Professional Documents
Culture Documents
Capitalismo nomade
e liquidazione del
lavoro
Gennaio 2011
2
Contenuti
1. Il capitalismo non ha più bisogno del lavoro
• Licenziamento della dignità
2. Il capitalismo nomade
• La responsabilità è unicamente dell’individuo
• La crisi economica: una falsa giustificazione
3. Liquidazione del lavoro e del futuro
• Una pesante eredità per le generazioni future
4. Capitalismo nomade = lavoro nomade?
• Manodopera eccedente
5. Boicottare il capitale globale a livello locale? Una
strategia perdente
i. Consumo responsabile?
6. Think global, act global: una prospettiva cosmopolita
Note sull’Autore
3
1. Il capitalismo non ha più bisogno del lavoro
L’immagine e la
prova dell’avvenuta
dissoluzione del
rapporto ce la stanno
offrendo quelle migliaia di
lavoratori che hanno
costituito presidi di fronte
ai cancelli delle fabbriche,
che le hanno occupate, che
hanno manifestato. Ma forse
più di tutti, ce la offrono
quei lavoratori che sono
saliti sopra i tetti delle
fabbriche, delle aziende, Fonte immagine:
http://www.lsmetropolis.org/
dei centri di ricerca per
4
affermare che essi esistono, che non sono variabili
contabili, che sono, prima che forza lavoro, esseri umani
con una dignità che viene loro negata.
Dignità che, detto per inciso, nelle nostre società trae
gran parte dei suoi contenuti proprio dal lavoro, in quanto
fonte di identità, di indipendenza economica e di possibilità
di progettare la propria vita e il proprio futuro. Negando il
lavoro e la connessa dignità, si nega anche tutto il resto.
2. Il capitalismo nomade
5
Va sottolineato con forza, che questo nomadismo
non è frutto di una strategia adattiva del capitalismo alle
mutate condizioni di contesto: è il capitalismo che ha
mutato le condizioni, come già Marx e Engels avevano
evidenziato nelle prime pagine del “Manifesto”.
http://rododentro.blogspot.com/
Fonte immagine:
6
arrangiarsi nel cercare di far fronte individualmente ai
problemi che gli sono stati creati.
7
stipendio che manca da mesi. Tutte aziende che non stanno
così male quanto a bilanci, commesse e fatturati.
Facciamo qualche esempio.
FIAT, oltre a essersi comprata GM ed essersi
avvantaggiata degli incentivi sull’auto, ha chiuso l’annus
horribilis distribuendo 244 milioni di dividendo agli azionisti.
La giustificazione è stata: «Lo dovevamo agli azionisti».
E ai lavoratori di Termini Imerese e ai cassintegrati
cosa gli si deve?
Eutelia e le varie scatole cinesi di cui è composta ha
grosse commesse da aziende come Telecom, ma non paga da
mesi i suoi dipendenti. Pirati dell’economia si dirà, ma
tant’è.
La Glaxo è una multinazionale farmaceutica che nel
2009 ha venduto prodotti per oltre 9 miliardi con un utile di
quasi 3 e chiude i suoi 5 centri di ricerca europei (di cui uno
in Italia) per andare in Cina. Perché sono più bravi là? No,
perché ci sono prospettive che diventeranno bravi, ma
intanto costano meno e poi pare che gli azionisti (di nuovo
loro!) non siano abbastanza contenti. E si potrebbe andare
avanti.
Ecco, su quei tetti non sta andando in scena solo una
protesta. Sta andando in scena la liquidazione del lavoro.
Liquidazione nel duplice senso di liquefazione dell’ultimo
vincolo del capitale nomade e di eliminazione di un orpello
inutile e gravoso, un po’ come quando si liquida la merce
invenduta e ormai passata di moda. La prova che sia il
lavoro in generale ad essere liquidato è che quelle
persone sui tetti sono operai, ingegneri, ricercatori. Le
classi non c’entrano. Il conflitto non è tra capitalisti e
proletari, ma tra capitalismo nomade e lavoro.
8
http://www.istat.it/salastampa/comunicati/in_calendario/occprov/20100129_00/
9
crisi, come ha sottolineato recentemente il sociologo
torinese Luciano Gallino.
10
Per approfondimenti:
N.4/2010 La Civetta
http://lacivetta.wordpress.com/2010/07/18/il-lavoro-diventa-
nomade/
11
l’implementazione del progetto personale attivando
miglioramenti e riprogrammazioni».
Però le persone non
sono merci, imprese, fogli
di programmazione
aziendale e asset
delocalizzabili a piacere.
Sono relazioni, affetti,
sentimenti, legami. Cose
che, per quanto
“irrazionali”, fanno il nostro
modo di essere,
precisamente di essere
umani e non un mero grumo
di asset su cui fondare una
vita di calcoli economici.
In secondo luogo non
Fonte immagine:
è vero che tutti hanno le http://www.repubblica.it
stesse possibilità di essere
nomadi come il capitale, sia per quello appena detto più
sopra, sia per un’altra serie di ragioni. Bauman, Beck,
Gallino, Sennet spiegano come le possibilità nomadiche si
limitino a una ristretta élite di persone globalizzate – dotate
di capitale culturale, sociale e soprattutto economico
appropriato -, mentre la gran parte di esse è, suo malgrado,
non sufficientemente dotata di quelle risorse e, quindi,
rimane localizzata. Le condizioni della nomadicità del
capitale non sono le stesse per le persone. Quanti sono i
lavoratori che possono realisticamente andare a fare – e
soprattutto sostenere – un colloquio di lavoro all’estero,
trasferirsi in un altro paese con l’intera famiglia facendole
ricominciare una vita daccapo? Quanti sono i giovani che
hanno una famiglia agiata alle spalle in grado di sostenerli
12
economicamente nella nuova avventura per far fronte a cose
triviali, ma fondamentali, come trovar casa, mangiare e
pagare le bollette?
