, può tuttavia indurre a credere che qui
si stia proponendo una forma di esternismo. È quindi importante
notare che non si sta sostenendo che, purché sia vero che esiste
un mondo esterno, si ha ipso facto una giustificazione percettiva
(fallibile) per “Ecco qui una mano”, se si ha l’esperienza
corrispondente e in assenza di ragioni contrarie. Al contrario,
quello che si sta affermando è che noi siamo impegnati (committed)
alla verità di quella proposizione e agiamo di conseguenza, ma
questo non vuol dire proporre una posizione riguardante le
condizioni metafisiche della realtà date indipendentemente da noi;
vuol dire piuttosto avanzare una tesi sulla nostra condizione
epistemica. A dire, noi siamo impegnati alla verità di quella
proposizione e questo, insieme a certo tipo di esperienze
occorrenti, in assenza di ragioni contrarie, ci dà una
giustificazione per proposizioni empiriche specifiche come “Ecco
una mano”.

Ovviamente potrebbe essere vero che c’è un mondo esterno e,


quindi, la posizione moderata non va vista come incompatibile con
l’assunto fondamentale delle posizioni esterniste. Il punto, però,
è che la posizione filosofica che si sviluppa intorno alla
concezione moderata della giustificazione percettiva non dipende
da questa assunzione ulteriore, da cui invece partono le posizioni
esterniste.

A ben guardare, inoltre, la posizione moderata non è nuova, anche


se può essere inedito chiamarla così: naturalisti à la Hume e
Strawson e pragmatisti si possono considerare dei moderati
riguardo alla natura della giustificazione empirica. Dopo tutto,
sia gli uni che gli altri ritengono che le nostre giustificazioni

107
empiriche specifiche si basino, oltre che sull’esperienza
occorrente, anche su assunzioni collaterali che, per i primi, è
per noi naturale – in qualche senso di “naturale” – fare e che,
per i secondi, sono pragmaticamente razionali.

La posizione moderata deve quindi affrontare tre sfide principali,


per risultare plausibile. La prima è quella di chiarire la natura
delle assunzioni da cui fa dipendere l’esistenza delle
giustificazioni empiriche; la seconda è quella di dare un verdetto
sull’efficacia di argomenti à la Moore e quindi stabilire se si
possa acquisire una giustificazione empirica per proposizioni
generali come “Esiste il mondo esterno”, oppure no; la terza è
quella di trovare una risposta convincente al paradosso scettico:
se le posizioni naturaliste e pragmatiste sono specie di
moderatismo ma non sono in grado di risolvere il paradosso
scettico, come abbiamo visto nel corso di questo capitolo, si può
elaborare una posizione moderata che a questo proposito sappia
fare di meglio?

Quanto alla prima sfida, assumere che P significa, in questo


contesto, essere impegnati alla verità di P e agire razionalmente
e praticamente di conseguenza. In questo senso assumere che P è
diverso dal fare l’ipotesi che P, rispetto alla cui verità il
soggetto può essere incerto, agnostico o addirittura dubbioso. Né
vuol dire, come abbiamo visto, sostenere una posizione esternista.

Un problema ulteriore concernente le assunzioni è quale realtà


psicologica debbano avere. È infatti certo che i bambini, ad
esempio, non siano in grado di intrattenere una proposizione come
“Esiste il mondo esterno”, perché non hanno i concetti pertinenti,
eppure vorremmo dire che, sulla scorta di esperienze percettive

108
appropriate, in assenza di ragioni contrarie, sono giustificati a
credere, per esempio, “Ecco qui la mia mano”.

Come abbiamo già visto, se ci si occupa di giustificazioni


proposizionali, le capacità cognitive dei soggetti sono
irrilevanti rispetto al problema. Ciò nonostante, io credo sia
interessante indagare più a fondo la questione. Sarebbe infatti
utile e fruttuoso se una posizione valida sul piano delle
giustificazioni proposizionali risultasse plausibile anche su
quello delle giustificazioni doxastiche e delle giustificazioni
razionalmente accessibili ai soggetti.

A mio modo di vedere si può dire di un soggetto che assume


implicitamente P, anche se non ha i concetti per intrattenere
quella proposizione, se è in grado di prendere parte a una prassi
che ha quella assunzione come precondizione della sua
intelligibilità. Quindi, ad esempio, visto che usare la propria
esperienza percettiva come giustificazione per “Ecco la mia mano”,
piuttosto che per una sua qualche controparte scettica, in assenza
di ragioni contrarie, è intelligibile solo sulla scorta del dare
per scontato che ci sia un mondo esterno, che i nostri sensi
funzionino per lo più a dovere e non si sia vittime di sogni
lucidi e persistenti, si può dire che il soggetto assuma quella
proposizione anche se non ha i concetti per intrattenerla.

