Professional Documents
Culture Documents
L’esperienza pratica e teorica maturata nei pochi anni in cui mi sono dedicato alla fotografia ha contribuito
a creare in me un nuovo presupposto concettuale, uno schema di pensiero con struttura mutata dalla
dedizione alla fotografia. Ha definito in me una forma mentis. A posteriori di una tale esperienza ho
ritenuto plausibile ricercare nella storie che compongono la Storia altri esempi in cui la fotografia si è
imposta a livello di impostazione mentale o di medium chiave nell’evoluzione del rapporto fra uomo e
rappresentazione.
L’intero percorso, composto di alcune macro-sezioni, è portato avanti parallelamente all’analisi del saggio
sulla fotografia “La camera chiara”, di Roland Barthes. Citazioni tratte dalle significative pagine di tale
saggio introdurranno e preciseranno, in ogni ambito affrontato, il rapporto che intercorre tra il tema
centrale del percorso –La fotografia: un medium come forma mentis – e gli argomenti proposti.
Il percorso ha inizio con uno spazio dedicato alla “Fotografia letteraria”. In riferimento al processo di
avvicinamento dell’arte alla scienza durante il corso dell’Ottocento, è posta in analisi la vita e la produzione
verista di Giovanni Verga partendo da un intervento di Giovanni Garra Agosta (catanese, studioso di Verga).
Nell’ambito della cultura classica latina Petronio con l’episodio della “Cena di Trimalchione”, tratta dal
Satyricon, “fotografa” in maniera dettagliata aspetti della vita e del linguaggio quotidiano dell’antichità e
costituisce un documento unico e particolarmente originale. Un esempio applicato alla letteratura delle
teorie fotografiche di Barthes è rintracciabile all’interno di una lettera, che lo scrittore inglese Charles
Dickens invia dall’America in qualità di giornalista.
Successivamente alla “Fotografia letteraria” è presa in considerazione la natura artistica del mezzo
fotografico. Nel periodo impressionista, coevo allo sviluppo della fotografia, si è soliti associare ad Edgar
Degas la fotografia. Questo rapporto è analizzato in riferimento all’opinione di Rosalind Krauss( docente di
storia dell’arte e fotografia- Columbia University) espressa ne “Teoria e storia della fotografia” e attraverso
l’opera “La lezione di ballo”.
Sinora è stata indagata la relazione che lega il “pensiero fotografico” ai singoli individui, ma Walter
Benjamin, nel saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, arte e società di massa”,
amplia questa concezione portando avanti la teoria di un rivolgimento del pensiero nella società di massa.
Per quanto riguarda l’aspetto tecnico-scientifico della fotografia, in conclusione al percorso, è curato
l’aspetto ontologico, in quanto ritengo che l’essere consapevoli, a qualsiasi livello, della natura e del
principio che è a fondamento di questa forma di rappresentazione permette di avvicinarsi ad essa,
sentendola più propria, più intimamente legata alla propria attività. Pertanto sono state approfondite la
genesi e la propagazione delle onde elettromagnetiche, con accenni preliminari alle equazioni di Maxwell.
Andrea Pirazzini VA
Pagina 2
Mappa concettuale
Andrea Pirazzini VA
Pagina 3
“La camera chiara”, una nota sulla fotografia
“La camera chiara”, di Roland Barthes, è un testo affascinante per chiunque si interessi di fotografia.
“La camera chiara”, in opposizione alla camera oscura dove si sviluppano le foto, è un rischiaramento, una
filosofia, secondo Roland Barthes. Barthes restò sbalordito da una foto del 1852 raffigurante l'ultimo
fratello di Napoleone. Egli si disse allora: « Questi occhi hanno visto l’Imperatore ! ». In seguito la cultura
l’allontana un po' alla volta da questo stupore. Vuole tuttavia sapere che cos'è la fotografia « in sé », se
essa dispone d’un suo « proprio ». In ogni caso essa riproduce all'infinito, meccanicamente, ciò che ha
avuto luogo una sola volta. Essa non può essere trasformata filosoficamente. Percepire ciò che essa
significa non è impossibile se si fa appello alla riflessione.
Le foto che interessano Roland Barthes sono quelle davanti alle quali egli prova piacere o emozione. Non
tiene conto delle regole di composizione d’un paesaggio. Davanti a certe foto, si pone come un selvaggio,
senza cultura. A partire dalle foto che ama, egli prova a formulare una filosofia. Non essendo fotografo, egli
non ha a disposizione che due esperienze: quelle del soggetto visto e quelle del soggetto che vede.
Ciò che egli ama, è il rumore meccanico del dito del fotografo sulla macchina e non l’occhio che lo
terrorizza. In rapporto al suo personaggio raffigurato, l’immagine restituita è immobile, dunque pesante,
mentre quello si vorrebbe leggero; davanti all’obiettivo, egli è di volta in volta :’ colui che si crede, colui che
vorrebbe che lo si creda, colui che il fotografo lo crede, colui del quale si serve per mostrare la propria arte ‘.
E' per questo che egli ha una sensazione di inautenticità. Egli diventa oggetto. Egli prende dunque le foto
che ama come oggetto d'analisi e dice che esse l’animano e che lui le anima. E' l’attrazione che le fa
esistere alla sua vista. Sono i loro sentimenti.
Enuclea due elementi che suscitano la sua ammirazione della foto : lo studium (il gusto per qualcuno o
qualcosa); il punctum (la "piqûre", lett. la "puntura", un dettaglio straziante). Un esempio è la famiglia di
americani a pag. 45: Il buon soggetto culturale costituisce lo studium; uno dei personaggi, in piedi sulla
destra, indossa scarpe legate da un cinturino. Questo dettaglio affascina Barthes e costituisce il suo punto.
