You are on page 1of 71

ESTRAZIONE DEGLI ACIDI NUCLEICI

Gli acidi nucleici sono una famiglia eterogenea di macromolecole distribuite all’interno di tutte le cellule degli
organismi viventi, nonché dei virus.
Possiamo distinguere diversi tipi di acidi nucleici: DNA ed RNA

Mentre nei procarioti il DNA non ha una precisa localizzazione, negli eucarioti il DNA è localizzato nel nucleo
(contenuto DNA/cellula mammifero: 6pg) e negli organelli come i mitocondri e cloroplasti (contenuto mtDNA
cellula eucariotica: <0.1% di tutto il DNA cellulare)

Se nei procarioti l’RNA non è compartimentalizzato, negli eucarioti l’RNA è localizzato nel nucleo
(precursore: hnRNA) ma soprattutto nel citoplasma (contenuto medio RNA/cellula:20-25pg). Esistono tre
diversi tipi di RNA:
rRNA (75% dell’RNA cellulare)
mRNA
t-RNA

Il Materiale di partenza per l’estrazione degli acidi nucleici può essere costituito da:
 cellule batteriche o eucariotiche in coltura (separazione dal mezzo di coltura mediante
centrifugazione).
 Campioni di tessuto (fresco o immediatamente congelato a –20°C o ancora meglio a –195°C in azoto
liquido per evitare la degradazione da parte di enzimi presenti nelle cellule, che vengono così
inattivati). I campioni di tessuto possono anche essere conservati dopo essere stati fissati in soluzione
salina o alcool.

1. ROTTURA DELLE CELLULE


La prima cosa da fare quando si deve procedere all’estrazione degli acidi nucleici da un tessuto o da cellule in
coltura è la loro solubilizzazione che avviene mediante lisi delle cellule nelle quali essi sono contenuti. A tale
scopo si possono usare diversi metodi che possono essere alternativi o usati in sequenza
a)Metodi meccanici: omogeneizzatore a pestello (potter).
b)Vibrazioni ultrasoniche
c) Congelamento/scongelamento.
d) Shock osmotico
e) Uso di agenti litici
Per ciò che riguarda quest’ultimo caso, le membrane delle cellule animali (doppio strato costituito da lipidi e
proteine) vengono solubilizzate con detergenti blandi quali SDS (sodio dodecil solfato). Esso è un detergente
anionico in grado sia di solubilizzare i lipidi che di legarsi alle proteine alterandone la struttura secondaria; le
proteine così denaturate assumono una configurazione bastoncellare e diventano insolubili. L’SDS elimina
anche le strutture quaternarie, per cui le subunità proteiche vengono rilasciate nel mezzo.
Una semplice centrifugazione permette di eliminare i detriti cellulari dal contenuto cellulare rilasciato nel
mezzo.

2. PURIFICAZIONE DEL DNA: Trattamento con proteasi ed estrazione fenolica


Una volta lisate le cellule ed eliminati i detriti cellulari si deve separare l’acido nucleico che si intende estrarre
dalle altre componenti cellulari.
Il DNA, in quanto macromolecola di grosse dimensioni, è facilmente danneggiato dalle forze frizionali: una
forte agitazione può rompere il DNA in soluzione ad alto peso molecolare in frammenti più corti. Una buona
preparazione di tipo standard permette di ottenere frammenti di DNA della lunghezza al massimo di 25 Kpb.
Inoltre il DNA è soggetto alla digestione da parte delle desossiribonucleasi (DNasi) presenti nelle cellule ed
anche nella polvere. Per evitare l’azione di questo enzima vengono utilizzati metodi blandi di estrazione
cellulare, in presenza di EDTA (etilendiammonio tetracetato) per chelare gli ioni Mg++ necessari per l’attività
della DNasi.

Le proteine vengono estratte (cioè rimosse dalla preparazione) mediante varie tecniche da usare in
combinazione, o l’una in alternativa all’altra.
i) Uso di enzimi proteolitici, tipo pronasi o proteinasi K.
Pronasi: miscela di almeno 4 enzimi proteolitici (2 endo- e 2 eso-peptidasi).
La Proteinasi K, così detta per il suo potere di idrolizzare la cheratina, è una endopeptidasi di origine fungina.
La digestione è condotta in presenza di EDTA, che serve per inattivare le DNasi anche se la rimozione degli
ioni Ca++ che si ha in presenza di EDTA determina la perdita dell’80% della sua attività enzimatica, tuttavia
l’attività residua è comunque sufficiente a degradare le proteine che contaminano gli acidi nucleici. In tampone
contenente agenti denaturanti quali SDS o urea la sua attività incrementa e, assieme a quella denaturante,
assicura la lisi cellulare.
Gli enzimi proteolitici andranno poi eliminati. In genere questo avviene mediante
estrazione con una miscela di fenolo: cloroformio: isoamilico (25:24:1)
Tale tecnica può essere usata anche da sola senza la precedente incubazione con gli enzimi proteolitici.
Il Fenolo deriva dal benzene per sostituzione di un atomo di H con l’ossidrile OH.
E’ un denaturante delle proteine in quanto le lega mediante legami H, alterandone la struttura. Il gruppo
benzenico si insinua nel core idrofobico delle proteine, svolgendone la struttura. Le proteine denaturate, con i
gruppi idrofobici esposti, diventano solubili nella fase fenolica o precipitano all’interfase fenolo-acqua .
E’ un solvente dei lipidi e delle molecole di RNA contenenti lunghi tratti di poli(A).
Il Cloroformio completa la denaturazione delle proteine, rimuove i lipidi e grazie alla sua elevata densità
facilita la separazione della fase acquosa (contenente il DNA deproteinizzato) da quella organica (fenolica)
stabilizzando l’interfaccia tra le due fasi. L’alcool isoamilico riduce la schiuma che si forma nel corso
dell’estrazione.
Il fenolo e il cloroformio hanno una scarsa tendenza a miscelarsi con l’acqua, per cui quando vengono aggiunti
all’estratto cellulare (presente in un mezzo acquoso) e sottoposti ad agitazione si ottiene una emulsione, le cui
fasi vengono separate per centrifugazione: le proteine denaturate formano un gel all’interfaccia tre le due fasi,
mentre gli ac. nucleici restano in soluzione nella fase acquosa.

Bisogna considerare che il fenolo tende ad ossidarsi assumendo un colore rossastro per la presenza di chinoni.
Tali composti di ossidazione devono essere evitati in quanto favoriscono sia la scissione dei legami
fosfodiestere sia la formazione di legami crociati tra DNA e RNA. Per evitare questo evento viene aggiunta al
fenolo la 8-idrossichinolina che ha potere antiossidante, oltre ad essere un parziale inibitore della RNasi e un
debole chelante di ioni metallici.
Il fenolo deve essere saturato con una soluzione acquosa, a causa della sua forte igroscopicità che
determinerebbe l’adsorbimento della soluzione acquosa contente gli ac. nucleici.Va equilibrato a pH neutro o
alcalino (7.8-8.0) in quanto a tale pH sia il DNA che l’RNA si trovano nella fase acquosa; inoltre in ambiente
leggermente basico il DNA è protetto dalla depurinazione. Invece a pH acido (5-6) il DNA è selettivamente
trattenuto nella fase organica, mentre l’RNA è nella fase acquosa.

Si ricordi che in ambiente basico (presenza di ioni OH-) avviene l’idrolisi dell’RNA: il gruppo ossidrilico 2’ si
comporta come nucleofilo in una reazione di spostamento intramolecolare in cui l’OH del mezzo attacca
l’ossidrile in 2’ rimuovendo un idrogenione. Il gruppo O- altamente reattivo attacca il legame fosfodiestere a
valle nella catena polinucleotidica determinandone la rottura e la produzione di un derivato 2’,3’-monofosfato
ciclico instabile che va incontro a idrolisi producendo una miscela di derivati 2’ e 3’ monofosfato e la
degradazione della catena polinucleotidica
Invece il DNA, essendo privo del 2’OH, risulta stabile in condizioni alcaline.
- La fase superiore acquosa contenente gli ac. Nucleici viene recuperata e sottoposta ad estrazione con
cloroformio: isoamilico 24:1 per completare la deproteinizzazione e rimuovere tracce di fenolo. Il fenolo ha
una certa solubilità in acqua, per cui potrebbe essere ancora presente in tracce: la sua presenza potrebbe portare
alla denaturazione di enzimi eventualmente utilizzati in seguito
- Soluzioni acquose di ac. nucleici troppo diluite possono essere eventualmente concentrate mediante ripetute
estrazioni con volumi uguali di alcool butilico (altamente igroscopico), in quanto la fase organica sottrae acqua
ad ogni estrazione.

3.2 Precipitazione del DNA.


La preparazione del DNA deproteinizzato viene concentrata mediante precipitazione. La soluzione acquosa è
miscelata con 2 volumi di etanolo assoluto, in presenza di cationi monovalenti (acetato di sodio, acetato
d’ammonio, cloruro di sodio) e viene lasciata precipitare a –80°C. Mediante successiva centrifugazione si
ottiene un pellet sul fondo della provetta.
L’alcool etilico determina modificazioni strutturali degli ac. nucleici che ne inducono l’aggregazione e quindi
la precipitazione. La precipitazione è fortemente dipendente dal raggiungimento di una massa critica. Per
soluzioni a concentrazioni <10g/ml è opportuno aggiungere un carrier: t-RNA di lievito, che non interferirà
con le reazioni enzimatiche alle quali il DNA sarà sottoposto.Si può usare anche l’isopropanolo, che è più
vantaggioso perché consente di operare con volumi inferiori, ma ha lo svantaggio di essere meno volatile
dell’etanolo e quindi più difficile da rimuovere.
Dopo centrifugazione, i pellet di DNA vanno lavati in etanolo 70% e ricentrifugati. Tale lavaggio allontana i
sali, insolubili in tale solvente, ma non è in grado di allontanare il cloruro di sodio.

3.3 Allontanamento dell’RNA


Il DNA viene risospeso in un tampone a bassa forza ionica, in genere TE (Tris-EDTA) a pH 7.6-8.0. Durante
l’estrazione del DNA possono coprecipitare notevoli quantità di RNA. La contaminazione da RNA va
eliminata perché tale molecola interferirebbe nella determinazione quantitativa del DNA per via
spettrofotometrica. Inoltre potrebbe anche alterare la mobilità elettroforetica dei frammenti di DNA. La
ribonucleasi (RNasi) viene usata per eliminare l’RNA in preparazioni di DNA. Quando si vuole estrarre l’RNA
si usa invece la desossiribonucleasi (DNasi) viene usata per eliminare il DNA che contamina le preparazioni
di RNA.
DOSAGGIO ACIDI NUCLEICI
Il dosaggio degli acidi nucleici si esegue usando metodiche spettroscopiche. La spettroscopia è quella branca
della fisica che studia le radiazioni emesse ed assorbite dalla materia.
Esistono vari tipi di radiazioni elettromagnetiche, definite da differenti lunghezze d’onda (dai raggi gamma
fino alle radio-onde).

Le radiazioni ultraviolette corrispondono alla regione dello spettro elettromagnetico compresa tra 200 e 400
nm.
La regione del visibile è compresa tra le lunghezze d’onda di 400 e 800 nm.

Quando una sostanza assorbe una quota di energia di una radiazione elettromagnetica gli atomi che
costituiscono la sostanza stessa incrementano la propria energia. Gli effetti prodotti sulla materia sono
dipendenti dal contenuto energetico della radiazione assorbita. Nel caso di radiazioni ultraviolette o visibili,
gli elettroni che costituiscono gli atomi possono essere eccitati passando su orbitali a più elevato contenuto
energetico. Poiché questo è uno stato instabile, gli elettroni tenderanno in breve tempo a ritornare ai livelli
energetici più bassi, cioè allo stato fondamentale.
Il processo di ricaduta degli elettroni può determinare il rilascio di energia sotto forma diversa da quella
assorbita, cioè calore o luce (fenomeno detto fluorescenza).
La natura chimica del composto e la sua struttura molecolare determinano il tipo della radiazione assorbita.
Molecole organiche contenenti legami insaturi (-C=C-): es. ac. grassi, molecole contenenti ponti disolfuro (S-
S), molecole contenenti eterocicli, quali le basi azotate degli ac. nucleici, assorbono la luce ultravioletta.
Le sostanze colorate invece assorbono tutte le bande dello spettro del visibile tranne quella corrispondente al
colore che esibiscono.

SPETTROFOTOMETRIA ULTRAVIOLETTA DEGLI AC. NUCLEICI


Gli ac. nucleici assorbono nell’ultravioletto, con un picco alla 260. Tale assorbimento è determinato dalle basi
azotate, per cui è caratteristico del DNA sia sotto forma di duplex che in singola elica, sia dell’RNA.
La densità ottica misurata a 260nm (assorbanza) è una misura dello stato ordinato delle molecole di DNA in
soluzione rispetto ai singoli nucleotidi (effetto ipocromico) L’ipocromaticità è dovuta alle interazioni
elettroniche tra le basi impilate l’una sull’altra a formare la doppia elica, ed al fatto che nell’impalcatura della
doppia elica le basi sono schermate dagli zuccheri-fosfato, quindi sono meno esposte le quindi assorbono meno
luce UV.
Invece quando la temperatura di una soluzione di DNA viene portata vicina la punto di ebollizione dell’acqua
o in presenza di alcali, l’assorbanza della soluzione incrementa notevolmente. Cioè: quando la doppia elica
viene denaturata si registra l’effetto ipercromico.

Nel dosaggio spettrofotometrico si valuta l’assorbimento della luce da parte di una determinata sostanza in
soluzione.
La frazione della luce incidente che viene assorbita da una soluzione a una data lunghezza d’onda è
proporzionale a:

 Capacità della specie chimica di assorbire una radiazione luminosa ad una data lunghezza d’onda
• Spessore della soluzione (cammino ottico)
• Concentrazione della specie chimica che assorbe la luce

Per cui, dalla misura della luce assorbita ad una determinata lunghezza d’onda si può risalire alla
concentrazione della molecola in esame. Si tratta di una determinazione assoluta, che si basa sulla relazione
esistente tra concentrazione e assorbanza.
Tale relazione è riassunta nella Legge di Lambert-Beer

log I0/I =  c l
I0 = intensità della luce incidente
I = intensità della luce trasmessa
e = coefficiente di estinzione molare
l = lunghezza del cammino ottico
La legge presuppone che la luce incidente sia parallela e monocromatica (all’interno degli spettrofotometri
sono presenti dei monocromatori che selezionano una radiazione monocromatica di una sola lunghezza d’onda.
) e che le molecole di soluto e di solvente siano orientate in modo casuale.
L’espressione log I0/I viene detta assorbanza e indicata con A.
L’assorbanza è direttamente proporzionale alla concentrazione del soluto che sta assorbendo la luce.
c = A/  l

Il coefficiente di estinzione molare varia con:


•La natura chimica del composto
•Il solvente
•La lunghezza d’onda

Il coefficiente di estinzione molare rappresenta l’assorbanza di una soluzione a concentrazione 1M e a


cammino ottico unitario. (si ricordi che una soluzione 1M contiene 1 mole di sostanza disciolta in 1000 ml di
soluzione
Per quanto riguarda gli acidi nucleici è necessario apportare delle variazioni alla legge di Lambert e Beer.Infatti
gli acidi nucleici hanno pesi molecolari molto elevati e anche considerando una delle specie di acidi nucleici
più piccole, cioè i tRNA, siamo in presenza di un peso molecolare medio di circa 50.000 dalton. Questo vuol
dire che per preparare una soluzione 1M di tRNA bisognerebbe sciogliere 50.000 g di tRNA in 1lt (50.000 g
sono 50 Kg).
Anche considerando anche sottomultipli della molarità una soluzione 1mM di tRNA conterrebbe 50g in
1000ml e se ci si riferisce a volumi di soluzione inferiore (es 1 ml) avremmo bisogno di
0.05g tRNA/ 1 ml. La situazione è ancora più esaltata se ci si riferisce ad acidi nucleici di dimensioni maggiori.
Quindi, non è opportuno per definire soluzioni di Ac. Nucleici perché ci si riferirebbe a soluzioni
eccessivamente concentrate, difficilmente ottenibili.
Allora come variazione alla legge di L e B, quando si vogliono dosare acidi nucleici si usa anziché il
coefficiente di estinzione molare, il coefficiente di estinzione specifico K, che esprime l’assorbanza di una
soluzione a concentrazione 1mg/1ml alla lunghezza d’onda di 260 nm
I valori di K sono i seguenti:
K = 21 DNA nativi
K = 23 DNA denaturato

K = 25 RNA

Come si vede il valore di K è maggiore per il DNA denaturato e l’RNA rispetto al valore riferito al DNA nativo
a causa dell’effetto ipercromico.
Nel dosaggio spettrofotometrico degli acidi nucleici è importante che la soluzione da misurare non sia torbida,
nonché che siano stati eliminati i contaminanti che possano interferire nelle misurazioni (proteine, lipidi,
fenoli) L'interferenza dovuta a contaminanti può essere evidenziata mediante il calcolo dei rapporti tra le
Densità ottiche misurate a diverse lunghezze d’onda.
Il rapporto A260/A280 è usato per stimare la purezza degli acidi nucleici, dal momento che le proteine
assorbono a 280 nm per la presenza di residui di triptofano e tirosina.
Un DNA puro dovrebbe avere un rapporto di circa 1.8, mentre un RNA puro dovrebbe dare un valore di
approssimativamente 2.0.
L'assorbanza a 230 nm, cioè ai margini dello spettro di assorbimento degli ac. nucleici, riflette la
contaminazione del campione dovuta a sostanze come carboidrati, fenoli, peptidi o composti aromatici. Per
campioni puri il rapporto A260/A230 dovrebbe essere circa 2.2.

