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Massimiliano Vaira

Capitalismo nomade
e liquidazione del
lavoro

Gennaio 2011

Webbizzazione articolo per Scribd a cura di Linda Finardi


Capitalismo nomade e liquidazione del lavoro
Versione ampliata dell’articolo “A dieci metri sopra a un
tetto” pubblicato su il n. 2/2010 de La Civetta.

Con lo sfruttamento del mercato mondiale


la borghesia ha dato un’impronta
cosmopolita alla produzione e al consumo
in tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi
all’industria il suo terreno nazionale.
[….] Le antichissime industrie nazionali
sono state distrutte, e ancora adesso
vengono distrutte ogni giorno.

(K. Marx e F. Engels Manifesto del partito


comunista, 1847; trad it. Einaudi, 1998, p.
10)

Fonte immagine prima pagina: http://nortelitaliainlotta.blogspot.com/

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Contenuti
1. Il capitalismo non ha più bisogno del lavoro
• Licenziamento della dignità
2. Il capitalismo nomade
• La responsabilità è unicamente dell’individuo
• La crisi economica: una falsa giustificazione
3. Liquidazione del lavoro e del futuro
• Una pesante eredità per le generazioni future
4. Capitalismo nomade = lavoro nomade?
• Manodopera eccedente
5. Boicottare il capitale globale a livello locale? Una
strategia perdente
i. Consumo responsabile?
6. Think global, act global: una prospettiva cosmopolita

Note sull’Autore

Tags: inquieto, inquietudine, capitalismo nomade, lavoro,


delocalizzazione, crisi economica, disoccupazione,
globalizzazione, società 20/80, nuovo cosmopolitismo.

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1. Il capitalismo non ha più bisogno del lavoro

Le cronache della crisi economico-finanziaria ci hanno


consegnato un’immagine quanto mai cruda, vivida e
oggettiva di quali siano i rapporti tra capitale e lavoro.
Da sempre i due termini sono stati contrapposti, ma
per ciò stesso bisognosi l’uno dell’altro e quindi costretti in
qualche modo e misura a collaborare e a convivere, come
due sposi che mal si sopportano ma che non possono fare a
meno l’uno dell’altra, non foss’altro che per poter litigare.
Oggi, però, l’ipercapitalismo, dopo essersi
affrancato dalla nazione (il territorio) e dalla politica (lo
stato nazionale) ha rotto anche l’ultimo ormeggio che in
qualche modo lo legava: il lavoro.

Licenziamento della dignità

L’immagine e la
prova dell’avvenuta
dissoluzione del
rapporto ce la stanno
offrendo quelle migliaia di
lavoratori che hanno
costituito presidi di fronte
ai cancelli delle fabbriche,
che le hanno occupate, che
hanno manifestato. Ma forse
più di tutti, ce la offrono
quei lavoratori che sono
saliti sopra i tetti delle
fabbriche, delle aziende, Fonte immagine:
http://www.lsmetropolis.org/
dei centri di ricerca per

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affermare che essi esistono, che non sono variabili
contabili, che sono, prima che forza lavoro, esseri umani
con una dignità che viene loro negata.
Dignità che, detto per inciso, nelle nostre società trae
gran parte dei suoi contenuti proprio dal lavoro, in quanto
fonte di identità, di indipendenza economica e di possibilità
di progettare la propria vita e il proprio futuro. Negando il
lavoro e la connessa dignità, si nega anche tutto il resto.

2. Il capitalismo nomade

Il capitalismo nella fase attuale si è reso mobile e


volatile, può fare a meno del luogo e dei confini che esso
implica; in una parola è divenuto nomade.
Il carattere nomadico porta con sé altri due aspetti
tra loro connessi:
1) l’assenza ontologica, prima che fisica o materiale,
di limiti. Il nomade non ha virtualmente limiti di spazio e di
mobilità, limiti posti da qualche tipo di vincolo, limiti alle
proprie decisioni. Se non quelli che egli stesso si pone;
2) l’irresponsabilità verso il luogo. Il nomade rimane
in un luogo fino a che questo gli offre risorse per condurre la
sua vita. Egli non ha alcun sentimento di obbligo, cioè di
responsabilità, verso quel luogo. Lo usa, dopodiché lo
abbandona per un altro.
L’essenza nomadica del capitalismo odierno fa sì che
esso si muova da un luogo all’altro senza alcun senso di
responsabilità, se non quello verso sé stesso di sfruttare il
luogo e le sue risorse per produrre profitto.