Passiamo ora al secondo problema e cioè se sia possibile acquisire


una giustificazione per “Esiste il mondo esterno” attraverso
argomenti à la Moore, una volta che si sia abbracciata la
concezione moderata della giustificazione. Secondo un moderato, al
fine di avere una giustificazione percettiva per “Ecco qui una
mano”, basta assumere, in assenza di ragioni contrarie, che ci sia
un mondo esterno e avere un’esperienza con contenuto appropriato.

109
Inoltre, “Ecco qui una mano” implica “Esiste il mondo esterno”. Ne
viene quindi che si avrebbe anche una giustificazione percettiva
per “Esiste il mondo esterno”. Il moderatismo, che è una tesi
circa la struttura della giustificazione percettiva, avrebbe
pertanto lo stesso esito del liberalismo rispetto alla cogenza
epistemica della prova di Moore.

Ovviamente è possibile sostenere il moderatismo circa la struttura


della giustificazione empirica divorziando la questione da quella
dell’efficacia epistemica della prova di Moore e vedendo le due
prospettive come compatibili. (A questo proposito, si veda
Ferrari&Orlandelli 2011). Però, a mio modo di vedere, questo non è
auspicabile da un punto di vista filosofico più generale. La
ragione è questa. Interroghiamoci su come siamo arrivati alla
posizione moderata. Abbiamo visto che nasce dall’insoddisfazione
per il liberalismo di Pryor e dalla conseguente ammissione che,
per avere giustificazioni percettive per proposizioni empiriche
specifiche, si debbano fare assunzioni collaterali come tali non
giustificate, a meno di non ricorrere a strategie a priori o della
giustificazione per default, che paiono assai problematiche per
ragioni indipendenti.

A questo punto nasce spontanea la seguente perplessità: come può


un argomento in cui la giustificazione per una delle premesse
dipende dall’assumere la conclusione, fornire una giustificazione
per quella stessa conclusione? Non si tratta forse di una forma
illecita di bootstrapping in cui prima si assume Q per poi essere
giustificatamente in grado di inferire “P; se P allora Q; dunque
Q”?

Detto in altri termini, sembra che ci sia qualcosa di illecito


nell’ottenere una giustificazione per “Esiste il mondo esterno”

110
attraverso un ragionamento, come quello di Moore, che non potrebbe
partire con una premessa giustificata a meno di non stare già
assumendo, senza alcuna giustificazione per farlo secondo il
moderatisimo, quella stessa proposizione. Si pensi al caso analogo
in cui si volesse giustificare “La Terra esiste da moltissimo
tempo” per mezzo di un argomento come “Questo fossile risale a
milioni di anni or sono; se questo fossile risale a milioni di
anni or sono, allora la Terra esiste da moltissimo tempo; dunque
la Terra esiste da moltissimo tempo”. È importante notare che la
prima premessa del ragionamento, per essere giustificata, deve
basarsi su certa evidenza e sul dare per scontata la conclusione e
non sembra quindi in grado di produrre una genuina giustificazione
per essa. Più in generale, il problema, posto anche dallo
scetticismo e da coloro che si sono opposti alla easy knowledge e
al bootstrapping empirico, è che una prassi giustificativa, che
riposa su premesse come tali non giustificate, non sembra in grado
di produrre una giustificazione per esse.

Wright, in fin dei conti, ha sostenuto la stessa cosa nel momento


in cui ha notato come l’argomento di Moore non trasmette la
giustificazione. La sua nozione di fallimento della trasmissione
della giustificazione, però, fa appello a un’idea leggermente
diversa e cioè che l’assunzione che garantisce la giustificazione
per la prima premessa sia a sua volta giustificata (cap.2, §2). La
circolarità epistemica dell’argomento di Moore risulta quindi dal
fatto che per avere una giustificazione per la premessa è già
necessario avere una giustificazione per la sua conclusione.

La circolarità, però, rimane, a mio avviso, se è la mera


assunzione della conclusione dell’argomento ad essere necessaria
per far sì che quest’ultimo parta con premesse giustificate. Ciò
significa che, in effetti, vi sarebbero due tipi di fallimento

111
della trasmissione della giustificazione: quello di Wright e
quello appena introdotto. Possiamo riassumerli e definirli come
segue.

Fallimento della trasmissione della giustificazione 1: un


argomento (logicamente valido) non trasmette la
giustificazione dalle premesse alla conclusione se e solo se
è necessario avere già una giustificazione per la conclusione
per avere una giustificazione per una o più delle premesse.

Fallimento della trasmissione della giustificazione 2: un


argomento (logicamente valido) non trasmette la
giustificazione dalle premesse alla conclusione se e solo se
è necessario assumere la conclusione per avere una
giustificazione per una o più delle premesse.