DOSAGGIO FLUORIMETRICO
Il dosaggio si basa sulla emissione di una radiazione da parte di un fluoroforo, avente una lunghezza d’onda
diversa da quella di emissione. Si possono usare diversi fluorofori; tra questi il più comunemente usato è
l’etidio bromuro. Esso è una molecola planare che si intercala negli acidi nucleici ed emette fluorescenza rosso-
arancio (quindi nelle lunghezze d’onda del visibile) quando eccitata dalla luce U.V.
L’etidio bromuro viene comunemente utilizzato per colorare i gel dopo l’elettroforesi per cui il dosaggio può
essere effettuato o utilizzando un fluorimetro o dopo l’elettroforesi.
Il dosaggio fluorimetrico è un dosaggio di tipo RELATIVO per cui la quantità di DNA o RNA in un campione
viene stimata comparando l’intensità della fluorescenza del campione stesso con quella di campioni a
concentrazione nota, caricati su pozzetti adiacenti di uno stesso gel che verrà colorato con etidio bromuro.
Perché il dosaggio sia accurato, la concentrazione da stimare deve essere compresa nell’intervallo delle
concentrazioni degli standard di riferimento.

Quantità crescenti e note di ac. nucleici standard vengono poste su un gel accanto al campione di cui si vuole
determinare la concentrazione. Dopo la corsa elettroforetica il gel viene immerso in una soluzione di etidio
bromuro e osservato su una lampada U.V.. Poiché la quantità di fluorescenza emessa da ciascuna banda
osservata è proporzionale alla massa del DNA presente nella banda stessa (maggiore è la quantità di acido
nucleico, maggiore è la quantità di etidio che si intercala)
la quantità di DNA nella banda del campione potrà essere stimata dal confronto con la fluorescenza delle bande
della serie standard.
L’analisi quantitativa viene effettuata in un densitometro, il cui funzionamento si basa sulla misura della luce
trasmessa quando una radiazione luminosa viene fatta passare attraverso l’immagine fotografica in negativo
del gel. L’apparecchio registrerà un incremento della luce trasmessa in corrispondenza delle bande, cioè si
otterranno dei picchi di assorbanza.
Rapportando l’area del picco di assorbanza relativo al campione da dosare con le aree dei picchi degli
standards, si ottiene la quantità relativa di ac. nucleico presente nel campione incognito.
ELETTROFORESI DEGLI ACIDI NUCLEICI

L’elettroforesi, sfrutta la capacità migratoria che hanno particelle cariche quando vengono sottoposte a un
campo elettrico. Poichè molte molecole di interesse biologico come aminoacidi, peptidi, proteine, acidi
nucleici possiedono gruppi ionizzabili e pertanto possono esistere in soluzione, a determinati valori di pH come
molecole elettricamente cariche, esse sono in grado di muoversi in un campo elettrico verso il polo opposto.
Mentre la direzione del movimento delle molecole durante l’elettroforesi dipende dal segno della carica da
esse posseduta, la velocità di migrazione di una particella dipende dalle dimensioni, carica e forma della
particella, dalla differenza di potenziale applicata agli elettrodi, dalla natura del mezzo (forza ionica e viscosità)
e dalla temperatura.
La velocità di migrazione infatti sarà determinata da un equilibrio tra la forza di spinta dovuta al campo elettrico
e le forze frenanti (frizionali ed elettrostatiche) tra ioni e mezzo circostante.

2. ASPETTI GENERALI DELL’ELETTROFORESI DEGLI ACIDI NUCLEICI

Il termine mobilità elettroforetica () indica la velocità di una particella espressa in cm/sec in un campo
elettrico unitario (1Volt/cm) e si calcola dividendo la velocità per l’intensità del campo elettrico applicato.

= v/E
Da un punto di vista dimensionale:

 = cm/sec : V/cm = cm2/(sec x V) = cm2 x sec–1 x V –1

L’elettroforesi può essere eseguita in soluzione o su un supporto solido


Nel primo caso la migrazione dipende essenzialmente dalla carica della particella. Un’elettroforesi di questo
tipo consente di determinare la mobilità elettroforetica e permette solo la separazione delle particelle più
cariche e meno cariche presenti in una miscela, ma non è adatta per scopi preparativi.

L’elettroforesi su supporto solido è adatta invece sia per scopi analitici che preparativi. I supporti utilizzati
sono di diverso tipo: in passato si usavano supporti come la carta o la cellulosa, attualmente si usano come
supporti i gel di agarosio o di poliacrillammide.
L’uso del supporto solido (gel) assicura una serie di importanti vantaggi:
a) Il gel sopprime le correnti convettive prodotte da piccoli gradienti di temperatura, cosa che avviene con
l’elettroforesi in soluzione libera, permettendo una separazione più efficace.
b) Il gel serve da setaccio molecolare e migliora la separazione. Le molecole che hanno dimensioni più piccole
dei pori del gel si muovono rapidamente mentre molecole molto più grandi dei pori restano praticamente
immobili. Le molecole di taglia intermedia si muovono nel gel più o meno facilmente. Il risultato è che le
molecole, a parità di carica, si sposteranno nella matrice in funzione del peso molecolare e della forma
(superelica, circolare o lineare).
Variando le concentrazioni del gel si possono separare molecole di diversa dimensione. Concentrazioni
maggiori si usano per separare le molecole più piccole e, viceversa, concentrazioni più basse sono più adatte
a separare frammenti più grandi.

Gli ac. nucleici, a differenza delle proteine, non sono molecole anfotere, per cui rimangono carichi
negativamente a qualsiasi condizione di pH usata: quindi si comportano da anioni, migrando verso l’anodo.
Tuttavia la presenza di una quantità di carica costante al variare della lunghezza degli acidi nucleici impedisce
la separazione di molecole di diversa lunghezza in una elettroforesi in fase libera.
L’uso di un supporto solido, ed in particolare di un gel che ha una struttura microscopica che assomiglia ad un
setaccio, fa sì che molecole dotate di una densità di carica simile, ma di diversa massa migrino con una diversa
velocità. Molecole più piccole migreranno più velocemente rispetto a molecole più grandi. Inoltre, molecole
simili per carica e dimensioni, possono avere comportamenti elettroforetici differenti dipendenti dalla forma
(per esempio di un DNA plasmidico mostra tre bande corrispondenti alla forma circolare, superavvolta e
lineare).

Perché l’elettroforesi abbia luogo è necessario che sia il campione che il supporto siano saturati con un tampone
che ha lo scopo sia di trasferire la corrente, sia di mantenere costante lo stato di ionizzazione delle molecole
da separare. I tamponi più utilizzati sono tamponi fosfato, acetato, citrato, Tris-EDTA e devono avere una
concentrazione tale da consentire al campione di migrare limitando il più possibile fenomeni di diffusione.
Infatti aumentando la forza ionica del tampone aumenta la porzione di corrente trasportata dal tampone ma
diminuisce quella trasportata dal campione che pertanto migra con velocità inferiore mentre diminuendo la
forza ionica del tampone aumenta la velocità di migrazione del campione ma aumentano anche fenomeni di
diffusione.
L’efficienza della separazione in un supporto solido è influenzata dall’elettroendosmosi (EEO), cioè dalla
presenza di gruppi carichi sulla superficie del mezzo di supporto: ad esempio l’agarosio (in funzione del grado
di purezza) contiene dei gruppi solfato che creano uno strato elettrico all’interfaccia tra il gel e il tampone di
elettroforesi sovrastante. Quando si applica la corrente, i cationi presenti nel tampone di corsa vengono attratti
verso lo strato di cariche negative presenti sulla superficie del gel e migrano verso il catodo trascinando con
sé gli elettroliti del tampone. Questo movimento di cariche del tampone determina anche una variazione della
concentrazione delle cariche nel tampone stesso, per cui si parla di effetto elettroendosmotico. Maggiore è
l’EEO, minore è la velocità di migrazione delle molecole di DNA

Sebbene la mobilità elettroforetica in una elettroforesi su gel dipenda da numerose varianti che rendono
difficile una sua determinazione assoluta, la distanza percorsa da una particella è correlata al suo PM da una
semplice relazione. Essa è del tipo:

D= a-b log M

dove: D rappresenta la distanza percorsa;


a e b sono delle costanti determinate empiricamente che dipendono da una serie di parametri, come
forza ionica del tampone, tipo di gel, e dalla temperatura.
M è il Peso molecolare
Così questa tecnica permette non solo di separare molecole aventi diversa dimensione ma anche di
determinarne il loro Peso Molecolare

ELETTROFORESI SU GEL DI AGAROSIO

L’agarosio è un polimero lineare di carboidrati estratto dalle alghe. Esso, se fuso e gelificato, forma una
matrice la cui porosità dipende dalla sua concentrazione. I gel di agarosio sono semplici e veloci da preparare
e sono tipicamente usati per separare frammenti di dimensioni variabili da poche centinaia di basi a 20 kb. Essi
sono largamente utilizzati per le analisi routinarie su DNA (controllo di una PCR o di una digestione)
Variando la concentrazione dell’agarosio è possibile separare molecole di differenti dimensioni. Per esempio
gel di agarosio allo 0,3% permettono di separare molecole di DNA a doppia elica tra 60 e 5kb; gel allo 0.8%
possono separare molecole comprese tra 0.5 e 10kb mentre si utilizzano gel al 2% per separare molecole di
DNA doppia elica tra 0,1 e 3 kb.
I gel di agarosio si preparano portando ad ebollizione la polvere sciolta in un opportuno tampone e facendo
raffreddare la soluzione in apposite vaschette applicando nel gel ancora allo stato liquido, una sagoma a forma
di pettine ad un’estremità per creare delle fessure, dette pozzetti, in cui alloggiare il campione.
La polimerizzazione è dovuta alla creazione di legami idrogeno sia inter che intramolecolari che ne
determinano la struttura tridimensionale reticolata.
I campioni vengono posti nei pozzetti diluiti in una soluzione tampone contenente un addensante come il ficoll
o il glicerolo che permettono al campione di raggiungere il fondo del pozzetto e uno o due traccianti colorati,
il blu di bromofenolo e lo xilene cianolo, che servono come guida sia nel caricamento che come indicatore del
fronte elettroforetico.
Il sistema è collegato ad un alimentatore in grado di creare il campo elettrico.
In un pozzetto del gel si carica il campione da separare e su un altro una miscela di frammenti a PM noto
(MARKER) che servirà per il calcolo della lunghezza in basi delle bande.
Grazie al campo elettrico generatosi la miscela di acidi nucleici comincerà a migrare verso il polo positivo
separando le singole molecole in base al loro diverso peso molecolare: come già detto quelle più pesanti (a
maggior PM) migreranno più lentamente rispetto a quelle più leggere (a minor PM), che a loro volta
migreranno più velocemente.
Dopo la corsa i gel sono immersi in una soluzione contenente l’etidio bromuro. Esso è una sostanza che quando
si lega agli acidi nucleici forma un composto fluorescente (emette radiazioni nel visibile se illuminato da una
sorgente di luce ultravioletta). E’ così possibile visualizzare direttamente la separazione delle diverse specie
di acidi nucleici. L’etidio si può anche aggiungere direttamente nel gel prima della polimerizzazione e la
visualizzazione si può effettuare direttamente senza la successiva colorazione. L’etidio bromuro viene anche
usato per monitorare la separazione di DNA aventi diversa forma (lineare, rilassato o superavvolto-vedi in
seguito)
Il risultato della corsa elettroforetica consisterà in una serie di bande.

-
Si misura la posizione delle bande del marker (distanza dall’ origine) e la si riporta in in un grafico cartesiano
in funzione del rispettivo Peso Molecolare (espresso in Daltons o in paia di basi). Ciò permette la costruzione
di una retta (retta di taratura) che verrà utilizzata per calcolare il PM del gli acidi nucleici costituenti il
campione.
La retta di taratura si costruisce ponendo su carta millimetrata di tipo semilogaritmico, in ascissa la
migrazione delle bande a peso molecolare noto (misurato in cm., come distanza percorsa a partire dal pozzetto)
e in ordinata la loro dimensione in paia di basi. Valutando la migrazione in cm del campione di dimensioni
incognite, per interpolazione sulla retta di taratura è possibile ricavare le dimensioni del campione.

I gel di agarosio trovano una grandissima applicazione in biologia molecolare; essi infatti vengono utilizzati
di routine per verificare i risultati di una digestione, di una PCR, di un clonaggio o di qualunque altra
preparazione di ac.nucleici.

L’elettroforesi su gel di agarosio può essere effettuata anche per scopi preparativi. Infatti la bassa temperatura
di fusione, soprattutto di alcuni tipi di agarosio (low-melting agarose) , rende estremamente facile il recupero
del materiale che potrà essere sottoposto a ulteriori indagini in quanto la migrazione elettroforetica non altera
le proprietà biologiche del DNA. Alla fine della corsa, si ritaglia dal gel il tassello contenente la banda di
interesse; il tassello del gel viene portato a 60°C il gel si scioglie e il DNA va in soluzione e può quindi essere
precipitato. Questo fa si che questa tecnica venga considerata uno strumento essenziale per la purificazione di
specifici frammenti di DNA.

Un tipo particolare di elettroforesi su gel di agarosio è rappresentata dall’elettroforesi in campo pulsato e in


campo ortogonale. (PFGE)
Con questo tipo di elettroforesi si possono separare DNA di dimensioni superiori a 60 kpb molecole molto
grandi che in un gel convenzionale di agarosio migrerebbero lentamente sotto forma di una singola banda,
senza riuscire a separarsi. Nella PFGE la polarità del campo elettrico viene invertita brevemente e in maniera
periodica durante la corsa. Ogni volta che il campo elettrico viene invertito la molecola si deve orientare di
nuovo per muoversi attraverso i pori nella direzione opposta: maggiore è
la dimensione della molecola, più lento sarà questo processo. Di conseguenza, la migrazione netta dei
frammenti attraverso il gel sarà dipendente dalla dimensione.
Questa tecnica richiede l’isolamento di DNA genomico integro o almeno costituito da frammenti molto grossi.
Non vengono usati i sistemi di estrazione convenzionali, dato che il DNA tende a frammentarsi quando le
cellule vengono lisate.
Le cellule intatte, invece, vengono inglobate in agarosio e sia la lisi cellulare che la digestione con enzimi di
restrizione vengono
effettuate nel cubetto di
agarosio (plug). La plug
viene poi inserita nel
pozzetto del gel.
Con questa tecnica si
possono separare frammenti
di DNA della lunghezza di
2x103 Kb (dimensioni di un
cromosoma di lievito
intero).

L’elettroforesi su gel di
agarosio permette anche la
separazione di molecole
sulla base della loro forma e
la determinazione di
differenti stati
conformazionali del DNA.
In genere più compatta è la molecola più velocemente essa migra; pertanto un DNA completamente rilassato
migrerà più lentamente di un suo topoisomero fortemente superavvolto.

Inoltre effettuando l’elettroforesi in presenza di quantità crescenti di Etidio Bromuro sarà possibile identificare
con certezza i differenti stati conformazionali del DNA. Infatti al crescere della concentrazione di etidio
saranno progressivamente rimossi i giri negativi delle molecole superavvolte con una contemporanea
diminuzione della loro velocità di migrazione. Dopo che questa ha raggiunto un valore minimo (tra 0.1 e 0,5
ug/ml) in corrispondenza di uno stato senza superavvolgimenti l’aumento della concentrazione di etidio
produrrà un aumento della mobilità corrispondente alla formazione di giri di superelica positivi. Invece
l’aggiunta dell’etidio produrrà la diminuzione costante della mobilità delle molecole lineari o rilassate dovuta
alla maggiore rigidità impartita dall’etidio.
ELETTROFORESI SU GEL DI POLIACRILLAMIDE

I gel di poliacrilammide consentono una più fine separazione delle molecole di ac nucleici arrivando a
risolvere frammenti che differiscono anche solo per una base come avviene per il sequenziamento del DNA.
In questo caso però il gel di acrilamide che si utilizza deve essere denaturante (contenente Urea 8M) per far si
che la migrazione non sia influenzata da appaiamenti intramolecolari.
I gel di poliacrilammide si preparano facendo copolimerizzare acrilammide e bis-acrilammide in presenza di
un iniziatore TEMED e di un catalizzatore che è l’ammoniopersolfato. Il TEMED catalizza la decomposizione
dell’ammonio persolfato che produce un radicale libero che da inizio alla polimerizzazione radicalica con
conseguente formazione di lunghi polimeri di acrilammide che sono tenuti insieme da legami crociati a seguito
dell’introduzione occasionale di bis-acrilammide. I monomeri di acrilammide polimerizzano nel senso testa-
coda e occasionalmente si legano ad una molecola di bisacrilammide in grado di formare legami crociati (cross-
linking agent). Si forma quindi una matrice gelatinosa con dei legami crociati a struttura ben definita. Le
dimensioni dei pori che formano legami crociati sono determinate sia dalla concentrazione totale dei monomeri
(acrilammide + bis), sia dal rapporto tra acrilammide e bis. Sia l’acrilammide che la bis sono dei potenti
neurotossici facilmente assorbibili sia per inalazione che attraverso la cute: è opportuno usarli con guanti e
mascherina protettiva

La polimerizzazione può essere inibita dall’ossigeno che rimuove i radicali liberi, ed è per questo che questo
tipo di gel viene fatto polimerizzare tra due lastrine di vetro che vengono fissate insieme ma tenute separate da
spaziatori che ne determinano lo spessore variabile da 0.5 a 1mm. i campioni vengono posti in pozzetti che si
formano ponendo sulla sommità del gel una specie di pettine di plastica prima che avvenga la
polimerizzazione. Questi sono gel verticali che vengono preparati versando nello spazio che si crea tra due
lastre di vetro, tenute separate da spaziatori, la soluzione tampone contenente l’acrilammide e la bis-
acrilammide il temed e l’ APS prima della polimerizzazione
I gel che vengono definiti in base alla quantità totale di acrilammide e bis-acrilammide, generalmente hanno
una concentrazione variabile tra il 3% e il 30%. Gel a bassa percentuale (4%) possiedono pori più grandi e
sono utilizzati per esempio nell’elettroforesi delle proteine quando venga richiesto il libero movimento delle

molecole come nell’isoelettrofocalizzazione orizontale o nei gel di impaccamento della SDS PAGE
Il principio alla base della separazione degli acidi nucleici su gel di poliacrilammide è lo stesso visto per il gel
di agarosio. Anche in questo caso esiste una relazione di proporzionalità inversa tra la mobilità elettroforetica
ed il log del PM ed anche in questo caso si può, attraverso l’uso di markers a PM noto, determinare il PM di
un campione incognito attraverso la costruzione di una retta di taratura

ELETTROFORESI IN CONDIZIONI DENATURANTI.