Grazie ad esso, si crea un campo cieco (una sorta di fuori-campo sottile), che conferisce a questo ritratto
una vita esteriore. Si tratta di una co-presenza. Senza questi due elementi la foto gli è insignificante.
‘Una foto è sorprendente quando non si sa perché è stata scattata. Una foto è sovversiva quando suggerisce
un pensiero e non uno spavento’. La foto lo tocca se gli toglie il suo sproloquio ordinario : tecnica, realtà,
reportage, arte.
Fino a qui, Roland Barthes ha appreso come funziona il suo desiderio ma non ha ancora scoperto la
«natura» della fotografia. Essa ha anche un rapporto con la morte: la foto rende immobile ogni soggetto.
Barthes scopre una foto della madre (dopo la sua morte) e si rende conto che l’amore e la morte
intervengono nella sua scelta di foto unica, irrimpiazzabile. Nella fotografia, c'è realtà e passato. Vi si
confondono verità e realtà. Ecco dunque per Barthes il "proprio" della fotografia: ciò che è stato
fotografato « è esistito ».
Egli non ama il colore nella fotografia perché ha l'impressione che si interponga tra il soggetto e lui. Parla
dei raggi che emanano dal soggetto fotografato come se fossero ancora vivi.
La fotografia stupisce Roland Barthes come se essa avesse il potere di far rivivere ciò che è stato. Essa non
inventa (come può farlo ogni altro linguaggio), «essa è l’autenticazione stessa » (pag. 87). «Ciò che si vede
Andrea Pirazzini VA
Pagina 4
su carta è tanto sicuro come ciò che si tocca » (pag. 89), ma la fotografia non sa dire ciò che dà a vedere
(pag. 101). La fotografia è violenta perché riempie di forza la vista. Essa è deperibile (come la carta).
Secondo Barthes, il noema (oggetto intenzionale del pensiero, per la fenomenologia) della fotografia è
semplice : «ciò è stato» (pag. 115). Questo ‘medium bizzarro’ è falso a livello della percezione ma vero a
livello del tempo (pag.115). La follia nasce nella fotografia se si va in estasi davanti a lei. Saggia (se il suo
realismo resta relativo) o folle (se il realismo pretende di essere assoluto) (pag.119), sono le due vie che
Roland Barthes si dà come scelta.
Andrea Pirazzini VA
Pagina 5
La parola che fotografa: esempi di ‘fotografia letteraria’
L’origine della fotografia è da ricercarsi, in ambito tecnico, nello stretto legame che si instaura tra arte e
scienza nel corso del Rinascimento. La fotografia sarebbe in questo senso il frutto di un percorso di
evoluzione dell’arte verso il naturalismo: quest’ultima si concentra nel desiderio di raggiungere la più
assoluta esattezza e verosimiglianza al modello naturale nella rappresentazione che ne dà, conformando
con ciò i propri ideali estetici a quelli della scienza. La tensione istintiva dell'arte e della scienza
nell'Ottocento è espressa nella ricerca verso la conoscenza dei fenomeni, la loro registrazione oggettiva, e
l'invenzione della fotografia deriva e risponde perfettamente a questa esigenza, laddove nasce e si pone
come nuovo mezzo di visualizzazione e di riproduzione dei fenomeni.
Essa si configura come una metafora rappresentante la visione della realtà ottocentesca che si impone non
solo a livello delle arti visive, ma si esprime concretamente anche in forme letterarie. Per quanto riguarda
lo specifico ambito della letteratura italiana, la corrente verista è da collocarsi senza alcun dubbio in questo
quadro.
Tuttavia la nascita del “pensiero fotografico” non coincide con il movimento che avvicina l’arte al
naturalismo. Pertanto il Verismo italiano e il Naturalismo francese possono non essere i primi esempi
letterari di realismo.
Sulla base di un’analisi circa la parola che fotografa si può individuare in Petronio un autore al quale, per
determinate caratteristiche, è possibile attribuire un avvicinamento a questo indirizzo letterario.
Per quanto riguarda la letteratura straniera si può ritrovare nell’attività di giornalista (e in parte in quella di
romanziere) di Charles Dickens un brillante esempio di fotografia letteraria nonché di punctum, in
riferimento alle teorie di Barthes.
Giovanni Verga nasce nel 1840, ironia della sorte un anno dopo la nascita ufficiale del mezzo fotografico in
Francia, ad opera di Nicephore Niepece. Cresce con la fotografia. Nella sua famiglia, già all’età di nove anni
viene a contatto con una delle prime macchina a cassetta (del 1849) e con la quale si eserciterà
successivamente.
Solo recentemente è stata riconosciuta l’attività di fotografo di Verga (soltanto nel 1966 sono stati scoperti
per mano del Prof. Giovanni Garra Agosta alcuni dei numerosissimi negativi da lui prodotti) che ha inizio
ufficialmente nel 1878, contemporaneamente alla stesura di Rosso Malpelo e due anni prima della
pubblicazione della raccolta di novelle Vita nei campi. Da queste foto emergono alcuni degli scenari sia
naturali che domestici e dei ritratti di uomini e donne che quasi certamente servirono da modello ideale
per le opere appartenenti alla fase verista (dalla raccolta Vita nei campi sino ai romanzi I Malavoglia e
Mastro Don Gesualdo).
Andrea Pirazzini VA
Pagina 6
Fra gli esponenti del verismo italiano, nonché amici di Verga, la fotografia era una passione diffusa, tanto
che fu lo stesso Luigi Capuana ad insegnare all’amico di Catania il procedimento di sviluppo dei negativi.
Come gli altri scrittori apparteneva alla generazione che vide svilupparsi e progredire intorno a sé questo
nuovo medium.
