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GIURISPRUDENZA COMMERCIALE ISSNN0390-2269

AnnoNXLIINFasc.N1N-N2015

ValentinoNSanna

GLI EFFETTI DELLA


CANCELLAZIONE DELL’IMPRESA
E DELLA SOCIETÀ DAL REGISTRO
DELLE IMPRESE

Estratto

MilanoN•NGiuffrèNEditore
I

TRIBUNALE MILANO, 20 maggio 2013 — CRUGNOLA, Giudice del Registro delle imprese.

Società - Società di persone o di capitali - Cancellazione dal Registro delle imprese -


Situazioni soggettive passive e/o attive - Successione dei soci.

Società - Società di capitali - Cancellazione dal Registro delle imprese - Responsabilità dei
soci ai sensi dell’art. 2495, 2º comma c.c. - Interpretazione estensiva - Estensione alle
attribuzioni patrimoniali pervenute in dipendenza del loro subentrare nelle posizioni
attive della società cancellata.

L’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione della


stessa dal Registro delle imprese, causa una sorta di successione dei soci nella titolarità delle
situazioni soggettive passive non definite alla data di cancellazione ed una devoluzione, in loro
favore, delle situazioni soggettive attive non assegnate ai soci alla medesima data, purché non
abbandonate dall’organo della liquidazione, anche implicitamente (1).
L’interpretazione estensiva della disciplina di cui all’art. 2495, 2º comma c.c., permette di
affermare la ricorrenza della responsabilità dei soci cessati verso i creditori sociali non solo
entro i limiti delle somme riscosse dai soci in base al bilancio finale di liquidazione ma anche
entro i limiti di successive attribuzioni patrimoniali pervenute ai soci cessati in dipendenza del
loro subentrare nelle posizioni attive della società cancellata (2).

II

CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, 23 settembre 2013, n. 21714 — RUSSO Presidente — SCRIMA
Relatore — FRESA P.M. (conf.) — M.C. c. Covin di Gallo Pietro & C. s.a.s.

Società di capitali - Art. 2495 c.c. - Cancellazione della società dal Registro delle imprese -
Estinzione - Estensione di tale disciplina agli imprenditori individuali - Esclusione -
Conseguenze sui giudizi pendenti.

La disciplina di cui all’art. 2495 c.c. (nel testo introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 17 gennaio
2003, n. 6) non è estensibile alle vicende estintive della qualità di imprenditore individuale,
sicché l’inizio e la fine di detta qualità sono subordinati all’effettivo svolgimento o al reale venir
meno dell’attività imprenditoriale e non alla formalità della cancellazione dal registro delle
imprese, che resta, pertanto, priva di effetti sulla legittimazione e capacità processuale del
titolare dell’impresa individuale (3).

III

CASSAZIONE CIVILE, Sez. I, 8 novembre 2013, n. 25217 — CARNEVALE Presidente — DIDONE


Relatore — CAPASSO P.M. (conf.) — S.F. e G.R. c. Curatela del fallimento di S.F.

Fallimento - Dichiarazione di fallimento dell’imprenditore defunto o ritirato dal commercio


- Imprenditore individuale mai iscritto nel registro delle imprese - Art. 10 l. fall. -

73/II
Conoscenza, da parte dei terzi, della cessazione da oltre un anno dell’attività d’impresa
- Facoltà di dimostrazione - Sussistenza - Fattispecie.

Fallimento - Dichiarazione di fallimento dell’imprenditore defunto o ritirato dal commercio


- Imprenditore individuale - Mutamento dell’attività esercitata - Cessazione dell’attività
ex art. 10 l. fall. - Insussistenza.

All’imprenditore che non sia mai stato iscritto nel registro delle imprese deve essere rico-
nosciuta la facoltà di dimostrare la data di conoscenza, da parte dei terzi, dell’effettiva cessazione
della propria attività, al fine di far da essa decorrere il termine di cui all’art. 10, primo comma,
l. fall. (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto carente di
prova l’assunto del ricorrente, già esercente senza autorizzazione attività di intermediazione
finanziaria, circa la conoscenza in capo ai terzi dell’effettiva cessazione del suo svolgimento,
giudicando insufficienti la dedotta risonanza mediatica dell’avvenuto sequestro di computers e
di conti correnti bancari, o l’avere gli stessi appreso, in qualità di persone offese sentite dal p.m.,
dell’esistenza di un procedimento penale per l’esercizio abusivo di detta attività) (4).
Ai fini dell’art. 10 l. fall., non sussiste cessazione dell’attività dell’imprenditore individuale
allorquando quest’ultimo ne muti l’oggetto, non consentendo la predetta norma di distinguere
l’una o l’altra delle attività dal medesimo esercitate (5).

Il Giudice del Registro delle imprese


rilevato che con ricorso depositato l’8.1.2013 il (cessato) liquidatore della Srl Scooter
Holding 1 ha chiesto disporsi ex art. 2191 cc la cancellazione della iscrizione 12.11.2009
relativa alla cancellazione dal Registro delle Imprese della srl, sul presupposto di rimborso di
sanzione fiscale per euro 513.813,00 disposto, dopo la cancellazione, da sentenza 28.3.2010
della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, divenuta definitiva il 4.8.2012, e, dunque,
come riconosciuto da provvedimenti di vari Giudici del Registro, della non ricorrenza delle
condizioni di legge per la cancellazione della società, dato il non completamento della
liquidazione quanto alla sopravvenienza attiva;
considerato che dopo la proposizione del ricorso è sopravvenuta la sentenza n. 6070/2013
delle S.U. della Corte di Cassazione, la quale ha affermato il seguente principio:
“Dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003, qualora all’estin-
zione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle
imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società
estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della
società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma
si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della
liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o
illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di
liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione
indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei
crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività
ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore
consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione
del procedimento estintivo”;
ritenuto che, alla luce del condivisibile chiarimento sistematico fornito da tale pronuncia
delle Sezioni Unite, non vi sia spazio per l’accoglimento del ricorso, fondato sul presupposto
della ricorrenza di una posta attiva non considerata nel bilancio finale di liquidazione, posta
rispetto alla quale va appunto configurato il fenomeno successorio disegnato dalla Cassazione;

74/II
ritenuto che tale conclusione di rigetto del ricorso non pare inficiata dalla obiezione
sistematica svolta in udienza dal difensore del ricorrente avverso l’orientamento delle Sezioni
Unite e relativa alla «inaccettabile alterazione della destinazione delle “attività” della società al
soddisfacimento dei creditori sociali, in quanto in sostanza gli ex soci succedendo nei rapporti
attivi acquisirebbero in proprio e senza alcuna evidenza nella contabilità sociale pro quota
elementi patrimoniali in riferimento al cui valore non sarebbero tenuti alla responsabilità ex art.
2495 c.c. 2º comma», trattandosi di obiezione che:
— da un lato, non pare rilevante, in concreto, nel caso di specie (nel quale la cancellazione
non viene richiesta da creditori dell’ente cancellato),
— e d’altro lato, comunque, pare poter essere superata da una interpretazione estensiva
della disciplina di cui all’art. 2495 cc, secondo comma, che ricostruisca la responsabilità verso
i creditori sociali dei soci cessati
— non solo entro i limiti delle somme riscosse dai soci in base al bilancio finale di
liquidazione,
— ma anche entro i limiti di successive attribuzioni patrimoniali pervenute ai soci cessati
in dipendenza del loro subentrare nelle posizioni attive della società cancellata;
visto l’art. 2191 cc;
rigetta il ricorso.

II

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — La Covin di Gallo Pietro & C. s.a.s. conveniva in giudizio,
innanzi al Tribunale di Alba, sezione distaccata di Bra, M.C., quale titolare dell’impresa “La
Nuova Moderna”, chiedendone la condanna al pagamento dell’importo ancora dovuto, pari a L.
175.000.000, in virtù delle obbligazioni assunte con il contratto preliminare del 19 dicembre
1995, concordemente modificato il 3 luglio del 1996. Con la predetta scrittura la convenuta
aveva promesso di acquistare un immobile di proprietà dell’attrice per il prezzo complessivo di
L. 965.000.000, versando in più soluzioni L. 140.000.000 a titolo di caparra e corrispondendo,
come da accordo del 3 luglio 1996, la somma di L. 650.000.000 attraverso il Centro Leasing
S.p.a. — che aveva acquistato l’immobile per detto prezzo concedendolo in locazione alla M.,
presente al rogito — e restando debitrice dell’importo di L. 175.000.000, da versarsi in rate
semestrali senza interessi. Va precisato che si era già concluso un altro procedimento in cui il
G., in proprio, aveva azionato nei confronti della M. una scrittura di riconoscimento di debito
del 27 settembre 1996, senza successo, essendo stato tale riconoscimento dichiarato nullo per
difetto di causa, in mancanza di qualsiasi rapporto sostanziale tra il G., in proprio, e la M. che
lo giustificasse.
La convenuta si costituiva nel giudizio per primo indicato contestando di dovere alcunché
alla società attrice e chiedendo, in via riconvenzionale, la restituzione della caparra confirma-
toria versata; deduceva che il riconoscimento di debito del 27 settembre 1996 era stato da lei
effettuato in favore del G. che non era parte in causa e che non sussisteva alcun rapporto
negoziale tra lei e la Covin di Gallo Pietro & C. s.a.s., la quale aveva venduto l’immobile in
questione al Centro Leasing S.p.a., ricevendone il pagamento del prezzo, con conseguente
assenza di ogni giustificazione della pretesa azionata.
Il Tribunale di Alba, sezione distaccata di Bra, con sentenza del 23 maggio 2003,
accoglieva la domanda principale e rigettava la domanda riconvenzionale.
Avverso tale decisione M.C., nella predetta qualità, proponeva appello, cui resisteva la
Covin s.a.s.
La Corte di appello di Torino, con sentenza del 5 luglio 2006, rigettava il gravame.
Avverso la sentenza della Corte di merito la M., nella predetta qualità, ha proposto ricorso
per cassazione sulla base di sei motivi.
Ha resistito con controricorso la Covin di Gallo Pietro & C. s.a.s.

75/II
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis)
2. Sempre in via preliminare va esaminata l’eccezione sollevata dalla società controri-
corrente, secondo cui, avendo la M. proposto ricorso esclusivamente nella sua qualità di titolare
della ditta individuale La Nuova Moderna, la quale ha cessato ogni attività in data 11 settembre
2006 e risulta cancellata dal Registro delle Imprese in data 22 settembre 2006, difetterebbe la
legittimazione e/o la capacità processuale della ricorrente.
2.1. L’eccezione è infondata atteso che la disciplina di cui all’art. 2495 c.c. (nel testo
introdotto dal D.Lgs. n. 6 del 2003, art. 4), secondo la quale l’iscrizione della cancellazione
delle società di capitali e delle cooperative dal registro delle imprese, avendo natura costitutiva,
estingue le società, anche se sopravvivono rapporti giuridici dell’ente, non è estensibile alle
vicende estintive della qualità di imprenditore individuale, il quale non si distingue dalla
persona fisica che compie l’attività imprenditoriale, sicché l’inizio e la fine della qualità di
imprenditore non sono subordinati alla realizzazione di formalità, ma all’effettivo svolgimento
o al reale venir meno dell’attività imprenditoriale (Cass. 4 maggio 2011, n. 9744).
3. Con il primo motivo, intitolato “violazione e falsa applicazione dell’art. 342 in rel.
all’art. 360, nn. 3 e 5 anche in rel. all’art. 125 c.p.c. nella parte in cui la decisione impugnata
ha dichiarato inammissibile l’appello proposto per carente specificità dei motivi”, la ricorrente
censura la decisione della Corte di merito nel punto in cui ha ritenuto il gravame proposto
inammissibile per mancanza di critica puntuale alle argomentazioni su cui il Tribunale ha
basato la sua decisione, muovendo, a dire della M., dall’errata convinzione che l’appello sia un
mezzo di impugnazione a critica vincolata, laddove, invece, andrebbe ascritto alla categoria
delle impugnazioni a critica libera.
3.1. In relazione al primo motivo la ricorrente formula il seguente quesito di diritto:
“dica la Corte se l’appello proposto dalla Ditta La Nuova Moderna di M.C. fosse inammissibile,
a fronte del fatto che l’appello è mezzo di impugnazione a critica libera e della circostanza che
nonostante la dichiarazione di inammissibilità per presunta carente specificità dei motivi di
impugnazione la Corte stessa sia entrata nel merito della questione, sia per quanto riguarda la
ricostruzione in fatto, sia per ciò che concerne l’applicazione delle regole giuridiche per la
soluzione della controversia”.
3.2. Il motivo è inammissibile, per difetto di autosufficienza.
Ed invero ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità dell’appello, per difetto
di specificità dei motivi di gravame, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui
ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifici, invece, i
motivi di gravame sottoposti a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello
(come nel caso all’esame, v. ricorso p. 5), ma deve riportarne il contenuto nella misura
necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (v., in motivazione, Cass. 20 luglio 2012, n.
12664; Cass. 20 settembre 2006, n. 20405; v., in relazione al caso speculare in cui il ricorrente
denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. conseguente alla mancata
declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, Cass. 10 gennaio 2012, n.
86). Né a diverse conclusioni si perviene qualificando più correttamente il vizio di legittimità —
denunciato dalla ricorrente sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 — come error in
procedendo (art. 360 c.p.c., n. 4), in relazione al quale la Corte è anche giudice del fatto,
potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito. Anche in
tal caso, infatti, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammis-
sibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo
quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità, diventa possibile valutare la
fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valu-
tazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpreta-
zione degli atti processuali (Cass. 23 gennaio 2006, n. 1221; Cass. 7 marzo 2006, n. 4840;
Cass., ord., 23 luglio 2009, n. 17253), essendo pertanto tenuta la parte ricorrente ad indicare
gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame,
affinché il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza

76/II
del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione
processuale (Cass. 23 marzo 2005, n. 6225; Cass. 15 gennaio 2007, n. 653).
4. Si osserva che, come affermato più volte da questa Corte, qualora il giudice, dopo una
statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con la quale si
è spogliato della potestas iudicandi in relazione al merito della controversia, abbia impropria-
mente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere
né l’interesse ad impugnare; pertanto, è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola
statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione
nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad
abundantiam nella sentenza gravata (Cass., sez. un., 20 febbraio 2007, n. 3840; Cass. 5 luglio
2007, n. 15234; Cass., 2 maggio 2011, n. 9647).
Alla luce del riportato principio, che va ribadito in questa sede, risulta assorbito l’esame
dei motivi secondo (con cui la ricorrente deduce “Violazione e falsa applicazione degli artt.
1418,1342, 1344 e 1345 c.c. in rel. all’art. 12 preleggi art. 360 c.p.c., n. 3 e art. 53 Cost.”),
terzo (con cui la ricorrente lamenta “Motivazione illogica, contraddittoria, perplessa e logica-
mente viziata in relazione all’art. 360, n. 5. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.
in rel. all’art. 12 preleggi e art. 360 c.p.c., n. 3”), quarto e quinto (con i quali la sentenza
impugnata è censurata per vizi motivazionali).
(Omissis)
6. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
7. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della società


controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro
4.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte
Suprema di Cassazione, il 28 maggio 2013.