Come visto in precedenza la migrazione degli acidi nucleici è influenzata dalla loro conformazione. Pertanto
la migrazione di molecole di DNA a singolo filamento o di molecole di RNA dipende dalla loro struttura
secondaria dovuta principalmente a legami idrogeno intraelica. Per far sì che la separazione dipenda solo dal
PM è necessario eliminare gli elementi di struttura secondaria. Questo viene realizzato eseguendo
l’elettroforesi in condizioni denaturanti (sia per ciò che riguarda il campione da separare che il gel).
Gel di agarosio denaturanti sono in genere utilizzati per separare specie di RNA. Gli agenti denaturanti più
comuni sono la miscela formaldeide/formammide, e l’idrossido di metil mercurio.
Nel caso di gel di poliacrilammide si usa generalmente urea (a concentrazioni fino a (7M) come agente
denaturante. L’elettroforesi in gel di poliacrilammide in presenza di urea permette di separare molecole di
DNA che differiscono di un solo paio di basi e questo ha costituito la base sperimentale per i metodi di
sequenziamento rapido degli acidi nucleici.
LA PCR
La Polymerase Chain Reaction (PCR), inventata all’inizio degli 1980 da Kary B. Mullis, Premio Nobel in
Chimica a Ottobre 1993. è un metodo per amplificare (creare copie multiple di) DNA senza usare organismi
viventi, quali E. coli o lievito. La PCR permette di amplificare un corto tratto di DNA (generalmente inferiore
a 3000 bp) di milioni di volte così da ottenerne una quantità sufficiente da potere essere usata in ulteriori analisi
(es: determinare la sequenza nucleotidica, impiegarla come sonda, etc.). La PCR è comunemente usata nei
laboratori di ricerca medica e biologica per numerosi scopi, quali la determinazione di malattie ereditarie,
l’identificazione di fingerprints genetici, il clonaggio di geni, i test di paternità, nel campo investigativo
(biologia molecolare forense) ecc.

I componenti base richiesti per la PCR sono:


•DNA template, che contiene la regione di DNA che deve essere amplificata (estratto da campioni biologici di
differente tipo come –sangue, saliva, urine sperma, striscio vaginale, capelli, cellule amniotiche, villi coriali,
fibroblasti di biopsie, osteoclasti ecc.)
•Due primers, che determinano l’inizio e la fine della regione che deve essere amplificata
•DNA-Polimerasi, che copia la regione che deve essere amplificata
•Nucleotidi, per la costruzione del nuovo DNA
•Buffer, che fornisce un ambiente chimico opportuno per la DNA-Polimerasi.

LA REAZIONE DELLA PCR

Il processo di PCR consiste nella ripetizione di 20-30 cicli, ognuno dei quali consiste di tre fasi. Nella prima,
il DNA a doppio filamento è riscaldato a 95°C per separare le strands rompendo i legami idrogeno tra le basi
complementari. Questo step è chiamato melting (denaturazione) ed ha una durata di 30’’ – 1 min (spesso
prima del primo ciclo, il DNA è denaturato per un tempo più lungo per assicurare che sia il DNA template
che i primers siano completamente sotto forma di singola elica).
Dopo aver separato le eliche di DNA, la temperatura è abbassata in modo tale che i primers possano ibridarsi
col DNA a singolo filamento. Questa tappa è chiamata annealing (ibridazione). La temperatura di questo step
è specifica per ciascuna coppia di primer e viene calcolata sulla base della loro sequenza. Una temperatura
errata durante l’ annealing può risultare in primers non legati al template DNA (troppo alta), o legati
casualmente (troppo bassa) L’annealing in genere dura 1 min.
Infine, la DNA-Polimerasi sintetizza nuove catene polinucleotidiche. Inizia in corrispondenza del 3’ dei primer
annealati e li estende lungo il DNA. Questa tappa è chiamata elongation (allungamento). La temperatura di
elongazione dipende dalla DNA-Polimerasi (in genere si usa la temperatura di 72°C per la Taq Polimerasi).
La durata di questa tappa dipende sia dalla DNA-Polimerasi che dalla lunghezza del frammento da amplificare
(processività Taq DNA polimerasi: 1000 nt/minuto). In genere dura 1 min
Solo nel primo ciclo di PCR vengono sintetizzati una serie di prodotti eterogenei a partire da ciascun filamento
del DNA target.
Queste molecole presentano estremità 5’ identiche, determinate dal primer, ma estremità 3’ eterogenee, in
quanto la sintesi di DNA non termina in un punto preciso, poiché la polimerasi

LA PCR

continua a copiare lo stampo in funzione della sua processività, interrompendosi solo quando la temperatura
viene di nuovo innalzata a 94°C per incominciare il ciclo successivo.
Al ciclo successivo questi prodotti fungono da stampo per la sintesi di nuove catene, dando origine ai prodotti
attesi, in cui entrambe le estremità 5’ e 3’ sono determinate dalle posizioni di appaiamento dei primers. Ciò
succede perché quando il primer ibridizza con un prodotto del ciclo precedente, potrà essere elongato fino a
quando non termina lo stampo, in corrispondenza del punto in cui era stata iniziata la sintesi di quel prodotto.
Questi prodotti corti si accumulano esponenzialmente (il loro numero raddoppia ad ogni ciclo), fino a che uno
dei componenti della reazione di PCR diventa limitante.In una ipotetica situazione in cui è presente 1 sola
molecola stampo di partenza, dopo 30 cicli di PCR si saranno accumulati oltre 250 milioni di molecole di
prodotto specifico.Questo significa che a partire da pochi nanogrammi di DNA stampo si possono ottenere
diversi microgrammi dello specifico frammento di interesse.

La PCR è condotta in un termociclatore, cioè una macchina che riscalda e raffredda velocemente i tubi al suo
interno alla temperatura precisa richiesta in ciascuno step della reazione. Per prevenire l’evaporazione della
miscela di reazione un coperchio riscaldante è posto alla sommità dei tubi di reazione o è stratificato olio alla
superficie della miscela di reazione (La reazione viene normalmente condotta in 50l. Questo volume evapora
rapidamente, condensando sul tappo della provetta. Se il tappo è in contatto con una superficie a temperatura
>94°C si ottiene di nuovo l’evaporazione del campione che condenserà riportandosi in soluzione)
I prodotti della PCR possono essere identificati in base alle dimensioni mediante elettroforesi su gel di agarosio
o poliacrilamide in presenza di un DNA ladder, che contiene frammenti di DNA di dimensioni note.

I PRIMERS E LA DNA POLIMERASI

I parametri più importanti nella PCR riguardano i primers e la temperatura di annealing.


Primers
Il frammento di DNA da amplificare è determinato dalla selezione dei primers. I primers sono corti segmenti
artificiali di DNA--non più lunghi di 50 nt –esattamente complementari all’inizio e alla fine del frammento di
DNA da amplificare. Essi si legano (annealig) al DNA template a questi punti di inizio e fine, dove la DNA-
Polymerase si lega e comincia la sintesi di una nuova strand di DNA.
Alla temperatura di annealing -da non confondere con la temperatura di denaturazione del DNA, definita dal
valore di Tm (temperatura di melting) — i primer ibridizzeranno con le sequenze ad essi complementari
presenti sul DNA template e l’ibrido sarà stabile grazie ai legami H che si instaurano tra le basi. Al di sopra di
tale temperatura i legami H non sono più sufficienti per stabilizzare l’ibrido e i primer vengono dissociati dal
DNA template. Al di sotto della temperatura di annealing risultano stabili anche gli ibridi che si formano tra i
primer e regioni del DNA template che presentano solo parziale omologia con i primer, dando luogo a prodotti
di PCR aspecifici.
La temperatura di annealing aumenta con la lunghezza dei primer e con la quantità di G/C presenti nella
sequenza del primer, in quanto è determinata dalla formula:

Ta: 2n (A+T) + 4n (C+G)


n è il numero di A e T costituenti il primer
m è il numero di G e C costituenti il primer

Caratteristiche dei primer


• lunghezza: 18-30 basi
• Devono fiancheggiare la regione d’interesse
• Contenuto in G+C: 40-60%
• Non devono formare strutture secondarie interne
• Le estremità 3’ non dovrebbero essere complementari per evitare la produzione di dimeri di
primer nella reazione di PCR
• Dovrebbero avere temperature di annealing simili
• Le sequenze dei primer possono anche includere regioni al 5’ utili per le applicazioni successive;
es. siti di restrizione
La scelta della lunghezza dei primers e della loro temperatura di annealing dipende da un numero di
considerazioni.
La temperatura di annealing di un primer è definita come la temperatura al di sotto della quale i primer si
ibridizzeranno al DNA template e al di sopra della quale i primer si dissoceranno dal DNA. La temperatura di
annealing aumenta con la lunghezza dei primer.
Primers troppo corti potrebbero ibridizzarsi a diverse posizioni lungo il DNA template, e questo porterebbe a
produrre copie non-specifiche.
Primers troppo corti mancano della specificità richiesta per amplificare esclusivamente la regione di DNA
templato prescelta. Infatti poiché la probabilità con la quale una determinata sequenza è presente in un DNA è
pari a 1/4n (ove 4 rappresenta i quattro differenti nucleotidi e n rappresenta la lunghezza della determinata
sequenza), se i primer fossero troppo corti, ad es., 10 nt, la sequenza ad essi complementare potrebbe essere
presente ogni circa 1x106 paia di basi (410= 1.048.576) se la distribuzione delle basi fosse casuale.
Cio’ significa che su un DNA genomico umano (3x109 pb) tale sequenza potrebbe essere presente 3000 volte,
e quindi non sarebbe possibile ottenere un prodotto di amplificazione specifico a causa di questo semplice
calcolo probabilistico.
D’altra parte, la lunghezza del primer è limitata dalla temperatura richiesta per l’annealing: primer troppo
lunghi avrebbero una temperatura di annealing troppo alta. Temperature di annealing troppo alte, i.e., sopra
gli 80°C, possono anche causare problemi perché la DNA-Polymerase è meno attiva a tali temperature; se
durante l’elongazione abbassiamo la temperatura per raggiungere quella ottimale per la polimerasi, i primer si
troveranno ad una temperatura inferiore alla TA e quindi si appaierebbero in maniera aspecifica. La lunghezza
ottimale di un primer è generalmente di circa 30 nucleotidi con una temperatura di annealing tra 50°C e 70°C.

I primer per la PCR possono contenere sequenze aggiuntive alle loro estremità 5’, quali ad esempio le sequenze
riconosciute da enzimi di restrizione. Tali sequenze aggiuntive saranno incorporate nel prodotto finale,
rendendo semplice il clonaggio del prodotto di PCR, che verrà effettuato dopo avere sottoposto il prodotto
PCR al taglio con gli enzimi di restrizione la cui sequenza di riconoscimento è portata sui primer. Al contrario,
le estremità 3’ dei primer devono essere esattamente complementari alla sequenza bersaglio: in caso contrario
mancherà un 3’OH che possa essere usato come innesco dalla polimerasi

Un altro parametro importante nella PCR è la DNA polimerasi


Una delle prime DNA-Polimerasi termostabili fu ottenuta dal Thermus aquaticus , batterio termofilo (si è
adattato a vivere nelle solfatare) e chiamata Taq DNA polimerasi.
E’ un enzima termostabile: la temperatura ottimale alla quale replica il DNA è di 72-74°C, e resta attivo anche
dopo incubazione a 95°C .L’enzima manca di attività proofreading, per cui talvolta commette errori nel copiare
il DNA generando mutazioni (errori) nella sequenza di DNA. Polimerasi quali Pwo o Pfu, ottenute dagli
Archea, possiedono l’attività esonucleasica 3’-5’ e possono significativamente ridurre il numero di mutazioni
presenti nella sequenza copiata di DNA. Questi enzimi vengono utilizzati per amplificare lunghi tratti di DNA.
Le polimerasi termostabili contengono anche una attività terminal transferasica che inserisce una adenosina
all’estremità dell’elica neosintetizzata, in maniera indipendente dallo stampo.

OTTIMIZZAZIONE DELLA PCR


I problemi che generalmente si incontrano durante la PCR possono essere di tipo quantitativo e qualitativo.
Problemi di tipo quantitativo (segnale assente o poco visibile) possono dipendere da una bassa concentrazione
dello stampo o dei substrati (deossinucleotidi o primers o anche da una quantità limitante della Polimerasi).
Problemi qualitativi (segnali non specifici) possono dipendere da una scelta non appropriata della Temperatura
di annealing e delle dimensioni dei primers. Anche la composizione del buffer può influenzare la reazione. Un
eccesso di ioni Mg++richiesti per l’attività della Taq Polimerasi può determinare una alta resa di prodotti non
specifici.
La specificità della PCR può essere migliorata anche utilizzando il metodo della partenza a caldo (hot-start),
che prevede che uno dei reagenti, generalmente la Taq polimerasi, venga aggiunta nella miscela di reazione
solo quando essa è portata a una temperatura elevata (almeno 70°C).In tal modo si evita che la sintesi di DNA
abbia inizio a temperature inferiori, alle quali potrebbe essersi verificato un appaiamento aspecifico dei primer
a regioni di solo parziale omologia, che produrrebbero prodotti di amplificazione aspecifici.
In alternativa, sono disponibili preparazioni di Taq polimerasi in cui l’enzima risulta inattivo a temperatura
ambiente, in quanto complessato con un anticorpo specifico che ne inibisce l’attività. Solo quando la miscela
di reazione è portata alle elevate temperature (fase di melting) l’anticorpo si dissocia irreversibilmente e
l’enzima recupera la sua attività.

La Nested PCR, detta anche PCR con primer annidati è un ulteriore metodo che viene talvolta usato per
incrementare la specificità e/o la sensibilità della PCR.
Una piccola aliquota della reazione iniziale è sottoposta ad un nuovo esperimento di PCR, utilizzando una
nuova coppia di primers che si leghino a regioni presenti all’interno del primo prodotto di amplificazione. In
questo modo gli eventuali prodotti aspecifici prodottisi durante il primo esperimento di PCR sono eliminati, in
quanto è altamente improbabile che la coppia di primer annidati trovi sequenze a cui appaiarsi lungo i prodotti
aspecifici.
LONG PCR
Normalmente l’amplificazione PCR è difficoltosa per target > 5 kb, tuttavia sono state messe a punto delle
condizioni sperimentali che permettono l’amplificazione di tratti di DNA fino a circa 50 kb. Queste condizioni
includono:

a) L’uso di 2 polimerasi, una con efficiente attività polimerasica e l’altra con attività di proofreading o
esonucleasica 3’-> 5’
b) Primers di 21-34 nt con TA tra 65°-70°
c) Denaturazione breve (10”) e a temperatura moderata (94°C) per minimizzare i danni al DNA
d) L’uso di cosolventi come il glicerolo che aumentando la stabilità termica della polimerasi e, abbassando la
temperatura di fusione , facilita la denaturazione del template e aumenta la specificità di annealing dei primer.
Si utilizza anche il DMSO che può dare stabilità termica al DNA contro depurinazioni e/o rotture di catena.
e) Un alto pH che è protettivo poiché la depurinazione aumenta con il diminuire del pH. Inoltre a tal scopo nel
tampone di reazione si sostituisce al TRIS, la tricina che crea un ambiente a pH più alto .

RT-PCR
Per poter applicare la PCR allo studio dell’RNA, il campione deve essere prima trasformato in cDNA per
fornire uno stampo opportuno. Ciò è realizzato mediante un processo di trascrizione inversa che utilizza la
Reverse trascriptasi di AMV (avian myeloblastosis virus) o diM-MLV (Moloney murine leukemia virus). Si
possono anche utilizzare DNA-polimerasi termostabili che possiedono a attività retrotrascrittasica (Tth).
Le Reverse Trascrittasi sono enzimi contenenti tre attività:
 DNA polimerasi RNA dipendente.
 RNasi H
 DNA polimerasi DNA dipendente
Esse necessitano di un innesco e mancano di attività proofreading (3’->5’exo). Il DNA preparato in laboratorio
mediante la trascrittasi inversa è chiamato DNA complementare (cDNA).

La reazione avviene in presenza di primer per la prima strand che può essere:
• a) Primer casuale Esanucleotidico
• b) Oligo (dT)
• c) Primer sequenza-specifico

La maggior parte dei messaggeri eucariotici ha una coda di poli(A) all’estremità 3’. Questa coda funge da sito
di annealing per l’oligonucleotide utilizzato come innesco dalla trascrittasi inversa: l’oligo(dT), un corto
primer (20 nt) a DNA.
Quando è terminata la sintesi del primo filamento, si tratta la miscela con la ribonucleasi H, che degrada in
maniera specifica la componente di RNA dell’ibrido RNA-DNA.
Si usano condizioni subottimali di RNasiH, in maniera da non degradare completamente l’RNA, ma lasciare
dei corti segmenti, che fungono da innesco per
la DNA polimerasi I, che sintetizza il secondo
filamento di DNA.