Nella frequentazione dei salotti di èlite si è imbattuto in numerosi ritratti fotografici color seppia di
gentiluomini e nobildonne. Confrontando queste prime rudimentali fotografie con i dipinti degli antenati di
famiglia è molto probabile che in lui si insinuassero profonde riflessioni e suggestioni circa la
rappresentazione del “vero”. Un concetto fondamentale in lui come negli altri artisti si andava delineando
in una varietà di sfumature di inconscio: la possibilità di rappresentazione della realtà senza l’intervento
dell’artista, il quale inevitabilmente ne apportava una distorsione più o meno evidente.
Ne consegue che la svolta verista di Verga del 1878, sia stata portata avanti di pari passo con la decisione di
occuparsi più seriamente della fotografia. Queste due scelte sono state dettate sia dall’adesione ai principi
naturalisti francesi, divulgati principalmente da Zola, che da una profonda ammirazione per la nuova
tecnologia.
È necessaria una precisazione: Verga, soprattutto nei primi tempi della sua attività di fotografo, si affidò ad
altri più esperti di lui, in particolar modo all’amico Capuana, per la realizzazione di fotografie che ritraessero
ambienti e personaggi rurali dai quali trarre spunto per la composizione letteraria. Si può supporre che da
questo mondo fotografico e realistico fosse stato talmente affascinato e ammaliato, forse anche in modo
inconsapevole, tanto da percepire il suo habitat narrativo attraverso la lente dell’obiettivo fotografico
"…ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche
noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i
piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall'altro lato del
cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà…" (da: Fantasticheria).
L’originale percezione, che Verga mutua dall’adesione al movimento fotografico, traspare nelle opere di
carattere verista. Paesaggi, ambienti e personaggi sono ritratti, analogamente alle fotografie d’autore in
bianco e nero, attraverso una vastissima ed espressiva gamma di sfumature, un continuo gioco di luci e
ombre, del sole e della notte. La descrizione è estremamente parsimoniosa di colori anche in quei passaggi
dove il paesaggio e l’ambiente hanno una descrizione minuziosa. A questo fine si può ricordare la novella La
Roba, dove nella descrizione pittoresca della Piana di Catania vengono nominati solamente una volta il
rosso ed il verde, il resto della novella è costruito su un’alternanza di valori dei colori “chiaroscuri”, bianchi,
grigi e neri. Per semplice curiosità si fa notare allora che nel romanzo I Malavoglia il blu è totalmente
assente, l'azzurro ricorre una volta sola, il verde 16 volte, il giallo 21, ed il rosso 32 (ovviamente sia al
singolare, plurale, maschile e femminile). Nel romanzo Mastro don Gesualdo la statistica è la seguente: blu
= 0; azzurro = 5; verde = 19; giallo = 27; rosso = 44. Per la verità ne I Malavoglia Verga ha descritto almeno
in sei occasioni il colore del mare di Aci Trezza, due volte tramite l'aggettivo "turchino", ed altre quattro
usando il colore verde. Si sottolinea inoltre che il verde, il giallo ed il rosso in ambedue le opere spesso
vengono utilizzati nella descrizione di stati d'animo: "verde di bile", "giallo come un morto", "rosso di
rabbia", e via dicendo. Così ad esempio ne I Malavoglia il colore giallo viene usato 19 volte su 21
nell'espressione "giallo come un cadavere" o simili; il colore rosso, 22 volte su 32 nel senso di "rosso in
volto", ecc.
Un altro tratto della narrazione verista di Verga che può essere accomunato all’ispirazione ottenuta
dall’attività di fotografo si ha nell’impostazione che egli conferisce alle trame delle sue novelle: sembrano
una sequenza di brevi scene di stampo neorealista legate dalla voce del narratore, che ora coincide con il
Andrea Pirazzini VA
Pagina 7
popolo e ora con il protagonista. In quest’ottica i personaggi risaltano come figure in chiaroscuro sullo
sfondo di un paesaggio rurale e umano, grezzo e ostile, ritratto fedelmente come nelle fotografie
pervenuteci. Da questa struttura, sommatoria di “istantanee”, si evince come chi “ritrae” (ossia lo
scrittore), riesca più facilmente a rimanerne al di fuori, come fosse dietro la sua macchina, al momento di
puntare l’obiettivo sulla realtà.
Essendo nato insieme alla fotografia, avendola vista progredire, avendola vissuta imparando a conoscerla e
ad utilizzarla, la sua visione del mondo doveva risentire della camera oscura in misura tale da suggerirgli
uno stile che potesse “fotografare” la realtà attraverso le parole, con un modello di obiettività quasi
impersonale ed una visione in “bianco e nero”.
Si può considerare una prova della sua visione fotografica della realtà (che già dalla seconda metà
dell’Ottocento propone una impersonalità, obiettiva e tendente ad escludere la sfera del coinvolgimento
emotivo) il fatto che la sua prima fotografia, in ordine cronologico, che ci è rimasta sia un autoscatto del
1878 dove è in compagnia della famiglia, ma dopo questo caso siano state rare ed eccezionali le istantanee
che lo abbiano visto di fronte all’obiettivo. Questa predilezione è indice della sua volontà di “stare fuori”
dallo spettacolo della realtà per approfondire quel ruolo di osservatore esterno che intendeva trasmettere
anche nella sua letteratura. "…Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se
riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena
nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe
dovuto essere…" (dall'introduzione de I Malavoglia).
La diffusione degli scritti e della linea di pensiero innovativo proposta da Èmile Zola e della corrente
naturalista, di cui è il maggior esponente, giocò certamente un ruolo fondamentale nell’elaborazione della
visione e della poetica verista, anche se come vedremo, essa si svilupperà con una serie di prerogative
differenti ed originali, coerentemente con il diverso clima culturale e la diversa realtà sociale che essa si
apprestava a “fotografare”.