III

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO. — 1. Con la sentenza impugnata (depositata il 28 luglio


2011) la Corte di appello di Messina ha rigettato il reclamo proposto da S.F. contro la sentenza
che ne aveva dichiarato il fallimento in qualità di intermediario finanziario e di mercante d’arte
e ha dichiarato inammissibile — perché tardivo — l’intervento spiegato da G.R. (interessato in
quanto indagato per concorso in bancarotta fraudolenta con il fallito).
La corte di merito ha condiviso la sentenza del tribunale nella parte in cui aveva
evidenziato l’irrilevanza della cessazione dell’attività commerciale da parte di [un] imprendi-
tore individuale non iscritto nel registro delle imprese e, comunque, l’omessa esteriorizzazione
della cessazione dell’attività di intermediazione finanziaria, benché esercitata senza alcuna
autorizzazione. Invero, l’esercizio illecito (in violazione delle prescritte forme abilitative e del
citato d.lgs. n. 58 del 1998) dell’attività di intermediario finanziario svolta dal S., in quanto
concretante attività imprenditoriale, non impedisce la [assunzione della] qualità di imprendi-
tore con pienezza di effetti, rendendolo soggetto alle norme sulle procedure concorsuali, che
assolvono alla funzione satisfattoria e paritetica, dei creditori.
Infine, la corte di merito ha condiviso l’accertamento relativo all’esercizio di attività di
commercio in opere d’arte.
Dai rapporti del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma era emerso che dopo il dissequestro
da parte del P.M., vi era stato da parte del S., non una mera attività di rivendita dei beni per

77/II
cui vi era stato dissequestro, ma lo svolgimento di una intensa attività di mercante d’opere di
arte, assunta con l’acquisto di numerose opere allo scopo di rivenderle.
Contro la sentenza della Corte di appello sia il S. (che formula quattro motivi) che il G.
(che formula cinque motivi) hanno proposto distinti ricorsi per cassazione.
Ha resistito con distinti controricorsi la curatela fallimentare intimata.
Nel termine di cui all’art. 378 c.p.c., la difesa del ricorrente ha depositato memorie.
1.1. I ricorsi — proposti contro la medesima sentenza — sono stati riuniti.
2.1. Con il primo motivo il fallito denuncia violazione della L. Fall., art. 10, e vizio di
motivazione.
Deduce che erroneamente i giudici del merito hanno escluso che il termine annuale di cui
alla L. Fall., art. 10, si riferisse anche all’imprenditore individuale non iscritto nel registro delle
imprese.
Invoca in proposito la giurisprudenza di questa Corte (18618/2006; 6199/2009).
Inoltre, del pari erroneamente è stato escluso che egli avesse esteriorizzato la cessazione
dell’attività, posto che la conoscenza della cessazione era «in re ipsa» in quanto gli investitori
dal luglio 2007 non avevano potuto incassare più gli interessi mensili (per il sequestro penale
dei computers e dei conti correnti e per l’applicazione degli arresti domiciliari). La conoscenza
risalirebbe, quanto meno, dalla restituzione del capitale (richiama i documenti acquisiti in sede
prefallimentare).
Richiama atti del processo penale.
2.2. Con il secondo motivo il fallito ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione
dell’art. 112 c.p.c., e relativo vizio di motivazione in ordine alla mancata ammissione della
prova per testimoni richiesta sia per dimostrare di non aver svolto attività di intermediario
finanziario (operava con amici e parenti) sia per dimostrare di avere informato tutti gli
investitori della cessazione dell’attività. Sul punto vi è omessa pronuncia.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.
2082, 2084, 1813 e 1815 c.c., D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 106, e art. 112 c.p.c., nonché omessa
motivazione.
Deduce che egli non svolgeva attività di intermediazione mobiliare in forma organizzata
né attività imprenditoriale. Egli stipulava mutui di scopo (versamento di somma di denaro al S.,
il quale si obbligava a pagare il 2% mensile di interessi e a restituire il capitale a semplice
richiesta) con amici e parenti, senza struttura pubblicitaria né offerta al pubblico (alla quale
non può essere assimilata la consegna del bigliettino da visita).
Non c’era obbligo di rendiconto. Le somme versate divenivano di proprietà del S.. Non
c’era mandato di gestione.
I quattro computer sequestrati non possono integrare un complesso di beni organizzato
per l’esercizio dell’impresa.
2.4. Con il quarto motivo parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli
artt. 2082 e 2084 c.c., e L. Fall., art. 5, nonché vizio di motivazione. Deduce che erroneamente
è stato ritenuto che egli esercitava attività di mercante d’arte nel mentre era mero collezionista
di opere d’arte.
Tale circostanza — almeno fino all’inizio del processo penale — è stata riconosciuta dalla
Corte di appello.
Deduce che a) la vendita di oggetti d’arte costitutiva atto dovuto a seguito delle
autorizzazioni del P.M.; b) vi erano tre autorizzazioni e non una, come ritenuto dalla corte di
merito; c) si trattava di scambio di oggetti d’arte; d) si rivolgeva a privati e a qualche casa di aste
per ottenere liquidità e pagare i debiti. L’attività relativa agli oggetti d’arte non ha dato luogo
a debiti, imputabili soltanto all’«attività di intermediazione finanziaria» (pag. 55 del ricorso). «I
debiti riguardavano la persona e non già l’impresa» (56).
(Omissis)
5. Quanto al ricorso del S., va rilevato che effettivamente secondo la giurisprudenza di
questa Corte «l’associazione non riconosciuta (nella specie, onlus), la quale, sebbene non
iscritta nel registro delle imprese, abbia cessato da oltre un anno l’attività di impresa in

78/II
precedenza esercitata, non è più soggetta alla dichiarazione di fallimento, in quanto, ai sensi del
secondo comma dell’art. 10 legge fallimentare, come modificato dal D.Lgs. 12 settembre 2007,
n. 169, anche per gli imprenditori mai iscritti nel registro sussiste la possibilità di dimostrare la
data di conoscenza da parte dei terzi della effettiva cessazione dell’attività, restando pur sempre
necessario, in difetto di forme di pubblicità legale, contemperare l’affidamento dei terzi e la
necessità di dare stabilità ai rapporti giuridici e di evitare di lasciare sine die aperta la possiblità
di dichiarazione del fallimento di una impresa in realtà cessata» (Sez. 6-1, Ordinanza n.
15428/2011).
Principio applicabile anche all’imprenditore individuale che non sia mai stato iscritto nel
registro delle imprese, al quale, dunque, deve essere riconosciuta la facoltà di dimostrare la data
di conoscenza da parte dei terzi della effettiva cessazione dell’attività.
Sennonché, proprio tale ultima prova è mancata nella concreta fattispecie, secondo
l’incensurabile (perché fondata su apprezzamento in fatto adeguatamente motivato) accerta-
mento della corte di merito. Correttamente, invero, la corte di merito ha evidenziato che non
erano a tal fine sufficienti la risonanza mediatica dell’avvenuto sequestro dei computer e dei
conti correnti bancari o la conoscenza, in qualità di persone offese sentite dal P.M., dell’esi-
stenza del procedimento penale per esercizio abusivo dell’attività a carico del S. Ciò è tanto vero
che quegli eventi non hanno impedito al ricorrente di intraprendere l’attività di mercante d’arte,
come pure hanno accertato i giudici del merito.
Talché il primo motivo è infondato.
È inammissibile il secondo motivo nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 112
c.p.c. Invero, costituisce principio consolidato quello per il quale il mancato esame di un’istanza
istruttoria non integra omessa pronuncia, cioè violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., perché
tale norma non riguarda le istanze istruttorie bensì solo le domande attinenti al merito. La
mancata pronuncia su un’istanza istruttoria può dar luogo, invece, ad omesso esame di un fatto
decisivo, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., ove attenga a circostanze che, con giudizio
di certezza e non di mera probabilità, avrebbero potuto indurre ad una decisione diversa da
quella adottata (v. per tutte Sez. 3, n. 14242/1999; Sez. 2, n. 1985/1977).
Quanto alla parte della censura concernente il vizio di motivazione, la stessa è infondata
perché la prova richiesta — concernente la cessazione dell’attività di intermediario finanziario
(abusivo) — verteva su fatto non decisivo, posto che i giudici del merito hanno accertato che
dai rapporti del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma era emerso che dopo il dissequestro da
parte del P.M., vi era stato da parte del S., non una mera attività di rivendita dei beni per cui
vi era stato dissequestro, ma lo svolgimento di una intensa attività di mercante d’opere di arte,
assunta con l’acquisto di numerose opere allo scopo di rivenderle.
L’attività imprenditoriale, dunque, non era cessata ma, semmai, aveva mutato oggetto. Né
è possibile distinguere — nell’attività dell’imprenditore individuale — ai fini della L. Fall., art.
10, l’una o l’altra delle attività esercitate dall’imprenditore.
Sono infondati, dunque, sia il secondo che il quarto motivo.
Le censure di cui al terzo motivo, infine, risultano assorbite dal rigetto della censura
relativa all’attività commerciale di mercante d’arte.
I ricorsi, dunque, devono essere rigettati.
Le spese del giudizio di legittimità — nella misura determinata in dispositivo — vanno
poste in solido a carico dei ricorrenti.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità in favore della curatela resistente; spese determinate in Euro 3.200,00 di
cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 2 ottobre 2013.

79/II
(1-5) Gli effetti della cancellazione dell’impresa e della società dal registro delle imprese.

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Sopravvenienze attive: successione dei soci vs. cancellazione della
cancellazione ai sensi dell’art. 2191 c.c. — 2.1. Successione dei soci nelle sopravvenienze attive
e tutela dei creditori sociali. — 2.2. Vi è ancora spazio per il rimedio della cancellazione d’ufficio
della cancellazione? — 3. Cancellazione dell’impresa individuale e cancellazione della società:
effetti sui giudizi pendenti. — 4. Il caso deciso da Cass. n. 25217 del 2013. — 4.1. Breve
cronistoria dell’art. 10 l. fall. — 4.2. Il fallimento degli imprenditori non iscritti. — 4.3. Qualche
ulteriore questione interpretativa posta dall’art. 10 l. fall. — 4.4. Cancellazione senza estin-
zione?

1. Premessa. — Le tre pronunce qui annotate riguardano aspetti differenti di un unico


problema, quello concernente gli effetti della cancellazione della società dal registro delle
imprese, e forniscono perciò l’occasione per qualche ulteriore riflessione sul tema (1); consen-
tendo altresì di porre in evidenza talune significative differenze con la “cancellazione” delle
imprese individuali.
È noto che dopo la cancellazione delle società (di capitali, ma altrettanto può dirsi con
riguardo a quelle personali) è possibile che residuino quelle che vengono sinteticamente
designate come sopravvivenze o sopravvenienze, passive od attive, di natura sostanziale o
processuale. È altresì noto che a fronte di una disciplina del fenomeno sopra descritto
(originariamente dettata, per le società di capitali, dall’art. 2456 c.c.) assolutamente insuffi-
ciente e lacunosa, la giurisprudenza ha per lungo tempo ritenuto — secondo un orientamento
divenuto vero e proprio “diritto vivente”, pur se criticato dalla prevalente, anche se non
unanime, dottrina — che alla liquidazione formale dovesse sempre corrispondere anche una
liquidazione sostanziale e che, pertanto, la società non potesse considerarsi estinta, nonostante
la cancellazione, finché vi fossero rapporti giuridici, sostanziali e/o processuali, ad essa ancora
imputati. Soluzione che comportava, come ulteriore conseguenza, la possibilità di dichiarare il
fallimento della medesima società, benché cancellata, pressoché senza limiti di tempo (così
disapplicando, di fatto, l’allora vigente art. 10 l. fall.).
La riforma societaria del 2003, nel novellare la disciplina dello scioglimento e della
liquidazione, pur non prestando alla sua fase conclusiva l’attenzione che avrebbe meritato, ha
inteso comunque porre fine al citato indirizzo giurisprudenziale attribuendo alla cancellazione
un effetto che parrebbe in ogni caso estintivo, almeno ad una prima lettura del “nuovo” art.
2495, 2º comma c.c., perseguendo così l’obiettivo di garantire massimamente la certezza delle
situazioni giuridiche. Ed al medesimo fine si è ispirata la successiva riforma della legge
fallimentare, pur senza coordinare adeguatamente, forse, il novellato art. 10 con le innovazioni
già introdotte nel codice civile.
Nonostante le intenzioni del legislatore, tuttavia, si è giunti ad un risultato esattamente
opposto rispetto a quello auspicato: sono venute alla luce, infatti, tali e tante questioni
interpretative ed applicative, cui ha corrisposto il proliferare di pronunce giurisprudenziali —
sia di legittimità che di merito — spesso contrastanti, da rendere più volte necessario
l’intervento delle Sezioni unite della Cassazione (2). Nell’ultimo dei quali (3), tuttavia, è stato

(1) Per un esame più approfondito del quale sia permesso rinviare a SANNA, Cancellazione ed
estinzione nelle società di capitali, Torino, Giappichelli, 2013. Sul tema è doveroso segnalare, per
ora, altri due recenti lavori monografici: POSITANO, L’estinzione della società per azioni fra tutela del
capitale e tutela del credito, Milano, Giuffrè, 2012 e ZORZI, L’estinzione delle società di capitali,
Milano, Giuffrè, 2014.
(2) Le Sezioni unite sono intervenute sul punto per ben tre volte: con le prime pronunce del 2010,
nn. 4060, 4061, 4062 [Cass., Sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060 è pubblicata in Giur. it., 2010, 7, 1610
ss., con nota di WEIGMANN, La difficile estinzione delle società, ed in Riv. dir. soc., 2011, 4, 874 ss., con
nota di PIANTELLI, L’efficacia e la natura della cancellazione della società di persone dal registro delle

80/II
compiuto un notevole sforzo ricostruttivo che sembrerebbe destinato ad assicurare una certa
stabilità alle soluzioni prospettate: sebbene, da un lato, non sempre le scelte interpretative
compiute appaiano tutelare adeguatamente tutti gli interessi in gioco e, dall’altro, si siano posti
all’attenzione della giurisprudenza successiva ulteriori e nuovi problemi, dei quali in questa
sede vorrebbe darsi conto.