Alternativamente si sfrutta la tendenza degli ac. Nucleici a singola elica a formare strutture secondarie: una
volta che venga degradato l’mRNA stampo mediante alcali o calore, la prima elica del cDNA tende a formare
un’ansa al 3’. In questa maniera si forma l’innesco per la successiva reazione di polimerizzazione condotta da
una DNA polimerasi sullo stampo di DNA. Si ottiene un cDNA a doppio strand, e la porzione dell’ansa (a
singolo filamento) viene rimossa mediante la nucleasi S1.
In alcuni casi per una reazione più efficiente, dopo la sintesi della prima strand si aggiunge una coda
omopolimerica di C al 3’ utilizzando l’enzima trasferasi terminale. La coda di C servirà da stampo per la sintesi
della seconda strand utilizzando come primers oligo G

Utilizzando primer Oligo-dT si può perdere informazione al 5’ del trascritto specie quando i trascritti sono
lunghi, sia perché la trascrittasi inversa a causa della sua bassa processività può fermarsi prima o perché si
incontrano elementi di struttura secondaria nell’mRNA che ne bloccano la retrotrascrizione. Per evitare che
questo succeda si può effettuare la sintesi del cDNA in presenza di un primer esanucleotidico che, appaiandosi
a caso lungo la molecola dell’RNA darà sicuramente luogo a molecole di cDNA, che in tal caso saranno
eterogenee, contenenti l’estremità 5’ del trascritto.

Ulteriori strategie conosciute come RACE (Rapid Amplification of cDNA Ends) raggiungono uno scopo
simile
ENDONUCLEASI DI RESTRIZIONE Formatted: Font: 11 pt, Bold
Gli enzimi di restrizione sono endonucleasi di origine batterica in grado di legare una molecola di DNA a
doppio filamento a livello di una sequenza specifica e di tagliare il filamento in quella posizione o in prossimità
di essa. Il nome di ciascun enzima consiste in una abbreviazione a tre lettere in cui la prima lettera identifica
il genere e le altre due della specie batterica dalla quale vengono purificati (Es. Eco: Escherichia coli), seguita
da un numero romano che caratterizza lo specifico enzima di quella determinata specie batterica (EcoRI e
EcoRV).
Questi enzimi si trovano nei batteri e fanno parte di un sistema di restrizione/modificazione che limita il tipo
di fagi che può infettare un batterio.
Quando una preparazione di fagi fatta crescere su un determinato ceppo batterico vieneè utilizzata per infettare
un differente ceppo si ottiene una bassissima efficienza di infezione. Questo perché il nuovo ceppo produce
un’endonucleasi di restrizione che taglia in frammenti (digerisce) il DNA fagico entrato nella cellula. Si dice,
quindi, che viene “ristretta”, cioè inibita la crescita dei fagi.

Nel ceppo batterico in cui è prodotta una specifica endonucleasi di restrizione, è anche presente un enzima di
modificazione che protegge il DNA cromosomiale del batterio dal taglio ad opera della sua endonucleasi: si
tratta di una metilasi che, metilando il DNA batterico a livello della sequenza riconosciuta dall’enzima di
restrizione, lo protegge dalla digestione.
L’endonucleasi di restrizione e la corrispondente metilasi fanno parte di un sistema di restrizione-
modificazione.

Per esempio l’enzima di restrizione EcoRI riconosce e taglia la sequenza 5’GAATTC3’. I ceppi R di
Escherichia coli, oltre a produrre questo enzima di restrizione, producono anche una metilasi specifica che
serve a proteggere il loro DNA dalla frammentazione. La metilasi EcoRI trasferisce un gruppo metile dalla S-
adenosilmetionina alla posizione N6 del secondo residuo di adenina del sito di riconoscimento EcoRI.
L’enzima di restrizione EcoRI non è in grado di tagliare il DNA a livello del sito cosi’così modificato. Bisogna
aggiungere che La la emimetilazione del DNA è gia’già sufficiente per evitare il taglio del DNA batterico. In
tale maniera il DNA è protetto anche durante il processo della replicazione semiconservativa.
Ricordiamo che il legame della metilasi al DNA determina lo spostamento al di fuori dell’asse della doppia
elica della base da metilare. La struttura della doppia elica cosi’così modificata viene stabilizzata dalla
interazione con la metilasi stessa. Quando la metilasi si dissocia dal DNA la base ritorna alla sua posizione
originaria.

Altri sistemi di modificazione


La maggior parte dei ceppi di E.coli usati in laboratorio contengono due tipi di DNA metilasi la cui attività
può interferire con il taglio degli enzimi di restrizione, se essi presentano siti di riconoscimento completamente
o parzialmente sovrapposti ai siti di metilazione.

La Dam metilasi (Dna adenosina metiltrasferasi) catalizza l’aggiunta di un gruppo metile ai residui di adenina
presenti nella sequenza GATC. La metilazione Dam è correlata con la replicazione del DNA.
La Dcm metilasi (Dna citosina metilasi) che metila le citosine interne nelle sequenze CCAGG e CCTGG.

NOMENCLATURA DEGLI ENZIMI DI RESTRIZIONE

Il nome di ciascun enzima consta di tre lettere nella quale la prima esprime il genere e le altre due la specie
batterica dalla quale proviene, seguita da un numero romano che indica lo specifico enzima di quella
determinata specie in ordine di scoperta qualora dallo stesso batterio vengano isolati enzimi diversi.
A) Le prime tre lettere, scritte in corsivo, sono prese dalla nomenclatura binomiale del batterio di origine.
B) Sierotipi differenti dello stesso organismo sono identificati da una quarta lettera minuscola (Es. Hind, Hinf).
C) Segue una lettera maiuscola o un numero, che identificano un ceppo particolare di quel batterio, ove fosse
necessario.
D). Un numero romano indica l’ordine di scoperta, qualora dallo stesso batterio vengano isolati enzimi diversi.
Esempi: Eco RI Escherichia coli RY13
Sau I Streptomyces aureofaciens
Sau 3A Staphylococcus aureus 3A
Hinf I Haemophilus influenzae (sierotipo Rf)
Hind III Haemophilus influenzae (sierotipo

CLASSIFICAZIONE DELLE ENDONUCLEASI DI RESTRIZIONE


Le endonucleasi di restrizione sono distinte in tre categorie chiamate I, II e III.
Gli enzimi di tutte e tre le classi riconoscono e si legano al DNA a livello di sequenze specifiche.
Le endonucleasi di tipo I sono costituiti costituite da un singolo enzima multifunzionale costituito formato da
3 subunità: una di riconoscimento del sito specifico, una con attività metilasica, una con ativitàattività
nucleasica. Il sito di riconoscimento sul DNA è bipartito, in qualsiasi orientamento (Es: 5’AACN6GTGC3’)
mentre il sito di taglio è casuale, posto circa 1000 pb lontano dal sito di riconoscimento. Il DNA compreso tra
il sito di riconoscimento e quello di taglio viene piegato a formare un’ansa che sporge dall’enzima.
Questi enzimi hanno bisogno di cofattori come, Mg++, SAM (S-adenosilmetionina).
Hanno il sito di metilazione nel sito di riconoscimento.

Le Endonucleasi di Tipo III sono costituite da 2 subunità.Una Subunità (M) svolge un ruolo nel
riconoscimento del sito sul DNA e ha attività metilasica; l’altra subunità (R) contiene una attività nucleasica.
Il sito di riconoscimento sul DNA è biripartito, in orientamento invertito, mentre
Il sito di taglio è casuale, posto circa 25 paia di basi al 3’della sequenza di riconoscimento. Per potersi muovere
lungo il DNA l’enzima necessita di ATP la cui idrolisi fornisce l’energia per lo spostamento. Il sito di
metilazione si trova nel sito di riconoscimento e l’attività endonucleasica e metilasica di questi enzimi sono
simultanee .
Anche questi enzimi necessitano di Cofattori come Mg ++, SAM.

Gli enzimi di Tipo II sono i più usati. L’attività nucleasica e quella metila sica sono svolte da due enzimi
distinti. Il sito di riconoscimento sul DNA è singolo, di natura palindromica ed il sito di taglio è situato a livello
o vicino al sito di riconoscimento. Il sito di metilazione si trova nel sito di riconoscimento.
Hanno bisogno di Mg++ come cofattore.

PROPRIETÁ DEGLI ENZIMI DI RESTRIZIONE DI CLASSE II


Sebbene tutte e tre le classi riconoscono sul DNA specifiche sequenze nucleotidiche, nella tecnologia del DNA
ricombinante vengono in genre genere utilizzati gli enzimi della classe II, in quanto permettono di frammentare
il DNA con precisione e in maniera riproducibile.
Questi enzimi riconoscono dei palindromi cioè sequenze a simmetria binaria, che presentano le stessa sequenza
se vengono lette in direzione 5’-> 3’ su una elica o sull’altra.

Le sequenze bersaglio sono in genere di 4 o 6 paia di basi.


La lunghezza del sito riconosciuto dall’enzima di restrizione influenza la frequenza con cui l’enzima taglia il
DNA e quindi la dimensione media dei frammenti generati.
In una molecola di DNA con una sequenza casuale, in cui tutti e 4 i nucleotidi sono rappresentati in egual
misura, una specifica sequenza costituita da 4 paia di basi è presente in media ogni 250 paia di basi. Per
ciascuna base in ciascuna posizione ci sarà una probabilità su 4 che essa sia presente; poiché le basi sono 4, la
probabilità che si presenti una specifica sequenza costituita da quattro basi è di 44=256.
Una sequenza di 6 pb è presente ogni 4000pb (46=4096).
Esistono enzimi che riconoscono sequenze costituite da 8 nt, tipo Not I. La probabilità che in un DNA sia
presente questo sito di riconoscimento è ancora più bassa (48=65536), cioè l’enzima potrà tagliare in media
ogni 65000 pb: gli enzimi che riconoscono siti a 8 nt vengono detti rare cutters e sono utilizzati per applicazioni
particolari, tipo la pulsed field electrophoresis.
Esistono anche pochi enzimi che riconoscono la stessa sequenza: essi sono detti isoschizomeri. Possono
tagliare esattamente nello stesso punto o anche a distanza di 1 o 2 basi all’interno della stessa sequenza.
Gli enzimi di restrizione possono tagliare la sequenza bersaglio:
a) esattamente al centro, lasciando due tronconi mozzi con le due eliche esattamente della stessa lunghezza:
taglio blunt end Formatted: Font: 11 pt, Bold
b) In maniera asimmetrica, sfalsata di 2 o 4 nt, per cui i frammenti risultanti hanno sporgenze a singolo
filamento a ciascuna estremità: estremità coesive o stickysporgenti. Le sporgenze possono essere dal lato
dell’estremità 5’ (Es. ECoRIEcoRI) o 3’ (Es. PstI). Le estremità generate da questi frammenti sono anche dette
coesive o sticky perché esse
Nel caso degli enzimi che tagliano in maniera sfalsata, il frammento tagliato presenterà delle code a singola
elica che potranno ibridare (riformare legami idrogeno con i nucleotidi complementari) con le code di altri
frammenti generati dalla digestione con lo stesso enzima.

Alcuni enzimi, pur avendo


differenti sequenze di
riconoscimento, generano la
stessa estremità coesiva. Es.: Sau3AI e BamHI producono entrambi l’estremità 5’GATC3’. Tali enzimi
producono estremità compatibili.

ISOSCHIZOMERI: Formatted: Font: 11 pt, Bold


Sono enzimi di restrizione che riconoscono la stessa sequenza
-alcuni tagliano anche la sequenza nello stesso punto
Es. 5’- GATC -3’
3’- CTAG -5’ Sau3A e MboI
-alcuni tagliano la sequenza in posizioni differenti
Es. SmaI blunt 5’-CCC GGG -3’
3’-GGG CCC -5’
XmaI 5’- C CCGGG -3’
3’- GGGCC C -5’

ISOCAUDAMERI:
enzimi di restrizione che riconoscono sequenze bersaglio diverse, ma che tagliano producendo estremità
identiche.
Esempio:
Gli isoschizomeri MboI e Sau3A riconoscono la sequenza di
quattro basi: 5’-....GATC....-3’
3’-....CTAG....-5’ e tagliano prima della G
Mentre BamHI riconosce una sequenza di sei basi:
5’-....G GATCC....-3’
3’- ....CCTAG G....-5’
le estremità dei frammenti generati sono compatibili tra di loro.
Il DNA che si crea unendo queste estremità non viene tagliato da entrambi gli enzimi: per esempio tutti i
frammenti di fusione MboI- BamHI sono tagliati da MboI, ma solo in 1 caso su 16 si rigenera un sito che può
essere tagliato anche da BamHI.

La scoperta degli enzimi di restrizione ed in particolare di quelli di classe II ha rivoluzionato le tecnologie di


studio del DNA . Mediante il loro uso è stato possibile dividere il DNA in frammenti di lunghezza finita,
facilitandone lo studio. La possibilità offerta dall’esistenza di enzimi con estremità sporgenti ha facilitato le
ligazione tra frammenti derivati dall’azione dello stesso enzima , dando un notevole impulso alle tecniche di
clonaggio molecolare.
In questo capitolo si riporta una semplice applicazione degli enzimi di restrizione e cioè il loro uso nella
costruzione di una mappa fisica di un frammento di DNA

TECNICHE DI CLONAGGIO MOLECOLARE


Clonare significa produrre copie identiche: cloni. A livello molecolare clonare un determinato frammento di
DNA consiste :
• nella preparazione di un determinato segmento di DNA a partire da un genoma;
• nell’unirlo a una piccola molecola di DNA che serve da vettore
• nel far replicare questo DNA chimerico un numero molto grande di volte in modo da amplificare il frammento
di interesse.
Se questo codifica per una proteina essa può quindi essere sintetizzata e prodotta in larghe quantità
Le fasi del clonaggio possono essere così riassunte:
a) Taglio del DNA in punti precisi o a caso
b) Unione covalente di segmenti di DNA
c) Trasferimento in una cellula ospite
d) Individuazione e selezione del DNA ricombinante
e) Produzione di proteine ricombinanti

SCHEMA DI CLONAGGIO

PREPARAZIONE DEL FRAMMENTO/I DI DNA DA CLONARE.


Il DNA da clonare consiste generalmente di frammenti aventi dimensioni varabili, da poche centinaia fino a
centinaia di migliaia di paia di basi. Detti frammenti possono essere generati in maniere diverse come tali
casuali di grosse molecole di DNA (per sonicazione o mediante trattamento con endonucleasi non specifiche)
o mediante l’uso di enzimi di restrizione. Per semplicità nella trattazione seguente verrà considerato il
clonaggio del DNA che si origina da quest’ultimo tipo di trattamento.
Come delineato in precedenza le endonucleasi di restrizione di tipo II digeriscono il DNA in corrispondenza
di sequenze specifiche, fornendo frammenti di dimensioni discrete che presentano estremità definite.

E’ opportuno sottoporre il DNA da clonare e il vettore a digestione mediante enzimi di restrizione che lascino
estremità compatibili tra loro(sticky): ciò si effettua digerendo con lo stesso enzima, o con enzimi compatibili.
I legami idrogeno che si formeranno tra le basi complementari delle code appiccicose aiuteranno a mantenere
uniti il frammento da clonare e il vettore.

UNIONE COVALENTE DI SEGMENTI DI DNA

I legami idrogeno tra le basi non sono sufficienti per ottenere una molecola ricombinante stabile. E’ necessario
che vengano costituiti anche dei legami covalenti che possano saldare definitivamente l’inserto da clonare col
vettore.
I frammenti di DNA sono uniti al vettore mediante la DNA ligasi. In laboratorio viene utilizzata la T4 DNA
ligasi, la quale è in grado di ligare non solo molecole con estremità appiccicose, ma anche molecole blunt (con
minore efficienza). Nel caso di molecole con sticky ends compatibili, la ligazione è più efficiente perché i
legami H che si formano tra le basi complementari delle estremità tengono insieme le due molecole
aumentando la probabilità che la ligasi si attacchi e chiuda covalentemente le molecole.
L’enzima usato negli esperimenti di clonaggio è la T4 DNA ligasi. Essa richiede ATP come substrato, in
quanto nel primo passaggio della reazione di ligazione l’enzima reagisce con l’ATP formando un complesso
covalente AMP-enzima. In seguito l’AMP viene trasferito al fosfato in 5’ del nick; successivamente l’OH in
3’ compie l’attacco nucleofilo sul fosfato con formazione del legame fosfodiestere e rilascio di AMP.

Se le molecole da saldare presentano estremità blunt end non possono appaiarsi neanche temporaneamente e
la ligazione è meno efficiente.
Le procedure di digestione e ligazione portano ad un varietà di prodotti, tra cui il plasmide ricircolarizzato su
se stesso, multimeri di inserto o monomeri circolarizzati.
L’evento facilitato dal punto di vista molecolare è la richiusura del plasmide o dell’inserto su se stesso
(reazione intramolecolare) che comporta una sola saldatura, mentre la reazione che porta a molecole
ricombinanti implica due saldature ed avviene tra due specie molecolari differenti.

Per incrementare la percentuale di ricombinanti è necessario condurre la reazione di ligazione in


condizioni ottimali di concentrazioni vettore-inserto. In genere si usano rapporti molari di 3:1 o superiori tra
inserto e vettore.
La formazione della molecola ricombinante è anche facilitata se si sottopone il vettore ad un evento di
defosforilazione. Ciò avviene sottoponendo il plasmide digerito a trattamento con fosfatasi alcalina, che
rimuove i gruppi fosfato dalle estremità 5’ del vettore, impedendo di richiudersi.
Il vettore così modificato potrà soltanto servire da substrato per la ligasi in una reazione che coinvolgerà il
vettore e l’inserto (non defosforilato).

E’ da notare che a livello di ciascuna


delle estremità da ligare ci saranno due
nick da saldare: solo una delle due
eliche sarà definitivamente chiusa in
maniera covalente mediante
formazione del legame fosfodiestere
tra il 5’P portato dal frammento e il
3’OH del vettore. Il nick presente
sull’altra elica non verrà saldato in
quanto l’estremità 5’ portata dal vettore
è defosforilata.
Ciò non costituisce, tuttavia un problema, in quanto la molecola ricombinante presenterà solo due nick, uno su
una elica ed uno sull’altra elica. La molecola sarà stabilizzata dai legami idrogeno che si instaurano tra tutte le
restanti migliaia di coppie di basi che costituiscono il doppio filamento.