Si noti che questo tipo di Fallimento della trasmissione della


giustificazione si avrebbe quando l’assunzione della conclusione
rientra tra le condizioni costitutive della giustificazione di una
o più premesse e non semplicemente tra le condizioni che
contingentemente possono darsi nel processo di acquisizione di
quelle giustificazioni.

A mio modo di vedere (ma si veda a questo proposito Coliva 2011a)


queste due nozioni di fallimento della trasmissione della
giustificazione non sono in alternativa l’una all’altra. Mi pare
infatti che la seconda si applichi a tutti i casi – che sono poi
quelli filosoficamente più interessanti – in cui le assunzioni non
possano essere giustificate in nessun modo. La prima, invece, si
applicherebbe a tutti quei ragionamenti in cui le conclusioni
sono, almeno in linea di principio, giustificabili in maniera
indipendente dall’argomento in questione. Un esempio di Fallimento

112
di tipo 1 sarebbe quindi l’esempio già incontrato (capitolo 2, §2)
della zebra:

1) Ecco qui una zebra


2) Se questa è una zebra, non è un mulo sapientemente travestito
3) Questo non è un mulo sapientemente travestito

È infatti possibile almeno in linea di principio ottenere una


giustificazione per (3) indipendentemente dalla propria esperienza
visiva occorrente, che è ciò che ci giustifica a credere (1). Si
potrebbe ad esempio fare un test del DNA che evidenzi, senza
ancora dirci che quella è una zebra, che non si tratta di un mulo.
Quindi il Fallimento di tipo 1 ci direbbe che l’argomento testé
esposto non può darci una prima giustificazione per credere (3)
perché la giustificazione per (1) dipende dall’avere già una
giustificazione per (3), che è almeno in linea di principio
ottenibile indipendentemente da quello stesso argomento (o da
altri in cui la giustificazione per le premesse dipendesse
dall’avere già una giustificazione proprio per la proposizione (3)
in questione).

Argomenti invece come quello di Moore, oppure quello a favore


della lunga esistenza della Terra, o dell’esistenza delle menti
altrui, come ad esempio:

1) Ecco qui una persona che prova dolore


2) Se questa persona prova dolore, allora esistono le menti
altrui
3) Esistono le menti altrui

in cui la giustificazione per la prima premessa è basata


sull’osservazione di una persona che piange e si dispera sarebbero

113
casi di Fallimento di tipo 2, perché non possiamo fornire
giustificazioni indipendenti per (3). Dando per scontato infatti
che non se ne possano fornire giustificazioni a priori e che non
ve ne siano per default, argomenti tesi a darci giustificazioni
empiriche per (3) farebbero a loro volta leva sull’assunzione di
(3) stesso e quindi non potrebbero darci una giustificazione
indipendente per (3).

Ciò comporta una conseguenza notevole: argomenti come quello di


Moore sono anche casi di fallimento del Principio di chiusura
della giustificazione, mentre non è un caso di fallimento di tale
principio l’argomento abitualmente usato per illustrarlo, e cioè
l’argomento della zebra. Più in generale, possiamo vedere come il
fallimento del Principio di chiusura della giustificazione è una
conseguenza del Fallimento della trasmissione della
giustificazione di tipo 2.

Ciò potrebbe gettare discredito su quest’ultima nozione, ma,


secondo me, pensarlo sarebbe un errore. Abbiamo infatti spiegato
perché il Principio di chiusura della giustificazione fallisca e
abbiamo visto che lo fa in pochissimi casi e per motivate ragioni.
Pertanto esso rimane valido per la maggior parte dei nostri
ragionamenti ordinari e l’ammettere il suo fallimento circoscritto
non inficia pertanto le nostre prassi epistemiche abituali.

Quanto poi all’accusa che questo aprirebbe la strada a


“congiunzioni abominevoli” (cfr. capitolo 2, §2), siamo ora in
grado di capire perché non si possa proprio avere una
giustificazione per le implicazioni pesanti (né quindi
conoscerle), che tuttavia sono quanto rende possibile avere
giustificazioni (ed eventualmente conoscenza) per le nostre
proposizioni empiriche ordinarie. Ma possiamo fare di più, come

114
vedremo tra un attimo. In particolare, possiamo mostrare come,
sebbene ingiustificate e ingiustificabili, esse siano razionali.
Questo ci permetterà quindi di affermare qualcosa di assai meno
“abominevole” di “Abbiamo giustificazioni per credere che vi sia
una mano ove ci pare di vederla, ma non che vi sia un mondo
esterno”. A dire: “Abbiamo giustificazioni per credere che vi sia
una mano ove ci pare di vederla; non ne abbiamo invece per credere
che vi sia un mondo esterno. Tuttavia, si tratta di un’assunzione
epistemicamente razionale”.