Il movimento Verista, che deriva dalla matrice positivista e zoliana, definisce un’attitudine a raccontare i
fatti con la massima oggettività possibile e ad affrontare la realtà materiale del mondo narrato anche nei
suoi aspetti più sgradevoli e crudi, riproducendo fedelmente il linguaggio dei contesti sociali che
costituiscono, di volta in volta, l’oggetto e l’ambiente della narrazione. L’estensione temporale è piuttosto
limitata, spaziando dagli ultimi decenni dell’Ottocento sino ai primi anni del Novecento. Il declino
dell’esperienza verista è parallelo al decadimento sulla scena italiana del suo maggiore esponente, Giovanni
Verga.
Impersonalità e regressione
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l'abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere
brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per
tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei
campi, press'a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente
preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro,
Andrea Pirazzini VA
Pagina 8
attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia
dell'essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il
misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino
sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorì, costituirà per lungo tempo ancora la
possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l'argomento di un racconto, e che l'analisi
moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di
partenza e quello d'arrivo; e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più
minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario
delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno
fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed
effetti non sarà certo meno utile all'arte dell'avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio
delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La scienza del cuore
umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù
dell'immaginazione, che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi? Quando nel
romanzo l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà
un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la
sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano
dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l'impronta dell'avvenimento reale, l'opera d'arte
sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza
serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d'origine.”
La prefazione all’”Amante di Gramigna”, indirizzata all’amico Salvatore Farina, sopra riportata costituisce
l’unico documento teorico che Verga abbia mai pubblicato riguardo al suo stile letterario. In esso emergono
chiaramente i punti essenziali della poetica verista, primo fra tutti, quello dell’impersonalità. Essa viene
intesa come “eclisse” dell’autore: egli deve necessariamente sparire dal narrato , non deve filtrare i fatti
attraverso la sua “lente” , ma deve mettere il lettore “faccia a faccia” con il fatto “nudo e schietto”. Il
lettore deve seguire lo sviluppo di certe passioni come se non fossero raccontate ma si svolgessero di
fronte a lui, drammaticamente. L’opera pertanto, deve sembrare “essersi fatta da sé”. Con questa teoria
dell’impersonalità però, Verga non dà una definizione filosofica dell’arte che neghi il rapporto creativo tra
l’artista e l’opera, ma propone solo un principio di poetica; riconosce all’impersonalità l’essenza di un
procedimento espressivo, adottato per ottenere certi effetti artistici e dietro il quale vi è la mano esperta
dell’artista che mette in atto quei procedimenti e proprio attraverso di essi mette all’opera il sigillo della
sua personalità creatrice.
In relazione all’impersonalità e all’”eclisse” dell’autore si delinea anche la teoria della regressione del punto
di vista narrativo entro il mondo rappresentato: i fatti saranno riferiti “colle medesime parole semplici e
pittoresche della narrazione popolare”. Deve scomparire il narratore tradizionale, portavoce dell’autore, e
deve essere sostituito da un’anonima voce narrante che ha la visione del mondo e il modo di esprimersi dei
personaggi stessi facenti parte dell’opera.
L’”eclisse” dell’autore porta con sé anche un processo di scarnificazione del racconto, di riduzione
all’essenziale. Vengono eliminate le minute analisi psicologiche della narrativa romantica. Il processo delle
passioni è ricostruito solo da pochi punti cruciali. In un’altra lettera a Felice Cameroni Verga chiarirà che la
Andrea Pirazzini VA
Pagina 9
psicologia si deve ricavare non dai profili dei personaggi costruiti dal narratore, ma dai loro semplici
comportamenti, dai gesti e dalle parole.
Di qui deriva il rifiuto di una facile drammaticità, degli effetti romanzeschi plateali “il pepe della scena
drammatica” come Verga lo definisce in una lettera a Capuana. Agli effetti romanzeschi si sostituisce una
ricostruzione scientifica dei processi psicologici, fondata su una rigorosa consequenzialità logica e su
rapporti necessari di causa ed effetto.
Il principio dell’impersonalità trova ampia spiegazione nell’ambito dell’ideologia verista. Una delle
motivazioni che inducono Verga a farne un uso sistematico sono visibili nella prefazione che abbiamo
riportato sopra: “Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi
un istante fuori dal campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, con i
colori adatti.” Verga ritiene dunque che l’autore debba allontanarsi dall’opera perché non ha il diritto di
giudicare la materia che rappresenta.
Alla base della visione di Verga stanno posizioni radicalmente pessimistiche: la società umana è per lui
unicamente dominata dalla “lotta per la vita”, un meccanismo crudele, per cui il più forte schiaccia
necessariamente il più debole. Gli uomini sono mossi non da motivi ideali , ma dall’interesse economico.
Come legge di natura, questa è immodificabile: perciò Verga ritiene che non si possano dare alternative alla
realtà esistente, né nel futuro, in un organizzazione sociale diversa e più giusta; né nel passato, nel ritornare
a forme superate dal mondo moderno, e neppure nella visione trascendente (la sua visione è
rigorosamente materialistica ed atea ed esclude ogni consolazione religiosa, ogni speranza di riscatto della
negatività dell’esistente in un’altra vita).
E’ evidente come in questo senso, Verga sia il portatore di un forte conservatorismo, al quale è spesso
associato un rifiuto esplicito e polemico verso qualunque tipo di ideologia progressista, democratica e
socialista.
"Malpelo" si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo
malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo
chiamavano "Malpelo"; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato
il suo nome di battesimo.
Il racconto occupa una posizione fondamentale nell’arco dell’opera verghiana: è infatti il testo che
simbolicamente nel 1878 costituì la svolta “verista” dello scrittore. Pubblicato nella raccolta Vita dei campi,
prende notevoli spunti dall’accurata inchiesta portata avanti l’anno precedente da Sisley Sonnino e
Leopoldo Franchetti con la speranza di ricostruire la drammatica situazione economica della Sicilia.