VETTORI DI CLONAGGIO
I vettori di clonaggio più usati includono i plasmidi, vettori derivati da DNA fagici e cromosomi artificiali.
Un plasmide (cromosoma accessorio della cellula batterica) è una molecola di DNA circolare a doppia elica
capace di replicazione autonoma nell’ospite batterico poiché contiene una propria origine di replicazione, che
è riconosciuta dalla DNA polimerasi e dalle altre proteine addette alla replicazione del cromosoma batterico.
La maggior parte dei plasmidi utilizzati in laboratorio deriva da un plasmide naturalmente presente nelle cellule
di E. coli, detto ColE1. Pertanto la maggior parte dei plasmidi portano l’origine di replicazione di ColE1.

Plasmidi derivati da ColE1 esistono in numerose varianti la cui lunghezza varia da qualche kb fino a qualche
decina di kb. Essi contengono anche uno o più geni codificanti per la resistenza agli antibiotici, nonché
opportuni siti di riconoscimento per enzimi di restrizione. E’ importante che ciascuno sito di restrizione sia
presente in singola copia, in modo da evitare la frammentazione della molecola plasmidica.

TRASFERIMENTO IN UNA CELLULA OSPITE

L’ospite più comunemente usato negli esperimenti di clonaggio è di tipo batterico; si usa generalmente il ceppo
E.Coli. In numerose applicazioni possono essere usati ospiti di altro genere , anche di tipo eucariotico quali
cellule di lievito o di mammifero.
L’inserimento del plasmide ricombinate nei batteri viene detto TRASFORMAZIONE. Questo è
un processo naturalmente effettuato dai batteri, che sono in grado di assumere DNA nudo dall’ambiente
esterno. Tale proprietà fu dimostrata dagli esperimenti di Griffith che servirono a dimostrare che i geni sono
fatti di DNA. Tale proprietà è anche alla base del trasferimento orizzontale di materiale genetico da un ceppo
batterico all’altro, causa del fenomeno della resistenza agli antibiotici.
La trasformazione non è tuttavia un processo molto efficiente. Per renderla tale i batteri devono essere
opportunamente preparati in laboratorio, cioè resi competenti (suscettibili di trasformazione).
Le cellule batteriche vengono incubate assieme al DNA plasmidico in una soluzione di cloruro di magnesio o
manganese o calcio a 4°C, in maniera da aprire dei piccoli pori sulla parete batterica che permettano l’ingresso
del plasmide. L’incubazione è seguita da uno shock termico (2’ a 42°C) per attivare i geni inducibili e da una
incubazione di 30-60’ nel terreno di coltura privo di antibiotici per consentire l’espressione dei marcatori di
selezione (gene bla, codificante la beta-lattamasi, enzima in grado di modificare gli antibiotici beta-lattamici,
quali l’ampicillina).
A questo punto i batteri possono essere piastrati su terreno solido contenente l’antibiotico.
In alternativa, soprattutto quando si utilizzano plasmidi di grosse dimensioni, si può effettuare
l’elettroporazione: le cellule incubate con il plasmide sono sottoposte ad impulsi elettrici da alto voltaggio.
Questo trattamento serve per aprire dei buchi temporanei nella parete batterica, attraverso i quali possa entrare
il DNA plasmidico.

SELEZIONE DEL DNA RICOMBINANTE

Uno dei primi vettori ad essere stato sviluppato, nel 1977, è il pBR322, costruito legando assieme tre frammenti
di restrizione provenienti da plasmidi naturali di E.coli.
Il vettore è lungo 4363 pb.e le sue piccole dimensioni facilitano il suo ingresso nelle cellule batteriche.Esso
presenta
a) una origine di replicazione;
b) due geni che conferiscono resistenza a due diversi antiobiotici, ampicillina e tetraciclina che rendono
possibile l’identificazione delle cellule batteriche che contengono il plasmide intatto (cellule soltanto
trasformate) o la sua versione ricombinante (cellule trasformate col vettore ricombinante);
c) alcuni siti di restrizione unici (presenti solo una volta nel plasmide). 6 di questi siti sono posizionati
all’interno di uno dei due geni per la resistenza agli antibiotici. Ciò significa che se uno di questi siti viene
usato per il clonaggio la resistenza all’antibiotico viene persa
Per identificare i cloni di cellule batteriche che contengano un pBR322 ricombinante viene utilizzata la
strategia della CRESCITA IN TERRENI SELETTIVI

Per esempio se un frammento di DNA eterologo viene inserito in corrispondenza del sito riconosciuto da PstI,
il gene per la resistenza all’ampicillina viene interrotto ed inattivato.
Le cellule sottoposte a trasformazione vengono fatte crescere su piastre di agar contenenti tetraciclina per
selezionare le cellule che abbiano incorporato il plasmide. Per distinguere i cloni contenenti il plasmide
ricombinante da quelli contenenti il plasmide originario ricircolarizzato si fa una replica di questa piastra. Essa
viene effettuata poggiando un tampone di velluto sterile sulla piastra cresciuta in presenza di tetraciclina e
trasferendolo in una piastra vuota contenente tetraciclina ed ampicillina. In tal modo le colonie saranno
trasferite nella stessa posizione reciproca Le cellule che crescono in presenza di tetraciclina, ma non crescono
nella piastra contenente sia tetraciclina che ampicillina contengono il plasmide ricombinante.
Le cellule contenti il pBR322 wild type (che si è ligato su si se stesso senza inserire il DNA eterologo)
mantengono la resistenza all’ampicillina e possono crescere su entrambe le piastre.
Paragonando le due piastre si identificano i cloni ricombinanti che sono quindi recuperati dalla piastra contente
tetraciclina.
Se invece si usa per il clonaggio il sito BamHI, le cellule ricombinanti saranno resistenti all’ampicillina e
sensibili alla tetraciclina, in quanto BamHI si trova all’interno del gene per la resistenza alla tetraciclina.

La selezione dei ricombinanti viene effettuata più agevolmente utilizzando plasmidi più moderni, del tipo pUC.
In questo caso il principio utilizzato è quello della INATTIVAZIONE INSERZIONALE
Questi vettori portano, oltre al gene per la resistenza all’ampicillina (b- lactamasi), un secondo gene, detto
lacZ’, che è costituito dalla porzione regolatoria e dall’estremità 5’ del gene lacZ (  galattosidasi)ed il gene
lacI, che codifica per il repressore dell’operone lac.
La restante parte del gene lacZ si trova in forma episomica (EPISOMA: molecola di DNA circolare capace di
replicazione autonoma in cellule procariotiche o eucariotiche) nel particolare ceppo di E.coli (Lac -) da usare
per il clonaggio con questo tipo di vettore.
L’episoma porta il gene lacZ. Mediante
complementazione tra i due prodotti genici (la
porzione dell’enzima codificata dal gene lacZ’
portata dal vettore e la porzione enzimatica
codificata dall’episoma) si ottiene l’enzima 
galattosidasi funzionale.
La presenza nelle cellule di  galattosidasi
funzionale può essere saggiata mediante un test
istochimico utilizzando l’X-gal, un composto
chimico che l’enzima converte in un prodotto
di colore blu. Il test va fatto in presenza di IPTG (isopropiltiogalattoside): induttore gratuito dell’operone lac.
Il gene lacZ’ contiene inoltre un raggruppamento di siti di restrizione unici (multiple cloning site): queste basi
inserite non alterano la reading-frame di lacZ’(perché il numero di nt inserito è multiplo di tre) ma determinano
solo l’aggiunta di qualche amminoacido alla porzione aminoterminale del prodotto genico che non
interferiscono con l’attività del peptide.
L’inserimento di una porzione di DNA estraneo in uno di questi siti porta invece all’inattivazione inserzionale
(per scivolamento del modulo di lettura) del gene lacZ’e quindi alla perdita dell’attività  galattosidasica.

Così se il prodotto della trasformazione è piastrato su terreno contenente ampicillina, in presenza di X-gal e
IPTG cresceranno solo colonie costituite da cellule trasformate perché solo i trasformanti sono ampicillina
resistenti.
Alcune colonie sono blu: esse contengono  galattosidasi funzionante, in quanto il gene lacZ’ non è interrotto
(colonie non ricombinanti)
Invece le colonie bianche non presentano attività  galattosidasica, per cui non sono in grado di trasformare il
substrato X-gal in composto colorato. Quindi presentano lacZ’ interrotto: sono i ricombinanti.
Per ottenere la definitiva conferma della presenza dell’inserto, il plasmide ricombinante viene digerito con
quell’enzima di restrizione usato per il clonaggio quando (e avviene nella maggior parte dei casi) è stato
inserito nel vettore un frammento digerito con lo stesso enzima con il quale è stato aperto il vettore. La
ligazione, infatti, ricostituisce il sito di restrizione. Pertanto, la digestione dovrebbe determinare l’escissione
di una molecola avente le dimensioni del frammento clonato
VETTORI DI CLONAGGIO BASATI SUL GENOMA DEL FAGO 
I plasmidi non sono in grado di ospitare inserti di DNA superiori alle 10kb, in quanto tali inserti vanno incontro
a rimaneggiamenti o interferiscono con il sistema di replicazione del plasmide, per cui le molecole di DNA
ricombinanti vengono perse quando l’ospite si divide.
I vettori per la manipolazione di frammenti di dimensioni più grosse sono basati sul fago .
Il fago  è un fago temperato (ciclo litico o lisogeno).
Esso può andare incontro a ciclo litico, nel quale il fago inserisce il suo DNA nella cellula batterica ed utilizza
gli enzimi batterici per la sua espressione, ottenendo come risultato che il batterio sintetizza nuovo DNA
fagico. Una volta terminata la replicazione i nuovi fagi lasciano la cellula batterica causandone la morte e
passano ad infettare nuovi batteri. Piastrando i batteri su terreno solido si osservano delle placche di lisi
trasparenti
Il fago può seguire il ciclo di infezione lisogeno, nel quale il suo genoma si integra nel cromosoma batterico,
ove può rimanere quiescente per molte generazioni, venendo replicato insieme al cromosoma batterico. Nel
ciclo lisogeno è attivato il gene fagico cI che costituisce un repressore della gran parte delle funzioni fagiche.
I batteri nei quali il fago è integrato sotto forma di profago danno luogo a placche torbide. Invece durante il
ciclo litico i fagi si moltiplicano autonomamente e la lisi delle cellule è visualizzata mediante placche di lisi
trasparenti in un terreno di cellule batteriche

Il fago wild type presenta un genoma di DNA a doppia elica lineare, costituito da 48.5 Kb delimitate al 5’ e al
3’ da estremità caratteristiche: le ultime 12 basi ad entrambe le estremità sono a singola elica e sono
complementari tra loro, per cui le 12 basi dell’estremità sinistra (cosL) si possono appaiare con l’estremità
destra (cosR). Queste code coesive si appaiano appena il DNA fagico entra nel batterio formando una molecola
circolare che viene chiusa covalentemente dalla ligasi batterica.
Nel ciclo litico, il DNA circolare di lambda viene inizialmente replicato secondi il modello theta, per produrre
una maggiore quantità di DNA circolare. La replicazione può passare ad un modello alternativo (replicazione
rolling circle: cerchio rotante) che da luogo a un lungo filamento di DNA costituito da molti genomi legati
l’uno all’altro testa-coda (concatenamero).
Mentre il DNA è replicato secondo il rolling circle, i geni del fago sono espressi per produrre i componenti
proteici della particella fagica. Inizialmente le proteine vengono assemblate in due strutture separate: la testa
(nella quale verrà poi inserito il DNA) e la coda, che verrà unita alla testa dopo che vi sia stato impacchettato
il DNA
Il processo di impacchettamento (packaging) coinvolge enzimi che riconoscono sequenze specifiche sul
concatenamero (siti cos) e vi producono i tagli asimmetrici che
generano le estremità caratteristiche. In seguito a questi tagli,
la regione compresa tra due siti cos, che corrisponde quindi ad
un singolo genoma di lambda, viene avvolta ed inserita in una
testa fagica. In seguito viene aggiunta la coda, a formare una
particella fagica matura che viene rilasciata quando la cellula
ospite viene lisata.
La lunghezza del DNA che verrà impacchettato nella testa è
determinata dalla distanza tra i due siti cos.
La testa presenta una capienza ben definita: è fatta per
contenere le 49 Kb del genoma, ma può accoglierne non più di
51Kb e non meno di 38Kb, delimitate da sequenze cos. Queste
dimensioni rappresentano i limiti da considerare quando si usa
il fago come vettore di clonaggio.

Il DNA fagico nudo può essere introdotto artificialmente in una cellula batterica ospite mediante
trasformazione (più correttamente definita trasfezione quando ci si riferisce ad un DNA fagico) e piastramento
su soft agar).
Tuttavia date le dimensioni dei ricombinanti, la trasfezione è un processo inefficiente. Come alternativa si può
effettuare il packaging in vitro del DNA nudo del fago, utilizzando un estratto cellulare di un ceppo batterico
infettato da fagi mutanti difettivi nell’inserimento del DNA nella testa fagica, mescolato ad un estratto cellulare
di un ceppo batterico infettato con fagi mutanti difettivi nella produzione delle code, ma in grado di effettuare
il packaging.
I due estratti complementano le loro funzioni consentendo di effettuare il packaging del fago in vitro. Le
particelle fagiche complete così ottenute vengono quindi mescolate con del “soft agar”, che contiene molte
cellule batteriche non infettate. La miscela di soft agar e particelle fagiche viene versata sopra uno strato di
agar normale, contenuto in una capsula Petri. Il soft agar si distribuisce al di sopra dell’agar duro, formando
uno strato gelatinoso in cui sono sospese le cellule batteriche e le particelle fagiche. Le piastre vengono
incubate per circa 16 ore per consentire la crescita batterica e l’infezione dai batteri da parte dei fagi.
Circa 15 Kb del genoma di , sono dette “facoltative”, in quanto contengono soltanto geni necessari per
l’integrazione del fago in E.coli (ciclo lisogeno). Possono pertanto essere eliminate senza alterare la capacità
del fago di infettare e dirigere la sintesi di nuove particelle fagiche mediante il ciclo litico.
Esistono due tipi di vettori basati sul DNA di lambda: vettori di inserzione e vettori di sostituzione.

VETTORI DI INSERZIONE
Poiché il DNA wild type contiene ovviamente molti siti per la maggior parte degli enzimi di restrizione, se
venisse tagliato con un enzima di restrizione verrebbe frammentato in una serie di frammenti, che sarebbe
difficile riuscire a ricomporre nell’ordine corretto al momento del clonaggio. Pertanto, tutti i vettori derivati
dal genoma del fago lambda sono stati ingegnerizzati per rimuovere i siti di restrizione non desiderati (ottenere
un sito unico). Pertanto questi vettori sono concettualmente simili ad un vettore di tipo plasmidico, in quanto
contengono un sito singolo di clonaggio nel quale il frammento da clonare può essere inserito.

Un esempio è il vettore lambda gt10 che possiede un sito unico per l’enzima EcoRI, posto all’interno del gene
cI.
Per eliminare siti di restrizione multipli sono state eliminate circa 6 Kpb del DNA genomico di lambda, e
quindi il vettore gt10 è costituito da 43 Kpb. Tali dimensioni possono essere inserite in una testa fagica e
permettono l’inserimento di frammenti esogeni di dimensioni fino a circa 8 Kpb. Queste caratteristiche
rendono questo vettore particolarmente utile per la costruzione di library di cDNA. In questo caso i frammenti
da clonare in lambda gt10 dovranno presentare estremità EcoRI.
Anche il vettore sarà sottoposto a digestione per EcoRI, e saranno ottenuti i cosiddetti braccio destro e braccio
sinistro. Mediante ligazione sarà possibile inserire il frammento tra le due braccia.
La reazione di ligazione avverrà tra 2 specie molecolari e non 3, come potrebbe apparire (braccio destro,
inserto, braccio sinistro), in quanto le estremità delle braccia presentano i siti cos, che in quanto complementari
si appaieranno stabilmente a 37°C e perciò anche se i due bracci non sono uniti covalentemente possono essere
considerati come un unico frammento di DNA. Ciò favorisce la reazione di ligazione.
Il prodotto della ligazione sarà un lungo concatenamero così costituito:

Braccio destro-sequenze cos-braccio sinistro-sito Eco-inserto-sito Eco-braccio destro- sequenze cos- braccio
sinistro- sito Eco- inserto…
.
Tale prodotto verrà poi sottoposto al packaging in vitro.
Le dimensioni del vettore parentale sono tali che se due bracci vengono ligati tra loro senza che vi sia inserito
il frammento esogeno anche questo può essere inserito in un testa e dare luogo ad una particella fagica vitale.
Per potere discriminare i fagi ricombinanti si effettua una selezione basata sulla inattivazione inserzionale.
Questa si basa sul fatto che il sito di clonaggio è localizzato nel gene cI, codificante per il repressore delle
funzioni litiche. Pertanto, i fagi non ricombinanti potranno entrare nel ciclo lisogenico, integrarsi nel genoma
batterico e dare luogo a placche torbide quando piastrati su soft agar. I fagi ricombinanti, invece, daranno
luogo al ciclo litico e saranno
discriminabili in quanto produrranno
placche di lisi trasparenti.
VETTORI DI SOSTITUZIONE
Questi vettori sono costituiti da DNA fagico ingegnerizzato nel quale sono state rimosse anche circa 14 Kpb,
corrispondenti alle sequenze codificanti prodotti necessari per la lisogenia. Tale regione è indicata come Stuffer
fragment.
In questo caso le dimensioni del vettore parentale (29 Kbp= 43-14) sono al di sotto del limite inferiore
necessario perché possa avvenire l’impacchettamento. Perché il DNA fagico possa venire impacchettato è
necessario che il frammento rimosso venga sostituito (da cui il nome di vettori di sostituzione) con un
frammento esogeno di dimensioni comprese tra 9 e 22 Kpb:
9 + 29 = 38 (limite inferiore per l’impacchettamento)
22 + 29 = 51 (limite superiore per l’impacchettamento).
Nei vettori di sostituzione sono presenti due siti per il taglio del DNA. Il vettore verrà frammentato in tre pezzi:
le due braccia (che potranno ibridare tra loro a livello delle sequenze cos) e lo stuffer fragment che andrà
eliminato e sostituito con l’inserto da clonare.
Per esempio il vettore di sostituzione EMBL4 presenta due siti BamHI; il frammento da clonare può essere
tagliato sia con BamHI che con l’enzima compatibile Sau3A.
Esistono limitazioni concernenti le dimensioni inferiori di un frammento di DNA perché esso possa essere
inserito nella testa costituiscono un primo sistema di selezione dei fagi ricombinanti: per esempio se l’evento
di ligazione ha unito assieme esclusivamente le due braccia, questi non potranno essere impacchettati.Tuttavia,
poiché potrebbe accadere che alcune molecole dello stuffer fragment non siano state eliminate e quindi
potrebbero essere state ligate di nuovo con le due braccia, è possibile operare una selezione dei ricombinanti
del tipo blu-bianco, in quanto il DNA fagico è stato ingegnerizzato inserendovi il gene batterico codificante la
beta galattosidasi, all’interno del quale sono compresi i siti di clonaggio.
I fagi ricombinanti daranno origine a placche bianche, quelli non ricombinanti daranno origine a placche blu.
GENOTECHE
Una genoteca è un insieme di cloni che contiene tutti i geni presenti in un organismo. Una genoteca può essere
di DNA o di cDNA, quando il DNA che viene usato per la costruzione della genoteca deriva dalla retro
trascrizione di mRNA.

