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PROF. AVV.

MARIACARLA GIORGETTI

Il nuovo rito del lavoro per gli incidenti stradali con lesioni
(Testo provvisorio)1

Premessa: L’ambito di applicazione della l. 102/2006

Legge 21 febbraio 2006, n. 102 - Disposizioni in materia di conseguenze derivanti da


incidenti stradali (G.U. n. 64 del 17 marzo 2006)
Art. 3: Alle cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti
ad incidenti stradali, si applicano le norme processuali di cui al libro II, titolo IV,
capo I del codice di procedura civile.

L’art. 3 della legge 102/2006 ha esteso alle cause relative al risarcimento dei
danni per morte o lesioni conseguenti ad incidenti stradali l’applicazione delle norme
dettate dal codice di procedura civile per il rito del lavoro dal libro II, titolo IV, capo
I.
La norma pone delicati problemi applicativi dati, in primo luogo, dalla estrema
laconicità del legislatore che, certamente perseguendo l’intento di una maggiore
celerità nella definizione giudiziale delle controversie oggetto della legge, pare
tuttavia aver del tutto trascurato di dare elementi risolutivi per numerosi snodi
applicativi che sarebbe stato opportuno già affrontare in sede di stesura della norma,
primi tra tutti una chiara disciplina di diritto intertemporale ed il problema del cumulo
di domande aventi ad oggetto danni alla persona e danni materiali.
La prima tematica da affrontare riguarda, in ogni caso, il corretto delinearsi
dell’ambito di applicazione della legge 102/2006, che del tutto genericamente si
riferisce agli “incidenti stradali” dai quali siano derivati “morte o lesioni”.
Appare, peraltro, del tutto evidente che il rito del lavoro non troverà
applicazione qualora dall’incidente stradale siano derivati unicamente danni materiali
derivanti dal danneggiamento o dal perimento di cose, che continueranno ad essere
soggette al rito ordinario.
Considerato, poi, che la norma discorre di “incidenti stradali”, sembra altresì
doversi escludere la sua applicabilità a sinistri causati dalla circolazione di natanti,
sebbene soggetti, ai sensi dell’art. 123 c. ass., alla assicurazione obbligatoria per la
responsabilità civile.
Deve inoltre sottolinearsi che la norma, appunto, discorre di “incidenti
stradali”, a differenza dell’art. 2054 c.c. dedicato ai danni derivanti dalla
“circolazione di veicoli” ed è tuttora controverso se la nozione di incidente stradale
sia o meno sovrapponibile all’area delle controversie disciplinate dall’assicurazione
obbligatoria ai sensi della l. 990/1969 e successivamente dal Codice delle
assicurazioni; la risposta dovrebbe, tendenzialmente, essere negativa, atteso che,
come sopra ricordato, la legge 102/2006 esclude sicuramente dalla sua applicazione le
controversie relative a danni causati dalla circolazione di natanti.
Secondo le prime posizioni assunte dalla dottrina, il rito del lavoro dovrebbe
poter trovare applicazione:
-) quando il danno da morte o lesione non sia casualmente riconducibile alla
circolazione stradale in senso stretto. Come la giurisprudenza della Suprema corte ha
già avuto modo di ribadire, le norme relative alla assicurazione obbligatoria per la
responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli sono applicabili quando i
1
Si tratta di prime osservazioni preliminari alle problematiche nascenti dalla legge n. 102/2006, che
dovranno necessariamente essere sottoposte al vaglio della prassi curiale.

1
veicoli siano in circolazione su strade o aree ad uso pubblico oppure a queste
equiparate, per tali intendendosi quelle aree che, ancorché di proprietà privata,
sono accessibili ad una molteplicità indifferenziata di persone2;
-) all’investimento del pedone, purché avvenuto su strade o aree ad uso pubblico
ovvero a queste equiparate;
-) ai sinistri stradali senza scontro tra veicoli, come nel caso in cui l’incidente si sia
verificato nel tentativo di evitare altro veicolo senza alcuna collisione tra gli stessi;
-) ai sinistri causati anche dal veicolo in posizione di sosta o arresto3.
Al contrario, si discute in ordine all’applicabilità del rito del lavoro ai sinistri
tra veicoli a motore ed un velocipede, mentre pare da escludersi l’applicabilità del rito
del lavoro alle controversie costituite dalle c.d. insidie stradali, nelle quali causa del
sinistro non è la circolazione del veicolo ma l’insidia dovuta a cattiva manutenzione
della strada, ecc.
In ogni caso, condizione indispensabile affinché possa trovare applicazione il
rito speciale del lavoro è, oltre che la circostanza oggettiva dell’ “incidente stradale”,
la domanda di risarcimento del danno “per morte o lesione”, quindi per danni alla
persona, non essendo sufficiente la circostanza che la causa abbia ad oggetto un
incidente stradale per la sua trattazione con il rito speciale.
La configurazione giuridica del danno biologico sembra essere stata oggetto di
innovazioni di grande respiro ad opera del Codice delle Assicurazioni, dato che non
sembra possa più ricomprendersi, tra le voci di danno, il danno esistenziale come
categoria autonoma di danno. La nozione di danno biologico, come lesione
dell'integrità psico - fisica della persona suscettibile di accertamento medico - legale,
salva la necessità di personalizzazione in relazione alle "condizioni soggettive" del
danneggiato, dapprima consacrata a livello legislativo dall'art. 5 co. 3 della legge 5
marzo 2001 n. 57, è stata ripresa ed ampliata dagli artt. 138 e 139 del Codice delle
Assicurazioni, che include nello stesso l'incidenza della menomazione su "specifici
aspetti dinamico - relazionali". Da una definizione sintetica di danno biologico, si
passa dunque ad una nozione analitica, che definisce le componenti essenziali dello
stesso. Sulla falsariga degli artt. 138 - 139 del Codice delle Assicurazioni, è
intervenuta una prima sentenza della Cassazione, 18 novembre 2005 n. 244514, che
ha definito l'attuale danno biologico come "pluridimensionale" e al contempo
"unitario". E' stata compiuta dunque una virata rispetto alla costruzione avallata dalla
giurisprudenza del 2003, atteso che, mentre prima veniva configurato come
pluridimensionale il danno non patrimoniale, per la Cass. n. 24451/2005 è
pluridimensionale il danno biologico In particolare, la sentenza individua quattro

2
Cass. 21 dicembre 2005, n. 28303.
3
“Nell'ampio concetto di circolazione stradale, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2054 c. c., deve
ritenersi compresa anche la situazione di arresto o di sosta di un veicolo su strada od area pubblica di
pertinenza della stessa, ancorché al posto di guida non vi sia una persona che abbia la effettiva
disponibilità dei congegni meccanici atti a determinare il movimento, atteso che comunque il
conducente deve, finché il mezzo si trova nella strada, porre in essere tutti gli accorgimenti necessari
ad evitare danni a terzi, segnatamente quando si allontani lasciando il veicolo in sosta (art. 115 cod.
strad.) (nella specie, alla luce del suddetto principio, il supremo collegio ha cassato la pronuncia di
merito che aveva escluso la responsabilità del conducente, momentaneamente allontanatosi dal
veicolo fermo, per i danni prodotti dall'inopinata apertura dello sportello da parte di un terzo
trasportato e seduto accanto al posto di guida)”; così Cass. civ., Sez. III, 24.07.1987, n. 6445; più di
recente, Cass. civ., Sez. III, 05.07.2004, n., 12284, per la quale nell'ampio concetto di circolazione
stradale indicato dall'art. 2054 c.c., come possibile fonte di responsabilità, deve essere ricompresa
anche la posizione di arresto del veicolo e pertanto anche il veicolo sul quale sia in atto il compimento
da parte del conducente di operazioni prodromiche alla messa in marcia.
4
In www.altalex.it, con nota di LO GIUDICE.

2
dimensioni del danno biologico, aggiungendo alle prime due (dimensione fisica e
psichica a prova scientifica), l'incidenza negativa sulle attività quotidiane (come
danno biologico per la perdita della qualità della vita in concreto subito) e la perdita
degli aspetti dinamico - relazionali della vita del danneggiato (che invece attengono
alla vita esterna, non solo a rilevanza sociale, ma anche culturale e politica, inclusa la
perdita della capacità lavorativa generica). Quelle dunque che prima erano ritenute
componenti del danno non patrimoniale, devono oggi considerarsi voci del danno non
patrimoniale biologico. La Corte di Cassazione, nel riferirsi alla componente del
danno biologico "attinente alla sfera della persona", in aggiunta alla componente "a
prova scientifica", parla di "sottovoci storiche", individuandole nel "danno alla vita di
relazione", nella "perdita della qualità della vita" e nella "perdita delle qualità
relazionali, sociali e lavorative". L'innovazione sostanziale introdotta dalla
Cassazione sulla scorta della nozione di danno biologico contenuta nel Codice delle
Assicurazioni, è costituita dal carattere di onnicomprensività del danno biologico, che
contiene anche una valutazione unitaria del pregiudizio non patrimoniale che in esso
refluisce. Stando così le cose, potrebbe sostenersi che la categoria del danno biologico
è oggi unitaria, che si identifica con l'intero ambito del danno non patrimoniale,
comprensivo di danno morale e lesione di altri interessi di rango costituzionale
afferenti alla persona.