Sin dalla frase iniziale si evidenzia la rivoluzionaria novità dell’impostazione narrativa verghiana: affermare
che Malpelo ha i capelli rossi perché “è un ragazzo malizioso e cattivo” è una stortura logica, che rivela un
pregiudizio superstizioso, proprio di una mentalità primitiva. La voce non può certamente essere quella
dell’autore reale, ma è al livello dei personaggi, è interna al mondo rappresentato, e ne riflette
l’inconfondibile visione. È il perfetto esempio dell’artificio della regressione.
"Malpelo" non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la
buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali
occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano
dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare,
mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per
mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più
allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto
a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi
stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie,
dall'altra parte della montagna di rena caduta.”
Dopo la morte del padre nel crollo della galleria Rosso scava con accanimento, ed ogni tanto si ferma,
ascoltando. E’ facile intuire che scava nella speranza di riuscire ancora a salvare il padre, e si ferma
cercando di udire la sua voce al di là della parete di sabbia; ma il narratore non capisce questi suoi
sentimenti filiali, e attribuisce il suo comportamento, in base al pregiudizio “Malpelo”, alla sua strana
cattiveria: “ Sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli sussurrasse negli orecchi”.
Più avanti, Malpelo tributa un vero e proprio culto alle reliquie del padre morto, gli strumenti, i calzoni, le
scarpe: ciò dimostra in lui un attaccamento profondo, una pietas filiale per l’unica persona che gli voleva
bene. Anche qui è facile intuire cosa si muova nel suo animo, dolore, rimpianto. Ma ancora una volta il
comportamento del personaggio resta impenetrabile al narratore, che riflette la visione ottusa e
disumanizzata di un ambiente duro come quello della cava.
"Malpelo" se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci
come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le
scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la
domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra,
e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa
quali idee in quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, "Malpelo"! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se
ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli,
che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti
nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse
lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il
carrettiere era andato a buttarlo lontano nella "sciara".
Egli andava a visitare il carcame del "grigio" in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche "Ranocchio",
il quale non avrebbe voluto andarci; e "Malpelo" gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere
in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un monellaccio i cani che
accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del "grigio". I cani scappavano guaendo,
come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il "Rosso" non lasciava che
"Ranocchio" li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura delle tue
sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al "grigio"? Adesso non
soffre più -. L'asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si
divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le
viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per
mettergli in corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose! Anche il "grigio" ha
avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato
per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non
più!». Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca
spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.
Addirittura si toglie il pane di bocca per darlo all’amico. Il narratore interpreta, riproducendo
evidentemente l’opinione corrente nella cava : “per prendersi il gusto di tiranneggiarlo”.
Qual è la funzione di questo sistematico stravolgimento della figura del protagonista? E’ evidente dal
racconto che Rosso, pur essendosi formato nell’ambiente disumano della cava, ha conservato alcuni valori
autentici, disinteressati: la pietà filiale, il senso della giustizia, l’amicizia, la solidarietà altruistica. Il punto di
vista del narratore “basso” esercita su questi valori un processo di stranimento: fa apparire strano e
incomprensibile ciò che dovrebbe essere normale, i sentimenti autentici, i valori. E’ una scelta che si
propone di mettere in luce il meccanismo brutale della lotta per la vita, e che rivela tutto il pessimismo
verghiano.
Non tutto il racconto però è impostato sull’effetto di deformazione e stranimento della figura del
protagonista. Se nella prima parte Malpelo è visto solo dall’esterno, dal punto di vista ottuso e malevolo del
suo ambiente, e le motivazioni dei suoi atti restano incomprensibili al narratore, nella seconda parte
emerge il punto di vista del protagonista stesso e possiamo allora sapere cosa pensa e che cosa sente.
Affiora così la visione cupa e pessimistica del ragazzo indurito dalla disumanità di quella vita di fatiche,
patimenti e angherie. Rosso ha colto perfettamente l’essenza della legge che regola tutta la realtà, quella
sociale come quella naturale: la lotta per la vita. Da questa consapevolezza della negatività del reale non
nasce però in Malpelo la rivolta: proprio perché ha capito fino in fondo, egli sa che quella legge è
immodificabile, e quindi non resta che adattarsi con disperata rassegnazione. Ma in lui c’è anche l’orgoglio
di aver capito: e ciò lo distingue dal mondo in cui vive. Nelle vesti del povero garzone di una cava si delinea
perciò la figura di un eroe intellettuale, portatore di una consapevolezza lucida dei meccanismi di una realtà
tragica quanto immodificabile. In lui si proietta evidentemente il pessimismo dello scrittore stesso, la sua
visione lucida ma disperatamente rassegnata della negatività di tutta la realtà, sociale e naturale. Verga non
Il reale significato del racconto emerge nel rapporto fra il punto di vista dell’autore, del protagonista e il
giudizio del pubblico borghese, non è espresso dalla prospettiva popolare assunta in funzione dell’artificio
della regressione. Il pubblico borghese (in particolar modo lombardo) è invitato ad esprimere un giudizio
sul mondo rozzo e primitivo del meridione. Questa dimensione, acuita dalla differente condizione di vita
nonché sociale del tipico lettore settentrionale, vuole creare stupore e indignazione. Attraverso un sapiente
utilizzo della regressione fa apparire strana, distorta, quasi malata la realtà dei personaggi narrati al
pubblico, ma è vero anche il contrario: per un personaggio della novella appare nuova e incomprensibile la
realtà del lettore borghese mediamente agiato.
Si può cogliere allora l’importanza dell’impostazione narrativa della novella, che inaugura tutto il modo di
narrare del Verga verista: la materia in astratto ( i patimenti di un povero orfano incompreso e maltrattato )
potrebbe essere quella di un racconto umanitario , edificante e patetico, teso a suscitare facile
commozione. Ma il modo in cui viene raccontata trasforma Rosso malpelo in un’analisi dura e impietosa
delle leggi sociali, dotata di altissimo valore conoscitivo e critico.