2. Sopravvenienze attive: successione dei soci vs. cancellazione della cancellazione ai


sensi dell’art. 2191 c.c. — La prima pronuncia qui annotata è un decreto del Giudice del
registro delle imprese di Milano, emesso a seguito del ricorso con il quale il (cessato) liquidatore
di una s.r.l. cancellata dal registro delle imprese chiede, ai sensi dell’art. 2191 c.c., la

imprese: l’“apparente” orientamento innovativo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; in Fall.,
2010, 12, 1401 ss., con nota di CATALDO, Gli effetti della cancellazione della società per i creditori; Cass.,
Sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4061, in N. giur. civ. comm., 2010, I, 541 ss., con un commento di DE
ACUTIS, Le sezioni unite e il comma 2º dell’art. 2495 cod. civ., ovvero tra obiter dicta e contrasti (forse)
soltanto apparenti, ivi, II, 260 ss., ed in questa Rivista, 2011, II, 887 ss., con nota di ZORZI, Cancellazione
ed estinzione della società tra problemi di diritto intertemporale, questioni di giurisdizione fallimentare,
cessazione dell’impresa e fusione per incorporazione; Cass., Sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4062, in
Società, 2010, 8, 1004 ss., con commento di DALFINO, Le Sezioni Unite e gli effetti della cancellazione
della società dal Registro delle imprese, ed in questa Rivista, 2010, II, 698 ss., con nota di ROSSANO, La
cancellazione dal registro delle imprese e la società di persone; in Riv. dir. civ., 2010, II, 637 ss., con
commento di ALLECA, Le sezioni unite e l’estinzione delle società a seguito della cancellazione; in Riv.
dir. proc., 2011, 1, 199 ss., con nota di BINA, Le conseguenze processuali della cancellazione della società
dal registro delle imprese; in Corr. Giur., 2010, 8, 1006 ss., con nota di PEDOJA, Fine della “immortalità”:
per le sezioni unite la cancellazione della società dal registro delle imprese determina la sua estinzione;
in Dir. banc. merc. fin., 2010, 2, 340 ss., con nota di NIGRO, ancora sulla cancellazione ed estinzione
delle società: verso l’epilogo della “storia infinita”?], successivamente con le sentenze nn. 8426 e 8427
del 2010 [Cass., Sez. un., 9 aprile 2010, n. 8426 è pubblicata in Notariato, 2010, 6, 639 ss., con nota
di SPOLIDORO, Nuove questioni sulla cancellazione delle società davanti alle Sezioni Unite; in questa
Rivista, 2011, II, 887 ss., con nota di ZORZI, Cancellazione ed estinzione della società tra problemi di
diritto intertemporale, questioni di giurisdizione fallimentare, cessazione dell’impresa e fusione per
incorporazione; in Fall., 2010, 12, 1401 ss., con nota di CATALDO, Gli effetti della cancellazione della
società per i creditori; in Giust. civ., 2011, I, 735 ss., con nota di CRISCIUOLI e GRIMALDI, La cancellazione
delle società (e le sopravvenienze attive); in Boll. Tribut., 2010, 17, 1339, con nota di SELICATO, Estin-
zione e reviviscenza di società cancellate dal registro delle imprese tra certezza dei rapporti giuridici
e tutela del credito erariale; per un resoconto cfr. Giur. it., 2010, 5, 1006 ss. Cass., Sez. un., 9 aprile
2010, n. 8427, in Giur. it., 2010, 5, 995, a cura di Carbone] e, infine, con quelle del 2013, nn. 6070,
6071, 6072 [Cass., Sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070 è pubblicata in Società, 2013, 5, 536 ss., con
commenti di FIMMANÒ, Le Sezioni Unite pongono la “pietra tombale” sugli “effetti tombali” della
cancellazione delle società di capitali, e di GUIZZI, Le Sezioni Unite, la cancellazione delle società e il
“problema” del soggetto: qualche considerazione critica, ivi, 559-564; in Corr. giur., 2013, 5, 691 ss.,
con nota di CONSOLO e GODIO, Le Sezioni Unite sull’estinzione di società: la tutela creditoria “ritrovata”
(o quasi) ed ivi, 2014, 252 ss., con nota di SPERANZIN, Successione dei soci ed iscrizione nel registro delle
imprese del fatto estintivo della società; in Foro it., 2013, I, 2212 ss., con nota di NIGRO, Cancellazione
ed estinzione delle società: una parola definitiva delle sezioni unite ed ivi, 2014, I, 228 ss., con nota
di PROTO PISANI, Note sulla estinzione delle società per azioni, processi pendenti (e impugnazione della
sentenza nei confronti delle società estinte); in questa Rivista, 2013, II, 612 ss., con nota di DE SABATO,
Cancellazione dal registro delle imprese, estinzione ed effetti su rapporti giuridici sostanziali e pro-
cessuali; Cass., Sez. un., 12 marzo 2013, n. 6071, in Fall., 2013, 7, 831 ss., con nota di LA CROCE, La
Cassazione mette la parola fine alla querelle sugli effetti della cancellazione delle società dal registro
delle imprese; in Giur. it., 2013, 4, 858 ss., con nota di COTTINO, La difficile estinzione delle società:
ancora un intervento (chiarificatore?) delle Sezioni Unite; Cass., Sez. un., 12 marzo 2013, n. 6072, in
Riv. not., 2013, 4, 409 ss., ed ivi, 954 ss., con nota di RUOTOLO-BOGGIALI, La cancellazione dal registro
delle imprese produce l’effetto dell’estinzione della società e la “successione” dei soci nelle soprav-
venienze attive].
È altresì da ricordare la recente ordinanza della Corte Cost., n. 198 del 2013 (in Foro it., 2013,
I, 2341, con nota di LONGO) che ha in qualche modo avallato l’orientamento dei giudici di legittimità,
specialmente con riguardo agli effetti della cancellazione sui giudizi pendenti.
(3) Ci si riferisce alle già citate pronunce della Cass., Sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071,
6072.

81/II
cancellazione d’ufficio della cancellazione, sul presupposto della esistenza di una sopravve-
nienza attiva consistente nel rimborso di una sanzione fiscale, disposto da una sentenza della
Commissione Tributaria Provinciale di Milano: la presenza di una sopravvenienza attiva come
quella descritta dimostrerebbe, infatti, il mancato completamento della liquidazione e, dunque,
la non ricorrenza delle condizioni richieste dalla legge per la cancellazione della società.
Il ricorrente richiama, a supporto della propria istanza, un orientamento in tal senso di
vari Giudici del registro. Occorre rammentare, infatti, come la possibilità di cancellare d’ufficio
la cancellazione della società, ai sensi dell’art. 2191 c.c., sia stata ammessa non solo dalla
dottrina (4), ma anche da una parte della giurisprudenza nel caso in cui siano presenti
sopravvivenze o sopravvenienze attive (da sole od eventualmente insieme a rapporti passivi), in
quanto detta cancellazione sarebbe avvenuta in assenza delle condizioni richieste dalla legge
appunto perché disposta prima che le operazioni di liquidazione si siano concluse (5).
Nel loro ultimo intervento sul problema degli effetti della cancellazione sui rapporti

(4) Si veda, in particolare, SPOLIDORO, Seppellimento prematuro. La cancellazione delle società


di capitali dal registro delle imprese ed il problema delle sopravvenienze attive, in Riv. soc., 2007, 4,
845 ss., per il quale, nel caso in cui siano presenti sopravvivenze o sopravvenienze attive (da sole o
insieme a quelle passive), la circostanza che il giudice del registro proceda alla cancellazione d’ufficio
dell’iscrizione quando essa è avvenuta senza che esistano le condizioni richieste dalla legge, non
significa che «la cancellazione della società debba essere viziata o nulla», essendo invece sufficiente
«il fatto obiettivo che le condizioni formali e sostanziali dell’iscrizione fossero inesistenti al momento
in cui l’iscrizione è avvenuta». E tra le menzionate condizioni, si afferma, «vi è anche che sia stata
“compiuta la liquidazione” (art. 2492, comma 1, c.c.)», precisandosi che «la norma non si riferisce
alla nozione formale di liquidazione, ma a quella sostanziale» e che «il compimento sostanziale della
liquidazione richiede che l’attivo sia stato interamente ceduto o assegnato (e che non sopravvivano o
non sopravvengano elementi ulteriori)». In senso conforme D’ALESSANDRO, Cancellazione della
società e sopravvivenze attive: opportunità e legittimità della riapertura della liquidazione, in Società,
2008, 7, 898. In questo senso si era già espresso SPERANZIN, L’estinzione delle società di capitali in
seguito alla iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, in Riv. soc., 2004, 2-3, 527 ss.,
per il quale la cancellazione d’ufficio può essere ordinata nel caso in cui l’iscrizione (della cancella-
zione della società) sia avvenuta in assenza delle condizioni richieste dalla legge.
(5) Così Trib. Como, 24 aprile 2007, in Società, 2008, 7, 889 ss., con commento di D’ALESSANDRO,
Cancellazione della società e sopravvenienze attive: opportunità e legittimità della riapertura della
liquidazione, ed in questa Rivista, 2008, II, 1247 ss., con nota di ZORZI, Sopravvenienze attive e can-
cellazione ex art. 2191 c.c. della cancellazione della società, «con la conseguenza che deve essere
ordinata la cancellazione di tale iscrizione facendo venir meno ex tunc l’effetto costitutivo» (la società
risultava titolare di alcuni terreni, nonché di alcuni rapporti processuali ancora pendenti); nel medesimo
senso Trib. Como, 18 maggio 2007 (decr.), in questa Rivista, 2008, II, 700 ss., con nota di PANDOLFI,
L’estinzione delle società di capitali e il problema delle sopravvivenze e delle sopravvenienze attive (si
tratta, presumibilmente, dello stesso provvedimento seppure indicato con data differente); in prece-
denza si era così espresso Trib. Udine, 15 settembre 2005, in www.judicium.it, nonché Trib. Padova,
13 agosto 2004 (decr.), in Società, 2005, 6, 765 ss., con commento di CIVERRA, Presupposti ed effetti
della cancellazione di società dal registro delle imprese (con riferimento, però, a società personali) e
Trib. Padova, 26 giugno 2003, in Società, 12, 2003, 1657 ss., con commento di GUSSO, Cancellazione
illegittima, effetti e poteri del giudice del Registro delle imprese (prima della riforma societaria del 2003,
si veda Trib. Verona, 10 luglio 2001, in Dir. fall., 2001, II, 1277 ss., con nota di DE MAIO, Cancellazione
della società dal registro delle imprese e sussistenza di rapporti giuridici); successivamente si sono così
orientati Trib. Napoli, 26 aprile 2010, in www.ilcaso.it; Trib. Padova, 2 marzo 2011, in Società, 8, 2011,
900 ss. (nella quale la cancellazione della cancellazione ai sensi dell’art. 2191 c.c. era stata disposta in
presenza di un attivo patrimoniale già presente nel patrimonio della società e che il liquidatore aveva
trascurato di liquidare: risultava infatti dalla documentazione allegata che, contrariamente a quanto
indicato nel bilancio finale di liquidazione, la società era proprietaria di beni immobili preesistenti);
Trib. Milano, 21 novembre 2011, in Giur. it., 2012, 4, 841 ss., con nota di LUONI, Vecchie e nuove
questioni in tema di cancellazione di società e di rapporti pendenti; Trib. Milano, 11 giugno 2012, in
Giur. it., 2012, 12, 2572 ss., con nota di COTTINO, La difficile estinzione delle società: ancora qualche
(libera) divagazione sul punto. Può segnalarsi, infine, Trib. Pisa, 12 febbraio 2008, in questa Rivista,
2010, II, 513 ss., con nota di OTTIERI, Riflessioni in tema di postdatazione e cancellazione degli effetti
dell’atto di fusione, che ha decretato l’ammissibilità della cancellazione ex art. 2191 c.c. dell’atto di
fusione per incorporazione tra due società.

82/II
giuridici pendenti, risalente al marzo del 2013, le Sezioni unite della Cassazione (6) hanno
ribadito che la cancellazione della società (7) dal registro delle imprese produce oggi — alla luce
del “nuovo” incipit dell’art. 2495, 2º comma, c.c. — un effetto estintivo irreversibile (8);
assunto dal quale discenderebbe come corollario la configurabilità di una successione dei soci
(seppure definita sui generis) sia nelle cosiddette sopravvivenze o sopravvenienze passive che
in quelle attive (9). Quanto alle prime, sul presupposto, in sé corretto, che l’estinzione della
società non possa comportare anche quella dei rapporti obbligatori dei quali essa sia parte
passiva, si ritiene che i soci risponderebbero nei confronti dei creditori sociali, secondo la regola
dettata dall’art. 2495, 2º comma, c.c., in quanto titolari, per effetto della successione, del debito
originariamente imputato alla società (10). Stessa soluzione dovrebbe adottarsi anche con
riferimento alle sopravvivenze o sopravvenienze attive: i soci diverrebbero perciò comproprie-
tari o contitolari delle medesime per effetto della successione (11) (salvo che non si tratti di mere
pretese o di crediti ancora incerti od illiquidi, rispetto ai quali la cancellazione opererebbe
invece alla stregua di una rinuncia tacita). Non vi sarebbe dunque più spazio, quanto meno nel
caso in cui vi siano sopravvivenze o sopravvenienze attive (12), per il ricorso al rimedio della
cancellazione d’ufficio ex art. 2191 c.c. (13).

(6) V., retro, nota 2, per citazioni.