Si dirà: però c’è una massa di persone che si sposta
dalle aree più povere del mondo verso quelle più ricche;
perché allora non possono farlo anche i lavoratori
occidentali. Vero, ma questo aspetto chiama in causa un
terzo aspetto di cui tener conto.
In terzo luogo, anche ammettendo che le possibilità
nomadiche siano ampie e generali, il mercato del lavoro ha
una sua rigidità ovunque in termini di posti disponibili e
della loro qualità.
Manodopera eccedente
13
Forse a una situazione simile non arriveremo mai, ma
i più recenti dati sulla disoccupazione mondiale prodotta
dalla crisi parlano di 30 milioni di individui disoccupati,
destinati a crescere esponenzialmente nei prossimi anni.
Perché quando ci sarà la ripresa essa non sarà accompagnata
dal recupero dei posti perduti.
È realistico pensare oggi a 30 milioni di persone –
come minimo – che diventano nomadi? E per andare dove?
In Cina, con le sue condizioni di lavoro terrificanti? Non c’è
economista serio che possa sostenere la plausibilità di un
simile scenario. E infatti i vari Krugman, Roubini, Stiglitz,
Rifkin, Sen non ne fanno il benché minimo accenno.
Infine, una domanda: siamo proprio sicuri che
inseguire il capitale, imitandone le logiche, sia la strategia
giusta e vincente e non invece una condanna?
14
Consumo responsabile?
15
suo sviluppo in senso finanziario. Il capitalismo industriale
esiste ancora, ma si è ridotto in favore del capitalismo
finanziario. Abbiamo visto più sopra come spesso sia il
potere degli azionisti a determinare i processi di
delocalizzazione. Sappiamo anche che è attraverso
operazioni finanziarie che le imprese reperiscono la maggior
parte delle risorse di cui hanno bisogno e spesso sono queste
operazioni a dare i margini di profitto più rilevanti. Se la
rendita economica del capitale tende a essere sempre più
quella finanziaria e sempre meno quella produttiva,
boicottare il mercato dei beni serve a poco.
In secondo luogo, se è vero che il capitalismo non
può fare a meno del consumo si trascura il fatto che il
consumo è diventato esso stesso globale. Non è solo più il
ricco occidente che consuma, ma sono sempre più i paesi
emergenti e in particolare due giganti: Cina e India. Là ci
sono più di 2 miliardi di persone che stanno diventando, o
che diventeranno nel giro di qualche anno un bell’esercito di
consumatori ad alta intensità di consumo. In altri termini, se
da un lato il capitalismo nomade perde qualche centinaio di
milioni di consumatori occidentali, ne guadagna 10 volte
tanti. Vogliamo credere davvero che si disperi per le azioni
di boicottatori e consumatori responsabili? E così cade anche
l’alternativa, bella e impossibile, del consumo socialmente
responsabile ed etico e con esso le possibili pressioni
politico-economiche.
16
prodotti globalmente e scaricati, per la loro soluzione,
localmente e sugli individui.
Cercare di risolverli a questi livelli è impossibile: la
sua proposta è di sviluppare un nuovo cosmopolitismo.
Se il
cosmopolitismo non è una
novità della cultura
filosofica e politica
dell’occidente, ciò che lo
configura come nuovo è
che esso non è più
un’aspirazione, uno stato
a cui tendere, ma è una
condizione necessaria,
vale a dire oggi siamo Fonte immagine:
costretti a essere http://forestbaptistchurch.org
cosmopoliti.
La globalizzazione ha creato uno spazio politico
transnazionale che porta con sé una trasformazione della
politica, del diritto, della società civile e della sfera
pubblica che non può più essere semplicemente nazionale.
Una strategia politica cosmopolita significa che ogni
stato rinuncia a una parte del suo potere dividendola con
altri stati e con organizzazioni transnazionali, in modo da
creare un blocco globale che contrasta e limita il capitale
globale.
Allo stesso modo, la società civile all’interno dei
singoli stati, deve organizzarsi in modo cosmopolitico
dando origine a movimenti sociali transnazionali su
problemi di natura globale e con un orizzonte globale, in
17
connessione con la strategia cosmopolita degli stati. In
sintesi: think global, act global.
Una simile strategia cosmopolita è in grado non solo
di esercitare pressioni globali sul capitale globale, ma anche
di darne una nuova e diversa regolamentazione. Si tratta di
realizzare un neo-keynesismo globale in grado di organizzare
e orientare socialmente l’anomia del capitale e, al
contempo, di offrire una nuova e diversa etica economica.
Se fino a questo momento la regola aurea del capitale è
stata privatizzare il profitto e socializzare le perdite, ora si
tratta di realizzare un diverso quadro poltico-economico-
sociale in cui socializzare una quota maggiore dei profitti,
responsabilizzando le imprese nei termini di un ruolo
sociale, oltre che esclusivamente economico.
Un simile scenario è di là a venire, qualcuno potrebbe
dire che è un’utopia. Forse lo è; ma, in primo luogo, utopia
non significa che qualcosa non si realizzerà mai (questa è
l’ucronia) e, in secondo luogo, senza un pensiero utopico
non ci sarebbe stato nessun progresso. Vale allora la pena
provare a sviluppare e realizzare questa ragionevole utopia.
18