Può essere utile segnalare che proprio in questi giorni è stato reso noto che la
Presidenza dell’Unione Triveneta dei Consigli degli Ordini degli Avvocati intende
sottoporre ai sedici ordini nazionali una proposta di riforma della legge 102/2006 che,
come formulata, appare sicuramente in grado di dirimere i primi, gravi, contrasti
interpretativi, del tutto simile alla originaria formulazione della norma in discorso e
sempre nel rispetto della ratio acceleratoria desumibile dai lavori preparatori della
legge 102/2006, che si trascrive di seguito:
Art. 1. L'Art. 3.della Legge 102/06 è abrogato;
Art. 2 "Dopo l'articolo 175 del codice di procedura civile è inserito il seguente:
«Art. 175-bis. - (Domande di risarcimento in caso di incidenti stradali). - 1. Quando
è chiamato a pronunciare su domande di risarcimento relative a lesioni personali o
mortali provocate da incidente stradale, il giudice istruttore fissa le udienze di
trattazione successive alla prima a non più di due mesi l'una dall'altra. 2. Nei
processi di cui al primo comma sono vietate le udienze di merorinvio, ed i termini
previsti dall'art. 163 bis sono ridotti a giorni 60, se il luogo della notificazione si
trova in Italia, ed a giorni 120, se si trova all'estero. 3. La decisione è emessa a
norma dell'art. 281-sexies del codice di procedura civile; se una delle parti lo
richiede il giudice dispone la
discussione in udienza successiva autorizzando lo scambio di note difensive
conclusive sino a venti giorni prima dell'udienza fissata. In caso di particolare
complessità della controversia, il giudice dispone con ordinanza, di cui dà lettura in
udienza, che la sentenza sia depositata nei trenta giorni successivi alla chiusura della
discussione. 4.La sentenza può essere sempre motivata in forma abbreviata, mediante
il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa
esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi. 5.Si
osservano le disposizioni del presente decreto legislativo in tutte le controversie di
risarcimento relativa a lesioni personali o mortali, incluse quelle connesse a norma
degli articoli 31, 32, 33, 34, 35 e 36 del codice di procedura civile. 6. Il comma 4 si
applica anche alle sentenze emesse nei giudizi d'appello.

3
Art 3. Eccettuato il secondo comma del presente articolo che si applica ai giudizi
instaurati dopo l'entrata in vigore della presente legge, i restanti commi si applicano
a tutti i giudizi in corso per i quali non sono state precisate le conclusioni »."

1. Presupposti del processo: L’art. 22 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 – Art.
145 D. Lgs. 7 settembre 2005, n. 209.

Ai sensi dell’art. 144 co. 1 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, il danneggiato
per sinistro causato dalla circolazione di un veicolo per il quale vi è l’obbligo di
assicurazione ha azione diretta per il risarcimento del danno nei confronti
dell’impresa di assicurazione del responsabile civile, entro il limite del massimale. La
norma, che ha inglobato al suo interno le disposizioni prima sparse negli articoli 18,
23 e 26 della l. 990/1969, nel terzo comma prevede un ipotesi di litisconsorzio
necessario con il responsabile civile, disponendo che nel giudizio promosso contro
l’impresa di assicurazione è chiamato anche il responsabile del danno. L’ultimo
comma della disposizione prevede, infine, che l’azione diretta spettante al
danneggiato nei confronti dell’impresa di assicurazione è soggetta al termine di
prescrizione cui sarebbe soggetta l’azione verso il responsabile. La disciplina di
riferimento è dunque dettata dal co. 2 dell’art. 2947 c.c., che prevede il termine
biennale di prescrizione, facendo salva, al co. 3, la possibile applicazione del termine
di prescrizione previsto per il reato, quando il fatto illecito possa qualificarsi anche in
termini di lesioni colpose.
Così schematicamente delineato il quadro normativo relativo all’azione diretta
verso l’impresa di assicurazione, l’azione stessa è soggetta ad alcune condizioni di
proponibilità dettate dall’art. 145 d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, che differiscono
parzialmente a seconda della procedura risarcitoria utilizzata nella fase stragiudiziale
di liquidazione del sinistro.
Più nello specifico, la norma sostituisce l’abrogato art. 22 della legge n.
990/1969, a mente del quale l'azione per il risarcimento di danni causati dalla
circolazione dei veicoli o dei natanti, per i quali vi è obbligo di assicurazione, poteva
essere proposta solo dopo che fossero decorsi sessanta giorni dalla data in cui il
danneggiato avesse chiesto il risarcimento del danno, a mezzo lettera raccomandata
con avviso di ricevimento all'assicuratore.
L’art. 145 Codice Ass., rubricato “proponibilità dell’azione di risarcimento”,
dispone che nel caso in cui sia applicata la procedura di liquidazione di cui al
successivo art. 148 ovvero la procedura di indennizzo diretto di cui all’art. 149
Codice Ass.5, l’azione diretta per il risarcimento dei danni causati dalla circolazione
dei veicoli può essere proposta solo dopo che siano decorsi sessanta giorni, ovvero
novanta in caso di danno alla persona, decorrenti da quello in cui il danneggiato
abbia chiesto all'impresa di assicurazione il risarcimento del danno, a mezzo lettera
raccomandata con avviso di ricevimento.
L’invio della richiesta di risarcimento del danno ed il decorso dei termini
previsti rappresentano dunque condizioni di proponibilità della domanda giudiziale,
evidentemente previste allo scopo di scremare il copioso numero di cause introdotte e
così favorire una risoluzione stragiudiziale della lite. L’ampio lasso di tempo che
deve decorrere tra l’invio della domanda di risarcimento e la proposizione della

5
Disposizione non ancora operativa, stante la mancata emanazione del regolamento applicativo, dietro
proposta del Ministro per le Attività produttive, per la disciplina di tale procedura risarcitoria, come
stabilito dall’art. 150 C. ass.

4
domanda giudiziale consente all’impresa assicurativa di assumere dal danneggiato
ogni informazione e documentazione necessarie all’accertamento della pretesa.
Rispetto alla formulazione dell’abrogato art. 22, la norma oggi in vigore
sdoppia il termine a seconda della tipologia di danno subito, mantenendo il termine di
sessanta giorni per il danno materiale ed elevandolo a sessanta nel caso in cui il
sinistro abbia causato anche lesioni personali. Tale secondo termine si rende
necessario al fine di agevolare un più compiuto accertamento della lesione subita dal
danneggiato e dei relativi postumi, temporanei ovvero permanenti che, a seconda
della tipologia di lesione, possono prevedere un decorso maggiore per la loro
stabilizzazione.
I termini fissati per la proponibilità della domanda, infine, sono perfettamente
corrispondenti ai termini che il legislatore ha assegnato all’impresa assicurativa, ex
artt. 148 e 149 Codice Ass., per la formulazione delle offerte stragiudiziali ai
danneggiati.
Deve altresì rilevarsi che tali condizioni di proponibilità sono rese necessarie anche
nel caso di danno subito dal terzo trasportato (art. 141 co. 3), nonché qualora
l’impresa di assicurazioni si trovi in liquidazione coatta amministrativa (artt. 287 e
294).
Sotto il profilo processuale, la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che
l’onere imposto al danneggiato di richiedere all'assicuratore il risarcimento dei danni
almeno sessanta giorni prima di proporre il relativo giudizio, costituisce condizione di
proponibilità della domanda risarcitoria la cui mancanza è rilevabile d'ufficio in ogni
stato e grado del processo, salva la preclusione del giudicato interno. (Cassazione
civile, sez. III, 21 dicembre 2004, n. 23696; Cassazione civile, sez. III, 21 maggio
2004, n. 9700). Il rilievo in discorso può avvenire anche in fase d’appello, tranne
l’ipotesi in cui la questione non sia già stata esaminata e decisa nel corso del primo
grado del giudizio.
La norma in discorso si applica anche alla domanda riconvenzionale proposta dal
convenuto, nonché a quella dedotta contro il responsabile civile a norma degli art.
2043 e 2054 c.c.
E’ inoltre improponibile la domanda proposta dalla compagnia convenuta
contro il terzo da essa chiamato in causa e indicato come responsabile del sinistro "de
quo", ove la domanda non sia stata preceduta dalla richiesta stragiudiziale.
Secondo l’orientamento prevalente, in merito al contenuto della lettera
raccomandata, deve ritenersi sufficiente che il danneggiato abbia avanzato una
pretesa risarcitoria nei confronti dell’Assicurazione, indicando quanto meno le
circostanze concrete del sinistro e gli estremi identificativi del veicolo del
danneggiante (Cass. 5 luglio 2004, n. 12293; Cass. 31 maggio 2005, n. 11061). La
formulazione del nuovo art. 145 Codice Ass. prevede esplicitamente il rispetto delle
modalità e delle indicazioni contenutistiche previste dagli artt. 148 – 150, così che
parrebbe doversi ora concludere nel senso contrario all’orientamento sopra
menzionato. A differenza di quanto avveniva in precedenza, la richiesta risarcitoria ai
sensi e per gli effetti dell’art. 148 c. ass. dovrà essere corredata della denuncia di cui
all’art. 143, con l’indicazione di giorno e dell’ora in cui le cose sono visibili. Nel caso
di sinistri che abbiano recato gravi lesioni o decesso la documentazione da inviare è
elencata al co. 2. Il danneggiato, pendenti i termini di cui al co. 2, non può rifiutare
gli accertamenti strettamente necessari per la valutazione del danno, ma soprattutto
l’impresa, in caso di richiesta incompleta, entro 30 giorni dalla ricezione della stessa
può richiedere la necessaria integrazione. Ed in questa ipotesi i termini di 60 e 90
giorni per la proposizione dell’azione sono interrotti e riprendono a decorrere dalla
data di ricezione dei documenti integrativi.