“La Fotografia (per forza) ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato.”
R. Barthes, “La camera chiara”, p.86
La forte carica di realismo costituisce senza alcun dubbio l’aspetto più originale del Satyricon. Il romanzo ha
una sua storia da raccontare, la vita avventurosa di Encolpio, ma nel farlo si sofferma a descrivere luoghi
che non sono visti astrattamente e fuori dal tempo, sono luoghi tipici e fondamentali del mondo romano: la
scuola di retorica, i riti misterici, la pinacoteca, il banchetto, la piazza del mercato, il postribolo, il tempio.
Al di là di questo realismo relativo agli scenari, Petronio mostra anche un certo interesse per un realismo
che potremmo definire sociale, anche se è probabile che egli non avesse ben chiaro il concetto di società,
come lo intendiamo oggi.
Il realismo entra nel Satyricon soprattutto come forza antagonistica del sublime letterario e dei valori che vi
sono associati, di cui Encolpio e compagni sono, in apparenza, portatori. Petronio presenta e ritrae un
mondo corrotto, popolato da personaggi squallidi e anonimi, che traggono soddisfazione solo dai piaceri
più essenziali ed immediati. Egli raffigura una fascia sociale che non sembra animata da alcuna aspirazione
ideale e che nella cultura del tempo non trova evidentemente spazio. Ai grandi miti eroici, ai modelli alti,
dell’epica e della tragedia, che il protagonista-narratore si illude di poter rivivere, si contrappone la forza
materiale delle cose, la fisicità del corpo con i suoi istinti: cibo, sesso, denaro, sono temi “bassi” elementi di
una sceneggiatura del realismo che si oppone, come abbiamo detto, al sublime letterario. Gli schemi di
rappresentazione del reale che Encolpio, amante ingenuo della letteratura ‘alta’ applica alla propria
esistenza, mostrano tutta la loro inadeguatezza. Questa forma di realismo è inserita nella strategia di
aggressione satirica impostata da Petronio contro il personaggio del suo racconto, che rappresenta anche il
modello di uomo prodotto dalla cultura scolastica.
L’originalità del realismo di Petronio è da ricercare nel paradosso che vive il protagonista. Infatti anche là
dove Encolpio prende distanza dai fatti, e lui stesso critica o ironizza, non è mai fornita al lettore
un’ideologia positiva. Anzi, affidando la predicazione moralistica a personaggi screditati (quali sono
Encolpio e compagni), l’aggressione satirica dell’autore giunge ad attaccare persino le pose moralistiche del
genere satirico. Il Satyricon valorizza questa contraddizione e la traduce in forma narrativa: la maschera
satirica viene messa addosso a personaggi inaffidabili che non esitano ad atteggiarsi a censori pur non
avendone alcun diritto. Da questa caratteristica appare chiara la vocazione alla parodia del romanzo. Un
altro esempio è dato nella mescolanza delle forme discorsive: si ottiene così l’effetto di relativizzare la
verità che ognuno dei generi letterari codificati propone come unica e assoluta.
la figura di Encolpio, protagonista – narratore, è catalizzatrice della satira di Petronio. Affidare a lui la
narrazione e ritirarsi in disparte è la strategia scelta dall’autore per lasciare che le azioni del protagonista
mostrino tutta l’inadeguatezza del modello scolastico alla realtà.
L’episodio è rilevante sotto diversi aspetti. Alla carica realistica si sommano l’importanza di documento
storico, di testimonianza di alcune abitudini alimentari dell’epoca. Il cibo, nella letteratura ‘alta’, di norma,
non compare, è come censurato. Nel convito di Trimalcione la prospettiva è completamente rovesciata: il
cibo domina la parola. L’intero racconto è celebrativo del cibo. L’unica altra tematica che contende al cibo
la rappresentazione del mondo è il denaro: all’interno di questi due ambiti si può descrivere
esaurientemente l’orizzonte culturale del mondo dei liberti, criticato aspramente da Petronio.
Il vivo interesse che l’autore ha per la mentalità delle classi sociali è evidente soprattutto nell’episodio della
Cena di Trimalchione, dove esso si esplica anche in un abile mimetismo linguistico: abbiamo qui una
preziosa fonte di informazione sulla lingua d’uso popolare, che non esiste altrove nella cultura latina, se
non all’interno di attestazioni sub letterarie.
E’ significativo sottolineare che l’episodio in questione è la parte più integra che ci sia stata tramandata: è
chiaro che esso esercitava, su chi ha manipolato il testo di Petronio, un’attrattiva particolare, proprio in
quanto testimonianza unica ed irripetibile della società romana della prima epoca imperiale.
La scena che ci si presenta, è quella di un banchetto, al quale Encolpio e i suoi amici sono stati invitati.
Trimalchione, il padrone di casa è un ex schiavo: in tutte le sue manifestazioni tradisce la bassezza
dell’origine, la volgarità della sua educazione, la grossolanità dei suoi gusti. Il suo amore per l’eccesso lo ha
talvolta fatto identificare con la feroce caricatura di Nerone, ma in lui si deve piuttosto rintracciare la satira
pungente di tutti quei liberti imperiali, i quali, con i mezzi più bassi (Trimalchione stesso dichiara
pubblicamente di avere iniziato la carriera concedendo il suo corpo al padrone e alla padrona) erano riusciti
ad ammassare ricchezze favolose. Eppure, Trimalchione è uomo che ha le sue particolari "qualità": ha l’arte
di condurre in porto gli affari, conosce il mondo, e soprattutto è ottimista ad oltranza e, come tutti i grandi
affaristi, mai si lascia scoraggiare dai rovesci della sorte. E’ tenace, costante, bonario.