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Va sottolineato con forza, che questo nomadismo
non è frutto di una strategia adattiva del capitalismo alle
mutate condizioni di contesto: è il capitalismo che ha
mutato le condizioni, come già Marx e Engels avevano
evidenziato nelle prime pagine del “Manifesto”.

http://rododentro.blogspot.com/
Fonte immagine:

La responsabilità è unicamente dell’individuo

Nelle nuove condizioni dettate dalla logica del


capitale nomade, decidere di chiudere una fabbrica diventa
un mero calcolo contabile. Che ci vadano di mezzo persone,
le loro famiglie e il loro futuro è né più né meno che un
danno collaterale della contabilità aziendale. Come quello
di una bomba che, lanciata per colpire l’obiettivo, si porta
via anche degli innocenti. E così l’assenza di limiti e di
responsabilità di una parte si traduce in creazione di
limiti esistenziali di ogni genere per l’altra, sulla quale
viene scaricata con nonchalance anche la responsabilità di

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arrangiarsi nel cercare di far fronte individualmente ai
problemi che gli sono stati creati.

La crisi economica: una falsa giustificazione

Qualcuno potrebbe obiettare che è stata la crisi a


produrre ciò a cui stiamo assistendo. Questa è una falsa
rappresentazione buona per anime belle.
In primo luogo, la crisi non ha prodotto questo stato
di cose: le ha rese incontrovertibilmente visibili. Quello che
vediamo oggi non è una novità: era già lì prima, bastava
riconoscerlo per (pre)vederlo.
In secondo luogo, ammettiamo pure che sia stata la
crisi a produrre il disastro. Ma chi è che ha provocato la
crisi? Imputare alla crisi gli effetti che vediamo è come
imputare ai sintomi la malattia.
In terzo luogo, se è vero che molte aziende, spesso le
medio-piccole, chiudono per la crisi, lasciando nel dramma
lavoratori e imprenditori, è altrettanto vero che molte altre
utilizzano la crisi come giustificazione per chiudere e
spostarsi, nonostante il loro stato di salute sia buono. Per
capire meglio quest’ultimo punto dobbiamo andare su alcuni
tetti.

3. Liquidazione del lavoro e del futuro

Yamaha Italia, Eutelia, Glaxo, Alcoa, FIAT-Termini


Imerese. Sono questi i nomi di alcune aziende che hanno
visto i propri dipendenti protestare e salire su un tetto
contro chiusure, avvenute o che avverranno, per avere uno

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stipendio che manca da mesi. Tutte aziende che non stanno
così male quanto a bilanci, commesse e fatturati.
Facciamo qualche esempio.
FIAT, oltre a essersi comprata GM ed essersi
avvantaggiata degli incentivi sull’auto, ha chiuso l’annus
horribilis distribuendo 244 milioni di dividendo agli azionisti.
La giustificazione è stata: «Lo dovevamo agli azionisti».
E ai lavoratori di Termini Imerese e ai cassintegrati
cosa gli si deve?
Eutelia e le varie scatole cinesi di cui è composta ha
grosse commesse da aziende come Telecom, ma non paga da
mesi i suoi dipendenti. Pirati dell’economia si dirà, ma
tant’è.
La Glaxo è una multinazionale farmaceutica che nel
2009 ha venduto prodotti per oltre 9 miliardi con un utile di
quasi 3 e chiude i suoi 5 centri di ricerca europei (di cui uno
in Italia) per andare in Cina. Perché sono più bravi là? No,
perché ci sono prospettive che diventeranno bravi, ma
intanto costano meno e poi pare che gli azionisti (di nuovo
loro!) non siano abbastanza contenti. E si potrebbe andare
avanti.
Ecco, su quei tetti non sta andando in scena solo una
protesta. Sta andando in scena la liquidazione del lavoro.
Liquidazione nel duplice senso di liquefazione dell’ultimo
vincolo del capitale nomade e di eliminazione di un orpello
inutile e gravoso, un po’ come quando si liquida la merce
invenduta e ormai passata di moda. La prova che sia il
lavoro in generale ad essere liquidato è che quelle
persone sui tetti sono operai, ingegneri, ricercatori. Le
classi non c’entrano. Il conflitto non è tra capitalisti e
proletari, ma tra capitalismo nomade e lavoro.