Veniamo quindi all’ultima sfida che il moderatismo deve affrontare


per risultare plausibile: fornire una risposta allo scetticismo
più convincente di quelle avanzate dai naturalisti à la Strawson
(e forse à la Wittgenstein, per alcuni interpreti) e dai
pragmatisti, per i quali non si possono dare ragioni epistemiche a
favore di “Esiste il mondo esterno” e altre “proposizioni
pesanti”, ma solo pragmatiche - posizione in cui, per alcuni,
ricadrebbe la proposta di Wright.

Ora, dichiaro fin da subito che la soluzione che proporrò non è


una risposta diretta al paradosso scettico, ma indiretta. A dire,
non fornirò ragioni epistemiche – in grado cioè di corroborare la
verità della proposizione “Esiste il mondo esterno” – ma offrirò
invece una diagnosi di quello che può essere considerato l’errore
su cui poggia il paradosso scettico. Credo infatti che, se da un
lato si deve fare tesoro delle ragioni che ci hanno portato a
scartare le strategie di risposta diretta allo scetticismo,
dall’altro si debba notare che, una volta mostrato che il
paradosso scettico dipende da un’assunzione indebita, si sarà
fatto anche tutto quello che è sensatamente possibile fare per
risolverlo.

115
L’idea che intendo proporre è che è vero che diamo semplicemente
per scontato che esista un mondo esterno, senza che ve ne sia
nessun tipo di giustificazione epistemica a sostegno. Ciò
nondimeno, si può rivendicare che il farlo è del tutto razionale e
non perché è un qualcosa di “animale”, “istintivo” o “proprio di
una forma di vita”, né tale da un punto di vista pragmatico – in
base a fini che ci proponiamo di perseguire –, bensì alla luce
della nozione stessa di razionalità epistemica. In questo modo
credo si possa quindi combinare l’idea moderata, cui lo
scetticismo stesso conduce, secondo la quale non vi sono
giustificazioni epistemiche per “Esiste il mondo esterno”, con
l’idea che si possa dare una soluzione al paradosso scettico più
convincente di quelle offerte da naturalisti e pragmatisti (o dai
sostenitori delle giustificazioni per default).

Mi pare si possa rivendicare la razionalità epistemica intrinseca


del dare per scontato che vi sia un mondo esterno, pur senza
averne nessuna giustificazione, perché “Esiste il mondo esterno” è
una proposizione cardine o costitutiva della nostra prassi di
produrre e vagliare ragioni epistemiche a favore o contro una
qualsiasi proposizione empirica. Dire che si tratta di una
proposizione cardine o costitutiva di quella prassi significa dire
che è presupposta da ogni ragione e da ogni dubbio di ordine
empirico. Una prima conseguenza notevole è che tale
presupposizione non può né essere giustificata, né essere messa in
dubbio: le ragioni che si potrebbero ipoteticamente addurre per
giustificarla o per dubitarne la dovrebbero infatti dare per
scontata.

Ma c’è di più: il darla per scontata è costitutivo della prassi


epistemica di produrre e vagliare ragioni epistemiche (basate
sull’esperienza sensibile) a favore o contro una qualsiasi

116
proposizione empirica. A sua volta, però, tale prassi è ciò che
determina la nostra nozione di razionalità epistemica stessa.
Questa nozione, infatti, non ci viene dal nulla o da una
riflessione a tavolino (o in poltrona, come si usa dire oggi), ma
appunto dal nostro modo di operare.

Ora, se così stanno le cose, revocare in dubbio uno dei suoi


cardini farebbe venir meno sia quella prassi sia, con essa, la
nozione stessa di razionalità epistemica. Quello che infatti ci ha
insegnato lo scetticismo humeano è appunto che la razionalità
epistemica esiste all’interno di un sistema retto da alcune
assunzioni. Per dirla in altro modo, ci ha insegnato che la
razionalità epistemica non è assoluta – cioè indipendente da ogni
limite o assunzione – ma, appunto, vincolata da (o anche situata
rispetto a) alcune assunzioni molto generali.

Questa osservazione non va però intesa come una difesa pragmatista


della nozione stessa di razionalità epistemica. L’idea, quindi,
non è quella di difendersi dallo scetticismo dicendo che, se il
nostro fine è quello di preservare la prassi epistemica che ci è
cara e utile e con ciò stesso la nozione di razionalità epistemica
che ne consegue, non possiamo far altro che assumere “Esiste il
mondo esterno”.