5
Ciò ha, quindi, evidente duplice incidenza sulla proponibilità della domanda,
poiché dovrà accertarsi, anche d’ufficio, se il ricorrente ha adempiuto all’onere ed al
rispetto dello spatium deliberandi ed il resistente potrà eccepire che il danneggiato
non ha integrato la documentazione richiesta. Qualora il Giudice rinvenisse tra i
documenti prodotti una richiesta di integrazione, potrà, anche d’ufficio, accertare se il
ricorrente ha integrato la documentazione e, in caso negativo, dichiarare
l’improcedibilità / inammissiblità della domanda. Deve, pertanto, ritenersi che la
domanda diviene improcedibile, a fronte dell’ esplicita richiesta di integrazione
inviata dall’assicuratore.
Quanto ai danni subiti dal trasportato, l’azione, sempre soggetta alle condizioni di
proponibilità di cui all’art. 148, deve essere proposta nei soli confronti dell’assicurato
del veicolo a bordo del quale viaggiava poiché, salva l’ipotesi del fortuito e sempre
salvi i limiti del concorso con altri danneggiati ex art. 140, nei limiti del massimale
minimo di legge, il trasportato è risarcito a prescindere dall’accertamento della
responsabilità dei conducenti.
Soltanto per l’eventuale credito eccedente il massimale minimo di legge, il
trasportato ha la possibilità di agire (dopo) anche nei confronti dell’altro assicuratore
(e del responsabile): l’esaurimento del massimale minimo di legge diventerebbe
quindi condizione di procedibilità di tale domanda.

2. Le varie fasi del processo del lavoro


2.1. I requisiti del ricorso e le ipotesi di nullità.

Nel rito del lavoro la domanda si propone non con atto di citazione a
comparire ad udienza fissa, ma mediante ricorso, che deve essere depositato nella
Cancelleria del Giudice competente. L’instaurazione del contraddittorio, avviene,
pertanto, in via successiva, svolgendo il ricorso solo la funzione di identificare la
domanda. La costituzione dell’attore avviene dunque con il deposito del ricorso,
unitamente ai documenti correlati, nella Cancelleria del giudice competente. Ricevuto
il ricorso, spetta al giudice fissare con decreto l’udienza di discussione, nel rispetto
della disposizione di cui all’art. 415, co. 3, a mente della quale tra il giorno del
deposito e l’udienza di discussione non devono decorrere più di sessanta giorni. Il
decreto del giudice dovrà anche contenere l’espresso avvertimento che la costituzione
oltre il termine di dieci giorni prima dell’udienza implica le decadenze di cui all’art.
416 c.p.c., analogamente a quanto disposto, nel rito ordinario, dal n. 7 dell’art. 163
bis6.
Emanato il decreto di fissazione dell’udienza, il ricorso, unitamente al decreto
stesso, deve essere notificato al convenuto a cura dell’attore, entro dieci giorni dalla
data di pronuncia del decreto (art. 415, co. 4 c.p.c.); tra la data della notificazione al
convenuto e quella di discussione deve intercorrere un termine non minore di trenta
giorni, elevato a quaranta qualora la notifica debba effettuarsi all’estero.
Il contenuto del ricorso è disciplinato dall’art. 414 c.p.c, per il quale il ricorso
deve recare:
1. l'indicazione del giudice;
2. il nome, il cognome, nonché la residenza o il domicilio eletto dal ricorrente nel
comune in cui ha sede il giudice adito, il nome, il cognome e la residenza o il
domicilio o la dimora del convenuto; se ricorrente o convenuto è una persona
giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, il ricorso deve indicare la
denominazione o ditta nonché la sede del ricorrente o del convenuto;

6
TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1999, 93.

6
3. la determinazione dell'oggetto della domanda;
4. l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le
relative conclusioni;
5. l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in
particolare dei documenti che si offrono in comunicazione.
Nell’applicare la disposizione in discorso alle peculiarità delle controversie
aventi ad oggetto il risarcimento del danno da morte o lesioni conseguenti ad
incidenti stradali, si ritiene che il contenuto del ricorso debba, altresì, contenere:
-) la descrizione della dinamica dell’incidente, mediante allegazione del modulo CAI
qualora esistente, i verbali di accertamento e rilevamento della dinamica
eventualmente redatti dalle autorità intervenute nonché eventuali perizie cinematiche
di parte;
-) l’indicazione del fondamento della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale,
del danneggiante;
-) la quantificazione delle voci di danno subite dal soggetto, con l’allegazione di
eventuali perizie di parte, di documentazione rilasciata dai centri sanitari e la
specificazione dei parametri utilizzati per il calcolo delle singole voci;
-) la richiesta di provvisionale, ai sensi dell’art. 147 c. ass. con l’allegazione della
documentazione comprovante lo stato di bisogno, ovvero ai sensi dell’art. 5 l.
102/2006; -) l’istanza per l’esperimento di una c.t.u. medico – legale;
-) la formulazione dei capitoli di prova testimoniale;
-) il deposito della richiesta di accesso agli atti di cui all’art. 146 c. ass. quale
presupposto per ottenere, ai sensi dell’art. 210 c.p.c., l’esibizione da parte della
compagnia assicurativa della documentazione relativa alla valutazione, constatazione
e liquidazione dei danni subiti.

Quanto alla nullità del ricorso e ai suoi rimedi, si segnala una pronuncia delle
Sezioni Unite del Supremo Collegio7, che ha definitivamente chiarito alcuni punti
controversi della materia. Secondo la pronuncia in discorso, “nel rito del lavoro il
ricorrente (per analogia con le prescrizioni dell’art. 163 n. 4 c.p.c.), deve osservare
le disposizioni di cui all’art. 414 n. 4 c.p.c., (esporre gli elementi di fatto e di diritto
posti a base della domanda). In caso di mancata specificazione ne consegue la nullità
del ricorso, da ritenersi però sanabile ex art. 164 c.p.c., comma quinto (norma
estensibile anche al processo del lavoro). Corollario di tali principi è che la mancata
fissazione di un termine perentorio da parte del giudice, per la rinnovazione del
ricorso o per l'integrazione della domanda, e la non tempestiva eccezione di nullità
da parte del convenuto ex art. 157 c.p.c., del vizio dell'atto, comprovano l'avvenuta
sanatoria della nullità del ricorso dovendosi ritenere raggiunto lo scopo ex art. 156
c.p.c., comma secondo. La sanatoria del ricorso non vale, tuttavia, a rimettere in
termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati né specificati in ricorso,
sicché il convenuto può eccepire, in ogni tempo e in ogni grado del giudizio, il
mancato rispetto da parte dell'attore della norma codicistica sull'onere della prova ,
in quanto la decadenza dalle prove riguarda non solo il convenuto (art. 416 c.p.c.,
co. 3), ma anche l'attore (art. 414 c.p.c., n. 5), dovendo ambedue le parti, in una
situazione di istituzionale parità, esternare sin dall'inizio tutto ciò che attiene alla
loro difesa e specificare il materiale posto a base delle reciproche istanze, alla
stregua dell'interpretazione accolta da Corte Cost. 14 gennaio 1977, n. 13”.