Il numero di cloni richiesti perché esista


una ragionevole probabilità che un qualsiasi segmento del genoma sia rappresentato nella library è dato dalla
formula:

N= ln(1-P)/ln(1-a/b)

N: numero di cloni richiesti


P: probabilità
a: dimensione media dei frammenti inseriti nel vettore
b: dimensione del genoma

Al variare delle dimensioni del genoma del quale si intende costruire una genoteca genomica o di cDNA si
possono utilizzare vettori diversi che vanno dai plasmidi al batteriofago lamda o a vettori con maggiori capacità
tipo cosmidi o BAC.
La tabella seguente mostra di come al variare delle dimensioni del genome e delle dimensioni dell’inserto si
possano scegliere determinati vettori per la costruzione di una genoteca

Per esempio per costruire una genoteca di mammifero (3x109 pb) sarà preferibile usare vettori tipo BAC o
cosmidi, così da contenere la genoteca in un numero relativamente basso di cloni. Questi cloni avranno degli
inserti piuttosto grandi (fino a 300 kb). Per avere inserti di dimensioni più piccole e quindi più maneggevoli
bisognerà utilizzare gvettori tipo il lamda o i plasmidi anche se in questo caso il numero di cloni necessario
per ottenere una rappresentazione completa della genoteca sarà molto più alto.

Costruzione di una genoteca genomica


Una genoteca genomica viene utilizzata quando si intende studiare tutto il DNA (genoma) di un organismo, e
non solo i geni in esso contenuti.
Le modalità di costruzione di una genoteca genomica sono molteplici. In questa sede vengono fornite alcune
informazione di carattere generale.
Per prima cosa occorre frammentare il DNA genomico in pezzi di dimensioni tali da poterli clonare nel vettore
scelto. Se si utilizzano vettori di sostituzione si potranno clonare frammenti di dimensioni massime di circa 20
kbp. La produzione di questi frammenti può avvenire con diverse modalità.

Nell’esempio mostrato in figura il DNA totale di un organismo viene trattato con la nucleasi di restrizione
Sau3A che taglia in corrispondenza della sequenza GATC lasciando delle code a singolo filamento dal lato 5’
terminanti proprio con questa sequenza. La digestione viene condotta in maniera parziale in modo da ottenere
una popolazione di frammenti sovrapposti di dimensioni variabili. I prodotti della digestione sono separati
mediante elettroforesi su gel di agarosio, in modo da selezionare i frammenti aventi dimensioni variabili da 15
a 20 kbp.
Dopo eluizione da gel il DNA è ligato con le due braccia (sinistro e destro) di un vettore l di sostituzione
ottenute digerendo il vettore con l’enzima BamHI. Questo enzima, pur riconoscendo una sequenza diversa da
Sau3A, produce frammenti terminanti con le stesse estremità, pertanto è compatibile con Sau3A. La reazione
di ligazione è seguita dal packaging in vitro e quindi dall’infezione.
I fagi ottenuti saranno visualizzati o come placche di lisi trasparenti o, nel caso in cui si abbia un fago lisogeno
come placche opache (zone conteneti cellule che hanno inglobato il fago)

Costruzione di una genoteca di cDNA


Le genoteche di cDNA sono di utilizzo più frequente rispetto alle genoteche genomiche in quanto contengono
solo porzioni di DNA codificanti per gli mRNA di un organismo e non invece le parti intergeniche o
intrageniche non codificante.
La procedura di base per la preparazione di una genoteca di cDNA è riportata nella figura seguente

In breve si parte dall’mRNA totale dell’organismo che viene separato dagli altri RNA (essenzialmente rRNA
e tRNA) mediante cromatografia di affinità su colonna di OligodT cellulosa.
L’mRNA così ottenuto viene retrotrscritto in cDNA utilizzando un primer costituito da OligodT e l’enzima
trascrittasi inversa (RT). Si ottiene inizialmente un DNA a singola elica che è appaiato con l’RNA stampo.
L’RNA viene eliminato mediante trattamento con alcali o con RNasi H e la seconda elica del DNA viene
sintetizzata usando come primer l’estremità 3’ del cDNA a SS che si ripiega su se stessa o primer ad RNA
che hanno resistito all’azione della RNasi H.
Il cDNA a doppio filamento ottenuto dovrà rappresentare tutto l’mRNA di un organismo. Esso potrà essere
inserito in un vettore l di sostituzione. Questo inserimento può avvenire con diverse modalità. La più comune
consiste nel ligare il cDNA con oligonucleotidi contenenti il sito di restrizione di un determinato enzima (per
esempio BamHI se questo enzima è stato usato per ottenere le due braccia del vettore).

Prima della ligazione con i linkers il cDNA verrà trattato con la metilasi di BamHI, per impedire che l’enzima
tagli entro il cDNA; cosi che la successiva digestione con BamHI determinerà il taglio solo dei linkers. Infine
il cDNA sarà unito alle due braccia del vettore digerito con BamHI.
In alternativa all’uso dei linkers si possono usare degli adattatori, cioè oligonucleotidi con delle estensioni a
singolo filamento corrispondenti ad una estremità coesiva. L’uso degli adattatori previene l’uso della metilasi
consentendo di effettuare subito la ligazione con le due braccia del vettore
Le fasi successive (packaging ed infezione) sono le stesse descritte per la costruzione delle genoteche
genomiche.
MARCATURA DEGLI ACIDI NUCLEICI
La marcatura degli acidi è una parte centrale di molte procedure di Biologia Molecolare. Essa consiste
nell’incorporare in una molecola di Acido Nucleico (DNA o RNA) atomi o gruppi modificati, detti marcatori,
che ne permettano l’individuazione o il riconoscimento. La marcatura rappresenta un metodo molto sensibile
per evidenziare la presenza di una particolare molecola di DNA in soluzione o su una membrana di nylon o
nitrocellulosa, su un gel o su un cromosoma, individuando il segnale emesso dal marcatore.

ISOTOPI RADIOATTIVI
I marcatori possono essere di tipo radioattivo o non radioattivo. I primi sono costituiti dagli isotopi instabili di
un elemento. Gli isotopi di un dato elemento contengono lo stesso numero di protoni, ma un numero diverso
di neutroni; pertanto essi differiscono tra loro per il numero di massa (A: somma dei protoni e dei neutroni),
che viene indicato dall’apice che accompagna il simbolo chimico di ciascun elemento. La stabilità di un isotopo
dipende dal rapporto tra neutroni e protoni nel nucleo: esistono isotopi stabili (pesanti, come l’15N è stato
utilizzato nell’esperimento di Meselson e Sthal) e isotopi instabili che emettono radiazioni e decadono nel
tempo: questi isotopi vengono detti RADIOISOTOPI.
Le radiazioni emesse dai radioisotopi sono di diverso tipo.
Radiazioni : si tratta di particelle costituite da due protoni e due neutroni equivalenti al nucleo dell’Elio.
Queste radiazioni sono caratterizzate da un basso potere di penetrazione, ma essendo radiazioni ioniche
possono interagire con la materia, provocandone la ionizzazione. Essendo dotate di massa consistente hanno
una energia cinetica piuttosto elevata, compresa tra 4 e 10 MeV (1eV è l’energia cinetica posseduta da un
elettrone sottoposto ad una differenza di potenziale di 1 Volt).
Radiazioni : sono particelle molto piccole di massa pari a 1/2000 di quella di un protone. Esse presentano
una singola carica negativa e sono perciò identiche agli elettroni. Hanno un potere penetrante molto grande ed
velocità simili a quella della luce. La loro Energia cinetica è compresa tra 0.01 e 2MeV.
Radiazioni : sono di natura elettromagnetica e sono il risultato di una transizione energetica piuttosto che di
un cambiamento del numero atomico. Presentano un alto potere di penetrazione ed un’alta energia (tra 0.03 e
3 MeV).
Una radiazione emessa da un determinato isotopo è così caratterizzata dalla sua Energia e dal suo potere di
penetrazione. Un terzo parametro che identifica le proprietà di un isotopo radioattivo è il suo periodo di
dimezzamento. Esso si definisce come il tempo necessario affinché il numero iniziale di atomi radioattivi si
riduca alla metà. Questa grandezza varia notevolmente tra i diversi isotopi; per esempio 32P ha un tempo di
dimezzamento di circa 14 giorni, mentre l’isotopo dell’idrogeno (trizio) 3H ha un tempo di dimezzamento di
12.33 anni.
Le unità di misura della radioattività sono il Curie (Ci) ed il Bequerel (Bq)
Il Curie (Ci) è definito come la quantità di Radon in equilibrio radioattivo con un grammo di Radio ed è
equivalente alla quantità di materiale che produce 3.7 x 1010 disintegrazioni per secondo, o 2.2 x 1012
disintegrazioni per minuto (dpm). 1 Ci è una quantità enorme per cui si utilizzano i sottomultipli quali il
millicurie (mCi) o il microcurie ( Ci). Per questo motivo oggi l’unità di misura ufficiale è il Bequerel.
L’attività del materiale radioattivo viene sperimentalmente misurata in appositi strumenti (contatori Geiger o
contatori a scintillazione). Essa è espressa in colpi per minuto (cpm). I cpm sono correlati ai dpm da un
parametro che riflette l’efficienza del contatore e che varia secondo i diversi radioisotopi
dpm = cpm /E dove E è l’efficienza e varia tra 0 ed 1.

efficienza del contatore = cpm/dpm = disintegrazioni contate/disintegrazioni avvenute

I radioisotopi usati in biologia molecolare, emettono energia sotto forma di particelle o radiazioni . E’
32 33
possibile sintetizzare nucleotidi in cui o un atomo di fosforo è sostituito con P o con P, o un atomo di
ossigeno del gruppo fosfato è sostituito con 35S o uno o più atomi di H delle basi sono sostituiti da 3H. Questi
isotopi emettono radiazioni : 32P e 33P emettono radiazioni di alta energia, mentre 35S ed 3H hanno invece
energie significativamente più basse. Invece il tempo di dimezzamento degli isotopi del fosforo (in particolare
32
P) è molto basso (14 giorni) rispetto ad 3H. Isotopi emittenti radiazioni (per esempio 125I o 131I) hanno alte
energie ma attualmente sono di scarso utilizzo per i problemi connessi alla protezione ed al loro smaltimento.
Gli isotopi del fosforo permettono di ottenere un’elevata sensibilità perché hanno un’alta energia di emissione,
ma bassa risoluzione a causa della dispersione del segnale. Un isotopo a bassa emissione come 35S o 3H dà una
minore sensibilità ma una maggiore risoluzione.
Se consideriamo la marcatura dei nucleotidi a seconda della applicazione il fosforo radioattivo potrà essere
presente sui gruppo fosfato in  su quello in  del nucleotide,: si usa l’ 32P quando la marcatura prevede una
reazione di allungamento di una catena polinucleotidica, mentre il  32P si usa nella marcature che prevedono
l’utilizzo di enzimi diversi dalle DNA polimerasi. I nucleotidi marcati infatti funzionano ancora come substrati
per le reazioni enzimatiche e vengono incorporati in una molecola di DNA. Non si usano invece nucleotidi
con il fosforo marcato in posizione
Il segnale radioattivo può essere quantificato mediante un contatore di scintillazioni, ma per la maggior parte
delle applicazioni di biologia molecolare sono richieste informazioni posizionali che si ottengono tramite
esposizione a una lastra sensibile ai raggi X (autoradiografia) o a uno schermo fluorescente sensibile alle
radiazioni (phosphorimaging).
A causa della pericolosità delle radiazioni occorre operare in condizioni di particolare attenzione, quali
compiere le manipolazioni dei radioisotopi in un laboratorio apposito munito di cappe e docce per la
decontaminazione, proteggere occhi e mani mediante l’utilizzo di schermi protettivi e guanti in lattice evitando
qualsiasi contatto fisico con la sorgente di radiazioni, facendo attenzione a monitorare sempre con un contatore
GEIGER l’emissione della radioattività, effettuare lo smaltimento dei rifiuti secondo norme ben precise e
molto meticolose, ed inoltre, conservare i radionuclidi a maggiore energia in contenitori di piombo, isolati da
tutte le altre sostanze di laboratorio.

MARCATURA DEL DNA CON ISOTOPI RADIOATTIVI


I protocolli utilizzati si riferiscono generalmente alla marcatura di frammenti di DNA generati dall’azione di
endonucleasi di restrizione. Variano secondo la posizione in cui si vogliano inserire i nucleotidi marcati: essi
si possono legare a una estremità (marcatura esterna, al terminale 5’ o 3’) o all’interno della molecola
(marcatura interna). I protocolli delle marcature esterne variano anche secondo il tipo di estremità del DNA da
marcare (piatte o sporgenti). In genere la marcatura delle estremità si usa quando è necessario individuare
frammenti che iniziano tutti a partire da una estremità del DNA (es. sequenziamento con la tecnica di Maxam
e Gilbert) mentre la marcatura interna si usa per le sonde destinate allo screening di librerie o per esperimenti
di ibridazione del tipo Southern blot perché garantisce marcature a più alta attività specifica (a.s. = quantità di
sostanza marcata/ quantità totale). Alcune tecniche di marcatura comportano reazioni di sintesi, mentre altre
non prevedono tali reazioni e sono mediate da enzimi differenti dalle DNA polimerasi.
3.1 Marcatura esterna al terminale 5’
Non prevede reazioni di sintesi di DNA e si effettua tramite la rimozione del fosfato in 5’ mediante trattamento
con fosfatasi alcalina e trasferimento, operato dall’enzima Polinucleotide chinasi, del  32P dell’ATP al gruppo
5’OH resosi disponibile. Questo tipo di marcatura ha una maggiore efficienza se le estremità sono del tipo 5’
sporgenti ma si effettua (anche se ha una efficienza minore) anche quando le estremità sono piatte o sporgenti.
È usata per marcare il DNA o l’RNA.

3.2.1 Estremità 5’ sporgenti


La marcatura è una reazione di “riempimento” (fill in) che genera estremità piatte a partire da frammenti
derivati da digestione con enzima di restrizione che produca estremità 5’ sporgenti. La sintesi dei legami
fosfodiesteri è catalizzata dal frammento di Klenow della DNA Polimerasi I di E. coli, che contiene solo
l’attività polimerasica 5’-3’ e l’attività esonucleasica 3’-5’. L’enzima con la sua attività polimerasica estende
l’innesco costituito dal 3’OH rientrante, in presenza dei 4 dNTPs, almeno uno dei quali marcato in . Dal
momento che si tratta di un sito di restrizione ed è pertanto nota la sequenza che funge da stampo per la sintesi,
si sceglierà come nt radioattivo uno di quelli che potranno esssere inseriti. Il risultato finale è un DNA a doppio
filamento con le estremità 3’ marcate. In alternativa, le estremità 5’ sporgenti possono essere generate
dall’attività dell’enzima Exo III, che presenta attività esonucleasica in direzione 3’->5’. In questo caso non
essendo nota la sequenza dei nt incorporati sarà opportuno utilizzare tutti i quattro nt radioattivi.

3.2.2 Marcatura delle estremità 3’ di frammenti con estremità piatte o 3’ sporgenti


Si può usare l’enzima T4 DNA polimerasi che quando è incubato col DNA, in assenza di nucleotidi, esplica
attività esonucleasica 3’->5’ : pertanto anche frammenti con estremità piatte o 3’ sporgenti si trasformeranno
in frammenti con estremità 5’ sporgenti. In seguito all’aggiunta dei dNTPs, marcati in , l’enzima esplicherà
l’attività DNA polimerasica 5’>3’sullo stampo del filamento che protrude. Il risultato finale sarà una molecola
a doppia elica con le estremità 3’ marcate.
In alternativa si può utilizzare la deossinucleotidil transferasi terminale (TdT). Questo enzima aggiunge
deossiribonucleotidi al 3’OH di frammenti di DNA, sia a singola che a doppia elica. E’una polimerasi stampo-
indipendente, per cui il tipo di nucleotide che verrà incorporato nel polinucleotide neosintetizzato dipenderà
esclusivamente dal tipo di substrato fornito: in presenza di un unico tipo di dNTP catalizzerà la sintesi di code
omopolimeriche. L’uso di questo enzima potrebbe determinare l’aggiunta di un numero variabile di nucleotidi
rendendo eterogeneo il prodotto; per controllare questo fenomeno si aggiunge la cordicepina trifosfato che è
un analogo dei dNTP ma manca del gruppo OH in 3’. Questa mancanza previene l’ulteriore addizione di
nucleotidi, dando luogo a frammenti di DNA marcati in modo sufficientemente omogeneo.