(7) Società di capitali, ma anche di persone, secondo quanto emerge già dalle sentenze delle
Sezioni unite nn. 4060, 4061, 4062 del 2010, cit. (sebbene, rispetto alle società personali si sostenga
che l’effetto estintivo attribuito alla cancellazione sia dichiarativo e non costitutivo: posizione, per la
verità, alquanto criticabile ed alla quale può farsi qui soltanto un cenno; sul punto v., da ultimo, IBBA,
La pubblicità legale delle imprese, in AGE, 2014, 1, 61).
(8) Sebbene, come si avrà modo di vedere più avanti (§ 4.1 ss.), con qualche non irrilevante
eccezione (il riferimento è alla dichiarazione di fallimento ex art. 10 l. fall.).
(9) Si tratta di una tesi originariamente prospettata da PORZIO, L’estinzione della società per
azioni, Napoli, Jovene, 1959, 207 ss. e successivamente riproposta da SPERANZIN, L’estinzione delle
società di capitali in seguito alla iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, (nt. 1), 514
ss., ora ribadita in ID., Successione dei soci ed iscrizione nel registro delle imprese del fatto estintivo
della società, in Corr. giur., 2014, 2, 254.
(10) Vale la pena sottolineare come, sia in passato che più di recente, tale ricostruzione del
rapporto fra la società estinta ed i soci superstiti sia stata posta in dubbio da una parte della dottrina
avanzandosi l’obiezione che vi sia incompatibilità fra liquidazione e successione: che, detto in altri
termini, avendo il legislatore previsto l’una debba escludersi necessariamente l’altra (si tratta della tesi
a suo tempo avanzata da MINERVINI, La fattispecie estintiva delle società per azioni e il problema delle
cc. dd. sopravvenienze, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1952, 1027, e COSTI, Le sopravvenienze passive dopo
la liquidazione delle società, in Riv. dir. civ., 1964, I, 265 ss.). Non contrasterebbe con la ricostruzione
della vicenda estintiva della società in termini successori la circostanza che i soci, nelle società di capitali,
rispondano nei limiti di quanto riscosso in base al bilancio finale di liquidazione (così SPERANZIN, Suc-
cessione dei soci ed iscrizione nel registro delle imprese del fatto estintivo della società, (nt. 9), 255);
in senso critico si veda però GUIZZI, Le Sezioni Unite, la cancellazione delle società e il “problema” del
soggetto: qualche considerazione critica, in Società, 2013, 5, 560 ss.).
(11) In questo caso, però, oltre a potersi riproporre l’obiezione più generale circa la configu-
rabilità di un fenomeno successorio quale titolo del regime di comunione o contitolarità sui beni già
facenti parte del patrimonio sociale, restano aperti, da un lato, significativi problemi relativi alla
trascrizione, qualora si tratti di beni immobili o mobili registrati o di diritti di proprietà industriale
titolati (per un maggiore approfondimento dei quali sia consentito rinviare a SANNA, Cancellazione ed
estinzione nelle società di capitali, (nt. 1), 94 ss.); dall’altro, e soprattutto, verrebbe meno il vincolo
di destinazione sui beni costituenti il patrimonio sociale pur in presenza di creditori insoddisfatti,
essendo perciò questi ultimi tenuti ad agire nei confronti dei soci ed a concorrere con i loro creditori
personali, subendo in tal modo un evidente pregiudizio (sul punto v. meglio oltre, § 2.1).
(12) Deve precisarsi che già prima dell’intervento delle Sezioni unite del marzo 2013 veniva
esclusa dalla giurisprudenza la possibilità di disporre, nel caso in cui vi fossero soltanto sopravve-
nienze passive, la cancellazione della cancellazione ex art. 2191 c.c., pur se ammessa per quelle attive:
cfr., fra le ultime, Trib. Milano, 21 novembre 2011, in Giur. it., 2012, 4, 841 ss., con nota di LUONI,
Vecchie e nuove questioni in tema di cancellazione di società e di rapporti pendenti; Trib. Milano, 11
giugno 2012, in Giur. it., 2012, 2572 ss.
(13) Rimedio che potrebbe invece essere attivato, sempre a giudizio della Cassazione, nel caso

83/II
2.1. Successione dei soci nelle sopravvenienze attive e tutela dei creditori sociali. — Il
Giudice del registro di Milano, applicando i principi appena richiamati, ritiene dunque sia
configurabile, con riferimento alla sopravvenienza attiva consistente nel rimborso di una
sanzione fiscale, un fenomeno di tipo successorio e rigetta perciò l’istanza di cancellazione
d’ufficio della cancellazione. Alla obiezione, prospettata dal ricorrente, secondo la quale in tal
modo vi sarebbe una alterazione della destinazione delle attività della società al soddisfaci-
mento dei creditori sociali, il medesimo Giudice ribatte prospettando una interpretazione
estensiva dell’art. 2495, 2º comma, c.c. per la quale la responsabilità dei soci cessati non si
limiterebbe alle somme riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, ma dovrebbe
estendersi anche alle «successive attribuzioni patrimoniali pervenute ai soci cessati in dipen-
denza del loro subentrare nelle posizioni attive della società cancellata».
L’obiezione sollevata pare invece condivisibile e poco convincente sembra, al contrario,
la replica del Giudice meneghino. La tesi da quest’ultimo prospettata è infatti senz’altro
coerente con l’orientamento della Cassazione, che riferendosi ad una successione sui generis
nelle sopravvivenze o sopravvenienze attive individua una soluzione la quale evita, almeno in
tal caso, di porre in discussione l’irreversibilità dell’effetto estintivo discendente dalla cancel-
lazione; nondimeno — ed a prescindere dalle obiezioni che a quella tesi possono muoversi (14)
— sembra difficile negare si tratti di una scelta che indebolisce la posizione dei creditori sociali
rimasti eventualmente insoddisfatti. Da un lato, infatti, la responsabilità del socio sarebbe
circoscritta (15) alla quota di sua spettanza del bene o del credito sopravvissuto o sopravvenuto
(calcolata, deve ritenersi, in base alla precedente partecipazione al capitale della società),
imponendo perciò al creditore sociale di convenire in giudizio tutti i soci o gran parte di essi
(soci il cui numero potrebbe essere anche molto elevato; per tacere della possibilità che alcuni
di essi possano nel frattempo essere deceduti, dovendosi allora convenire in giudizio gli eredi:
e se è vero che entro un anno dalla cancellazione la domanda può essere notificata presso
l’ultima sede della società — ai sensi dell’ultima parte dell’art. 2495, 2º comma, c.c. —, è
anche vero che la norma non riproduce la locuzione “collettivamente e impersonalmente”,
contenuta nell’art. 303, 2º comma, c.p.c., perciò il creditore può certo notificare l’atto in un
unico luogo ma deve individuare e specificare tutti gli ex soci, ovvero gli eredi degli ex soci, nei
cui confronti l’atto è rivolto (16)); dall’altro lato, venendo meno il vincolo di destinazione sui
beni costituenti il patrimonio sociale, sarebbe inevitabile il concorso fra creditori personali del
socio e creditori sociali, risultando di tutta evidenza il pregiudizio che per questi ultimi ciò
comporterebbe.

della prosecuzione dell’attività d’impresa dopo la cancellazione: punto sul quale v. meglio oltre nel
§ 2.2.
(14) Per un cenno alle quali v., retro, § 2.
(15) Se la responsabilità del socio ai sensi dell’art. 2495, 2º comma, c.c. sia parziaria o solidale
è per vero questione ancor oggi controversa: la formulazione della citata disposizione farebbe però
propendere — come detto nel testo — per la prima soluzione.
(16) Come osservano CONSOLO e GODIO, Le Sezioni Unite sull’estinzione di società: la tutela
creditoria “ritrovata” (o quasi), in Corr. giur., 2013, 5, 703 ss., evidenziando come si tratti di «una
previsione fortemente disincentivante per il creditore sociale».
Sono stati inoltre sollevati in proposito ragionevoli e fondati dubbi in relazione alla effettiva
conoscenza dell’atto da parte dei destinatari, non comprendendosi «come possa avere esito certo la
notifica effettuata presso la sede di una società che non esiste più ed, inoltre, quale possa essere il
soggetto che, una volta ricevuto l’atto, sia in grado di informare i soci», come sottolinea, da ultimo,
FIMMANÒ, Estinzione fraudolenta della società e ricorso di fallimento «sintomatico» del pubblico
ministero, in Dir. fall., 2013, I, 751, per il quale sarebbe stato meglio prevedere una notifica presso
il liquidatore — secondo il suggerimento di Niccolini — in quanto «soggetto più facile da individuare
e in grado di notiziare tempestivamente gli ex soci». Perciò opererà assai probabilmente «quella
complessa procedura delineata dall’art. 140 c.p.c., che farà si che, pur se gli ex soci nulla abbiano
saputo al riguardo, la notificazione non potrà considerarsi nulla»: così CONSOLO e GODIO, Le Sezioni
Unite sull’estinzione di società: la tutela creditoria “ritrovata” (o quasi), (nt. 16), 704, nota 25.

84/II
2.2. Vi è ancora spazio per il rimedio della cancellazione d’ufficio della cancellazione?
— Deve sottolinearsi come pur dopo l’intervento delle Sezioni unite cui si è appena fatto
riferimento sia possibile rinvenire pronunce nelle quali il rimedio della cancellazione, ex art.
2191 c.c., della cancellazione viene tuttora ammesso, seppure in casi differenti rispetto a quello
in cui siano presenti sopravvenienze attive, oggetto della prima pronuncia qui annotata.
Una prima ipotesi è quella nella quale vi sia stata prosecuzione dell’attività d’impresa
nonostante la cancellazione: ipotesi del resto ammessa dalle stesse Sezioni unite nelle più volte
menzionate pronunce del marzo 2013 (in tal modo individuando perciò una eccezione alla
irreversibilità dell’effetto estintivo, che si aggiunge all’altra — questa volta allo stesso prodursi
dell’effetto estintivo — che si avrebbe nel caso della dichiarazione di fallimento ex art. 10 l.
fall. (17)) e che ha trovato applicazione anche nella giurisprudenza di merito, sebbene non
sempre vi sia concordia su cosa debba intendersi per prosecuzione dell’attività d’impresa (18).
Vi è poi il caso — già in precedenza contemplato (19) — in cui la cancellazione sia

(17) Sul punto v. meglio oltre, § 4.4.


(18) Ha disposto la cancellazione della cancellazione, ex art. 2191 c.c., per prosecuzione
dell’attività d’impresa Trib. Genova, 6 giugno 2013, in www.giurisprudenzadelleimprese.it, in un
caso nel quale la società era parte di un giudizio contenzioso: circostanza dalla quale, secondo il
Tribunale, si sarebbe potuta desumere «l’esistenza della volontà della società di continuare la propria
attività», non ritenendosi necessario trattarsi di un’attività operativa, essendo sufficiente anche una
«gestione meramente liquidatoria». In senso negativo si è invece pronunciato Trib. Napoli, 27 giugno
2013, in www.ilcaso.it, in una ipotesi nella quale, dopo la cancellazione della società avvenuta nel
2006 era stato accertato — nel 2012 — un credito a suo favore: il liquidatore aveva chiesto la
cancellazione in pendenza di un giudizio, poi conclusosi favorevolmente per la società; circostanza
che il tribunale, tuttavia, non considera come indice di prosecuzione dell’attività d’impresa, seppure
soltanto di natura liquidatoria. Anche Trib. Bologna, 28 aprile 2014, in www.ilcaso.it, ha escluso che
la pendenza del giudizio dinanzi alla Corte d’appello costituisca indice di prosecuzione dell’attività
esercitata. Per l’inammissibilità della cancellazione della cancellazione si è inoltre pronunciato Trib.
Vicenza, 28 giugno 2013, in DeJure, in un caso nel quale «il ricorrente ha chiesto di far rivivere la
società al solo fine di poter stipulare un contratto definitivo, di cui già esiste il preliminare, dunque
per sole finalità liquidatorie», proprio sul rilievo che non vi sarebbe stata in tal caso prosecuzione
dell’attività d’impresa. Può segnalarsi, infine, Cass., 5 febbraio 2014, n. 2551, in DeJure, in un caso
nel quale il socio di una s.n.c. aveva continuato l’attività alberghiera in precedenza svolta dalla società
dopo la sua cancellazione; i giudici di legittimità hanno ritenuto che «in carenza di prova della sua
diversa imputazione ad un’impresa individuale (...) tutti gli utili maturati nel periodo in questione
appartengono alla società»: la prosecuzione dell’attività d’impresa sembrerebbe perciò escludere
l’effetto estintivo ricollegato alla cancellazione (di una società personale) a prescindere da un
provvedimento di cancellazione della cancellazione ex art. 2191 c.c.
(19) Trib. Milano, 12 marzo 2012, in Società, 2012, 6, 627, con nota di SALAFIA, Bilancio finale
di liquidazione e cancellazione della società dal Registro imprese, che ha disposto la cancellazione della
cancellazione della società (per azioni) dal registro delle imprese eseguita sul presupposto di un bilancio
finale di liquidazione, qualificato come «soltanto apparente» e consistente nella constatazione dell’av-
venuto trasferimento dell’intero patrimonio sociale ad un trust, istituito con la deliberazione di liqui-
dazione della società e costituito dal liquidatore immediatamente dopo con lo scopo di liquidare il
patrimonio trasferito e assegnare ai soci l’eventuale residuo attivo (c.d. trust liquidatorio).
Per una ipotesi nella quale era stato invece totalmente omesso il procedimento di liquidazione
si veda Trib. Bolzano, 17 giugno 2011, in www.ilcaso.it., che ha disposto la cancellazione ai sensi
dell’art. 2191 c.c. di una cancellazione non preceduta dalla liquidazione, disciplinata dagli artt. 2484
c.c. ss., in un caso nel quale la società aveva conferito i propri beni in un trust omettendo gli
adempimenti previsti per la liquidazione volontaria. In proposito si veda anche Trib. Reggio Emilia,
14 marzo 2011, in Giur. it., 2011, 12, 2553 ss., con nota di ZANCHI, In tema di trust liquidatorio, che
ha dichiarato la nullità per mancanza di causa di un trust puramente liquidatorio — al quale era stato
conferito l’intero patrimonio sociale attivo e passivo di una società a r.l., successivamente cancellata
dal registro delle imprese — in quanto ritenuto privo di utilità aggiuntiva rispetto all’ordinario
procedimento di liquidazione.
Sul problema dell’ammissibilità del trust liquidatorio si veda CAVALLINI, Trust e procedure
concorsuali, in Riv. soc., 2011, 6, 1093 ss.; SALAFIA, Bilancio finale di liquidazione e cancellazione
della società dal Registro imprese, (nt. 19), 627 ss.; SPOLAORE, Trust con funzione liquidatoria e
valutazione di meritevolezza, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, II, 170 ss.