7
Cass. Sez. Un., 17 giugno 2004, n. 11353, in Foro it., 2005, 1135, con nota di FABIANI.

7
Quanto agli effetti della mancata contestazione, la pronuncia chiarisce che
“nel processo del lavoro, le parti concorrono a delineare la materia controversa, di
talché la mancata contestazione del fatto costitutivo del diritto rende inutile provare
il fatto stesso perché lo rende incontroverso, mentre la mancata contestazione dei
fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria opera unicamente sulla formulazione del
convincimento del giudice. Tuttavia, intanto la mancata contestazione da parte del
convenuto può avere le conseguenze ora specificate, in quanto i dati fattuali,
interessanti sotto diversi profili la domanda attrice, siano tutti esplicitati in modo
esaustivo in ricorso (o perché fondativi del diritto fatto valere in giudizio o perché
rivolti a introdurre nel giudizio stesso circostanze di mera rilevanza istruttoria), non
potendo, ciò che non è stato detto, anche perché il rito del lavoro si caratterizza per
una circolarità tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova,
donde l'impossibilità di contestare o richiedere prova - oltre i termini preclusivi
stabiliti dal codice di rito - su fatti non allegati nonché su circostanze che, pur
configurandosi come presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non
siano stati esplicitati in modo espresso e specifico nel ricorso introduttivo.”

2.2. Domanda proposta con citazione e sua conversione.

Qualora una causa relativa al risarcimento del danno da morte o lesione


dovute ad incidente stradale sia promossa nelle forme ordinarie, ai sensi dell’art. 426
c.p.c. il Giudice fissa con ordinanza l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. ed il
termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all’eventuale
integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in
cancelleria; a tale udienza provvede secondo il rito speciale. Il mutamento del rito,
dietro eccezione di parte o rilevato d’ufficio dal giudice, non involge alcun problema
di competenza, così che viene escluso che l’ordinanza de quo possa essere impugnata
con il regolamento di competenza8.
Ben può darsi, tuttavia, il caso in cui il giudice adito con le forme del rito
ordinario sia incompetente per valore ovvero per territorio. Secondo autorevole
dottrina, il giudice adito dovrà, in qualunque momento, disporre con ordinanza la
rimessione della causa al giudice competente, fissando un termine perentorio non
superiore a trenta giorni per la riassunzione con rito speciale. Il processo continua,
con la conservazione delle preclusioni intervenute e l’utilizzazione delle attività già
svolte se la riassunzione è tempestivamente compiuta. La riassunzione deve attuarsi
con il rito speciale e dunque con ricorso, che per il contenuto potrà richiamare l’atto
introduttivo o la comparsa di costituzione a seconda di chi sia il riassumente.
L’ammissibilità o la validità della domanda introduttiva non può essere posta
in discussione dall’errore sul rito applicabile, che comporta solo, come si è visto, il
mutamento del rito. Con l’ordinanza di mutamento del rito, il giudice dovrà
concedere termine perentorio per l’eventuale integrazione della citazione, rimediando,
così alla eventuale inosservanza di deduzioni istruttorie o allegazioni probatorie, che
devono essere effettuate, a pena di decadenza, entro l’udienza di discussione.
La continuazione del processo vede la conservazione delle preclusioni
intervenute e l’utilizzazione delle attività già svolte; la conversione del rito non
comporta una nuova comparizione delle parti e se disposta dopo il maturare delle
preclusioni non consentirà alle parti alcuna integrazione dell’attività difensiva, se non
in eventuale replica all’esercizio da parte del giudice dei poteri istruttori d’ufficio9.

8
TARZIA , Manuale del processo del lavoro, IV ed., Milano, 1999, 205 e 209.
9
TARZIA , op. cit., 207 e s.

8
Ai sensi dell’art. 427, co. 2 , c.p.c, le prove acquisite durante lo stato di rito
speciale avranno l’efficacia consentita dalle norme ordinarie; tale principio viene
comunemente considerato applicabile, in via analogica, anche per l’ipotesi di
passaggio dal rito ordinario al rito del lavoro.

MUTAMENTO DEL RITO IN APPELLO

Ai sensi dell’art. 439 c.p.c., la Corte d’appello, se ritiene che il procedimento


di primo grado non si sia svolto secondo il rito prescritto, provvede a norma degli
artt. 426 e 427 e dunque continua il processo, con il diverso rito prescritto dalla legge.
Autorevole dottrina ha ritenuto che l’errore nel rito non è causa di inammissibilità
della domanda né di nullità dell’intero processo (con conseguente salvezza delle
attività svolte in primo grado) e non comporta né la riforma né l’annullamento della
sentenza con rinvio, ma solo la conversione del rito e la prosecuzione del processo
che deve disporsi, anche d’ufficio, con ordinanza in qualunque momento del grado
d’appello. Qualora la Corte d’appello rilevi che la causa decisa con rito ordinario
doveva svolgersi secondo il rito del lavoro, dovrà fissare, con ordinanza, l’udienza di
discussione ai sensi dell’art. 420 c.p.c., con assegnazione alle parti di termine per
l’eventuale integrazione degli atti introduttivi.
Il procedimento prosegue, davanti al Collegio, nelle modalità stabilite per il
primo grado, dovendo aver luogo l’interrogatorio libero delle parti ed il tentativo di
conciliazione; le parti potranno dedurre, nelle memorie integrative, nuovi mezzi di
prova e sollevare nuove eccezioni. Restano, in ogni caso, salvi i principi generali
relativi al giudizio di appello, dovendosi, pertanto, ritenere impedita la formulazione
di domande nuove.
Se la Corte d’appello ritiene che la causa, decisa in primo grado con il rito
speciale, doveva svolgersi secondo il rito ordinario, disporrà che gli atti siano messi
in regola con le disposizioni tributarie, procedendo dunque alla trattazione e alla
decisione secondo il rito ordinario10.
Tali principi possono considerarsi pienamente operativi anche nel caso di
controversia in ordine al risarcimento del danno per morte o lesioni dovuto ad
incidente stradale. L’eventuale mutamento del rito opera in funzione di una norma
processuale quale l’art. 3 della l. 102/2006 che, se ritenuta di immediata applicazione,
non vale comunque ad incidere sulla validità del giudizio svoltosi in primo grado.11
Diversi sono i casi in cui vengano dedotte specifiche doglianze relative al
rispetto del principio del contraddittorio, del diritto di difesa ovvero sia eccepito un
difetto di competenza, dovendo tali doglianze essere oggetto di specifico motivo di
impugnazione, restando in caso contrario assorbite.

2.3. Effetti della mancata comparizione delle parti

In relazione alla mancata comparizione delle parti nel processo del lavoro,
dubbi interpretativi erano sorti in relazione al disposto dell’art. 420 ultimo co. c.p.c.
che pone un divieto alle udienze di mero rinvio in relazione alla Riforma del codice di
rito che aveva soppresso le disposizioni di cui agli artt. 181 e 309 c.p.c, prevedendo
l’immediata cancellazione della causa. Le Sezioni Unite sono, in ultimo, intervenute
per affermare la piena compatibilità con il rito del lavoro, in primo grado ed in
appello, della disciplina della inattività delle parti dettata dal codice per il rito

10
TARZIA, cit., 308 e ss.
11
CHINDEMI, cit.

9
ordinario12. La necessità della fissazione di una nuova udienza prima della
cancellazione della causa dal ruolo aveva,in passato, sollevato ripetute questioni di
legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 97 Cost. ed anche sotto il profilo
della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost.
Il giudice delle leggi ha, sotto entrambi i profili, dichiarato la manifesta infondatezza
delle questioni sollevate. Con ord. n. 7 del 10 gennaio 1997, la Corte costituzionale
osserva che l’art. 97 Cost. non riguarda l’esercizio della funzione giurisdizionale. Con
ord. n. 32 del 9 febbraio 2002 la Corte ha rilevato che l’esigenza di garantire la
ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., va vista anche alla luce delle
altre tutele costituzionali in materia (art. 24 Cost.), nelle quali il legislatore dispone di
ampia discrezionalità, mentre la soluzione prospettata – la cancellazione immediata
della causa dal ruolo con eventuale riassunzione della stessa a cura di parte entro
l’anno – non importa di per sé un’accelerazione dei processi provocando incombenti
di segno contrario, ai quali si aggiunge l’inevitabile maggior costo del processo per le
parti.