In lui, nella sua affermazione sociale come simbolo di quella di tutti i liberti, Petronio celebra ancora una
volta la sopraffazione dei valori ideali della cultura sublime, la decadenza dell’antico costume romano e il
trionfo delle forze materiali, della pragmaticità, della rozzezza.
La momentanea assenza di Trimalchione segna una pausa nell’incalzante regia della cena. Sottratti
all’assedio delle portate, i convitati si abbandonano alle chiacchiere. Encolpio registra i discorsi di cinque
liberti: un’unica, ininterrotta, sequenza che riproduce nell’impasto della lingua – forme colloquiali,
volgarismi – il basso grado d’istruzione dei parlanti. La banalità degli argomenti, il gusto del pettegolezzo,
un falso filosofeggiare fatto di proverbi e luoghi comuni, definiscono il limitato orizzonte culturale
dell’entourage di Trimalchione.
Sin dalle prime righe quanto appena detto è riscontrabile: “Narrati si quod nec ad caelum nec ad terram
pertinet, cum interim nemo curato quid annona mordet.” Ossia: “quello racconta roba che non sta né in
cielo né in terra, e intanto nessuno si preoccupa di quanto ci rosicchiano i prezzi”. Con tale incipit Petronio
Tutto il dialogo è inframezzato di espressioni di basso profilo, di insulti gettati nel discorso dalla rabbia
dell’ignoranza di chi è in una condizione non agiata e rifiuta un’analisi critica in favore di una presa di
posizione più comodamente accettabile di ordine populistico. Sono svariate le sentenze appartenenti a
questo ordine, citandone alcune: “piper, non homo” riferito a Safinio: del pepe, non un essere umano; “Nec
schemas loquebatur, sed directum”; “e non parlava mica per giri di parole, ma diretto”; o anche “Sed si nos
coleos habemus, non tantum sibi placeret.” “Ma se avessimo gli attributi, non sarebbe tanto soddisfatto”.
Appare evidente la regressione dell’autore che abbassa il livello della narrazione a quello dei personaggi in
essa rappresentati.
In ultima analisi, vale la pena di evidenziare che la narrazione si fa nettamente realistica anche riguardo la
descrizione degli alimenti e delle varie portate: anche in questo senso Petronio ci fornisce una
testimonianza irripetibile, relativamente alle abitudini alimentari dei romani. Una volta descritto il primo
antipasto ricevuto la descrizione prosegue con la figura di Trimalchione stesso, buffamente abbigliato, e del
suo pacchiano comportamento di ostentazione delle sue ricchezze.
“Tornando all’antipasto, su un grande vassoio era sistemato un asinello, di bronzo corinzio, che portava una
bisaccia a due tasche, delle quali l’una conteneva olive chiare, l’altra scure... Dei piccoli sostegni, poi, saldati
al piano del vassoio, sorreggevano dei ghiri spalmati di miele e cosparsi di polvere di papavero. Non
mancavano anche delle salsicce che friggevano sopra una griglia d’argento e sotto la griglia prugne siriane
con chicchi di melograno... Seguì una portata : si trattava di un vassoio rotondo che aveva disposti, uno
dopo l’altro, in circolo, i dodici segni zodiacali, sopra ciascuno dei quali il maestro di cucina aveva sistemato
il cibo proprio e adatto al referente... Accorsero poi saltellando a tempo di musica quattro camerieri e
tolsero la parte superiore del trionfo. Compiuta questa operazione, scorgiamo nella parte più bassa pollame
e ventri di scrofa ed in mezzo una lepre, provvista di ali, in modo da sembrare un Pegaso... A questo tenne
dietro un vassoio, sul quale era sistemato un cinghiale di grande mole, e per giunta fornito di un cappello,
dalle cui zanne pendevano due cestini, fatti di foglie di palma intrecciate, ripieni l’uno di datteri freschi,
l’altro di datteri secchi. Intorno al cinghiale, poi, dei porcellini fatti di pasta biscottata, dando l’impressione
di stare attaccati alle mammelle, indicavano che il cinghiale era femmina... (Trimalchione) non aveva
ancora proferito l’ultima parola che un vassoio, contenente un maiale enorme, riempì la tavola centrale... Il
cuoco impugnò un coltello e, con gesto prudente, cominciò ad incidere il ventre del maiale da una parte e
dall’altra. E subito dai tagli che si allargavano spontaneamente per la pressione del contenuto, rotolarono
fuori salsicce e sanguinacci... Fu poi portato un vitello lesso, disposto su un vassoio di duecento libbre, per di
più con tanto di elmo... e già era stato sistemato sulla tavola un trionfo contornato da alcune focacce, il cui
centro era occupato da un Priapo, realizzato da un pasticcere, che secondo l’iconografia consueta teneva
nel suo ampio grembo ogni sorta di frutti e di grappoli... Seguirono degli stuzzica appetito : al posto dei soliti
tordi, furono fatte girare delle galline ingrassate, una per ciascun commensale, e in più delle uova d’anatra
incappucciate che Trimalchione ci pregò con grande insistenza di mangiare, sostenendo che erano galline
senza ossa... Concesso quindi un momento di calma, Trimalchione fece servire i dolci, consistenti in tordi
fatti di farina di segale impastata, farciti di uva passa e noci. Fecero loro seguito anche delle mele cotogne
su cui erano confitte delle spine, in modo da sembrare dei ricci di mare”
“Questa volta non sono io che vado in cerca di lui (punctum), ma è lui, che partendo dalla scena, con una
freccia, mi trafigge. Il punctum di un fotografia è quella fatalità che, in essa, mi punge (ma anche mi ferisce,
mi ghermisce).”