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http://www.istat.it/salastampa/comunicati/in_calendario/occprov/20100129_00/

Una pesante eredità per le generazioni future

Su quei tetti non ci sono solo questi lavoratori: ci


sono anche le loro famiglie, certo, ma ci sono anche
almeno tre generazioni coinvolte: i 40-50enni non re-
impiegabili, i 20-30enni precari, gli under 20 che forse non
avranno nemmeno un lavoro precario.
Su quei tetti, questi lavoratori, non fanno una lotta
solo per il loro lavoro e il loro futuro. È una lotta per il
lavoro e il futuro di tutti. Perché liquidando il lavoro, si
liquida anche il futuro di tutte queste generazioni. È una
questione di civiltà, nel senso più alto del termine. Civiltà
che il capitalismo nomade e la sua ideologia ha messo in

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crisi, come ha sottolineato recentemente il sociologo
torinese Luciano Gallino.

«Quando mio padre ha dovuto lasciare la


miniera era perché stavano nascendo le fabbriche,
il mondo cambiava, ma c’era un posto per lui.
Ecco, per noi non c’è più posto»
(operaio dell’Alcoa).
«Il futuro non è più quello di una volta»
(scritta su un muro).
Queste due frasi riassumono meglio di qualsiasi analisi
quello che sta accadendo.

4. Capitalismo nomade = lavoro nomade?

In una sorta di contro-canto al mio capitalismo


nomade, Claudio Casati nel suo articolo “Il lavoro diventa
nomade” (La Civetta n. 4/2010, pubblicato anche su questo
sito) sostiene che date le condizioni correnti, la strategia
più efficace per i lavoratori sarebbe quella di farsi anch’essi
nomadi, spostandosi dove c’è lavoro e dove le condizioni
lavorative sono migliori.
Dal punto di vista dell’argomentazione logica il
ragionamento non fa una piega: dato A, allora B. Purtroppo
la logica pura è piuttosto diversa dalla prassi sociale, la
quale segue logiche diverse.

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Per approfondimenti:

“Il lavoro diventa nomade”


di Claudio G. Casati

N.4/2010 La Civetta
http://lacivetta.wordpress.com/2010/07/18/il-lavoro-diventa-
nomade/

Innanzitutto l’argomento principale di Casati ricalca


la retorica egemonica dell’impresa che riduce tutto,
individui compresi, a concetti, logiche e pratiche
utilitaristico-economico-calcolative. Infatti, afferma che
«Occorre gestirsi come un’impresa. Identificare e
valorizzare tutti gli asset personali […]. Pianificare il
proprio futuro considerando una ampia gamma di
alternative, inclusi: nuovi modi di lavorare, nuovi mestieri,
nuove opportunità di business. Controllare

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l’implementazione del progetto personale attivando
miglioramenti e riprogrammazioni».
Però le persone non
sono merci, imprese, fogli
di programmazione
aziendale e asset
delocalizzabili a piacere.
Sono relazioni, affetti,
sentimenti, legami. Cose
che, per quanto
“irrazionali”, fanno il nostro
modo di essere,
precisamente di essere
umani e non un mero grumo
di asset su cui fondare una
vita di calcoli economici.
In secondo luogo non
Fonte immagine:
è vero che tutti hanno le http://www.repubblica.it
stesse possibilità di essere
nomadi come il capitale, sia per quello appena detto più
sopra, sia per un’altra serie di ragioni. Bauman, Beck,
Gallino, Sennet spiegano come le possibilità nomadiche si
limitino a una ristretta élite di persone globalizzate – dotate
di capitale culturale, sociale e soprattutto economico
appropriato -, mentre la gran parte di esse è, suo malgrado,
non sufficientemente dotata di quelle risorse e, quindi,
rimane localizzata. Le condizioni della nomadicità del
capitale non sono le stesse per le persone. Quanti sono i
lavoratori che possono realisticamente andare a fare – e
soprattutto sostenere – un colloquio di lavoro all’estero,
trasferirsi in un altro paese con l’intera famiglia facendole
ricominciare una vita daccapo? Quanti sono i giovani che
hanno una famiglia agiata alle spalle in grado di sostenerli

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economicamente nella nuova avventura per far fronte a cose
triviali, ma fondamentali, come trovar casa, mangiare e
pagare le bollette?
Si dirà: però c’è una massa di persone che si sposta
dalle aree più povere del mondo verso quelle più ricche;
perché allora non possono farlo anche i lavoratori
occidentali. Vero, ma questo aspetto chiama in causa un
terzo aspetto di cui tener conto.
In terzo luogo, anche ammettendo che le possibilità
nomadiche siano ampie e generali, il mercato del lavoro ha
una sua rigidità ovunque in termini di posti disponibili e
della loro qualità.