2.4. Competenza

Il disposto della legge 102/2006 pone, altresì, un problema interpretativo di


notevole portata, attinente all’individuazione del giudice competente per le cause
aventi ad oggetto il risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad
incidenti stradali, per le quali è ora applicabile il rito del lavoro. A mente dell’art. 7
c.p.c, il Giudice di Pace è competente per le cause di risarcimento del danno prodotto
dalla circolazione di veicoli e di natanti, purché il valore della controversia non superi
Euro 15.493,71; l’art. 413 c.p.c. attribuisce al Tribunale in funzione di giudice del
lavoro la decisione delle controversie elencate dall’art. 409 c.p.c.
Si potrebbe, conseguentemente, ipotizzare che la legge 102/2006 abbia inteso
sottrarre alla competenza del Giudice di Pace ogni controversia avente ad oggetto il
risarcimento del danno per morte o lesioni, conseguente ad incidente stradale,
residuando pertanto solo una competenza per il sinistro con soli danni a cose e sempre
nel limite di valore di cui all’art. 7 c.p.c.
La tesi che appare tuttavia preferibile è quella che, all’opposto, non vede
alcuna deroga ai principi fissati dall’art. 7 c.p.c. Secondo i primi commentatori della
nuova legge13 - ma la tesi in discorso appare già ampiamente accettata - nel caso di
specie si assiste ad una scissione del rito speciale, che si determina in base all’oggetto
della domanda, dal giudice competente, che rimane il giudice di pace o il giudice
monocratico di Tribunale in base alla precedente ripartizione di competenza per il
primo grado e, per il giudizio di appello, rispettivamente, il Tribunale in
composizione monocratica o, la Corte di Appello diversa dalla sezione lavoro a
seconda che a pronunciarsi sia stato il giudice di pace o il Tribunale.
La legge n. 102/2006, in effetti, nulla menziona in ordine ad un eventuale
spostamento della competenza, e non pare seriamente dubitale che lo scopo
perseguito dal legislatore debba rinvenirsi nel rendere applicabile alle cause in
discorso un rito ritenuto, a torto o a ragione, più celere e concentrato rispetto al rito

12
Cass., Sez. Un., 25 maggio 2003, n. 5839.
13
CHINDEMI, Nuove norme in materia di conseguenze derivanti da incidenti stradali (L. 102/2006):
questioni interpretative relative al rito applicabile in caso di connessione tra procedimenti con lesioni
e morte e solo danni patrimoniali, alla applicazione del rito del lavoro alle cause pendenti al
momento di entrata in vigore della legge e ulteriori questioni di natura processuale, in corso di
pubblicazione?

10
ordinario. Disattendendo questa impostazione ed attraverso uno spostamento di
competenza si assisterebbe ad effetti palesemente contrari agli scopi apparentemente
perseguiti dal legislatore, con un ulteriore appesantimento dei ruoli dei Tribunali e
delle Corti d’appello del lavoro che certamente non apporterebbe al danneggiato
alcun beneficio.
Un ulteriore argomento a favore della tesi in discorso risiede, in ultimo,
nell’art. 413 co. 1 c.p.c., che specificamente circoscrive la competenza del Tribunale
in funzione di giudice del lavoro, in primo grado, “alle controversie previste dall’art.
409 c.p.c.”, norma, quest’ultima, che non è stata oggetto di modifica per includervi
anche le cause di risarcimento del danno da morte o lesioni dovute ad incidente
stradale14

2.5. Connessione di cause (lesioni e danni alle cose).

Il vero punctum dolens della legge n. 102/2006 è dato dalla totale assenza di
qualsivoglia disposizione relativa alla possibilità che l’attore richieda non solo il
risarcimento del danno da morte o lesioni, ma anche il risarcimento dei danni
materiali che, nella grandissima maggioranza dei casi, sono contestuale conseguenza
della lesione personale subita in conseguenza di un incidente stradale (si pensi al
danno al vestiario, agli oggetti personali, agli occhiali, ecc.)
Quanto ai danni di natura patrimoniale, quali il danno da incapacità lavorativa
specifica, o il danno da temporanea inabilità al lavoro, alcuni si sono pronunciati a
favore della trattazione con il rito speciale, stante la specifica connessione con la
lesione personale o la morte15.
Ai sensi dell’art. 40 c.p.c., la trattazione congiunta di domande
cumulativamente proposte o successivamente riunite e soggette a riti differenti può
concretarsi solo se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36
c.p.c; ai sensi del terzo comma della norma in discorso, tali cause devono essere
trattate e decise con il rito ordinario, a meno che la controversia non rientri tra quelle
di cui agli artt. 409 e 442 c.p.c.
Sulla problematica sembrano contrapporsi due opposte tesi.
V’è, da un lato, chi sostiene che in forza dell’art. 3 della l. 102/2006 all’art.
409 c.p.c debba ritenersi aggiunto, quale numero 6) il caso delle controversie relative
al risarcimento del danno per morte o lesioni conseguente ad incidente stradale.
Attraverso tale operazione interpretativa, peraltro ritenuta maggiormente aderente alla
ratio sottesa alla riforma, si “salverebbe” la prevalenza del rito speciale su quello
ordinario. In caso contrario, si afferma, la riforma stessa, nella sua interezza, verrebbe
completamente svuotata di significato, dato che la grandissima parte delle
controversie conseguenti ad incidenti stradali ha ad oggetto la proposizione di
domande di ristoro del danno alla persona unitamente al danno materiale, così che, di
fatto, il rito del lavoro imposto dalla l. 102/2006 troverebbe applicazione pressoché
nulla.
Secondo la tesi in discorso16, andrebbero trattate con il rito laburistico:
-) le cause unitariamente proposte aventi ad oggetto il risarcimento dei danni a cose e
quale conseguenza di lesione o morte;

14
DE MARZO, Osservazioni alle novità normative in materia di danni da circolazione stradale, in
Danno e responsabilità, 2006, f. 5, 484.
15
CHINDEMI, cit.
16
Si tratta di CHINDEMI, op. cit.

11
-) le cause, autonomamente proposte, aventi ad oggetto danni a cose e quale
conseguenza di lesione o morte, se riunite per connessione con eventuale competenza
per valore del Tribunale.
Ove invece non venga richiesta la riunione, le cause dovrebbero proseguire su
separati binari, con la possibilità di sentenze contrastanti sulla responsabilità ed il
formarsi del giudicato ove il giudizio più celere (generalmente quello relativo ai soli
danni) sia passato in giudicato ed il secondo giudizio si svolga tra le medesime parti.
In dottrina si è già sottolineato come, secondo l’insegnamento della Suprema Corte,
non rientrino nell’ambito di applicazione dell’art. 40, co. 3, c.p.c. le fattispecie di
cumulo soggettivo ex art. 33 c.p.c. ed ex art. 104 c.p.c.17; secondo la dottrina, il
cumulo soggettivo ed oggettivo di domande sarebbero entrambe espressione della
connessione per coordinazione, in cui la trattazione simultanea delle cause è sempre
possibile, con il solo rischio di una contraddizione logica tra giudicati e non possono
rientrare, pertanto, nell'ambito di applicazione dell'art. 40, co. 3, c.p.c. Il mutamento
del rito che tale norma impone non può essere lasciato alla libera scelta dell’attore
qualora si tratti di cause non connesse tra loro ovvero non legate da un intenso legame
di subordinazione, violandosi, altrimenti, il principio del giudice naturale
18
precostituito per legge .
Una seconda, autorevole, posizione19, di fatto già oggetto di consensi,
conclude che, in caso di cumulo oggettivo tra domande risarcitorie per danni non
patrimoniali e materiali, l’art. 40 co. 3 c.p.c. inequivocabilmente impone la trattazione
con il rito ordinario, salva l’applicazione del rito speciale quando una di tali cause
rientri tra quelle indicate negli artt. 409 e 442. La conclusione a favore
dell’applicazione del rito ordinario è imposta dalla circostanza che il rinvio operato
dall’art. 40 è chiaramente inteso alla materia, e non al rito.
Di talché, non essendo le controversie per il risarcimento del danno da morte o
lesioni conseguente ad incidente stradale ricompreso nelle norme di cui agli artt. 409
e 442 c.p.c., in caso di connessione qualificata dovrebbe prevalere il rito ordinario. La
legge 102/2006 si limita ad indicare l’applicazione delle norme processuali del capo I
del titolo IV del libro II del codice di rito, di talché le controversie in discorso sono
solo assoggettate a tale disciplina processuale speciale, ma non potrebbe in alcun
modo sostenersi che rientrino nell’ambito dell’art. 409 c.p.c., che elenca le
controversie sostanziali che sono assoggettate al rito speciale.
Diversamente opinando, dovrebbe concludersi che il rito speciale operi non
solo quando una delle cause connesse verta in materia di lavoro, ma tutte le volte in
cui una, tra le cause connesse, sia regolata dal rito speciale del lavoro, così
stravolgendo la norma di cui all’art. 40 c.p.c. e in aperta violazione dell’art. 12 disp.
att. c.c.20
Né varrebbe la proposizione di domande risarcitorie separate a seconda della
tipologia di danno, atteso che l’art. 40, co. 3 c.p.c. si applica anche alle cause
connesse successivamente riunite.
Tra le soluzioni proposte dalla dottrina – che comunque ritiene un intervento
clarificatorio del Legislatore del tutto urgente, vi è, in primo luogo, quella di

17
Cass. 25/3/2003, n. 4367, in Rep. Foro it., 2003, voce Competenza civile, n. 112.
18
Così CHINDEMI, cit., e DE MARZO, cit., 484 e s.
19
Sostenuta anche da CONSOLO, Rito del lavoro, lesioni personali nella r.c.a. e lesioni processuali di
fine legislatura, in Corr. giur., 2006, f. 4, 599 e s.
20
Così VIAZZI, in Prime riflessioni sull’estensione del rito del lavoro al contenzioso in materia di
incidenti stradali, Relazione presentata alla Tavola rotonda sul tema “Incidenti stradali e rito del
lavoro, aspetti sostanziali, organizzativi e processuali”, organizzata dal Tribunale di Genova in data 6
maggio 2006.