Piuttosto l’idea è che nella misura in cui la nozione stessa di


razionalità epistemica dipende da quella prassi, ciò mostra che il
revocare in dubbio l’esistenza del mondo esterno non è la più
razionale delle mosse, basata sull’avvedersi che non possiamo
produrre ragioni epistemiche in suo sostegno, bensì, invece, la
violazione della razionalità epistemica stessa. Tale violazione,
infatti, dipende dal non avvedersi che la razionalità epistemica
si estende non solo alle proposizioni empiriche particolari per

117
cui si possono produrre giustificazioni percettive a favore, o
dubbi empirici specifici, ma anche a quelle presupposizioni, come
“Esiste il mondo esterno”, che, seppure ingiustificate e
ingiustificabili, rendono possibile l’acquisizione di
giustificazioni percettive per le proposizioni empiriche
specifiche.

L’errore dello scettico starebbe quindi non nell’ignorare


l’ampiezza del nostro concetto di giustificazione, come pensa
Wright, ma nel non avvedersi dell’ampiezza del nostro concetto di
razionalità epistemica e, fissandosi solo su un aspetto di esso –
cioè la necessità di una giustificazione per accettare
razionalmente qualcosa –, nel non riconoscere la razionalità
epistemica intrinseca – perché priva di ragioni di ogni ordine e
tipo (siano esse empiriche o per default) – dell’accettare ciò che
sta a fondamento della prassi epistemica di produrre e vagliare
ragioni empiriche e che non può, pertanto, essere giustificato da
essa.

Quindi, l’errore dello scettico consiste nell’aderire al seguente


principio:

Razionalità epistemica 1: è epistemicamente razionale credere


solo proposizioni empiriche specifiche per le quali si hanno
giustificazioni percettive.

quando invece vale

Razionalità epistemica 2: è epistemicamente razionale credere


le proposizioni empiriche specifiche per le quali si hanno
giustificazioni percettive e assumere quelle proposizioni che

118
rendono possibile l’acquisizione delle giustificazioni
percettive.

Quest’ultima nozione di razionalità va a sua volta distinta da


quella sottoscritta in effetti da Wright:

Razionalità epistemica 3: è epistemicamente razionale credere


le proposizioni empiriche specifiche per le quali si hanno
giustificazioni percettive e assumere quelle proposizioni,
giustificate per default, che rendono possibile
l’acquisizione delle giustificazioni percettive.

Si noti, infine, che non si sta qui affatto sostenendo che la


nostra prassi di produrre ragioni basate sull’esperienza
percettiva a favore o contro proposizioni empiriche specifiche è,
come tale, razionale (una posizione di questo tipo è invece
oggigiorno sostenuta da Wedgwood 2011b). La nostra prassi è
infatti quello che è, un portato “della nostra storia naturale”,
direbbe Wittgenstein, e avrebbe potuto essere diversa da quelle
che è anche se, dall’interno, ci è difficile immaginare come.
Quello che è intrinsecamente razionale epistemicamente è
accettarne le presupposizioni, dal momento che esse concorrono
alla determinazione della razionalità epistemica stessa.

Si potrebbe obiettare che è prassi, per alcuni, divinare il futuro


leggendo le carte o i fondi di caffè. Che cosa impedisce quindi di
ritenere che siano razionali prassi che evidentemente non lo sono?

In risposta a questa obiezione occorre notare che si deve


distinguere tra prassi epistemiche basilari e non basilari (cfr.
Coliva 2009, cap. 3). Quelle basilari sono quelle che non ne
presuppongono altre o che, per meglio dire, non presuppongono il

119
ricorso a teorie, per poter operate. Divinare il futuro leggendo
le carte o i fondi di caffè evidentemente non è una prassi
epistemica basilare, perché presuppone il formare credenze
riguardo alle carte e alla disposizione dei fondi di caffè sulla
base della propria esperienza sensoriale e di altre conoscenze;
richiede inoltre l’applicazione di una qualche teoria alla
configurazione esperita e quindi la deduzione di determinate
conclusioni. Al contrario, la prassi di formare credenze empiriche
sulla base delle proprie esperienze sensoriali non richiede altre
prassi epistemiche. Ora, secondo la proposta qui avanzata, solo le
prassi epistemiche basilari sono costitutive dei rispettivi tipi
di razionalità. Quindi, ad esempio, la prassi di formare (e
rivedere) credenze sugli oggetti che ci circondano sulla base
dell’esperienza sensoriale è costitutiva della razionalità
epistemica. Analogamente, si può sostenere che la prassi di
formare credenze sulla base di alcuni principi logici (come ad
esempio il modus ponens) sia costitutiva di quella che potremmo
chiamare “razionalità deduttiva”. Ancora, la prassi di agire sulla
scorta di ragionamenti mezzi-fini, ovviamente a determinate
condizioni, si potrebbe dire che è costitutiva della razionalità
pratica, e così via. È solo di queste prassi epistemiche basilari
e, in particolare, delle loro presupposizioni, che, a mio avviso,
si può dire che siano intrinsecamente razionali, sub specie
razionalità epistemica, deduttiva o pratica.