85/II
avvenuta in seguito alla devoluzione di tutto il patrimonio ad un trust liquidatorio, con
contestuale approvazione di un bilancio finale di liquidazione dal quale risultano azzerate sia le
poste attive che quelle passive (cancellazione che sarebbe avvenuta in assenza delle condizioni
previste dalla legge in quanto non si sarebbe svolto del tutto il procedimento di liquidazione
inteso come fattispecie a formazione progressiva composta da tutte le fasi previste dal
legislatore, negli artt. 2492 ss. c.c., dovendosi considerare una eccezione, della quale nel caso
di specie non ricorrono i presupposti, la fattispecie disciplinata dall’art. 2490, 6º comma,
c.c. (20)) (21); nonché l’ipotesi, anch’essa già prima ammessa (22) (e che almeno in certi casi
potrebbe coincidere con quella precedente), nella quale sia stato approvato un bilancio soltanto
apparente o un mero simulacro di bilancio (23). Altrettanto dovrebbe ritenersi, inoltre, nel caso
in cui l’istanza di cancellazione sia stata proposta prima del decorso del termine di novanta
giorni dal deposito del bilancio finale nel registro delle imprese (24).
Può dirsi, dunque, che il ricorso al rimedio della cancellazione della cancellazione ai sensi
dell’art. 2191 c.c. non è escluso in assoluto dalla giurisprudenza ma, a ben vedere, lo è soltanto
nel caso in cui vi siano sopravvivenze o sopravvenienze attive, essendosi qui ritenuta soddisfa-
cente la ricostruzione della vicenda in termini successori (25). Non lo è, invece, in tutti gli altri
casi prima indicati, nei quali devono dunque ritenersi superate le obiezioni normalmente mosse
all’utilizzo del rimedio in discorso: da un lato, l’incompatibilità fra un’iscrizione avente effetto
costitutivo-estintivo irreversibile e l’ammissibilità della sua cancellazione d’ufficio ex art. 2191
c.c. (26); dall’altro, i limiti dei poteri di controllo del conservatore del registro delle imprese —

(20) Disposizione per la quale, come noto, qualora per tre anni consecutivi non venga
depositato presso il registro delle imprese il bilancio c.d. intermedio di liquidazione, la società deve
essere cancellata d’ufficio, seppure con i medesimi effetti estintivi di cui all’art. 2495 c.c. (per quanto
concerne l’approfondimento dei dubbi interpretativi sollevati dalla cancellazione d’ufficio ai sensi
dell’art. 2490, 6º comma, c.c., specie in relazione al suo preteso effetto estintivo, sia consentito
rinviare a SANNA, Cancellazione ed estinzione nelle società di capitali, (nt. 1), 126 ss.).
(21) Così Trib. Milano, 22 novembre 2013, in www.ilcaso.it. Quale sia poi il pregiudizio che
arreca una tale operazione a danno dei creditori sociali è evidente: ai soci non verrebbe infatti
ripartito alcun attivo, con conseguente loro irresponsabilità (ai sensi dell’art. 2495, 2º comma c.c.);
salvo ricevere in un secondo momento — una volta raggiunto lo scopo del trust liquidatorio —
eventuali attività, inaggredibili però dai creditori.
Deve inoltre segnalarsi che ha di recente escluso l’ammissibilità — anzi, più precisamente, la
stessa riconoscibilità nell’ordinamento italiano — del trust liquidatorio, in presenza di uno stato
preesistente di insolvenza, Cass., 9 maggio 2014, n. 10105, in www.ilcaso.it.
(22) Ci si riferisce alle ipotesi di un bilancio finale di liquidazione soltanto apparente, cioè di
un documento del tutto privo di indicazioni relativamente alle voci dell’attivo e del passivo, perciò
ritenuto inidoneo ad essere qualificato come bilancio finale di liquidazione: Trib. Milano, 1º agosto
2011 in, insieme a Trib. Milano, 21 novembre 2011, Giur. it., 2012, 4, 841 ss., con nota di LUONI,
Vecchie e nuove questioni in tema di cancellazione di società e di rapporti pendenti. Si veda, altresì,
Trib. Modena, 28 ottobre 2011, in DeJure.
(23) Trib. Napoli, 5 novembre 2013, in www.ilcaso.it, ed in Società, 2014, 7, 835 ss., con
commento di PASQUARIELLO e PLATANIA, La cancellazione (della cancellazione) della società, Strategie
di tutela del credito, che sebbene escluda in linea di principio la possibilità di ricorrere al rimedio in
discorso, l’ammette nel caso in cui «la radicale illiceità contenutista dell’atto [bilancio finale di
liquidazione] finisca addirittura per metterne in discussione la riconducibilità al “tipo” giuridico di
atto iscrivibile», concordando con quella giurisprudenza, appena citata, che ha ritenuto di revocare
la cancellazione della società ritenendo solo apparente il bilancio di liquidazione approvato.
(24) Trib. Milano, 19 maggio 2014, in www.ilcaso.it, che ha inoltre escluso possa ritenersi il
medesimo bilancio approvabile a maggioranza, trattandosi di materia non rientrante nella compe-
tenza assembleare.
(25) Posto che nel caso di presenza esclusiva di sopravvivenze o sopravvenienze passive lo si
escludeva, come detto, già in precedenza: orientamento di recente ribadito da Trib. Napoli, 5
novembre 2013, (nt. 21) (in un caso nel quale la cancellazione della società era stata disposta benché
dal bilancio finale di liquidazione non risultassero alcuni effetti cambiari emessi a favore di un’altra
società).
(26) Nella giurisprudenza così orientata si vedano: Trib. Santa Maria Capua Vetere, 30 giugno
2006, decr., in Giur. it., 2007, 1, 11 ss., nella cui motivazione si legge che sarebbe da «escludere, per

86/II
e del giudice del registro —, da ritenersi circoscritti soltanto alla verifica circa la legittimazione
del soggetto che richiede la cancellazione (che si tratti cioè del liquidatore) ed all’avvenuto
deposito ed “approvazione” del bilancio finale di liquidazione, essendo invece esclusa ogni
verifica circa la sussistenza di rapporti giuridici vuoi passivi che attivi (27).

la irreversibilità dei suoi effetti, la possibilità che l’iscrizione della cancellazione, in quanto dotata di
efficacia costitutiva [dell’estinzione della società], possa essere cancellata di ufficio a norma dell’art.
2191 c.c., a nulla rilevando la presenza di debiti insoddisfatti o di rapporti non definiti di qualunque
tipo»; Trib. Lucca, decr., 12 gennaio 2009 e Trib. Bari, decr., 3 giugno 2009, in Riv. dir. soc., 2010,
4, 829 ss., con nota di DELL’OSSO, Osservazioni sull’estinzione delle società di capitali e sul rapporto
tra gli artt. 2191 e 2495, 2º comma, c.c.: nel primo dei due provvedimenti citati si afferma che «la
cancellazione possiede effetti costitutivi (art. 2495) determinando ipso facto l’estinzione della società;
consegue che l’eventuale circostanza di una cancellazione (in frode o comunque) eseguita in (asserita)
mancanza dei presupposti di legge non può trovare soluzione in un provvedimento di mera rettifica
della relativa iscrizione, quale quello in questa sede è richiesto. Al quale provvedimento, invero, non
può conseguire l’effetto costitutivo eguale e contrario: id est, l’effetto di una automatica ricostituzione
dell’ente ormai definitivamente estinto» (nei medesimi termini, il secondo dei provvedimenti citati);
v., altresì, Trib. Treviso, 19 febbraio 2009, in Società, 2010, 3, 355 ss., che respingendo l’istanza di
cancellazione della cancellazione ex art. 2191 c.c., afferma che “come l’iscrizione della società ha
effetto costitutivo della sua nascita, così l’iscrizione della sua cancellazione ha effetto costitutivo della
sua irreversibile estinzione” ed, ancora, che l’art. 2495, 2º comma non avrebbe «altro significato che
quello di configurare l’estinzione della società come un evento irreversibile, indipendentemente dal
fatto che la sopravvenienza (o la sopravvivenza) riguardi cespiti attivi o passivi»; così orientato anche
Trib. Catania, decr., 9 aprile 2009, in Società, 2010, 1, 88 ss., con commento di ZANARDO,
Cancellazione di s.r.l. dal registro delle imprese: presupposti e ruolo del conservatore; cfr., altresì,
Trib. Bologna, decr., 8 ottobre 2010, in Società, 2011, 3, 271 ss., per il quale ammettendo la
cancellazione della cancellazione «si sovverte il chiaro tenore della legge, che ha inteso restituire
certezza ai rapporti giuridici legando l’estinzione della società ad un adempimento formale come la
cancellazione di essa dal registro delle imprese e si finisce per legittimare un’interpretazione
sostanzialmente abrogatrice della legge, contravvenendo in tal modo apertamente alle finalità da essa
perseguite (nella specie si chiedeva la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c. per
provvedere al rimborso di un credito erariale). Per l’inammissibilità della cancellazione ex art. 2191
c.c. della cancellazione d’ufficio disposta ai sensi dell’art. 2490, ult. comma, c.c. si è pronunciata Trib.
Cuneo, 11 gennaio 2006, in Il registro delle imprese nella giurisprudenza, IV, a cura della CCIA di
Sassari, Sassari, 2006, 140 ss.
Nella dottrina si vedano, in specie, NICCOLINI, sub art. 2495, in Società di capitali. Commentario,
a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, Napoli, Jovene, 2004, 1840, nonché ID., La liquidazione
volontaria delle società tra passato e presente, in questa Rivista, 2010, 4, 557, osservando che una
tale soluzione si risolverebbe in una «surrettizia abrogazione della riforma» e che «se l’estinzione della
società deve “restare ferma” in conseguenza della cancellazione, questa dovrebbe avere un effetto
irreversibile»; opinione ribadita in ID., Gli effetti della cancellazione della società di capitali dal
registro delle imprese: recenti sviluppi e questioni ancora irrisolte, in Il nuovo diritto delle società,
2012, 13, 19, reputando la soluzione sopra detta «eversiva del sistema, per via di quel suo risolversi
in una disattivazione di un predicato normativo». Nello stesso senso, DONATIVI, La pubblicità legale
delle società di capitali, Milano, Giuffrè, 2006, 324 ss.; GUERRERA, Problemi topici in materia di
pubblicità degli atti societari “al confine” fra la s.r.l. e le società di persone, in questa Rivista, 2010,
I, 707, per il quale sarebbe da escludere altresì l’ammissibilità della cancellazione d’ufficio con
riferimento a tutte le modificazioni dell’atto costitutivo, criticando l’orientamento giurisprudenziale
favorevole formatosi invece sul punto. Peculiare la posizione di LUBRANO DI SCORPANIELLO, Il crepuscolo
del “vecchio” art. 10 l. fall. tra “eterni ritorni”, lacune di disciplina e timide riforme, in Banca, borsa,
tit. cred., 2007, II, 680 ss., per il quale «la (pressoché eccezionale) revoca d’ufficio, ai sensi dell’art.
2191 c.c., deve intendersi ristretta alla sua portata letterale, e dunque alla menzione nel registro
dell’invalidità della precedente iscrizione, senza che ne venga pregiudicata l’avvenuta estinzione della
società».
(27) Così orientati, in dottrina, M. PERRINO, L’estinzione delle società di persone, in Riv. dir.
comm., 2011, I, 722 ss., a giudizio del quale l’ufficio del registro non dovrebbe accertare «che sia
stata “compiuta la liquidazione” (...); mentre è solo l’approvazione di quest’ultimo [il bilancio finale
di liquidazione] il presupposto diretto della cancellazione, che anche il Conservatore del registro
potrà e dovrà (unicamente) controllare onde procedere legittimamente alla relativa cancellazione
estintiva (...); né l’esaurimento delle passività (...); né la cessazione effettiva dell’attività (...) e
neppure infine la ripartizione integrale dell’attivo»; ZANARDO, Cancellazione di s.r.l. dal registro delle

87/II
Ciò induce a chiedersi se una tale distinzione possa dirsi del tutto coerente: non si
comprende, ad esempio, per quale motivo il conservatore (ed il giudice del registro) non possa
verificare la presenza di sopravvenienze attive — magari risultanti dalla documentazione a sua
disposizione — ma possa invece controllare se vi sia prosecuzione dell’attività d’impresa (posto
che in tale ultima ipotesi, deve ancora sottolinearsi, la giurisprudenza prima ricordata ammette
la cancellazione d’ufficio della cancellazione, non limitandosi semplicemente ad escludere
l’effetto estintivo normalmente attribuito alla cancellazione medesima).

3. Cancellazione dell’impresa individuale e cancellazione della società: effetti sui giudizi


pendenti. — Il caso deciso nella seconda pronuncia annotata riguarda una società in accoman-
dita semplice la quale aveva convenuto in giudizio un imprenditore individuale, chiedendone la
condanna al pagamento di una somma di danaro consistente nella parte residua del prezzo
dovuto per l’acquisto della proprietà di un immobile della predetta società (poco importa, in
questa sede, precisare che la vendita era stata preceduta da un contratto preliminare, il quale
era stato successivamente modificato dalle parti prevedendo che l’acquisto della proprietà
dell’immobile sarebbe avvenuto tramite una società di leasing); la vicenda, risoltasi sia dinanzi
al Tribunale che alla Corte d’Appello con la condanna al pagamento della somma predetta,
viene perciò sottoposta al giudizio della Cassazione. Giudizio nel quale la società resistente ha
eccepito, tra l’altro, che avendo il ricorrente proposto il ricorso nella sua qualità di titolare di
una ditta individuale la quale aveva nelle more cessato ogni attività con conseguente cancella-
zione dal registro delle imprese, ne difetterebbe la legittimazione e/o capacità processuale.
La Corte ha rigettato tale eccezione ribadendo il principio, già in precedenza affer-
mato (28), per il quale «la disciplina di cui all’art. 2495 c.c. (nel testo introdotto dall’art. 4 del
d.lgs. del 17 gennaio 2003, n. 6) non è estensibile alle vicende estintive della qualità di
imprenditore individuale, sicché l’inizio e la fine di detta qualità sono subordinati all’effettivo
svolgimento o al reale venir meno dell’attività imprenditoriale e non alla formalità della
cancellazione dal registro delle imprese, che resta, pertanto, priva di effetti sulla legittimazione
e capacità processuale del titolare dell’impresa individuale».
Il principio è certamente condivisibile in quanto discende, con tutta evidenza, dalla

imprese: presupposti e ruolo del conservatore, in Società, 2010, 1, 94 ss., per la quale «una volta
approvato il bilancio finale di liquidazione (...) il conservatore, su richiesta dei liquidatori, procederà
all’iscrizione della cancellazione della società, a nulla rilevando — neppure ai fini dell’esercizio, da
parte del giudice del registro delle imprese, del potere di cancellazione d’ufficio ex art. 2191 — il fatto
che quanto riportato nel bilancio non corrisponda a verità per la presenza di sopravvivenze passive
e/o (ma la questione è meno pacifica) attive»; SPIOTTA, Cancellazione della ... cancellazione, in questa
Rivista, 2006, I, 710 ss.; FIMMANÒ-ANGIOLINI, Gli effetti della cancellazione della società alla luce delle
pronunce delle sezioni unite della cassazione, in Riv. not., 2010, I, 1470 ss. In giurisprudenza, Trib.
Catania, decr., 9 aprile 2009, (nt. 26), nel quale, riferendosi all’art. 2191 c.c., si afferma che «la
norma de qua (...) si riferisce all’ipotesi in cui le dette condizioni di legge fossero carenti ab origine;
difettassero cioè ab ovo le condizioni di legittimazione del provvedimento del conservatore del
registro delle imprese. Ed invero (...) l’art. 2495 c.c. enuncia le condizioni legali che occorre ricorrano
perché il provvedimento di cancellazione sia suscettibile di iscrizione. Esse sono rappresentate (...)
dall’approvazione del bilancio finale di liquidazione e dalla circostanza che l’istanza di cancellazione
provenga dai liquidatori. La norma sopra richiamata non richiede altre condizioni, oltre quelle
segnalate, perché si proceda alla cancellazione. Non richiede, in particolare, che il conservatore
verifichi la corrispondenza di quanto dichiarato al vero od ancora che accerti l’insussistenza di
rapporti “pendenti”»; per analoghe considerazione cfr. Trib. Bari, decr., 3 giugno 2009, (nt. 26), dalla
cui motivazione emerge che il liquidatore aveva allegato alla domanda di cancellazione «un file
relativo ad una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà con la quale ha dichiarato, tra l’altro,
la cessazione definitiva dell’attività dell’Ente e la contestuale chiusura della fase di liquidazione»: il
tribunale ha ritenuto di non poter rifiutare l’iscrizione, sul presupposto della presunta falsità della
dichiarazione resa dal liquidatore tesa ad affermare la avvenuta conclusione delle operazioni di
liquidazione, «perché ciò attiene alla validità dell’atto ed involge un controllo di legittimità sostanziale
(...) inibito all’Ufficio». V., da ultimo, Trib. Napoli, 5 novembre 2013, (nt. 21).
(28) Cass., 4 maggio 2011, n. 9744, in Mass. giust. civ., 2011, 5, 687.