12
intendere l'espressione ‘cause per incidenti stradali’ non già come domande in senso
tecnico, ma riferita in senso onnicomprensivo alla ‘controversia’, comprensiva sia
della domanda per danni alla persona che della domanda per danni alle cose, così da
far prevalere il rito del lavoro, a meno che non si sia in presenza di casi di
connessione qualificata di cui all’art. 40 co. 3.
Si sostiene, in buona sostanza, un’interpretazione ampia del concetto espresso
dall’art. 3 di “cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni conseguenti
ad incidenti stradali”, che dovrebbe leggersi nel senso di ricomprensione, nel suo
ambito applicativo, di tutte le cause aventi domande risarcitorie purché collegate agli
incidenti più gravi che implichino morte o lesioni; in tali circostanze, il rito del lavoro
dovrebbe attrarre anche le domande risarcitorie minori o accessorie e da esso
dipendenti e riguardanti danni materiali.21

2.6. Domanda riconvenzionale.

Può darsi il caso in cui davanti al giudice di pace venga proposta una domanda
per soli danni materiali, soggetta dunque al rito ordinario, e la parte convenuta
formuli una domanda riconvenzionale per danni alla persona che superi la
competenza per valore del giudice di pace. In tali casi, può sostenersi che ciascuna
domanda debba essere devoluta al giudice competente, con la separazione dei relativi
giudizi.
Qualora, dunque, il giudice di pace sia investito in via riconvenzionale di una
domanda eccedente la sua competenza per valore, dovrà trattenere la domanda
principale relativa al danno materiale, separando la causa riconvenzionale per morte o
lesioni per la quale non sia competente per valore.
Diverso è il caso in cui la domanda riconvenzionale investa il risarcimento del
danno da morte o lesioni conseguenti ad incidenti stradali, che rientri in ogni caso
nella sua competenza per valore, che dovrebbe trovare risoluzione secondo i principi
già enunciati.
Qualora le cause connesse siano proposte ab origine davanti a giudici diversi,
dovrebbe trovare applicazione sia l’art. 40, co. 6 c.p.c. in base al quale se una causa di
competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli artt. 31, 32, 34,
35 e 36 c.p.c. con altra causa di competenza del Tribunale, le relative domande
possono essere proposte davanti al Tribunale per essere decise nello stesso
processo, sia il co. 7 dello stesso articolo che prevede per le cause connesse ai sensi
del 6 co. sono proposte davanti al Giudice di pace e al Tribunale, il primo deve
pronunciare anche di ufficio la connessione a favore del Tribunale.
Se le predette domande siano proposte sin dall’inizio davanti al Giudice di
pace, si ritiene che, in caso di domanda riconvenzionale di competenza del tribunale,
rimanga ferma la competenza del giudice di pace per la causa principale, con la
separazione dei relativi giudizi.

2.7. Preclusioni.

Ai sensi dell’art. 416 c.p.c., nel rito del lavoro “il convenuto deve costituirsi
almeno dieci giorni prima dell'udienza, dichiarando la residenza o eleggendo
domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito. La costituzione del convenuto si
effettua mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva, nella quale

21
VIAZZI, cit.

13
devono essere proposte, a pena di decadenza, le eventuali domande in via
riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili
d'ufficio. Nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera
precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore
a fondamento della domanda, proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed
indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende
avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare.”
La migliore dottrina ha osservato come il termine di costituzione del
convenuto, nel processo del lavoro, assume carattere più perentorio rispetto al rito
ordinario, nel senso che le preclusioni rispetto agli adempimenti che il convenuto
deve effettuare con la memoria difensiva, a pena di decadenza, operano sin dal
momento della scadenza del termine per la costituzione senza possibilità di fruire
degli ulteriori termini previsti dal rito ordinario, salva la rimessione in termini qualora
applicabile22.
Le preclusioni che possono colpire la difesa convenuta riguardano, quindi:
-) la proposizione di eventuali domande riconvenzionali; qualora avvenga all’atto
della costituzione nei dieci giorni antecedenti l’udienza, l’attore dovrà essere posto in
condizione di elaborare le proprie difese in ragione della riconvenzionale stessa prima
dell’udienza. Soccorre, sul punto, il disposto dell’art. 418 c.p.c., il convenuto dovrà,
con istanza contenuta nella stessa memoria a pena di decadenza dalla riconvenzionale
medesima, chiedere al giudice, che a modifica del decreto di cui al secondo comma
dell'articolo 415, pronunci, non oltre cinque giorni, un nuovo decreto per la fissazione
dell'udienza; tra la proposizione della domanda riconvenzionale e l'udienza di
discussione non devono decorrere più di cinquanta giorni. Il decreto che fissa
l'udienza dovrà poi essere notificato all'attore, a cura dell'ufficio unitamente alla
memoria difensiva, entro dieci giorni dalla data in cui è stato pronunciato. Tra la data
di notificazione all'attore del decreto pronunciato a norma del primo comma e quella
dell'udienza di discussione dovrà intercorrere un termine non minore di venticinque
giorni;
-) la proposizione di eventuali eccezioni processuali o di merito che non siano
rilevabili di ufficio;
-) l’indicazione dei mezzi di prova offerti, compresi i documenti. Secondo la dottrina,
un’eventuale produzione all’udienza deve ritenersi ammissibile solo qualora venga
accertata l’impossibilità della produzione anteriore, e solo qualora i documenti siano
rilevanti23.
-) l’onere della proposizione di tutte le difese, in fatto ed in diritto;
-) l’onere di prendere posizione in maniera precisa circa i fatti affermati dall’attore a
fondamento della domanda. In dottrina si è osservato che la legge non ricollega
alcuna decadenza per l’eventuale inosservanza di quest’onere, così che la sola
conseguenza a carico del convenuto è rappresentata dalla circostanza che il giudice
può tenerne conto come comportamento valutabile ai fini della decisione, in analogia
con il disposto dell’art. 42024.
-) la richiesta di autorizzazione alla chiamata del terzo.

2.8. Tentativo di conciliazione.

L’art. 3 della l. 102/2006 rinvia, altresì, all’art. 410 c.p.c., che prevede il
tentativo obbligatorio di conciliazione presso la commissione di conciliazione nella

22
MANDRIOLI, Diritto processuale civile, XVII ed., Torino, 2006, vol. III, 200.
23
TARZIA, cit., 132.
24
MANDRIOLI, cit., 203.

14
cui circoscrizione si trovi l’azienda o la dipendenza alla quale il lavoratore era
addetto.
Sorge, pertanto, la necessità di verificare se siffatta norma sia applicabile
anche alle cause relative agli incidenti stradali, atteso che la legge 102/2006 attua un
rinvio al complesso delle disposizioni disciplinanti il rito del lavoro, indi inclusa
anche la disposizione in discorso.
Come è noto, nel rito del lavoro l’esperimento del tentativo di conciliazione
davanti alle commissioni provinciali del lavoro è espressamente qualificato come
condizione di procedibilità della domanda dall’art. 412 bis c.p.c.
Una convincente serie di motivazioni fonda la soluzione negativa al quesito innanzi
posto.
Da un lato, difatti, nulla prevede la legge 102/2006 in ordine all’organo
innanzi al quale il tentativo di conciliazione dovrebbe esperirsi, né potrebbe ritenersi
che la scelta dello stesso possa essere lasciata alla libera determinazione delle parti,
stante i riflessi processuali derivanti dall’esperimento del tentativo stesso25. E’
tuttavia possibile che il legislatore abbia inteso attribuire la competenza allo
svolgimento del tentativo di conciliazione alla Commissione di conciliazione istituita
presso l’Ufficio provinciale del lavoro.
Appare tuttavia preferibile, in quanto maggiormente aderente allo spirito della
legge di accelerazione dei giudizi relativi al risarcimento del danno per morte o
lesioni derivante da incidente stradale, escludere che la legge 102/2006 abbia inteso
rinviare anche all’art. 410 c.p.c., che non trova pertanto applicazione ai giudizi in
discorso.
Non deve dimenticarsi, peraltro, che il Codice delle assicurazioni prevede già
procedure risarcitorie pregiudiziali rispetto alla proposizione della domanda
giudiziale: il riferimento è agli artt. 148 e 149 C. ass., procedure che, sotto il profilo
sostanziale, possono evitare il ricorso all’azione civile, se esperite con successo. Nel
caso opposto, appare evidente l’inutilità di procedere ad un ulteriore tentativo di
conciliazione.