3.3 Marcatura interna


3.3.1 Nick translation
La reazione si basa sull'attività sequenziale di due enzimi: DNAsi I pancreatica e DNA Polimerasi I e
sull’accoppiamento della reazione di polimerizzazione con l’attività 5’>3’ exo della DNA Polimerasi I.
Il DNA è inizialmente sottoposto all’azione endonucleasica della Dnasi I pancreatica, che produce una serie
di tagli casuali (nick) su entrambi i filamenti. Ciò determina la formazione di diverse estremità 3’OH che
fungono da innesco per l’attività 5’-3’ polimerasica della DNA Polimerasi I. Nello stesso tempo questo enzima
mediante la sua attività 5’->3’ esonucleasica degrada la catena di

DNA a partire dall’estremità 5’. Si ha pertanto un processo nel quale da un lato il DNA si degrada (attività 5’-
3’ eso) e dall’altra è risintetizzato (attività 5’-3’ pol). La sintesi del DNA inizia nel punto in cui si trova
un’interruzione (nick) che lascia un 3’OH e un 5’ fosfato e la DNA pol estende la catena in maniera
complementare allo stampo, spostando l’interruzione distalmente (nick translation). In questa maniera elimina
le basi non marcate che l’enzima incontra sostituendole con le basi marcate presenti nella miscela di reazione.
Il processo non produce sintesi netta di DNA, ma determina l’incorporazione di nucleotidi marcati man mano
che le interruzioni sono spostate lungo la molecola nella direzione della sintesi. Il risultato finale della reazione
sarà una molecola a doppia elica uniformemente marcata in un’alta percentuale dei suoi nucleotidi.

3.3.2 Marcatura con primer casuali (random priming).


Con questa tecnica per prima cosa si denatura il DNA e successivamente lo si rinatura in presenza di una
soluzione contenente una popolazione di corti oligonucleotidi casuali (generalmente esameri). Questi
oligonucleotidi contengono tutte le sequenze possibili e per gli esameri, significa usare 46 =
4096
oligonucleotidi diversi. Almeno uno degli oligonucleotidi ibriderà con il DNA di interesse e forniranno il
gruppo 3’OH libero per l’inizio della sintesi di DNA da parte della DNA polimerasi stampo dipendente. Poiché
non è richiesta attività 5’->3’ exo, si potrà utilizzare il frammento di Klenow della DNA pol I, in presenza di
tre nucleotidi non marcati e di uno marcato.
Il risultato è una sonda a doppio filamento marcata uniformemente. Poiché viene effettuata una sintesi netta in
vitro di DNA la metodica permette di partire da quantità ridotte di DNA stampo (decine di nanogrammi).

MARCATURA CON SOSTANZE NON RADIOATTIVE

I metodi enzimatici per marcare il DNA sono gli stessi sia che si usino isotopi radioattivi che metodiche non
radioattive (queste ultime hanno forse una efficienza lievemente minore). I marcatori non radioattivi
permettono di eliminare i pericoli per la salute e per l’ambiente derivanti dai radioisotopi, di ridurre i costi
derivanti dallo smaltimento dei rifiuti, di ottenere sonde stabili (che non decadano nel tempo) da utilizzare in
concentrazioni maggiori, così da incrementare la sensibilità, senza causare problemi d’innalzamento del
segnale di fondo, e quindi di accorciare i tempi di analisi.
I metodi di marcatura non radioattiva usati attualmente possono essere a rilevazione diretta o indiretta.
I metodi a rivelazione diretta sono quelli in cui il segnale è incorporato nella sonda, ne permette direttamente
la rivelazione. Sono specifici e danno poco background. Metodi di questo tipo sono usati per marcare il DNA
durante le reazioni di sequenziamento (vedi cap 9). In tal caso ogni dNTP viene marcato con un fluorocromo
che quando è eccitato da una radiazione luminosa emette radiazione ad una diversa lunghezza d’onda. Questo
permetterà di distinguere il tipo di nucleotide incorporato nel DNA

Nei metodi indiretti si inserisce nel DNA una sonda che non è identificabile direttamente, ma che lega con
alta affinità una seconda molecola. Questa è coniugata a un enzima che reagendo con un substrato provoca la
produzione di un prodotto fluorescente o un'emissione di luce , che consente la rivelazione. L'amplificazione
del segnale che deriva dalla conversione di molteplici molecole di substrato in prodotti emittenti luce o
fluorescenti ad opera di ogni molecola di enzima, rende i metodi indiretti particolarmente sensibili.
Le sonde maggiormente utilizzate in questo tipo di metodi sono state la biotina e la Digossigenina.
4.1 Marcatura con biotina
La biotina è una piccola molecola vitaminica ampiamente utilizzata come tracciante non radioattivo per sonde
di acidi nucleici. È possibile ottenere nucleotidi trifosfati legati covalentemente alla biotina, tramite un braccio
di atomi di carbonio di lunghezza variabile ("crosslinker"), che possono poi essere incorporati, con le classiche
metodiche di marcatura, in una molecola di DNA/RNA da usare come sonda. In genere viene utilizzata
l’uridina ( o la deossiuridina), in quanto presenta la migliore struttura per risolvere i problemi di ingombro
sterico determinati dalla modificazione del nucleotide col braccio spaziatore a cui è legata la biotina.

La biotina forma complessi particolarmente stabili con una proteina, l’avidina. Fissando all’avidina molecole
indicatrici quali fluorocromi o particolari enzimi (fosfatasi alcalina, luciferasi, perossidasi) in grado di
convertire un substrato incolore in un composto colorato o di catalizzare una reazione chimica che porta
all’emissione di una radiazione luminosa (chemiluminescenza) si può visualizzare il DNA
4.2 Marcatura con digossigenina
Si basa sull’incorporazione nella catena di DNA, di deossiuridina trifosfato la quale porta legata la
digossigenina mediante un braccio spaziatore di 11 atomi di carbonio (DIG-11). La digossigenina è una piccola
molecola steroidea, anch'essa sfruttata come tracciante non radioattivo per sonde di acidi nucleici. La sonda
così ottenuta viene rivelata con un anticorpo monoclonale anti-digossigenina coniugato con la fosfatasi
alcalina. Si forma così un complesso aptene-anticorpo che può essere evidenziato aggiungendo un adatto
substrato della fosfatasi alcalina e il colorante nitroblutetrazolio (NBT).
DENATURAZIONE, RINATURAZIONE ED IBRIDAZIONE DEGLI ACIDI NUCLEICI
In una doppia elica di DNA si formano specifici legami a idrogeno tra le basi, secondo le regole della
complementarietà. I legami idrogeno che tengono uniti i due filamenti nella doppia elica sono molto più deboli
del legame covalente (legame fosfodiestere) che unisce i nucleotidi nello scheletro di ciascun filamento.
Pertanto i due filamenti possono essere separati senza danneggiare la molecola (degradare le singole catene).
Questo fenomeno è chiamato denaturazione del DNA, ed è un processo largamente reversibile. Pertanto grazie
alla complementarietà tra le basi, i due filamenti possono riappaiare in un processo detto rinaturazione.

DENATURAZIONE DEL DNA


In laboratorio, la denaturazione del DNA, detta anche melting (fusione) viene facilmente indotta mediante
variazioni di:
a) pH: pH basici mentre non rompono i legami fosfodiestere denaturano il DNA
b) Temperatura: esposizione a temperature > di 85° denaturano la doppia elica
c) Costante dielettrica del mezzo in cui l’acido nucleico è risospeso: agenti denaturanti come urea o
formammide possono rompere i legami H tra le coppie di basi, mentre non sono in grado di rompere i legami
covalenti quali quelli fosfodiestere.
Il sistema più semplice per ottenere la fusione del DNA è mediante aumento della temperatura del campione
al di sopra di 85°C. La separazione dei filamenti durante la denaturazione determina un cambiamento in alcune
delle proprietà fisiche di una soluzione di DNA, tra cui la densità ottica. Durante la denaturazione indotta da
variazioni di temperatura, la densità ottica cambia drasticamente in un breve intervallo di temperatura e si
stabilizza dopo che i filamenti si sono completamente separati. Il punto medio di questo intervallo di
temperatura viene detto temperatura di melting (Tm)
La transizione da DNA a doppia elica a DNA denaturato può essere monitorata misurando l’assorbimento della
luce UV. Le interazioni tra le basi impilate riducono la quantità di luce UV assorbita da una soluzione di DNA
rispetto ad una soluzione contenente lo stesso numero di nt. liberi; il decremento di assorbimento della luce è
ancora più evidente quando le due catene complementari si appaiano: Effetto ipocromico.
La denaturazione di un DNA a doppia elica produce invece un aumento nell’assorbimento detto effetto
ipercromico.
Il Tm varia in funzione della composizione in basi del DNA da denaturare: è tanto più alto quanto più alto è il
contenuto in coppie GC. Il motivo di questa variazione è che la coppia GC forma tre legami H, mentre la
coppia AT è tenuta assieme da due legami H. Pertanto è necessaria una temperatura più elevata per rompere
il legame GC.

Esiste una formula per il calcolo del Tm di un DNA in funzione del suo contenuto % in G e C, valutato alla
concentrazione salina di 0.15M ioni Na

Tm= 69.3°C + 0.41°C (% G+C).

Pertanto la determinazione del Tm di una molecola di DNA in condizioni controllate di pH e forza ionica
fornisce una indicazione sulla sua composizione in basi.
Una molecola artificiale di DNA privo di G e C ha un Tm di 69.3°C, mentre ogni 1% di coppie GC innalza il
Tm di 0.41%. Una molecola costituita dal 100% di GC ha un Tm di 110.3°C.
RINATURAZIONE
Un DNA denaturato può rinaturare quando la temperatura viene abbassata lentamente.
La rinaturazione è un processo rapido a una sola tappa se le due catene sono rimaste unite tra loro da brevi
segmenti, anche di una decina di residui, per cui i segmenti srotolati si riavvolgono spontaneamente a riformare
il duplex. Se invece le catene sono completamente separate la rinaturazione avviene in due tappe: la prima è
una tappa lenta durante la quale le regioni complementari sulle due eliche devono “trovarsi” mediante collisioni
casuali per riformare brevi tratti di duplex (evento di nucleazione). Segue una seconda tappa molto più rapida,
in cui il resto della molecola si riunisce con un meccanismo a cerniera.

IBRIDAZIONE MOLECOLARE
La comprensione del meccanismo di denaturazione e rinaturazione del DNA ha portato al suo utilizzo in una
tecnica detta di ibridazione molecolare, secondo la quale due frammenti di catene polinucleotidiche presenti
sotto forma di singolo filamento provenienti da fonti diverse possono unirsi tra loro (ibridare) per formare un
duplex (ibrido molecolare), purché esista complementarietà tra le catene in esame.
In generale la reazione di ibridazione può essere vista come una reazione bimolecolare tra le due catene
complementari, che segue una cinetica del secondo ordine. Possono formarsi duplex:

DNA:DNA
RNA:DNA.
RNA:RNA

Considerando il caso RNA-DNA, la formazione del duplex segue la relazione:

R+D -> H

dove: R = RNA non ibridizzato; D = DNA non ibridizzato H Duplex

Dal punto di vista della cinetica molecolare, la velocità di formazione del prodotto è:

dH/dt= K x R x D

Cioè è legata ad una costante K (costante di velocità) che dipende dalle condizioni sperimentali, e dalle
concentrazioni dei reagenti e del prodotto.

Numerosi fattori influenzano la riassociazione. Essi includono:

1)Temperatura
La velocità di riassociazione degli acidi nucleici cresce man mano che si riduce la temperatura al di sotto del
Tm, con una velocità massima a circa 25°C sotto il Tm. Ulteriori diminuizioni della T causano diminuzione
della velocità di reazione.

2) Concentrazione dei filamenti interagenti


La velocità di rinaturazione di un DNA in soluzione obbedisce alla legge di azione di massa, per cui se le
molecole di acidi nucleici sono presenti in maggiore concentrazione hanno maggiori probabilità di incontrarsi
e quindi di riappaiarsi.
Nel caso della riassociazione RNA:DNA le interazioni intramolecolari (strutture secondarie) a carico
dell’RNA determinano cinetiche di rinaturazione più complesse. In questo caso l’RNA costituisce il
componente lento della reazione, per cui per ottenere cinetiche di rinaturazione comparabili a quelle
DNA:DNA bisogna condurre la reazione con un eccesso di RNA rispetto al DNA.

3) Lunghezza dei filamenti complementari


La velocità di riassociazione di frammenti in soluzione è direttamente proporzionale alla radice quadrata della
loro lunghezza (incrementa all’aumentare della lunghezza).

4) Concentrazione salina
La forte carica negativa presente sui filamenti di acidi nucleici, dovuta ai gruppi fosfato causa una repulsione
elettrostatica che induce i due filamenti a respingersi. In presenza di sali una nuvola di controioni circonda i
filamenti neutralizzando le cariche negative. Pertanto un’alta forza ionica favorisce la rinaturazione.

5) Agenti denaturanti.
La temperatura ottimale per la rinaturazione degli acidi nucleici è intorno ai 65°C. Tuttavia una prolungata
esposizione a tali temperature può determinare rotture nei filamenti polinucleotidici, soprattutto se si tratta di
RNA. Per evitare che questo succeda si cerca di condurre l’ibridazione a temperature inferiori. A questo scopo
è utile l’aggiunta nel tampone di un agente denaturante come la formammide che destabilizza la struttura a
doppio filamento. La formammide si lega ai gruppi amminici delle basi coinvolti nella formazione dei legami
H, per cui destabilizza la doppia elica.
Ciò determina un abbassamento del Tm e pertanto l’ibridazione può essere effettuata ad una temperatura più
bassa. E’ stato calcolato che ogni aggiunta di 1% di formammide permette di abbassare la temperatura di
riassociazione di 0.72°C. Naturalmente l’abbassamento della temperatura determina anche una diminuzione
della velocità di rinaturazione e così si deve cercare un compromesso tra la salvaguardia dell’integrità del DNA
e dell’RNA e il rallentamento della velocità di rinaturazione. E’ stato calcolato che la presenza di 50%
formamide riduce la velocità di rinaturazione di 0.25 volte.

6) Viscosità del tampone


La reazione di ibridazione può essere condotta in una soluzione contenente polimeri, quali il Ficoll (polimero
sintetico del saccarosio) o il Destran solfato. La presenza di questi componenti incrementa la velocità di
riassociazione degli acidi nucleici poiché il DNA è escluso dal volume occupato dal polimero e questo
determina un innalzamento della concentrazione locale del DNA.

7) Errori di appaiamento delle basi


In opportune condizioni sperimentali è possibile la formazione di duplex tra sequenze polinucleotidiche non
perfettamente complementari. La stabilità di questi duplex è inferiore rispetto a molecole perfettamente
appaiate: ogni 1 % di non appaiamento determina l’abbassamento di 1°C del Tm e pertanto bisogna abbassare
la temperatura di ibridazione
Si può sfruttare la possibilità di formare duplex tra sequenze non perfettamente omologhe per compiere studi
di carattere evoluzionistico. Più strette sono le relazioni evoluzionistiche tra specie diverse, maggiore è la
probabilità che i DNA delle due specie possano formare dei duplex ibridi.

TECNICHE DI IBRIDAZIONE
Esistono numerose modalità per effettuare l’ibridazione. Le più usate sono:
a) Ibridazione in soluzione
b) Ibridazione su filtro.

a) Nell’ibridazione in soluzione i componenti della reazione sono entrambi in soluzione. Alla fine della
reazione si isola l’ibrido e se ne misura la quantità. Per esempio questa tecnica si usa quando si desidera
mappare la posizione di un gene su un frammento di restrizione. Alla fine dell’ibridazione la miscela di
reazione è incubata con una nucleasi (per es. la nucleasi S1) che degrada gli acidi nucleici a doppio filamento
e lascia intatti le strutture a doppia elica. Le dimensioni dell’ibrido sono poi determinate mediante gel
elettroforesi. In qualche caso (sonda di DNA) si può anche far ricorso alla digestione con alcali per allontanare
l’RNA ibridato
b) Nell’ibridazione su filtro (maggiormente usata) uno dei componenti è immobilizzato su un filtro (di
nitrocellulosa o di nylon) mentre l’altro, che è generalmente costituito dalla sonda (radioattiva o non
radioattiva) si trova in soluzione.
Il materiale legato al filtro può essere costituito da DNA o RNA; esso può essere fatto legare o dopo la sua
estrazione o sottoponendolo prima a separazione su gel. Questa tecnica, detta “blotting” trova larga
applicazione in Biologia Molecolare.

Possiamo avere diversi tipi di blotting:


Southern blotting: trasferimento di DNA
Northern blotting : trasferimento di RNA
Western blotting: trasferimento di proteine
Il trasferimento avviene da un gel a un supporto solido, costituito da una membrana (comunemente detta filtro)
di nylon o di nitrocellulosa.
Il trasferimento può avvenire per capillarità a pressione ambiente o sotto vuoto, o sotto la spinta di un campo
elettrico (elettroblotting).