88/II
circostanza che quando si parla della cancellazione ci si riferisce ad un adempimento pubbli-
citario i cui presupposti, oggetto ed effetti possono variare a seconda della forma giuridica presa
in considerazione (29); ed è soltanto con riferimento alle società, diversamente da quanto invece
avviene per l’impresa individuale, che essa comporta (di regola) l’estinzione del soggetto
titolare dell’attività. Risulta però, al contempo, del tutto irrilevante: è pacifico, infatti, che
l’impresa individuale non è né un soggetto né un patrimonio autonomo e che l’imputazione
avviene in capo alla persona fisica che ne è titolare (30), per cui anche in caso di cessazione
dell’attività (e conseguente cancellazione dal registro delle imprese) essa continua a rispondere
dei debiti (sorti nel corso dell’esercizio dell’impresa) fino alla loro prescrizione.
Ne consegue, perciò, che se un imprenditore individuale il quale sia parte di un giudizio,
cessa la propria attività e viene cancellato dal registro delle imprese (o, per meglio dire, viene
iscritta tale cessazione ai sensi dell’art. 2196, 2º comma, c.c.) il giudizio medesimo può
senz’altro proseguire da o nei suoi confronti. Se invece fosse una società ad essere parte di un
giudizio pendente, l’estinzione conseguente alla cancellazione comporterebbe — secondo
l’orientamento che va consolidandosi nella giurisprudenza di legittimità (31) — l’interruzione e
la possibile riassunzione del giudizio da o nei confronti dei soci (ai sensi degli artt. 110 e 299
ss. c.p.c.), qualificati come successori a titolo universale e perciò equiparati agli eredi.
Orientamento, cui in questa sede può farsi solo un cenno (32), non del tutto esente da
critiche: a prescindere da quella che può muoversi alla tesi della successione (posto che quella
nei confronti dei soci sembrerebbe piuttosto configurarsi, come da più parti osservato, come
nuova azione) (33), si addiviene comunque ad un risultato non certo auspicabile, considerate le
difficoltà, anche di ordine pratico, che esso potrebbe comportare (si pensi, ad esempio, ad una
società con un elevato numero di soci ed alla necessità di riassumere il giudizio nei confronti di
ciascuno di essi, in quanto litisconsorti necessari (34): problema non certo risolto dalla
possibilità di notificare il ricorso in riassunzione presso l’ultima sede della società, considerato
che la locuzione “collettivamente ed impersonalmente” contenuta nell’art. 303, 2º comma
c.p.c., non risulta invece riprodotta — come già prima accennato — nell’art. 2495, 2º comma,
ultima parte, c.c.) (35).

4. Il caso deciso da Cass. n. 25217 del 2013. — L’ultima sentenza in esame riguarda il
caso di un soggetto (persona fisica), il quale esercitava un’attività di intermediazione finanziaria

(29) Così IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, in Riv. soc., 2008, 5, 944, il quale, con
riferimento alla scelta, non priva di forzature, di accomunare imprenditori individuali e collettivi
quanto alla decorrenza del termine per la dichiarazione di fallimento dalla cancellazione di cui all’art.
10 l. fall., sottolinea come mentre per gli imprenditori individuali ci si deve riferire alla iscrizione della
cessazione dell’impresa ex art. 2196, 2º comma, c.c., avente una efficacia dichiarativa, per quanto
attiene alle società la cancellazione (disciplinata dagli artt. 2312 e 2495 c.c.), si collocherebbe «nella
fase terminale non dell’impresa ma del soggetto che la esercita», perciò «solo la pretesa correlazione
fra società e impresa potrebbe condurre a identificare estinzione del soggetto e cessazione dell’atti-
vità».
(30) Da ultimo si veda SPADA, Patrimonio aziendale ed interposizione nell’esercizio dell’im-
presa, oggi, in AGE, 2014, 1, 25 ss.
(31) In particolare dopo Cass., Sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071, 6072, (nt. 2).
(32) Per un maggiore approfondimento del quale sia consentito rinviare a SANNA, Cancella-
zione ed estinzione nelle società di capitali, (nt. 1), 162 ss.
(33) Da ultimo, diffuse argomentazioni in LONGO, Gli effetti processuali della cancellazione di
società dal registro delle imprese, in Riv. dir. proc., 2013, 4-5, 927 ss.
(34) Analoghe considerazioni sono state svolte in precedenza, al § 2.1.
(35) Le stesse perplessità suscita perciò anche la soluzione per la quale, nel caso in cui la
cancellazione non sia avvenuta o non sia stata dichiarata nel corso del giudizio, l’impugnazione
dovrebbe essere proposta da o nei confronti dei soci in qualità di successori: soluzione anch’essa
prospettata da Cass., Sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071, 6072, (nt. 2), “avallata” da Corte
Cost. n. 198 del 2013, (nt. 2), e ribadita, da ultimo, da App. Venezia, 31 marzo 2014, in Dejure. Si
vedano, in proposito, le considerazioni critiche di PROTO PISANI, Note sulla estinzione delle società per
azioni, (nt. 2), 230.

89/II
in assenza delle autorizzazioni prescritte dal t.u.f. e senza aver mai provveduto all’iscrizione nel
registro delle imprese, cui era successivamente seguita un’attività di mercante d’opere d’arte
(anch’essa non pubblicizzata). Il Tribunale ne aveva dichiarato il fallimento e la Corte
d’Appello aveva rigettato il reclamo dal medesimo proposto. La Cassazione, cui il fallito si
rivolge sulla base di numerosi motivi, rigetta il ricorso (nonché quello proposto da altro
soggetto — indagato per bancarotta fraudolenta insieme al fallito — il cui intervento nel
procedimento di reclamo era stato giudicato inammissibile perché tardivo dalla Corte d’Ap-
pello), affermando il principio per il quale, con riferimento agli imprenditori non iscritti,
«sussiste la possibilità di dimostrare la data di conoscenza da parte dei terzi della effettiva
cessazione dell’attività»; ma escludendo, tuttavia, che nel caso di specie vi fosse stata una tale
prova, avendo giudicato corretto il ragionamento effettuato dalla corte di merito per la quale
non era a tal fine sufficiente «la risonanza mediatica dell’avvenuto sequestro dei computer e dei
conti correnti bancari o la conoscenza, in qualità di persone offese sentite dal p.m., dell’esi-
stenza del procedimento penale per esercizio abusivo dell’attività». Attività che, peraltro, non
era in realtà cessata, avendo invece mutato oggetto, posto che, come detto, dall’esercizio
(abusivo) dell’attività di intermediazione finanziaria si era passati, senza soluzione di conti-
nuità, a quella di mercante d’arte (e ritenendo il giudice di legittimità condivisibili, anche sotto
questo profilo, le conclusioni dei giudici di merito circa il fatto che si trattasse, non di una mera
rivendita di beni, ma “di una intensa attività di mercante d’opere di arte, assunta con l’acquisto
di numerose opere allo scopo di rivenderle”): non sarebbe infatti possibile distinguere, ai fini
dell’art. 10 l. fall., l’una o l’altra delle attività esercitate dall’imprenditore individuale.

4.1. Breve cronistoria dell’art. 10 l. fall. — Prima di valutare la correttezza del ragiona-
mento e delle conclusioni cui giunge la Corte, si deve brevemente rammentare che l’art. 10 l.
fall., nella sua versione originaria (36), era ritenuto dalla giurisprudenza — contrariamente a
quanto invece affermato dalla dottrina prevalente — sostanzialmente inapplicabile alle
società (37).
Questo stato di cose si è protratto fino all’intervento della Corte Costituzionale, la quale
ha dapprima dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 l. fall. «nella parte in cui non
prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la
dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal
registro delle imprese» (38). Successivamente la Consulta è nuovamente intervenuta con due

(36) Per la quale la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore cessato sarebbe dovuta


avvenire entro un anno dalla cessazione dell’attività, purché l’insolvenza si fosse manifestata prima
della cessazione o entro l’anno successivo.
(37) I presupposti sulla base dei quali si giungeva a siffatta conclusione erano essenzialmente
due: il primo, spesso implicito, risiedeva nella identificazione fra società ed impresa, nel ritenere cioè
che il principio di effettività — ossia l’effettivo esercizio dell’attività d’impresa come condizione per
l’acquisto (e il mantenimento) della qualità di imprenditore — fosse applicabile all’imprenditore
individuale ma non operasse, invece, con riguardo alle società; il secondo nell’idea che la società non
si estinguesse, nonostante la cancellazione, fino a quando fossero residuati rapporti giuridici ad essa
imputabili. Stante l’esistenza di rapporti giuridici la società si doveva considerare perciò esistente
nonostante la cancellazione; l’esistenza della società, essendo condizione necessaria e sufficiente
perché vi fosse impresa, avrebbe comportato — secondo tale ricostruzione — l’impossibilità di
affermare l’avvenuta cessazione di questa, impedendo così il decorso del termine di un anno per la
dichiarazione di fallimento, e portando alla sostanziale disapplicazione dell’art. 10 l. fall.
(38) Corte Cost., 21 luglio 2000, n. 319, in questa Rivista, 2001, II, 5 ss. (ed in Dir. fall., 2000,
II, 665 ss. con nota di RAGUSA MAGGIORE; in Giur. it., 2000, 1857 ss. con nota di AMBROSINI; in Foro
it., 2000, I, 2723 ss.).
È da ricordare, inoltre, come la medesima pronuncia abbia altresì dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 147, 1º comma, l. fall. (nella sua versione originaria, cioè precedente alla
riforma fallimentare del 2006/2007), «nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a
responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal
momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata». È da segnalare,

90/II
ordinanze (39) che hanno ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità
dell’art. 10 l. fall., questa volta con riferimento alle imprese individuali, ritenendo possibile una
interpretazione della norma conforme ai principi costituzionali: interpretazione per la quale il
termine annuale per la dichiarazione di fallimento decorre, anche per esse, dalla iscrizione della
cessazione nel registro delle imprese, anziché dal momento della cessazione dell’attività
d’impresa; ritenendo tuttavia possibile, per i terzi, la prova della non veridicità del fatto iscritto
e del conseguente compimento di atti di esercizio dell’impresa successivamente all’iscrizione
della sua cessazione.
La riforma fallimentare del 2006/2007 (d.lgs. n. 5 del 2006 e successivo “decreto
correttivo”) si è ispirata alla giurisprudenza della Corte Costituzionale nel riformare l’art. 10 l.
fall., come del resto emerge dalla relazione di accompagnamento, accomunando gli imprendi-
tori individuali e quelli collettivi nella determinazione del termine annuale per la dichiarazione
di fallimento, il quale decorre in entrambi i casi dalla cancellazione dal registro delle imprese
(art. 10, 1º comma) (40).
Il criterio sostanziale della cessazione, tuttavia, può trovare ancora applicazione nelle
ipotesi previste dal secondo comma dell’art. 10 l. fall. (41): per quanto riguarda l’imprenditore
individuale, poiché la cancellazione avviene sulla base della dichiarazione dell’interessato, è
prevista la possibilità di dimostrarne la non veridicità, con conseguente decorso del termine di
un anno per la dichiarazione di fallimento dal momento (successivo) (42) dell’effettiva cessa-
zione dell’attività.
Quanto alla cancellazione d’ufficio degli imprenditori collettivi, il legislatore si riferisce ai
casi previsti dal d.p.r. 23 luglio 2004, n. 247 (il quale disciplina, appunto, la cancellazione
d’ufficio delle società di persone — oltre che delle imprese individuali — che non abbiano
compiuto atti di gestione per tre anni consecutivi o negli altri casi previsti dall’art. 3 del
menzionato d.p.r.) (43) e dall’art. 2490, ult. comma, c.c., (ai sensi del quale la cancellazione
d’ufficio consegue al mancato deposito del bilancio intermedio di liquidazione per tre anni
consecutivi). In entrambi i casi menzionati, avvenendo la cancellazione sulla base di indici

ancora, come relativamente all’art. 147 l. fall. la Corte Costituzionale avesse già affermato il
medesimo principio in una sentenza interpretativa di rigetto [Corte Cost., 12 marzo 1999, n. 66 in
Giur. it., 1999, 989 ss., con nota di G(ASTONE) C(OTTINO)], in tal modo capovolgendo il precedente
orientamento espresso nell’ordinanza del 26 luglio 1988, n. 919 (in Dir. fall., 1989, II, 273 ss.).
(39) Corte Cost., 6 novembre 2001, n. 361 e Corte Cost., 22 aprile 2002, n. 131, in questa
Rivista, 2002, II, 563 ss., con nota di ZORZI, Decorrenza e natura del termine annuale ex art. 10 l.
fall. per l’imprenditore individuale.
(40) È da notare che la disposizione da ultimo citata considera espressamente gli imprenditori
collettivi, termine che si riferirebbe, oltre alle società, a tutte le figure soggettive titolari d’impresa
diverse dalle persone fisiche: ad esempio, consorzi con attività esterna, associazioni e fondazioni (così
IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, (nt. 29), 943 testo e nota 34). Si è osservato, in proposito, come
il termine «sia ben lungi dall’essere perspicuo e chiarificatore», in quanto evocando un sostrato plu-
risoggettivo si concilierebbe poco con figure quali l’impresa imputabile ad una fondazione di diritto
privato o ad una società di capitali unipersonale: in questo senso M. PERRINO, sub artt. 10 e 11, in La
legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro, Sandulli e Santoro, tomo I, Torino, Giappichelli,
2010, 136.
(41) Ai sensi del quale «in caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli
imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare
il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del primo comma» (è da
sottolineare che le parole «per il creditore o per il pubblico ministero» sono state aggiunte ad opera
del d.lgs. n. 169 del 2007).
(42) Il punto sembra pacifico dopo l’intervento del “decreto correttivo” che ha attribuito solo
ai creditori ed al pubblico ministero la facoltà di dimostrare il momento della effettiva cessazione (e
v. IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, (nt. 29), 948 ss.; nonché, con riferimento al dibattito sorto
sul punto vigente il testo precedente al “decreto correttivo”, ID., Sul presupposto soggettivo del
fallimento, in Riv. dir. civ., 2007, I, 803 ss.).
(43) Per l’inapplicabilità della disciplina prevista dal d.p.r. 23 luglio 2004, n. 247 alle società
di capitali si è di recente pronunciato Trib. Napoli, 7 novembre 2013, in Società, 2014, 3, 285 ss., con
commento di SALAFIA, Cancellazione delle società dal registro delle imprese.