3. La provvisionale (art. 5 L. 102\2006; art. 147 D. lgs 209\2005)

L’art. 147 del codice delle assicurazioni, rubricato “Stato di bisogno del
danneggiato”, prevede che “nel corso del giudizio di primo grado, gli aventi diritto
al risarcimento che, a causa del sinistro, vengano a trovarsi in stato di bisogno,
possono chiedere che sia loro assegnata una somma da imputarsi nella liquidazione
definitiva del danno. Il giudice civile o penale, sentite le parti, qualora da un
sommario accertamento risultino gravi elementi di responsabilità a carico del
conducente, con ordinanza immediatamente esecutiva provvede all’assegnazione
della somma ai sensi del comma 1, nei limiti dei quattro quinti della presumibile
entità del risarcimento che sarà liquidato con sentenza. Se la causa civile è sospesa
ai sensi dell’art. 75, comma 3, c.p.p., l’istanza è proposta al presidente del tribunale
dinanzi al quale è pendente la causa. L’istanza può essere riproposta nel corso del
giudizio. L’ordinanza è irrevocabile fino alla decisione del merito.”
Con una disposizione che appare frutto di un palese errore di coordinamento,
il legislatore del 2006, senza tener conto che il codice delle assicurazioni ha abrogato
la legge 990/1969, ha previsto l’inserimento, all’art. 24 della suddetta – abrogata! –
legge, di un ulteriore comma, che così recita:

25
Così CHINDEMI, cit.

15
“Qualora gli aventi diritto non si trovino nello stato di bisogno di cui al primo
comma, il giudice civile o penale, su richiesta del danneggiato, sentite le parti,
qualora da un sommario accertamento risultino gravi elementi di responsabilità a
carico del conducente, con ordinanza immediatamente esecutiva provvede
all’assegnazione, a carico di una o più delle parti, civilmente responsabili, di una
provvisionale pari ad una percentuale variabile tra il 30 ed il 50% della presumibile
entità del
risarcimento che sarà liquidato in sentenza”.
Secondo una prima tesi potrebbe ritenersi che l’art. 5 della legge 102/2006,
che ha inteso innovare una disposizione già abrogata, non sia entrato in vigore, a
differenza delle restanti disposizioni della legge 102/2006.
Una seconda interpretazione, che appare più rispettosa delle intenzioni del
legislatore, dovrebbe tuttavia far propendere nel senso della sopravvivenza della
norma. In effetti, il contenuto dell’art. 24 dell’abrogata l. 990/1969 è stato pressoché
integralmente riprodotto dall’art. 147 del C. ass. e, pertanto, potrebbe favorirsi
un’interpretazione sistematica che collochi l’art. 5 della l. 102/2006 nell’alveo
dell’art. 147, prevedendosi, così, una duplice forma di provvisionale, da distinguersi
in base alla sussistenza o meno dello stato di bisogno del danneggiato26.
La disposizione introduce una misura anticipatoria non cautelare, pronunciata
con ordinanza in contraddittorio basata su una cognizione sommaria ma non
cautelare, sorgendo così il problema degli strumenti rimediali avverso la sua
applicazione, dovendosi escludere per l’inapplicabilità del reclamo ai sensi dell’art.
669 terdecies c.p.c.27.
Si è poi rilevato che la disposizione è una sostanziale riproduzione dell’art.
423, co. 2 e 4 c.p.c., disciplinanti l’ordinanza di condanna provvisionale nel rito del
lavoro, norma che proprio per questo motivo non dovrebbe trovare applicazione nelle
cause per risarcimento del danno da morte o lesioni causate da incidente stradale28.
Ulteriori dubbi sorgono in relazione alla applicabilità dell’art. 5 l. 102/2006 ai
giudizi pendenti, ovvero anche ai nuovi giudizi. Si è opportunamente rilevato che,
sebbene si tratti di una norma processuale, essa indubbiamente produce effetti
sostanziali nella sfera soggettiva del danneggiato atteso che consente l’attribuzione
immediata di una somma di denaro, pur in assenza dello stato di bisogno, soggetta
solo ad un accertamento sommario della sussistenza di gravi elementi di
responsabilità a carico del danneggiante. La figura di provvisionale già prevista, nel
Codice delle assicurazioni, dall’art. 147 per la sussistenza dello stato di bisogno del
danneggiato risulta certamente più favorevole per lo stesso, atteso che potrebbe
ottenere una somma maggiore (fino ai 4/5 della presumibile entità del risarcimento
che sarà liquidato con la sentenza, e l’ordinanza che la dispone è irrevocabile fino alla
pronuncia sul merito; la provvisionale concedibile in assenza dello stato di bisogno
può spingersi solo fino al 50% del presunto importo da liquidarsi, e nulla viene
disposto quanto al regime di stabilità dell’ordinanza, così che deve concludersi nel
senso del suo assoggettamento al principio generale di revocabilità delle ordinanze).
Seguendo l’impostazione sopra ricordata, che vede l’inserimento della
provvisionale di cui all’art. 5 della l. 102/2006 non nell’art. 24 dell’abrogata l.
990/69, ma piuttosto nell’art. 147 c. ass., dovrebbe di conseguenza sostenersi la sua

26
Concordano, in dottrina CHINDEMI, op. cit. e CONSOLO, Rito del lavoro, lesioni personali nella
r.c.a. e lesioni processuali di fine legislatura, in Corriere Giur., 2006, f. 5, 597; DE MARZO, cit.,
ritiene che la soluzione più lineare consiste nel ritenere semplicemente la norma come introdotta
dall’art. 5 della l. 102/2006.
27
Così CONSOLO, cit., 597 e nt. 1.
28
CONSOLO, cit., 597, nt. 1

16
applicabilità per tutti i sinistri verificatisi a partire dal 1 gennaio 2006, data di entrata
in vigore del Codice delle assicurazioni. Potrebbe, altresì, sostenersi l’immediata
applicazione della provvisionale di cui all’art. 5 l. 102/2006 anche ai giudizi pendenti
alla data del 1 aprile 2006, oltre che, naturalmente, ai processi introdotti
successivamente.

4. Decisione.

Ai sensi dell’art. 429 c.p.c., esaurita in udienza la discussione orale ed udite le


conclusioni delle parti, il Giudice deve pronunciare sentenza con cui definisce il
giudizio, dando lettura del dispositivo. La lettura del dispositivo in udienza è
momento fondamentale del rito del lavoro, atteso che, per giurisprudenza di
legittimità pacifica, “nelle controversie soggette al rito del lavoro l'omessa lettura del
dispositivo della sentenza all'udienza di discussione determina non l'inesistenza ma la
nullità della sentenza medesima, vizio che si converte in motivo di gravame da farsi
valere secondo le regole proprie del mezzo di impugnazione esperibile, in base al
principio generale sancito dall'art. 161, comma 1, c.p.c., senza che il giudice di
secondo grado, che abbia rilevato tale nullità, ove dedotta con l'appello, possa né
rimettere la causa al primo giudice - non ricorrendo alcuna delle ipotesi di
rimessione tassativamente previste dagli artt. 353 e 354 dello stesso codice - né
limitare la pronunzia alla mera declaratoria di nullità, dovendo decidere la causa del
merito” 29.
La Suprema corte ha, tuttavia, altresì statuito che “la lettura del dispositivo
della sentenza, richiesta a pena di nullità nel rito del lavoro, non deve
necessariamente risultare da esplicita menzione nella sentenza medesima o nel
verbale di udienza, ben potendo essere documentata da un qualsiasi atto processuale,
o desumersi per implicito da determinate circostanze”30.
Inoltre, il dispositivo, per la pubblicità acquistata con la lettura, cristallizza
stabilmente la statuizione della sentenza e, pertanto, prevale su eventuali contrastanti
enunciazioni contenute nella motivazione, le quali non sono suscettibili di passare in
giudicato ed arrecare pregiudizio giuridicamente apprezzabile, sicché l'interesse a
rimuoverle con la impugnazione non sussiste31.
Il possibile contrasto tra il dispositivo letto in udienza e la motivazione, è
causa di nullità della sentenza, da farsi valere mediante impugnazione, in difetto della
quale prevale il dispositivo che, acquistando pubblicità con la lettura in udienza,
cristallizza stabilmente la statuizione emanata (salvo che non si configuri un caso di
inesistenza della sentenza). Tale insanabilità deve escludersi quando sussista una
parziale coerenza tra dispositivo e motivazione, divergenti solo da un punto di vista
quantitativo, e la seconda inoltre sia ancorata ad un elemento obiettivo che
inequivocabilmente la sostenga (sì da potersi escludere l'ipotesi di un ripensamento
del giudice); in tal caso è configurabile l'ipotesi legale del mero errore materiale, con
la conseguenza che, da un lato, è consentito l'esperimento del relativo procedimento
di correzione e, dall'altro, deve qualificarsi come inammissibile l'eventuale
impugnazione diretta a far valere la nullità della sentenza asseritamente dipendente
dal contrasto tra dispositivo e motivazione32.
La lettura del dispositivo in udienza, in ultimo, non equivale alla sua
pubblicazione, che anche nel rito del lavoro avviene solo con il deposito in cancelleria