Manodopera eccedente

Gli immigrati che arrivano nelle società ricche dai


paesi poveri scontano proprio questa rigidità. Non tutti
trovano lavoro e chi c’è l’ha lo ha trovato in occupazioni che
gli occidentali hanno ormai abbandonato e che rifiutano. Se
i mercati del lavoro fossero così dinamici non ci sarebbe il
cosiddetto problema degli immigrati e della loro
integrazione. Insomma, non siamo più nelle condizioni del
primo ‘900 quando il mercato americano e di alcune
economie europee erano un’enorme attrattore di
manodopera (perché ve ne era bisogno) con ampie e
variegate possibilità.
Nel 1995 in un incontro a San Francisco organizzato
dalla Fondazione Gorbaciov, 500 tra leader politici,
economisti e analisti sono arrivati alla conclusione che per
mandare avanti l’economia globale basterebbe il 20%
della manodopera mondiale. E l’altro 80%, definito
“massa eccedente”, che cosa dovrebbe fare?

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Forse a una situazione simile non arriveremo mai, ma
i più recenti dati sulla disoccupazione mondiale prodotta
dalla crisi parlano di 30 milioni di individui disoccupati,
destinati a crescere esponenzialmente nei prossimi anni.
Perché quando ci sarà la ripresa essa non sarà accompagnata
dal recupero dei posti perduti.
È realistico pensare oggi a 30 milioni di persone –
come minimo – che diventano nomadi? E per andare dove?
In Cina, con le sue condizioni di lavoro terrificanti? Non c’è
economista serio che possa sostenere la plausibilità di un
simile scenario. E infatti i vari Krugman, Roubini, Stiglitz,
Rifkin, Sen non ne fanno il benché minimo accenno.
Infine, una domanda: siamo proprio sicuri che
inseguire il capitale, imitandone le logiche, sia la strategia
giusta e vincente e non invece una condanna?

5. Boicottare il capitale globale a livello locale? Una


strategia perdente

Davanti a fenomeni di delocalizzazione della


produzione su scala globale che comportano fenomeni di
disoccupazione di massa altrettanto globali, si è spesso
indotti a ragionare in termini locali, oppure, in una
prospettiva più ampia e trans-nazionale, per aree regionali
del globo come quella dell’emisfero occidentale. Questi
ragionamenti conducono a proporre forme di lotta e
resistenza al capitalismo nomade circoscritte, perché
focalizzandosi su aree circoscritte, come se fossero queste
quelle decisive, perdono di vista lo scenario globale in cui
tanto il capitale, quanto il lavoro e quanto l’azione politica
hanno il loro orizzonte di azione.

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Consumo responsabile?

Uno di questi ragionamenti è il cosiddetto consumo


responsabile, una strategia che ha a suo fondamento la
logica del Think global, Act local.

Fonte immagine: http://www.davidrisstrom.org

Il ragionamento è il seguente: il capitalismo non è


solo produzione, ma anche consumo e senza consumo non
si fa profitto. Allora la strategia è quella di boicottare i
prodotti delle imprese che chiudono le loro attività
delocalizzandole altrove, in modo da recar loro danno e
quindi esercitare su esse pressioni e/o sanzioni politiche e
sociali per via economica.
A questa strategia si affiancherebbe un diverso stile di
consumo che viene comunemente definito responsabile ed
etico. Sembrerebbe non fare una grinza. Peccato però che ci
siano un paio problemi di ordine strutturale non aggirabili da
questa strategia.
In primo luogo, essa vede ancora il capitalismo solo
come modo di produzione (naturalmente lo è) e non anche il