91/II
presuntivi, è sembrato ragionevole lasciare aperta la possibilità di dimostrare che essa non è
stata preceduta dalla effettiva cessazione dell’attività d’impresa, con conseguente differimento
del termine per la dichiarazione di fallimento (44).
A proposito della fattispecie disciplinata dall’art. 2490, ult. comma, c.c., non può non
evidenziarsi la contraddizione esistente fra la possibilità, prevista espressamente dall’art. 10, 2º
comma l. fall., che la società cancellata d’ufficio possa avere proseguito l’esercizio di attività
d’impresa, ed il rinvio (ad opera del citato art. 2490, ult. comma, c.c.) agli effetti previsti
dall’art. 2495 c.c.: contraddizione la quale conforta l’idea che la cancellazione della società (di
capitali) non sempre ne comporta un effetto estintivo irreversibile (45).
Da quanto detto finora sembra comunque preclusa la possibilità di applicare l’art. 10, 2º
comma l. fall. alle società cancellate in via ordinaria, cioè a conclusione del procedimento di
liquidazione (46). Resta aperto tuttavia il problema della prosecuzione dell’attività d’impresa
dopo la cancellazione (avvenuta a seguito di una “finta” liquidazione) e degli effetti da questa
prodotti in tal caso (47).

4.2. Il fallimento degli imprenditori non iscritti. — Se la disciplina dettata dall’art. 10 l.


fall. sia applicabile anche agli imprenditori non iscritti è questione dubbia.
Come detto, la pronuncia esaminata in questa sede riafferma il principio, che sembra
ormai consolidarsi nella giurisprudenza di legittimità, per il quale in tale ipotesi «sussiste la
possibilità di dimostrare la data di conoscenza da parte dei terzi della effettiva cessazione
dell’attività, restando pur sempre necessario, in difetto di forme di pubblicità legale, contem-
perare l’affidamento dei terzi e la necessità di dare stabilità ai rapporti giuridici e di evitare di
lasciare sine die aperta la possibilità di dichiarazione di fallimento di una impresa in realtà
cessata» (48): per quanto dalla motivazione si evinca che nel caso di specie era mancata la prova

(44) Sarebbero quelli appena ricordati, peraltro, gli unici casi di cancellazione d’ufficio degli
imprenditori collettivi, i quali riguarderebbero dunque soltanto le società. Non può annoverarsi,
infatti, fra le ipotesi riconducibili all’art. 10, 2º comma, l. fall., a dispetto del termine utilizzato, la
cancellazione d’ufficio ai sensi dell’art. 2191 c.c. (v. però, in senso contrario, HAMEL, Sul termine di
perdurante fallibilità dell’imprenditore individuale ex art. 10 l. fall., in questa Rivista, 2014, II, 39).
(45) Il punto non può qui essere ulteriormente sviluppato: sia consentito rinviare a SANNA,
Cancellazione ed estinzione nelle società di capitali, (nt. 1), 126 ss.
(46) IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, (nt. 29), p. 945; in questo senso è orientato anche
GIAMPAOLINO, Profili fallimentari, in Trattato delle società a responsabilità limitata, diretto da Ibba e
Marasà, VIII, Padova, Cedam, 2012, 25 ss.; che persista una dualità di regime fra imprenditori
individuali e collettivi è sottolineato da M. PERRINO, sub artt. 10 e 11, (nt. 40), 139. In giurisprudenza
si veda App. Lecce, 22 marzo 2007, in Fall., 2007, 12, 1409 ss., con commento di APRILE, nella cui
motivazione si afferma che «è assolutamente precluso al Tribunale dichiarare il fallimento di una
società che sia stata cancellata da oltre un anno dal registro delle imprese e ciò anche nei casi in cui
vi sia fondato motivo di ritenere che la procedura di liquidazione sia stata fittizia». Meno netta la
posizione di CAVALLI, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, vol. XI, tomo
II, Padova, Cedam, 2009, 92 ss., a giudizio del quale «la soluzione di consentire in tutti i casi la prova
di una situazione reale difforme da quella resa apparente dalla pubblicità, in analogia a quanto
stabilito per gli imprenditori individuali, sembrerebbe, allora, la più ragionevole in considerazione del
fatto che non può attribuirsi efficacia ad una cancellazione surrettizia ed anche al fine di non
perpetuare una vistosa e sospetta disparità di trattamento», pur riconoscendo, tuttavia, che “la lettera
della legge rende arduo questo percorso interpretativo”.
(47) Sul problema relativo all’ammissibilità della cancellazione della cancellazione ex art. 2191
c.c. in tale ipotesi, v. retro, § 2.2.
(48) Nei medesimi termini si era espressa Cass., 13 luglio 2011, n. 15428, in Fall., 2011, 12,
1407 ss., con osservazioni di BETTAZZI e commento di CATALDO, Pubblicità della cessazione dell’im-
presa e disciplina del fallimento successivo, ribadendo un principio già in precedenza affermato da
Cass., 13 marzo 2009, n. 6199 e Cass., 28 agosto 2007, n. 18618, in Dir. fall., 2008, II, 246 ss., con
nota di CONEDERA, in una vicenda nella quale all’atto pubblico di trasferimento dell’azienda si era
attribuita l’idoneità a rendere manifesta la cessazione dell’attività (rilievi critici al ragionamento
prospettato da tale pronuncia in IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, (nt. 29), 950, nota 58). Nella
giurisprudenza di merito si è espressa in senso favorevole all’applicabilità dell’art. 10 l. fall. ad una

92/II
della effettiva conoscenza della cessazione dell’attività di intermediazione finanziaria, svolta in
assenza delle prescritte autorizzazioni — avendo la Cassazione giudicato corretto il ragiona-
mento effettuato sul punto dalla corte di merito —, nonché la cessazione stessa (49).
Il principio appena richiamato contrasta, però, con il rilievo secondo il quale oggi ad essere
prevalente, anche per gli imprenditori individuali, è il criterio formale della cancellazione, mentre
quello sostanziale della cessazione dell’attività opera solo come correttivo nel caso in cui vi sia
stata prosecuzione dell’attività dopo tale adempimento pubblicitario (art. 10, 2º comma, l. fall.):
sembra dunque più corretto ritenere che al fine di far decorrere il termine di un anno per la
dichiarazione di fallimento sia necessario, per l’imprenditore sottrattosi volontariamente al si-
stema pubblicitario, iscriversi per poi, immediatamente dopo, cancellarsi (50).
Altra e connessa questione è se, con riferimento agli imprenditori che abbiano invece
assolto l’obbligo di iscrizione, alla cancellazione (in ipotesi non avvenuta) possa essere
equiparata, quanto all’applicazione dell’art. 10 l. fall., la prova della effettiva conoscenza della
cessazione dell’attività, ovvero la prova che detta cessazione sia stata portata a conoscenza dei
terzi con mezzi idonei (51): posizione che tuttavia contrasta con l’effetto, di natura costitutiva

società non iscritta Trib. Bari, 10 giugno 2010, in Dejure. In dottrina è così orientato NIGRO, sub art.
10, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Nigro e Sandulli, I, Torino, Giappichelli, 2006,
61, per il quale «il nostro ordinamento ormai conosce, per quanto riguarda il momento di decorrenza
del limite temporale all’assoggettabilità a fallimento degli imprenditori cessati, due sole regole: quella
che individua tale momento nella cessazione effettiva dell’attività; quella che individua tale momento
nella cancellazione dal registro delle imprese (...). Nel caso delle società irregolari, non potendosi
evidentemente utilizzare la seconda delle due regole, si dovrà utilizzare la prima: quindi il termine
annuale dovrà per esse decorrere dal momento della cessazione definitiva dell’attività, che coincide
in ogni caso con l’esaurimento della liquidazione»; nel medesimo senso PISCITELLO, in AA.VV., Diritto
fallimentare. Manuale breve, 2ª ed., Milano, Giuffrè, 2013, 126, a giudizio del quale una diversa
interpretazione comporterebbe un trattamento differente fra società irregolari ed imprenditori
individuali non iscritti, «soggetti alle procedure solo se non sia decorso più di un anno dalla fine
effettiva dell’attività d’impresa»; aderisce alla soluzione adottata dalla giurisprudenza di merito,
ritenendo che il dies a quo sia fissato nel momento in cui i terzi hanno conosciuto od avrebbero potuto
conoscere la cessazione dell’attività d’impresa, CAVALLI, in Il fallimento, (nt. 46), 93 ss., il quale
tuttavia ammette come «non sia facile dire a quali forme pubblicitarie si possa poi riconoscere una
sufficiente efficacia informativa»; in senso difforme v. però Cass., 20 giugno 2013, n. 15488, in Mass.
giust. civ., 1, 2013, ed in Foro it., 2013, I, 3227, con nota di CARMELLINO, la quale afferma che la
disciplina dettata dall’art. 10 l. fall. trova applicazione soltanto in riferimento alle società regolari ed
ai soci regolari delle stesse.
(49) L’attività, come già si è accennato, non era in realtà cessata, avendo invece mutato
oggetto: dall’esercizio (abusivo) dell’attività di intermediazione finanziaria si era passati, senza
soluzione di continuità, a quella di mercante d’arte (per qualche ulteriore osservazione sul punto v.
oltre).
(50) Così IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, (nt. 29), 950 s.; nel medesimo senso PERRINO,
sub artt. 10 e 11, (nt. 40), 140 ss.; CAPO, I presupposti del fallimento, in Fallimento e altre procedure
concorsuali, diretto da Fauceglia e Panzani, I, Torino, Utet, 2009, 52 (nonché ID., I presupposti del
fallimento, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da Buonocore e Bassi, coordinato da Capo, De
Santis, Meoli, I, Padova, Cedam, 2010, 80 s.); SPERANZIN, Il fallimento della società estinta, in Temi
del nuovo diritto fallimentare, a cura di Palmieri, Torino, Giappichelli, 2009, 143, per il quale
diversamente la società irregolare verrebbe assoggettata ad un regime più favorevole rispetto a quello
della società regolare (ed il quale precisa ancora che la medesima conclusione dovrebbe poi applicarsi
anche al caso della società di persone regolare della quale non sia stata ricostituita la pluralità dei soci
entro sei mesi, ai sensi dell’art. 2272, 1º comma, n. 4, c.c.; in questo senso v. anche Cass., 13 luglio
2006, n. 15924, in Fall., 2007, 2, 165 ss., con nota di PERRINO); G. F. CAMPOBASSO, Diritto
commerciale. 2. Diritto delle società, Torino, Utet, 2012, 126; ANGIOLINI, La cancellazione e
l’estinzione delle società nel diritto vivente, in Riv. dir. soc., 2013, 2, 415; in tal senso v. anche la
Relazione al d.lgs. n. 5 del 2006.
(51) In questo secondo senso cfr., da ultimo, Cass., 21 gennaio 2013, n. 1350, in questa
Rivista, 2014, II, 25 ss., con nota di S. HAMEL, Sul termine di perdurante fallibilità dell’imprenditore
individuale ex art. 10 l. fall., nella cui massima può leggersi, appunto, che «il termine annuale di
perdurante fallibilità dell’imprenditore cessato, ex art. 10 l. fall., non decorre dall’effettiva cessazione
dell’attività di impresa ma dalla data della cancellazione dal registro delle imprese o da quella in cui

93/II
(rispetto al decorso del termine per la dichiarazione di fallimento), attribuito all’iscrizione della
cancellazione; effetto perciò non surrogabile — a differenza di quanto avviene con riferimento
alla pubblicità dichiarativa — dalla prova della effettiva conoscenza (né, tanto meno, dall’uti-
lizzo dei mezzi idonei) (52).
Pare invece condivisibile l’ulteriore affermazione contenuta nella motivazione della sen-
tenza in commento per la quale l’art. 10 l. fall. non può trovare applicazione, dovendosi dunque
escludere la decorrenza del relativo termine annuale per la dichiarazione di fallimento, qualora
l’imprenditore (individuale) abbia soltanto mutato l’oggetto dell’attività (nel caso di specie, ad
un’attività di intermediazione finanziaria, svolta senza la prescritta autorizzazione, era infatti
subentrata quella di mercante d’arte). Il problema, per la verità, non avrebbe neppure ragione
di porsi se si seguisse il ragionamento, prima prospettato, per il quale al fine di far decorrere il
termine di un anno per la dichiarazione di fallimento è sempre necessario, per l’imprenditore
sottrattosi volontariamente al sistema pubblicitario, iscriversi per poi, immediatamente dopo,
cancellarsi: il presupposto della cancellazione essendo comunque la cessazione dell’attività, e
non potendosi intendere per tale il solo mutamento del suo oggetto. Ma se anche si propendesse
— come avviene, per quanto già detto non correttamente, nella sentenza qui annotata — per
l’ammissibilità, nel caso di imprenditori non iscritti, della prova circa la effettiva conoscenza
della cessazione dell’attività, per tale dovrebbe comunque intendersi la cessazione di qualsiasi
attività d’impresa, dovendosi invece escludere che possa rilevare il solo mutamento del suo
oggetto.

4.3. Qualche ulteriore questione interpretativa posta dall’art. 10 l. fall. — È pacifico che
la disposizione appena citata impone si addivenga, nel termine dalla medesima previsto, alla
sentenza dichiarativa del fallimento, non essendo invece sufficiente la sola proposizione della
relativa istanza (53); istanza che non può perciò comportare l’interruzione del decorso del
termine stesso (trattandosi di un limite oggettivo alla dichiarazione di fallimento e non di un
termine di prescrizione suscettibile, dunque, di interruzione ai sensi dell’art. 2943 c.c.) (54):
orientamento in sé corretto, stando al tenore letterale della disposizione, anche se non certo
favorevole per i creditori (i quali potrebbero venire effettivamente a conoscenza della cancel-
lazione anche molto tempo dopo il suo avverarsi). A tutela dei creditori si è ritenuta però
legittima, qualora sia prossima la scadenza del termine di cui all’art. 10 l. fall., l’abbreviazione
del termine di comparizione dell’imprenditore all’udienza prefallimentare, ritenendosi sussi-
stenti le ragioni di urgenza previste dall’art. 15, 5º comma, l. fall. (55).
Un aspetto, che per la verità non avrebbe alcuna necessità di essere chiarito ma che pure
è stato oggetto — sebbene nell’ambito di una vicenda più complessa — di una pronuncia di
legittimità, riguarda il momento di decorrenza del termine di cui all’art. 10 l. fall., che coincide
ovviamente con la data della effettiva cancellazione, a nulla rilevando la differente data nella
quale la relativa domanda sia stata presentata presso il registro delle imprese (56): orientamento

detta cessazione sia portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei» (corsivo mio). Ritiene invece
che «la sola cessazione dell’attività d’impresa, in mancanza, dunque, di cancellazione dal registro
delle imprese, non può essere opposta dall’imprenditore ai suoi creditori a meno che egli non dimostri
che essi ne fossero comunque a conoscenza» (corsivo mio), BELVISO, Cessazione dell’attività d’im-
presa e fallimento dell’imprenditore individuale, in Dir. fall., 2011, I, 398.
(52) IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, (nt. 29), 949 s., il quale sottolinea come in tal caso
non si ponga un problema di opponibilità a questo o quel terzo, dovendosi invece individuare il
momento iniziale, unico ed uguale per tutti, dal quale far decorrere il termine per la dichiarazione di
fallimento. Nel medesimo senso M. PERRINO, L’estinzione delle società di persone, (nt. 27), 711 ss.
(53) In questo senso cfr. Cass., 12 aprile 2013, n. 8932, in Riv. not., 2013, 3, 714 ss.
(54) Come precisato da Cass., 25 ottobre 2013, n. 24199, in DeJure.
(55) Cass., 5 febbraio 2014, n. 2561, in DeJure, la quale ha inoltre ritenuto non compresse, nel
caso di specie, le concrete possibilità di difesa dell’imprenditore.
(56) Cass., 9 maggio 2014, n. 10105, (nt. 21): principio affermato con riferimento alle società,
ma che è da ritenersi estensibile a tutti i soggetti cui sia applicabile l’art. 10 l. fall.