29
Così, ex multis, Cass. civ., Sez. lavoro, 14/10/2003, n. 15371, in Mass. Giur. It., 2003.
30
Cass. civ., Sez. lavoro, 08/04/2002, n. 5019, in Mass. Giur. It., 2002.
31
Cass. civ., Sez. lavoro, 28/05/2004, n. 10376, in Mass. Giur. It., 2004.
32
Cass. civ., Sez. lavoro, 17/08/2004, n. 16065, in Mass. Giur. It., 2004.

17
della sentenza completa. I termini per l’impugnazione ai sensi dell’art. 327 c.p.c.
decorrono, pertanto, dalla data del deposito, atteso che la parte soccombente necessita
la completa conoscenza della motivazione per poter predisporre il gravame,
motivazione non desumibile dalla sola lettura del dispositivo in udienza33.

5. Diritto transitorio.

La legge non prevede alcuna disposizione transitoria relativa alla applicabilità


dell’art. 3 della l. 102/2006 ai procedimenti già pendenti, per i quali ha trovato
applicazione sin d’ora il rito ordinario.
In via interpretativa, le possibili soluzioni possono essere così descritte:
-) immediata applicazione della normativa anche ai giudizi pendenti, e
conseguente conversione del rito. Le disposizioni processuali, stante la loro natura
pubblicistica, sono di norma considerate immediatamente applicabili, di talché
dovrebbe sostenersi l’immediata efficacia dell’art. 3 della l. 102/2006 anche per i
giudizi già in corso, previa conversione del rito.
-) applicabilità delle nuove disposizioni unicamente ai procedimenti instaurati
successivamente alla data di entrata in vigore della disciplina; il regime
processuale introdotto dalla l. 102/2006 non troverà applicazione per tutti i
procedimenti già pendenti alla data del 1° aprile 2006, che proseguiranno, sia in
primo che in secondo grado, secondo le norme ordinarie dettate per il procedimento
davanti al Giudice di Pace ovvero davanti al Tribunale in composizione monocratica.
La seconda tesi è stata adottata dall’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, con
documento del 29 marzo 2006 (in Guida al diritto, f. 16, 2006, p. 118) sulla base dei
seguenti rilievi:
a. il principio ricavabile dall’art. 5 c.p.c., “prevedente espressamente la
insensibilità del processo ad una specie molto rilevante di ius superveniens in
materia processuale”
b. Il rito ordinario ed il rito del lavoro presentano schemi processuali unitari;
un’interpretazione così rigida del principio tempus regit actum comporterebbe
l’applicazione di discipline processuali sopravvenute ad una serie di atti
ancora in corso.
c. In definitiva, la circostanza che la nuova legge prevede che la variazione di un
intero schema processuale, piuttosto che singoli aspetti della disciplina del rito
fa ritenere opportuno che i processi pendenti proseguano secondo le norme
ordinarie.
In buona sostanza, l’assenza di una norma transitoria che preveda espressamente
l’estensione dell’applicazione del rito speciale anche ai processi già pendenti è
determinante per escludere tale estensione, trattandosi non della sopravvenienza di
una legge che regola in modo nuovo un singolo istituto processuale, bensì l’intero
rito. Un’interpretazione sistematica della legge 102/2006 e rispettosa della ratio che
sembra essere stata perseguita dal legislatore, induce a ritenere corretta, nel caso di
specie, la tesi dell’applicabilità delle nuove disposizioni solo ai giudizi introdotti
successivamente alla data di entrata in vigore della legge.
In dottrina34 si è ritenuto che l’intento acceleratorio della legge sarebbe
irrimediabilmente frustrato dall’immediata applicazione del rito del rito del lavoro,
atteso che, dovendo operare per ogni giudizio pendente la conversione del rito ai sensi
dell’art. 426 c.p.c., con l’aggiunta di una nuova udienza, creerebbe problemi notevoli

33
Cass. civ., Sez. III, 14/02/2005, n. 2888, in Guida al Diritto, 2005, f. 16, 64
34
CHINDEMI, cit.

18
nella rifissazione dei giudizi pendenti, da decidersi con la sentenza pronunciata in
udienza, senza alcun effetto pratico sulla riduzione dei tempi di definizione, anzi con
un prevedibile allungamento della durata degli stessi, anche a fronte della necessità di
ulteriori adempimenti quali la notificazione dell’ordinanza di mutamento del rito al
convenuto contumace, imposta dalla Corte cost. 14 gennaio 1977, n. 1435.
Si è, peraltro, affermato che tale principio dovrebbe operare anche sia per i giudizi
di primo grado che di appello, non essendo giustificabili differenziazioni del rito in
base al grado di giudizio.
Né, da ultimo, deve sottovalutarsi la circostanza che, tutte le volte in cui, negli
ultimi decenni, il legislatore ha varato riforme processuali di un certo peso, lo stesso
qualora abbia ritenuto di estenderne l’applicazione anche alle controversie pendenti lo
ha espressamente disciplinato con apposita norma transitoria (si pensi all’art. 90 co. 7
delle l. 353/1990 o proprio alla stessa riforma del rito del lavoro del 1973) né
parrebbero esistere esempi di riforme processuali in cui, nella totale carenza di norme
transitorie di diritto intertemporale, si sia pervenuti in via interpretativa all’estensione
delle stesse a tutte le cause pendenti.
A conferma di tale impostazione vi è anche una recentissima ordinanza della
Corte d’appello di Torino del 19 maggio 2006. Chiamata a pronunciarsi sull’istanza
di mutamento del rito avanzata dalle parti appellate, in un giudizio di risarcimento del
danno da lesioni conseguente ad incidente stradale già pendente in appello al 1 aprile
2006, la Corte ha ritenuto di non dover dar luogo alla conversione del rito, sulla base
delle seguenti motivazioni:
-) né l’art. 5 c.p.c. né l’art. 11 disp. prel. c.c. possono far ritenere che norme
processuali di nuova introduzione possano essere ritenute di immediata applicazione
ai giudizi già pendenti quando non si tratti di riforme relative a singoli istituti
processuali, ma investano l’intero rito che viene così sostituito;
-) al contrario, l’art. 5 c.p.c. deve essere interpretato nel senso dell’insensibilità del
processo, quale procedimento complesso costituito da una serie composita di atti
inscindibilmente legati, allo ius superveniens;
-) quando il legislatore ha inteso introdurre un rito speciale, come ad esempio proprio
con la l. 533 del 1973 in tema di controversie di lavoro, ha dettato espressamente una
norma transitoria diretta a stabilire l’immediata applicabilità alle controversie in
corso;
-) la ratio della legge 102/2006 deve leggersi nel senso dell’accelerazione dei giudizi
relativi al risarcimento del danno da morte o lesioni da incidente stradale per una
migliore tutela del danneggiato, mentre le esigenze procedurali connesse alla
conversione del rito determinano senz’altro un allungamento dei tempi del processo;
-) un’interpretazione siffatta si giustifica anche alla luce dell’art. 111 Cost., nonché
alla luce dell’art. 6 C.E.D.U.;
-) gli artt. 426, 427 c.p.c. disciplinano il mutamento del rito solo nelle ipotesi di
erronea instaurazione del processo con rito ordinario anziché con quello del lavoro; al
contrario, un giudizio già pendente alla data di entrata in vigore della legge 102/2006
è stato correttamente introdotto con atto di citazione nel rispetto del rito ordinario;
-) l’art. 439 c.p.c., disciplinante l’ipotesi del mutamento del rito in grado d’appello,
pure presuppone un errore di trattazione nel rito in primo grado che, peraltro, non può
sussistere in caso di ius superveniens processuale; la Corte di cassazione, sul punto,
ha fissato il principio di ultrattività del rito, a mente del quale il giudizio iniziato con
le forme del rito ordinario nonostante le previsione legislativa prevedesse un rito
differente deve proseguire con le forme del rito ordinario.

35
In Giur. it., 1977, I, 1, 1425.

19

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