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suo sviluppo in senso finanziario. Il capitalismo industriale
esiste ancora, ma si è ridotto in favore del capitalismo
finanziario. Abbiamo visto più sopra come spesso sia il
potere degli azionisti a determinare i processi di
delocalizzazione. Sappiamo anche che è attraverso
operazioni finanziarie che le imprese reperiscono la maggior
parte delle risorse di cui hanno bisogno e spesso sono queste
operazioni a dare i margini di profitto più rilevanti. Se la
rendita economica del capitale tende a essere sempre più
quella finanziaria e sempre meno quella produttiva,
boicottare il mercato dei beni serve a poco.
In secondo luogo, se è vero che il capitalismo non
può fare a meno del consumo si trascura il fatto che il
consumo è diventato esso stesso globale. Non è solo più il
ricco occidente che consuma, ma sono sempre più i paesi
emergenti e in particolare due giganti: Cina e India. Là ci
sono più di 2 miliardi di persone che stanno diventando, o
che diventeranno nel giro di qualche anno un bell’esercito di
consumatori ad alta intensità di consumo. In altri termini, se
da un lato il capitalismo nomade perde qualche centinaio di
milioni di consumatori occidentali, ne guadagna 10 volte
tanti. Vogliamo credere davvero che si disperi per le azioni
di boicottatori e consumatori responsabili? E così cade anche
l’alternativa, bella e impossibile, del consumo socialmente
responsabile ed etico e con esso le possibili pressioni
politico-economiche.

6. Think global, act global: una prospettiva cosmopolita

Ulrich Beck, nella sua analisi della globalizzazione


evidenzia come nello scenario corrente le politiche e le
azioni attivate e attuate a livello nazionale e locale siano
inefficaci. Il suo ragionamento è che i problemi sono

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prodotti globalmente e scaricati, per la loro soluzione,
localmente e sugli individui.
Cercare di risolverli a questi livelli è impossibile: la
sua proposta è di sviluppare un nuovo cosmopolitismo.

Se il
cosmopolitismo non è una
novità della cultura
filosofica e politica
dell’occidente, ciò che lo
configura come nuovo è
che esso non è più
un’aspirazione, uno stato
a cui tendere, ma è una
condizione necessaria,
vale a dire oggi siamo Fonte immagine:
costretti a essere http://forestbaptistchurch.org
cosmopoliti.
La globalizzazione ha creato uno spazio politico
transnazionale che porta con sé una trasformazione della
politica, del diritto, della società civile e della sfera
pubblica che non può più essere semplicemente nazionale.
Una strategia politica cosmopolita significa che ogni
stato rinuncia a una parte del suo potere dividendola con
altri stati e con organizzazioni transnazionali, in modo da
creare un blocco globale che contrasta e limita il capitale
globale.
Allo stesso modo, la società civile all’interno dei
singoli stati, deve organizzarsi in modo cosmopolitico
dando origine a movimenti sociali transnazionali su
problemi di natura globale e con un orizzonte globale, in

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connessione con la strategia cosmopolita degli stati. In
sintesi: think global, act global.
Una simile strategia cosmopolita è in grado non solo
di esercitare pressioni globali sul capitale globale, ma anche
di darne una nuova e diversa regolamentazione. Si tratta di
realizzare un neo-keynesismo globale in grado di organizzare
e orientare socialmente l’anomia del capitale e, al
contempo, di offrire una nuova e diversa etica economica.
Se fino a questo momento la regola aurea del capitale è
stata privatizzare il profitto e socializzare le perdite, ora si
tratta di realizzare un diverso quadro poltico-economico-
sociale in cui socializzare una quota maggiore dei profitti,
responsabilizzando le imprese nei termini di un ruolo
sociale, oltre che esclusivamente economico.
Un simile scenario è di là a venire, qualcuno potrebbe
dire che è un’utopia. Forse lo è; ma, in primo luogo, utopia
non significa che qualcosa non si realizzerà mai (questa è
l’ucronia) e, in secondo luogo, senza un pensiero utopico
non ci sarebbe stato nessun progresso. Vale allora la pena
provare a sviluppare e realizzare questa ragionevole utopia.

Massimiliano Vaira insegna Sociologia dei Processi


Culturali e Sociologia dell’Educazione e Politiche
dell’Istruzione presso la Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università degli Studi di Pavia.
È membro del Centro Interdipartimentale di
Ricerche e Studi sui Sistemi di Istruzione Superiore
(CIRSIS) della stessa Università, del Consortium of
Higher Education Researchers (CHER),della Sezione
Educazione (di cui è membro del comitato
scientifico) e della Sezione Economia, Lavoro,
Organizzazione dell’Associazione Italiana di
Sociologia (AIS).

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