Se a fondamento di tutto il nostro operare con ragioni e


giustificazioni non sta un’arazionale “forma di vita”, o un
istintivo “qualcosa di animale” (Wittgenstein 1969, §§ 358-359),
né vi stanno proposizioni che assumiamo in forza della loro
utilità, o perché siano giustificate a priori o per default, bensì
l’accettazione intrinsecamente razionale, da un punto di visto
epistemico, dei presupposti di quella stessa prassi, allora

120
abbiamo una diagnosi dell’errore scettico, che ci permette di
farvi fronte in maniera non dogmatica e – forse, poiché con le
questioni filosofiche più fondamentali la cautela è sempre
d’obbligo – di liquidarlo una volta per tutte.

121
Appendice

K = “si sa che”; W = “si ha una giustificazione per”; p = “Ecco


una mano”; q = “Sto sognando”; r = “Esiste il mondo esterno”.

Principio cartesiano* (p. XX): Kpq

Principio di iteratività (p. XX): KpKKp

Principio di chiusura epistemica (p. XX):

Kp
K(pq)
-----------
Kq

Principio cartesiano standard (p. XX): KpKq

Conversa del Principio cartesiano standard: KqKp

Derivazione del Principio cartesiano standard (p. XX):

(1) Kp Assunzione
(2) KKp 2, Iteratività
(3) K(Kpq) Assunzione: Principio cartesiano, che è noto
--------------
(4) Kq 3, Principio chiusura epistemica

Derivazione del paradosso cartesiano (p. XX):

122
(1) Kq Assunzione
(2) Kp Assunzione per la riduzione all’assurdo
(3) KKp 2, Iteratività
(4) K(Kpq) Assunzione: si tratta del Principio cartesiano* noto
(5) Kq 3, 4 Principio di chiusura epistemica
(6)  1, 5
------------------
(7) Kp 2, 6 per riduzione all’assurdo

Derivazione del paradosso humeano (p. XX):

(1) Kp Assunzione
(2) K(pr) Assunzione
--------------
(3) Kr 1, 2, Principio di chiusura epistemica

Secondo la concezione tripartita della conoscenza (p. XX):KpWp.


Per contrapposizione, quindi: WpKp

Derivazione del paradosso cartesiano relativo alla giustificazione


(p. XX):

(1)Wq Assunzione
(2)Wp Assunzione per la riduzione all’assurdo
(3)WWp 2, Iteratività
(4)W(Wpq) Assunzione: Principio cartesiano che abbiamo
giustificazione per credere
(5)Wq 3, 4 Principio di chiusura epistemica
(6) 1, 5
--------------------

123
(7)Wp 2, 6 per riduzione all’assurdo

Principio di chiusura epistemica relativo alla giustificazione (p.


XX)

(1) WP
(2) W(PQ)
----------------
(3) WQ

L’esemplificazione in questo caso prevede P = “Avere una


giustificazione per p” e Q = “Non q”

Contrapposizione del principio di chiusura epistemica relativo


alla giustificazione (p. XX)

(1) WQ
(2) W(PQ)
---------------
(3) WP

L’esemplificazione in questo caso prevede P = “Avere una


giustificazione per p” e Q = “Non q”

Confronto tra Fallimento del Principio di chiusura epistemica e


Fallimento della trasmissione della giustificazione (p. XX)

124
Fallimento del Principio Fallimento del Principio
di chiusura epistemica di trasmissione della
giustificazione

(1) WP (1) WP
(2) W(PQ) (2) W(PQ)
---------------- --------------------
(3) Q (3) WQ

La strategia contestualista (p. XX)

(1) Wq
(2) Wp

(3) WpWq (Principio cartesiano standard relativo alla


giustificazione)

Argomento contro il contestualismo (p. XX)

(1) Kc1pp Fattività di “sapere”


(2) Kc*(Kc1pp) Assunzione
(3) Kc1p Assunzione contestualista
(4) Kc*(Kc1p) Assunzione contestualista
-------------------------
(5) Kc*p 2, 4 Principio di chiusura epistemica

C* = qualunque contesto; C1= contesto ordinario

125
Argomento di Wright contro il paradosso scettico cartesiano (p.
XX):

(1) W(P1 & P2) Assunzione necessaria del paradosso


scettico cartesiano
(2) W((P1 & P2)Wp) Risultato dell’argomento scettico
cartesiano perciò giustificato
(3) W((P1 & P2)W(Wpq)) 2 Sostituzione ove p è il Principio
cartesiano
(4) W((P1 & P2)P1) 3 Sostituzione ove W(Wpq) = P1
(5) WP1 1, 4 Principio di chiusura epistemica
-------------------------------------
(6)  1, 5

P1 = Wq

P2 = Wp

NB: Potrebbe essere opinabile la sostituzione in (3) di p, che


nell’argomento di derivazione del paradosso scettico cartesiano è
una proposizione empirica ordinaria, giustificata percettivamente,
con una proposizione come il Principio cartesiano*, che non è una
proposizione empirica ordinaria ed è giustificato a priori.