SOUTHERN BLOTTING E IBRIDAZIONE


Consideriamo per esempio l’applicazione di questa tecnica nella determinazione dei frammenti di restrizione
contenenti l’informazione per un determinato gene all’interno di un genoma
Si procede attraverso diverse fasi:

a) Digestione del DNA con un enzima di restrizione


Si digerisce il DNA genomico con un enzima di restrizione. (per esempio nel caso di DNA genomico si usano
10 U di enzima per ogni microgrammo di DNA digerendo per 16 ore a 37°C).
Date le dimensioni del genoma si otterranno una miriade di frammenti di restrizione che sono separati mediante
gel elettroforesi su agarosio, in presenza di un marker di peso molecolare. Mediante colorazione in etidio
bromuro si visualizza una “strisciata” (smear) continua, determinata da tutti i frammenti di restrizione ottenuti,
all’interno della quale non possiamo ancora discriminare i frammenti contenenti il gene in questione. Essi
avranno comunque migrato in una posizione precisa, determinata dalle loro dimensioni.

b)Trasferimento (blotting)
Il prodotto della digestione dopo essere stato separato su gel viene trasferito dal gel ad una membrana di
nitrocellulosa o di nylon (filtro). A tale scopo per prima cosa il gel viene posto in una soluzione denaturante
(soluzione basica) per ottenere DNA a singola elica, che si fissa meglio sul
filtro e che può essere usato per l’ibridazione. Dopo la neutralizzazione si procede al trasferimento per
capillarità del DNA dal gel al filtro: il gel è posto al di sopra di un contenitore riempito con un tampone ad
elevata forza ionica. Un ponte di carta da filtro collega il gel alla soluzione sottostante. Al di sopra del gel è
posto il filtro, a sua volta sormontato da una pila di carta assorbente e da un peso. Per effetto della capillarità
la soluzione salina migra verso la carta da filtro asciutta e nel fare ciò attraversa il gel su cui è presente il DNA
denaturato ed il filtro. Il tampone trascina con sé le molecole di DNA che, essendo insolubili in tamponi ad
alta forza ionica, si arresteranno a livello del filtro e vi rimarranno fissate per l’instaurarsi di legami di tipo
elettrostatico con la cellulosa o il nylon.

c) Ibridazione
Per evidenziare all’interno dello smear gli specifici frammenti di restrizione che codificano per il gene di
interesse il filtro viene incubato per un certo tempo (circa 16 hr).) con una soluzione contenente una sonda
(radioattiva o non radioattiva), la cui sequenza è complementare al DNA che si intende individuare. Dopo
l’incubazione il filtro viene sottoposto a dei lavaggi , necessari per eliminare l’eccesso di sonda che non ha
ibridato e che potrebbe dare un segnale di fondo.
I lavaggi vengono effettuati in modo che solo gli ibridi tra regioni perfettamente omologhe sono stabili, mentre
i deboli legami aspecifici che si instaurano tra la sonda ed altre regioni del DNA fissato sul filtro, che non sono
ad essa omologhe, vengono dissociati. Lavaggi ad alta astringenza ad elevata temperatura e bassa forza ionica
(favoriscono la denaturazione).
Nel caso di sonde radioattive la posizione della sonda sulla membrana e quindi dei frammenti di nostro
interesse è identificata mediante autoradiografia come una banda sottile. La autoradiografia consiste nel porre
il filtro a contatto con una lastra autoradiografica, in maniera che le radiazioni emesse dalla sonda radioattiva
interagiscano con l’emulsione presente sulla lastra. L’emulsione contiene dell’argento che, in seguito ad un
processo di sviluppo e fissaggio del tutto analogo a quello usato nei laboratori fotografici, dà luogo a delle
bande visibili sulla lastra. Tali bande sono costituite da argento metallico precipitato in corrispondenza delle
zone in cui sia avvenuta l’interazione tra sonda ed emulsione, indicano i frammenti di DNA contenenti il gene
di interesse. Si è quindi passati da uno smear continuo di frammenti di DNA visibili in etidio bromuro ad una
banda discreta localizzata su una lastra.
Con questa tecnica vengono messe in evidenze quantità di DNA nell’ordine dei picogrammi.

L’ibridazione si può anche effettuare con una sonda non radioattiva (ottenuta marcando il DNA con nucleotidi
modificati contenenti biotina o digossigenina). Come già descritto in precedenza, alla fine dell’ibridazione il
filtro verrà incubato con l’avidina (o con l’anticorpo contro la digossigenina) e successivamente con enzimi
che reagiscono con un substrato cromogeno o fluorescente. Si formeranno dei complessi fluorescenti o si
otterrà della emissione di luce che sarà visualizzata attraverso l’esposizione del filtro con una lastra
autoradiografica.

Con l’ibridazione su filtro ed in particolare con la tecnica dello zooblot si può determinare se un gene di una
data specie (per es. uomo) ha una sua controparte in altre specie. Si preparano campioni di DNA dalle differenti
specie, e si ibridizzano in condizioni opportune (a bassa stringenza) con il frammento di DNA umano (sonda).
Se compaiono segnali di ibridazione vuole dire che il gene è presente anche nelle altre specie analizzate (gene
omologo).

Altri tipi di ibridazione su supporto solido sono quelle su colonia (o placca) ed su microarray.

Nel primo caso il DNA è quello di cloni (colonie) batterici o placche di lisi mediante fagi, che si trasferiscono
da piastre di agar a filtri di nitrocellulosa. Il filtro verrà incubato con una sonda permettendo l’individuazione
della(e) colonie/placche complementari alla sonda.
Nell’ibridazione su microarray oligonucleotidi (o cDNA) codificanti per tutti i geni di un organismo possono
essere immobilizzati su lastrine di vetro che sono poi ibridizzate con sonde fluorescenti. Queste derivano da
RNA che possono essere stati estratti da cellule in diverse condizioni (per es. cellule normali e cancerose di un
individuo). La tecnica permette così di ottenere una stima quantitativa degli mRNA espressi in diverse
condizioni sperimentali.

I segnali ottenuti possono essere quantificati con un densitometro che misura l’intensità del prodotto
fluorescente che è proporzionale alla quantità degli ibridi ottenuti.
SEQUENZIAMENTO DEL DNA
La conoscenza della sequenza nucleotidica del DNA è un essenziale prerequisito per lo studio della struttura e
della funzione dei geni e per la loro manipolazione. Essa ha in parte permesso di identificare regioni regolatorie
e di comprendere molti dei meccanismi della biologia cellulare e di identificare mutazioni, utili ai fini
diagnostici o per analisi di tipo filogenetico.
Già negli anni 60 furono tentate le prime tecniche di sequenziamento che si basavano sulla parziale
degradazione delle molecole di un ac.nucleico e successiva analisi dei prodotti di digestione. Con
quest’approccio Robert Holley nel 68 riuscì a portare a termine il sequenziamento del trascritto di un gene che
codificava per il tRNAAla di lievito, per il quale ottenne il premio Nobel. Il sequenziamento di questa molecola
di solo 77 nt richiese sforzi enormi se si pensa che furono necessari 9 anni di lavoro e circa 1g di tRNA Ala
ottenuti da più di 100 kg di lievito.
La scoperta degli enzimi di restrizione, dette un forte impulso allo sviluppo delle tecniche e nel ‘77 furono
introdotte due metodiche che, sia pure con differenti modalità, permettevano il sequenziamento di un
frammento, ottenendo da questo una serie di molecole di DNA, differenti solo per un nucleotide che potevano
essere separate su un gel di poliacrilammide in condizioni denaturanti.
La prima introdotta da Maxam e Gilbert si basa sulla degradazione selettiva del frammento da sequenziare ad
opera di agenti chimici specifici a livello delle singole basi di un frammento di DNA. Questa metodica è ora
in disuso a causa della laboriosità delle fasi sperimentali che limitavano il numero di basi sequenziate.
La seconda metodica, introdotta da Sanger, si basa sulla generazione di una serie di filamenti di DNA aventi
l’estremità 5’ in comune e terminanti con un nucleotide noto dovuto all’incorporazione di un nucleotide
modificato mancante del gruppo OH al 3’. L’incorporazione di questo nucleotide da parte della polimerasi
blocca infatti il proseguimento delle reazione di sintesi. Questa metodica ha avuto molto più successo anche
perché sono state progettate apparecchiature che hanno consentito l’automazione.

IL METODO DI MAXAM E GILBERT

Il principio di questa metodica si basa sulla degradazione specifica di un frammento di DNA. Essa utilizza un
frammento di DNA a singolo o a doppio filamento marcato ad una sola estremità (5’ o 3’). Il frammento viene
sottoposto a quattro (cinque) reazioni con agenti chimici che determinano la rottura del legame fosfodiestere,
in corrispondenza di una delle quattro basi del DNA. I prodotti ottenuti sono risolti mediante elettroforesi su
gel di poliacrilammide in condizioni denaturanti, così da separare molecole di DNA che differiscono di un solo
nucleotide. Poiché le reazioni si svolgono in condizioni controllate, tali cioè da non modificare tutte le basi in
tutte le molecole sottoposte al trattamento, si otterrà una popolazione di molecole che copre l’intera sequenza
del frammento da sequenziare. La separazione di tali molecole su di un gel di poliacrilammide in condizioni
denaturanti permetterà la determinazione della sequenza attraverso una semplice “lettura” delle bande
distribuite nei singoli pozzetti.
Il sequenziamento secondo Maxam e Gilbert avviene secondo le seguenti fasi:
a) Marcatura terminale del frammento di DNA
b) Separazione delle eliche o digestione con un enzima di restrizione
c) Reazioni chimiche di degradazione base-specifica
d) Elettroforesi
e) Autoradiografia

a) Marcatura terminale del DNA


Informazioni sulle principali modalità di marcatura del DNA in posizione 5’ o 3’ si possono trovare nella
sezione “Marcatura degli Acidi Nucleici”

b) Separazione delle eliche o digestione con un enzima di restrizione


La metodica prevede che il frammento di DNA da sequenziare sia marcato ad una sola estremità. Questo si
può ottenere in due modi:
1) denaturazione del frammento e successiva separazione delle due eliche mediante corsa elettroforetica in
gel neutro; poiché la migrazione dipende dalla conformazione dei due singoli filamenti essi potranno separarsi
ed essere eluiti dal gel
2) digestione con enzimi di restrizione, sfruttando un eventuale sito di restrizione all’interno del frammento
da sequenziare purchè in prossimità di un’estremità. Dei frammenti ottenuti i due terminali avranno una sola
estremità marcata. Essi vengono eluiti dal gel ed utilizzati per il sequenziamento. In questo caso si procede
come se si trattasse di un singolo filamento, in quanto una delle due eliche diventa “invisibile” perché non è
marcata e non produrrà nessun segnale quando si andrà a sviluppare la lastra autoradiografica.

a) Digestione con un enzima di


restrizione

b) Separazione dei filamenti

c) Reazioni chimiche di degradazione del DNA


Il frammento da sequenziale, marcato su una sola estremità, viene suddiviso in 4 aliquote, ognuna delle quali
viene sottoposta ad una reazione specifica per una delle 4 basi :
1) reazione per determinare la posizione delle G
La reazione consiste in una modificazione chimica ad opera del dimetil-solfato (DMS) che attacca un gruppo
metilico all’anello purinico della guanina in posizione N (7) formando la 7 metil-guanina. In tale modo il
legame glicosidico del residuo metilato diventa suscettibile all’idrolisi da parte della piperidina che determina
anche la rottura del legame fosfodiestere. (Anche le adenine reagiscono con il DMS sia pure in modo più
debole)

2) reazione per determinare la posizione delle A+G


In ambiente acido si provoca l’idrolisi del legame glicosidico delle purine. Successivamente la piperidina
determina la -eliminazione dei fosfati dallo zucchero con generazione di due porzioni di DNA. (Se questa
reazione è condotta ad alta temperatura in ambiente alcalino essa interessa le A e le C)
3) reazione per determinare la posizione delle T+C
La reazione consiste in una reazione ad opera dell’idrazina che produce una modificazione chimica a livello
del doppio legame 5-6 dell’anello pirimidinico, che rende poi suscettibile il legame glicosidico all’idrolisi da
parte della piperidina. Se il trattamento del DNA con idrazina avviene in acqua si determina il taglio a livello
dei residui sia di T che di C.
4) reazione per determinare la posizione delle C
Se il DNA viene trattato con idrazina in 1.5 M NaCl reagiscono apprezzabilmente solo i residui C. La
piperidina rimuove la base modificata e taglia la molecola di DNA a livello del legame fosfodiestere
immediatamente a monte e a valle del sito abasico.
d) Gel Elettroforesi
Dopo aver modificato le basi e tagliato in frammenti in corrispondenza delle basi modificate, i frammenti di
DNA vengono denaturati ad alta temperatura e caricati su un gel denaturante di poliacrilammide-urea 8M. I
gel vengono preparati a concentrazioni variabili tra 8 e 20 % e usando spaziatori molto sottili (0,2mm) così
che siano in grado di separare frammenti che differiscono per un solo nucleotide. La presenza di urea, un
agente denaturante, impedisce la formazione di appaiamenti intra-catena nelle molecole che derivano dalle
reazioni di sequenziamento e quindi assicura una migrazione basata esclusivamente sul peso molecolare .
e) Autoradiografia
Il gel è esposto con una lastra per RX. Dopo un tempo adeguato la lastra è sviluppata e la lettura della sequenza
viene effettuata partendo dal basso verso l’alto. In una situazione ideale in ogni posizione dovrà essere visibile
un solo segnale, o al più due nel caso di reazioni che riguardano due basi. In questo caso i residui di G vengono
identificati perché nella stessa posizione si troveranno due bande determinate dai tagli con G ed A+G. Allo
stesso modo i residui di C vengono identificati perché nella stessa posizione si troveranno due bande
determinate dalle reazioni delle T+C e C.

IL METODO DI SANGER
Il materiale di partenza per il sequenziamento è un preparato di molecole di DNA a singolo filamento al quale
far appaiare un breve oligonucleotide, che fungerà da innesco (primer) per la sintesi di un nuovo filamento di
DNA in una reazione che avviene in presenza di inibitori dell’allungamento: i dideossinucleotidi trifosfati.
La metodica prevede che il frammento di DNA da sequenziare venga incubato con il primer e poi diviso in
quattro aliquote; ciascuna aliquota viene incubata con la DNA polimerasi, con una miscela di dNTP di cui uno
(preferibilmente la A) radioattivo e di un inibitore dell’allungamento. Questo è il dideossinucleotide trifosfato
che varierà nei quattro campioni. L’incorporazione di questa molecola provocherà un arresto della sintesi del
DNA ed allora poiché le condizioni di reazione sono tali da permettere l’incorporazione del dideossi solo in
una frazione delle molecole di DNA (nelle altre si incorpora il deossi) alla fine della reazione in ogni provetta
si avrà una popolazione di molecole terminanti ciascuna con un nucleotide noto. L’insieme delle quattro
provette rappresenterà tutte le posizioni del frammento di DNA. La separazione di queste molecole su gel di
poliacrilammide in condizioni denaturanti permetterà la lettura della sequenza: in una reazione condotta in
condizioni ottimali le varie bande differiranno per un nucleotide e per ogni posizione ci sarà un solo segnale
in uno dei quattro pozzetti. Si potrà quindi leggere la sequenza dal basso verso l’alto. Il numero di basi lette
sarà limitato solo dal potere di risoluzione del gel; usualmente si riescono a leggere fino a 500 basi per reazione.

Per quanto riguarda l’enzima viene spesso utilizzata una versione ingegnerizzata della polimerasi del fago T7
detta Sequenase che è caratterizzate da: elevata processività, bassa attività esonucleasica 5’-3’ e bassa attività
esonucleasica 3’-5.

Il DNA da sequenziare è generalmente un frammento, a singolo filamento al quale si deve appaiare un


oligonucleotide a sequenza nota (primer).
Per risolvere il problema della preparazione di un frammento di DNA a singolo filamento che deve servire da
stampo e del primer, la cui costruzione richiederebbe la conoscenza di una parte della sequenza, si clona il
frammento di cui si vuole determinare la sequenza in un vettore a singolo filamento derivato dal fago M13.
Questi è un batteriofago a singolo filamento che, nella forma replicativa, si trova in forma di doppio filamento
e può essere utilizzato come qualunque tipo di vettore per il clonaggio. L’unica differenza è che le cellule
trasfettate con il vettore secernono particelle fagiche a singolo filamento. Conoscendo la sequenza del vettore
è inoltre possibile disegnare dei primer , detti universali, a monte e a valle del sito di clonaggio; in questo
modo non è più indispensabile conoscere la sequenza di parte del frammento da sequenziare.
Attualmente si preferisce inserire il frammento da sequenziale in vettori plasmidici che sono poi usati per il
sequenziamento. Per produrre il DNA a singolo filamento il vettore viene prima denaturato con alcali e dopo
la neutralizzazione si aggiunge il primer, consentendo pertanto l’annealing .
La separazione dei prodotti di reazione avviene mediante gel elettroforesi su gel di poliacrillamide in
condizioni denaturanti e la lettura della sequenza avviene dopo l’autoradiografia
SEQUENZIAMENTO AUTOMATICO
Alcuni anni fa è stato sviluppato un metodo che ha consentito di automatizzare gran parte delle procedure del
sequenziamento. Il metodo consiste innanzitutto nell’uso di dideossinucleotidi contenenti ciascuno un diverso
fluoroforo. Ciascun fluoroforo è scelto in modo tale da non interferire negativamente sulla mobilità
elettroforetica, da avere un massimo di emissione ben risolto e diverso da quello degli altri, e da non ostacolare
l’appaiamento del primer. Dopo la reazione i quattro campioni sono riuniti e caricati su di un unico pozzetto
di un gel di poliacrilammide-urea. Quando i campioni hanno migrato per circa 2/3 della corsa raggiungono un
punto dove vengono irradiati da un raggio laser orientato nel gel perpendicolarmente al DNA. Ciò determina
un segnale di fluorescenza in concomitanza di ciascun filamento di DNA che attraversa il raggio laser; poiché
la lunghezza d’onda della radiazione emessa è diversa per i quattro fluorofori, sarà possibile riconoscere le
quattro basi del DNA ed il risultato sarà visibile sotto forma di un elettroferogramma diviso in quattro canali.
Un sistema computerizzato elaborerà i segnali e rappresenterà direttamente la sequenza nucleotidica del
filamento analizzato
Alcuni sequenziatori di ultima generazione utilizzano invece dei classici gel di poliacrilammide dei capillari,
aventi un diametro di circa 10 : questo rende possibile l’applicazione di voltaggi più elevati con diminuzione
dei tempi di separazione.
I sequenziatori contengono diversi canali consentendo di eseguire alcune decine di sequenze in parallelo. In
questa maniera la quantità di dati prodotti aumenta in modo esponenziale, cosicché diventa limitante l’analisi
dei dati

You might also like