94/II
senz’altro da condividere in quanto gli effetti della cancellazione, come per qualunque iscri-
zione nel registro delle imprese, si producono dal momento in cui il procedimento pubblicitario
sia stato completato (e non da quello, ovviamente precedente, in cui si propone la domanda
all’Ufficio del Registro delle imprese).
Altrettanto pacifico è che, in caso di revoca di una precedente dichiarazione di fallimento
(disposta, ad esempio, per non essere stata garantita la presenza del debitore all’udienza
prefallimentare), la eventuale nuova dichiarazione del medesimo debba intervenire entro un
anno dalla cancellazione dell’impresa (sempre che sia avvenuta) e non dalla iscrizione nel
registro delle imprese della sentenza di fallimento revocata (57): a prescindere dalla necessità di
evitare interpretazioni dell’art. 10 l. fall. totalmente avulse dal dato letterale (il quale impone,
come già detto, all’imprenditore che abbia cessato l’attività e voglia sottrarsi al fallimento di
provvedere tempestivamente alla cancellazione dell’impresa onde far decorrere il termine di un
anno), è stato giustamente evidenziato che, una volta intervenuta la revoca del fallimento,
l’imprenditore il quale abbia cessato l’attività senza però provvedere alla cancellazione, ben
potrebbe decidere di riavviarla (58).
Pare ormai definitivamente chiarito, inoltre, che l’art. 10 l. fall. non è applicabile a tutti i
casi di cancellazione: non trova applicazione, in particolare, nei casi di cancellazione della
società a seguito del trasferimento della sede legale all’estero (59).

(57) Cass., 9 maggio 2014, n. 10113, in www.ilcaso.it.


(58) Così la motivazione di Cass., 9 maggio 2014, n. 10113, (nt. 57).
Sempre sotto il profilo procedimentale si è stabilito, inoltre, che la notifica del ricorso per la
dichiarazione di fallimento presentata dopo la cancellazione della società debba avvenire presso la
eventuale nuova sede indicata dal liquidatore (e correttamente pubblicizzata), qualora risulti essere
diversa dalla originaria sede della società, pena la nullità della sentenza di fallimento (App. Brescia,
20 marzo 2014, in www.ilcaso.it). Così pure si è deciso che nel caso in cui il ricorso per la
dichiarazione di fallimento venga presentato, in qualità di creditore, da una società cancellata, la
conseguente estinzione comporta che il ricorso medesimo debba ritenersi in radice inidoneo a far
iniziare il procedimento prefallimentare ed a pervenire alla dichiarazione di fallimento, con conse-
guente revoca della pronuncia medesima (Cass., 4 luglio 2013, n. 16751).
(59) Se il trasferimento fosse effettivo, infatti, vi sarebbe continuità giuridica della società
trasferita, come potrebbe desumersi dal disposto degli artt. 2437, 1º comma, lett. c) e 2473, 1º
comma c.c., e non vi sarebbe neppure cessazione dell’attività, mancando perciò il presupposto di
applicazione dell’art. 10 l. fall.: presupposto consistente — a giudizio della Cassazione — in una
cancellazione avvenuta a seguito del compimento del procedimento di liquidazione, «o per il
verificarsi di altra situazione che implichi la cessazione dell’esercizio dell’impresa e da cui la legge
faccia discendere l’effetto necessario della cancellazione» (Cass., Sez. un., 11 marzo 2013, n. 5945,
in Mass. giust. civ., 2013, 1, 244; conforme Cass., 24 gennaio 2014, n. 1508, in Giur. it., 2014, 2,
339, con nota di SPIOTTA; Cass., Sez. trib., 9 marzo 2014, n. 6388, in www.cassazione.net; può
segnalarsi, nella giurisprudenza di merito, Trib. Treviso, 31 maggio 2013, in www.ilcaso.it, il quale,
sulla base del medesimo ragionamento sopra esposto, esclude che la cancellazione per trasferimento
della sede all’estero possa comportare l’interruzione del giudizio). Ma altrettanto potrebbe dirsi
qualora il trasferimento fosse fittizio: ipotesi nella quale, oltre a non venire meno la giurisdizione del
giudice italiano, non opererebbe il limite temporale di cui al citato art. 10 l. fall., senza che vi sia —
precisa la Cassazione — alcuna necessità di procedere alla cancellazione della cancellazione ai sensi
dell’art. 2191 c.c., poiché «nulla consente di affermare che, per poter fornire la prova contraria alle
risultanze della pubblicità legale riguardanti la sede dell’impresa (e l’eventuale conseguente cancel-
lazione da un registro nazionale), occorra preventivamente ottenere dal giudice del registro un
provvedimento che ripristini, anche sotto il profilo formale, la corrispondenza tra la realtà effettiva
e quella risultante dal registro» (Cass., Sez. un., 18 aprile 2013, n. 9414, in Giur. it., 2014, 3, 615,
con nota di BOGGIO; Cass., 24 gennaio 2014, n. 1508, (nt. 59); per ulteriori citazioni sia consentito
rinviare a SANNA, Cancellazione ed estinzione nelle società di capitali, (nt. 1), 65 s.). Sebbene, a tutela
dei terzi e della veridicità delle informazioni fornite dal registro delle imprese, sarebbe forse
opportuno procedere alla cancellazione della cancellazione ex art. 2191 c.c., essendo essa avvenuta
per un trasferimento all’estero rivelatosi poi fittizio e, dunque, in assenza delle condizioni previste
dalla legge (così come del resto affermato dalla stessa Cassazione, a sezioni unite, nn. 8426 e 8427
del 2010, (nt. 2)). Ferma restando in ogni caso — cioè a prescindere dall’avere proceduto o meno a
tale adempimento — l’esclusione dell’applicabilità sia dell’art.10 l. fall., che dell’art. 2495 c.c.

95/II
Questione senza dubbio più delicata, per finire, è quella relativa alla operatività dell’art.
10 l. fall. qualora l’imprenditore cancellato proponga una domanda di concordato preventivo
“con riserva” il quale venga successivamente revocato, con conseguente dichiarazione di
fallimento (ai sensi dell’art. 173 l. fall.): in proposito nella giurisprudenza di merito si è
affermato che, ai fini del computo dell’anno previsto dall’art. 10, 1º comma, l. fall., deve farsi
riferimento al momento dell’ammissione alla procedura concordataria, e non a quello della
successiva dichiarazione di fallimento, in virtù del principio della consecutività delle due
procedure concorsuali (60). In alternativa, si è ritenuto di dover escludere del tutto l’ammissi-
bilità di una domanda di concordato preventivo “con riserva” da parte di un imprenditore
cancellato, osservando che non sarebbero praticabili gli adempimenti in tal caso richiesti dalla
legge da parte di un soggetto «colpito da una presunzione semplice di estinzione ovvero
radicalmente estinto» (61).

4.4. Cancellazione senza estinzione? — Si tocca così un punto particolarmente delicato.


Il problema risiede infatti nella difficoltà di coordinamento fra la diposizione dettata dall’art.
2495, 2º comma, c.c. e l’art. 10 l. fall., e nel conseguente problema di ammettere il fallimento
di una società irreversibilmente estinta: posto che se in sede fallimentare si applicasse l’art.
2495, 2º comma, c.c., secondo cui i creditori insoddisfatti dopo la cancellazione possono agire
soltanto nei confronti dei soci, nei limiti di quanto ricevuto in forza del bilancio finale di
liquidazione, e dei liquidatori in colpa, ai creditori dovrebbe essere allora preclusa l’insinua-
zione al passivo fallimentare della società: insinuazione che dovrebbe invece rappresentare il
corollario della dichiarazione di fallimento; d’altro canto, se dopo la dichiarazione di fallimento
fosse consentito imputare debiti al patrimonio sociale, vorrebbe dire che tale patrimonio esiste,
nonostante la cancellazione (62). Tanto è vero che l’idea di far decorrere il termine per la
dichiarazione di fallimento dalla cancellazione della società, e non dalla cessazione dell’attività,
secondo quanto a suo tempo deciso dalla Corte Costituzionale (63), si affermava in un sistema
nel quale la giurisprudenza riteneva ancora che la cancellazione non comportasse l’estinzione
della società in presenza di rapporti pendenti.
Ciò induce perciò ad ipotizzare che si possa in tale ipotesi escludere l’effetto estintivo
normalmente discendente dalla cancellazione: pur non potendosi qui approfondire il problema,
può dirsi che la dichiarazione di fallimento sembra non poter prescindere dall’esistenza, quanto

(60) Così Trib. Rovigo, 27 marzo 2014, in www.ilcaso.it., a giudizio del quale, qualora non si
condivida il richiamato principio della consecutività delle procedure concorsuali (ribadito, tuttavia,
da Cass., 6 agosto 2010, n. 18437, in Giust. civ., 2010, I, 2453, con nota di DIDONE, e che ha di
recente trovato esplicito riconoscimento legislativo: si veda, sul punto, TERRANOVA, Le nuove forme di
concordato, Torino, Giappichelli, 2013, 12), sarebbe comunque ravvisabile l’abuso dello strumento
concordatario qualora la domanda di concordato con riserva venga presentata allo scopo di evitare
la dichiarazione di fallimento per decorso del termine previsto dall’art. 10 l. fall. (più in generale,
sull’abuso del concordato preventivo v. D’ATTORRE, L’abuso del concordato preventivo, in questa
Rivista, 2013, II, 1059 ss.).
(61) In questo senso cfr. P. VELLA, L’ammissione al concordato preventivo, in Fallimento,
2013, 1, 92 s.; per la quale sarebbe necessario scartare l’opzione interpretativa fondata sulla
consecutività delle procedure, argomentando soprattutto dall’art. 22, 5º comma, l. fall.
(62) IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, (nt. 29), 956. In questo senso v. anche FIMMANÒ-
ANGIOLINI, Gli effetti della cancellazione della società alla luce delle pronunce delle sezioni unite della
cassazione, (nt. 27), 1490 ss., per i quali se «si applicasse alla lettera il dettato dell’art. 2495 c.c., i
creditori di una società cancellata, e poi dichiarata insolvente, non potrebbero insinuarsi nel passivo
fallimentare in quanto potrebbero rivalersi solo nei confronti dei soci e dei creditori. Ma il fallimento
viene dichiarato, ex art. 10 l. fall., proprio per consentire il concorso dei creditori sul patrimonio
sociale, eventualmente ricostruito anche con azioni di pertinenza della massa» (analoghe considera-
zioni anche in FIMMANÒ-ANGIOLINI, Cancellazione, estinzione e cancellazione della cancellazione:
quando la società di capitali può “risorgere” e fallire [aggiornamento del Capitolo IX del volume
Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, a cura di Fimmanò, Milano, Giuffrè, 2011], in
www.ilcaso.it, 31).
(63) Per citazioni v. retro, alla nota 38.

96/II
meno, di un patrimonio, costituito da una massa patrimoniale attiva (formata dalle eventuali
sopravvivenze e/o sopravvenienze attive, in esse dovendosi ricomprendere anche quelle realiz-
zate attraverso l’esercizio, da parte del curatore, di azioni revocatorie, nonché di azioni di
responsabilità nei confronti degli amministratori, componenti degli organi di controllo, diret-
tori generali e liquidatori) destinata in via esclusiva al soddisfacimento, secondo il principio
della par condicio, dei creditori concorsuali. Potendosi così ammettere la persistenza di un
centro d’imputazione dopo la cancellazione della società e che dovrebbe persistere per tutta la
durata della procedura (64).
A soluzione analoga è pervenuta la giurisprudenza più recente, ribadendo quanto già
affermato dalle Sezioni Unite nelle pronunce del marzo 2013, ossia che il liquidatore della
società cancellata è legittimato a partecipare all’udienza prefallimentare ed a proporre reclamo
avverso la sentenza dichiarativa del fallimento, posto che la società sopravvivrebbe, nonostante
la cancellazione e seppure ai soli fini del fallimento, in virtù di una fictio iuris (65). Ed è indubbio
che ammettere la sopravvivenza della società alla cancellazione, seppure ai soli fini fallimentari,
apre tutta una serie di ulteriori problematiche: fra le quali, appunto, il quesito se altrettanto
debba affermarsi con riferimento alla possibilità che una società cancellata proponga una
domanda di concordato preventivo, posto che ciò implicherebbe la sopravvivenza degli organi
sociali la cui presenza è necessaria ai fini dell’approvazione della relativa proposta (66).
VALENTINO SANNA

(64) Risultando una questione tutto sommato nominalistica, poi, dire che viene meno la
società come soggetto ma non il suo patrimonio, invece di affermare che la società, priva della
personalità giuridica, sopravvive alla cancellazione: si tratta di concetti qui soltanto abbozzati ma
meglio sviluppati in SANNA, Cancellazione ed estinzione nelle società di capitali, (nt. 1), in specie 185
ss.
(65) Si vedano, confermando un orientamento già espresso da Cass., Sez. un., 12 marzo 2013,
nn. 6070, 6071 e 6072, (nt. 2) (e, prima ancora, da Cass., 5 novembre 2010, n. 22547, in Mass. giust.
civ., 2010, 11, 1410): Cass., 30 maggio 2013, n. 13659, in questa Rivista, 2014, 6, 937, con nota di
HAMEL, la quale, in via meramente ipotetica, prevede «la possibilità di un’azione del curatore della
società estinta, e dichiarata fallita, nei confronti dei soci in applicazione dell’art. 2945 c.c., ma in
questo quadro l’azione supporrebbe l’intervenuto fallimento della società e si aggiungerebbe alla
procedura concorsuale senza sostituirla»; Cass., 11 luglio 2013, n. 17208, in DeJure; Cass., 26 luglio
2013, n. 18138, in Giur. it., 2013, 11, 2265; Cass., 13 settembre 2013, n. 21026, in DeJure; Cass.,
6 novembre 2013, n. 24968, in DeJure, per la quale, perciò, il ricorso per la dichiarazione di
fallimento può essere notificato presso l’ultima sede della società, ai sensi dell’art. 145, 1º comma
c.p.c.; Cass., 30 gennaio 2014, n. 2034, in DeJure; nella giurisprudenza di merito cfr. Trib. Modena,
23 aprile 2013, in DeJure.
(66) Ed altrettanto dicasi con riferimento ad una eventuale domanda di concordato fallimen-
tare. Per l’esame di ulteriori problemi relativi alla chiusura del fallimento, nonché a quelli posti dalla
sua eventuale riapertura, sia consentito rinviare a SANNA, Cancellazione ed estinzione nelle società di
capitali, (nt. 1), 189 ss. e 191 ss.

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