Il paradosso humeano relativo alla giustificazione (p. XX)

(1) Wp Assunzione
(2) W(pr) Assunzione
----------------
(3) Wr 1, 2 Principio di chiusura epistemica

126
Cos’altro leggere

Capitolo 1

Sullo scetticismo pirroniano, si veda Corti 2009 per una


trattazione recente e la bibliografia ivi contenuta per ulteriori
riferimenti.

Sulla differenza tra lo scetticismo antico e quello moderno si


veda Burnyeat 1982 e, per un’opinione contrastante, Williams 1988.

Sulla natura del paradosso scettico cartesiano si vedano, oltre a


Stroud 1984, cap. 1, Wright 1991 e Coliva 2008.

Contro alla indistinguibilità dei sogni dalla veglia, oltre a


Austin 1962, si veda Sosa 2007.

Sulla differenza tra l’argomento scettico cartesiano che fa leva


sull’ipotesi del sogno e quello che fa leva su ipotesi metafisiche
diverse, si veda Sosa 2007.

Sulla ricostruzione e interpretazione della prova del mondo


esterno di Moore da un punto di vista storico, si veda Coliva
2010a, cap. 1, che contiene anche una rassegna della storiografia
sull’argomento.

Per un’ottima discussione dei progetti contemporanei di


naturalizzazione dell’epistemologia, si veda, in italiano,
Vassallo 2003, pp. 73-89.

127
Per il dibattito tra internisti ed esternisti sulla
giustificazione, si vedano, in italiano, Vassallo 2003, pp. 37-49,
e Amoretti e Coliva 2011, nonché la bibliografia ivi contenuta.

Sulle diverse concezioni esterniste della giustificazione, si


vedano, in italiano, Vassallo 2003, pp. 50-73, e Amoretti e Coliva
2011, nonché la bibliografia ivi contenuta.

Capitolo 2

Sull’epistemologia delle virtù, oltre a Sosa 2007 e 2009, si


vedano Zagzebski 1996 e Greco 2000 e 2010.

Per una rassegna critica delle varie concezioni esterniste di


conoscenza, si veda Pritchard 2005a e, in italiano, Vassallo 2003
e Amoretti e Vassallo 2010 e Amoretti e Coliva 2011. Vassallo 2003
contiene una discussione e una rassegna bibliografica sui
cosiddetti “casi Gettier”, un ulteriore rassegna si trova in
Amoretti e Coliva 2011.

Sulla validità del Principio di chiusura epistemica c’è una


letteratura molto ampia. Si veda, oltre a Dretske 1975 e 2005, e a
Nozick 1981, Hawthorne 2005.

Anche sul contestualismo in particolare riguardo alle attribuzioni


di conoscenza la letteratura è molto vasta e in continua
espansione. Oltre a DeRose 1989, 1995 e Cohen 1998, 1999 e 2000,
si vedano Cohen 2005b e Conee 2005. Sulle inferenze con contesti
misti e il problema della fattività, si veda Wright 2005.

128
Sulla variante di MacFarlane riguardo alla valutazione semantica
delle attribuzioni di conoscenza si veda, in italiano, Coliva
2009, pp. 125-130.

Per una versione non semantica bensì epistemologica di


contestualismo, si veda Williams 1991.

Per una ricostruzione dell’argomento contro lo scetticismo


cartesiano in Della certezza di Wittgenstein, si veda Coliva
2010a, cap. 3.

Capitolo 3

Per una ricostruzione della posizione di Wittgenstein contro lo


scetticismo humeano in Della certezza, si vedano, in italiano,
Perissinotto 1991 e Coliva 2003; in inglese Moyal-Sharrock 2004,
Williams 2004a, b, 2005, Wright 2004b, Pritchard 2005b, 2011 e
Coliva 2010a, cap. 3.

Per una difesa alternativa a quella di Strawson del fatto che i


dubbi scettici sarebbero innaturali, si veda Williams 1991.

Sul disgiuntivismo in filosofia della percezione si vedano, oltre


a McDowell 1982, anche Hinton 1973 e Snowdon 1981 e i saggi
contenuti in Haddock e MacPherson 2008. Per una critica serrata,
invece, Burge 2005 e 2010, pp. 362-4, 392-3.

Sul dibattito tra concettualisti e non concettualisti riguardo al


contenuto percettivo, si veda, in italiano, Coliva 2004/2006 cap.
6 e la bibliografia ivi contenuta.

129
Per posizioni che ammettono che contenuti percettivi non
concettuali possano fungere, come tali, da giustificazione delle
credenze empiriche corrispondenti, si vedano Peacocke 2004 e Burge
2003.

Per una ricostruzione storica della posizione di G.E. Moore si


veda Coliva 2010a, cap. 1 e la rassegna della bibliografia ivi
contenuta.

Una variante dell’argomento di Pryor potrebbe far leva sulla


nozione di entitlement sviluppata da Tyler Burge (2003). Si tratta
infatti di un tipo di giustificazione che non richiede che il
soggetto sia in grado di produrla, né che abbia le competenze
concettuali necessarie per intrattenerla. Nel caso
dell’entitlement percettivo, avere un’esperienza con certo
contenuto concettuale è sufficiente, assenti ragioni per credere
il contrario, a dare al soggetto una giustificazione per la
credenza corrispondente. Burge stesso, tuttavia, ritiene che
questo non sia sufficiente per fornire un argomento antiscettico
soddisfacente.

Un’altra variante potrebbe basarsi sulla nozione di entitlement


sviluppata da Christopher Peacocke (2004). A suo avviso, abbiamo
un entitlement percettivo per le nostre credenze empiriche
basilari perché i contenuti percettivi su cui queste si basano
sono causati unicamente da ciò che li rende veridici. Anche per
Peacocke, come per Burge, l’entitlement in questione è
sconfiggibile (defeasible) qualora vi siano ragioni per dubitare
di essere in condizioni normali. Peacocke, però, vuole anche dare
una dimostrazione a priori del perché la transizione da
un’esperienza con contenuto basilare che p alla credenza
corrispondente è affidabile. Secondo lui lo è perché poiché è il

130
frutto di un meccanismo che è stato naturalmente selezionato per
dare luogo a credenze vere. Tale argomento, secondo Peacocke, è a
priori perché è vero a priori che è esplicativamente più semplice
di uno che facesse intervenire ipotesi scettiche. Per una critica
a questo aspetto della proposta di Peacocke, si veda Wedgwood
2007. È inoltre noto che il fatto che un’ipotesi permetta di
spiegare più semplicemente di un’altra certo fenomeno non dimostra
che sia vera (cfr. cap. 1, §1).

Contro il fatto che un’esperienza possa produrre, come tale, in


assenza di ragioni per dubitare di essere in condizioni normali,
una giustificazione per “Esiste il mondo esterno e sto vedendo la
mia mano”, si vedano Coliva 2004b, 2011c, White 2006, Wright 2007,
Silins 2007.

Sul dibattito tra conservatori e liberali si veda, in italiano,


Coliva 2007; in inglese, la letteratura è molto ampia e in
evoluzione. Si vedano in particolare, White 2006, Neta 2007,
Silins 2007, Coliva 2011a, Wedgwood 2011a.

Contro la nozione di entitlement di Wright, si veda, in italiano,


Coliva 2007; in inglese, oltre a Pritchard 2005b, Jenkins 2007 e
Williams 2011, Coliva 2011a, c.

Per critiche contro la posizione di Sosa relativamente all’idea


che abbiamo giustificazioni a priori per credere “Esiste il mondo
esterno”, si veda Coliva e Palmira 2011.

Sulla posizione moderata si vedano Coliva 2011a, b, c, Ferrari-


Orlandelli 2011 e Volpe 2011.

131
Per critiche diverse alla nozione di fallimento della trasmissione
della giustificazione proposta da Wright si vedano Silins 2005,
Davies 2010 e Coliva 2010b e 2011b, per una difesa, invece, Pryor
2011.

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L’autrice

Annalisa Coliva insegna Filosofia del linguaggio nella Facoltà di


Lettere e Filosofia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. È
inoltre vicedirettore del Centro di ricerca COGITO e autrice di
numerosi volumi e articoli in italiano e inglese apparsi su
riviste quali The Journal of Philosophy, The Philosophical
Quarterly, The Australasian Journal of Philosophy, Ratio,
Synthese, Dialectica, Philosophia. Tra i suoi principali volumi
ricordiamo Moore and Wittgenstein: scepticism, certainty and
common sense (Palgrave 2010); I modi del relativismo (Laterza
2009); I concetti (Carocci 2004/6). Ha inoltre curato i volumi The
self and self-knowledge (Oxford University Press, 2011) e Mind,
meaning and knowledge. Themes from the philosophy of Crispin
Wright (Oxford University Press, 2011) e Filosofia analitica. Temi
e problemi (Carocci, 2007).

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