R.Barthes, “La camera chiara”, p.28
“ Vi è un’altra espansione del punctum: allorché, paradosso, pur restando un ‘particolare’, esso riempie
l’intera fotografia”
R. Barthes, “La camera chiara”, p.47
Charles Dickens, one of the greatest novelists of the Victorian Age and of English literature, was born in
1812. He had an unhappy childhood, but became successful as a journalist, a novelist and a public figure.
He went to America, Switzerland, France and Italy, and wrote accounts of his journeys. He kept a rich
correspondence with all sorts of people. Just from one of these letters, which Dickens sent from
Washington on the twelth of March 1842 this extract is taken.
Dickens tells Albany Fonblanque, the receiver of the letter, about his experience in America. He describes
the White House and his meeting with the President, John Tyler, as well as the American habits with an
uncommon richness of details. The narration is extremely realistic and accurate, and the amount of details
“takes a picture” of each aspect of Dicken’s journey. From the first lines is possible to see how he can
describe the situation catching the interest of the reader through a long series of details that define a lot of
single aspects, so to create the sensation of a particularly emblematic picture.
In this description, like in a picture, Roland Barthes would have certainly found a ‘punctum’.
While the ‘studium’ would have made us appreciate the rich description of America from Dickens’ point of
view, the ‘punctum’ attracts our attention, monopolizing the scene and pushing everything else into the
background. There’s a detail, in particular that most people wouldn’t have considered but the writer
noticed and underlined – the spit boxes. Dickens dedicates a large part of the letter and a few notes to
them. The core of the letter seems to be the proliferation of these uncommon objects which strikes Dickens
to such an extent that he dedicates something like a tirade to them. The impression you get from this letter
is of a land flooded by spit boxes. It’s a detail that becomes more and more relevant until it becomes
prevalent, its presence fills in the scene.
‘In five minutes’ time, the black in yellow slippers came back, and led us into an upper room – a kind of
office – where, by the side of a hot stove, though it was a very hot day, sat the President – all alone; and
close to him a great spit box, which is an indispensable article of furniture here. In the private room in which
I’m writing this there are two: one on each side of the fire place. They are made of brass, to match the
fender and fire irons; and are as bright as decanter stands.- But I am wandering from the President.’
Lines(46-55)
In this extract appears for the first time the spit box. It already shines the attention which Dickens dedicates
to this ‘conveniencies’. Spit boxes, in the context of this letter have all the characteristics of the ‘punctum’,
of something that attracts you, that charms you even if it shouldn’t do so. Dickens, describing the main
event – the meeting with the President – is forced to stop his narration to talk about spit boxes. But he
knows that this wasn’t the reason why he wrote this letter and in line 55 he realizes that spit boxes are
what we can call the ‘punctum’, something too attractive for us to let things going on with their natural
‘They are everywhere. In hospitals, prisons, wathchouses, and courts of law – on the bench, in the witness
box, and in the gallery; in the stage coach, the steam boat, the rail road car, the hotel, the hall of a private
gentleman, and the chamber of Congress, where every two men have one of these conveniences between
them – and very unnecessarily for they flood the carpet while they talk to you. Of all things in this country,
this practice is to me the most insufferable.’ Lines (75-83)
The invective is warm. In a climax of the description we feel like surrounded and overwhelm by spit boxes.
With no doubt spit boxes are the ‘punctum’ which Charles Dickens caught of America. Nevertheless they
didn’t grab his attention positively. He reveals to consider this practice the ‘most insufferable’. This is just
one of the causes that, as a real Englishman, let him yearn for ‘English customs and English manners’.
Charles Dickens, uno dei migliori romanzieri dell’età Vittoriana e della letteratura inglese,è nato in
Inghilterra nel 1812. Egli ebbe una triste infanzia, ma ottenne il successo come giornalista, romanziere e
figura pubblica di spicco. Viaggiò molto in America, Svizzera, Francia e Italia e scrisse resoconti dei suoi
viaggi. Mantenne una voluminosa corrispondenza con ogni tipo di persone. Proprio da una lettera che
mandò il 12 marzo 1842 da Washington è tratto il brano in analisi.
Dickens racconta a Albany Fonblanque, la destinataria della lettera, la sua esperienza in America. Descrive
la casa bianca e il suo incontro con il Presidente John Tyler così come le abitudini del popolo americano con
una ricchezza straordinaria di dettagli e particolari. La narrazione è estremamente realistica e l’accumulo
dei dettagli fotografa ogni aspetto del viaggio di Dickens. Sin dalle prime righe è possibile notare come
riesca a descrivere la situazione che osserva puntando l’attenzione del lettore su una serie di dettagli
accumulativi che puntualizzano tanti singoli aspetti, creando la sensazione di essere di fronte ad
un’immagine particolarmente rappresentativa.
In questo ritratto, come in un fotografia, Roland Barthes avrebbe individuato senza dubbio un punctum.
Mentre lo studium ci avrebbe fatto apprezzare la ricca descrizione dell’America dal punto di vista di Dickens
il punctum attira la nostra attenzione monopolizzando la scena e portando in secondo piano il resto. C’è un
dettaglio, un particolare al quale molti non avrebbero dato peso e che invece lo scrittore nota e sente
preponderante su tutto il resto. Questo dettaglio sono le sputacchiere. A tale oggetto sono dedicate, in
modo quasi anomalo, parecchie righe e riflessioni. Il cuore della lettera sembra essere la diffusione di
questi inusuali oggetti. La loro enorme diffusione colpisce Dickens a tal punto da dedicargli un’intera
invettiva. L’impressione che si ha dalla lettura di questa lettera è di un paese sommerso dalle sputacchiere.
È un dettaglio che diventa dominante, la sua presenza riempie la scena.
‘In five minutes’ time, the black in yellow slippers came back, and led us into an upper room – a kind of
office – where, by the side of a hot stove, though it was a very hot day, sat the President – all alone; and
close to him a great spit box, which is an indispensable article of furniture here. In the private room in which
I’m writing this there are two: one on each side of the fire place. They are made of brass, to match the
fender and fire irons; and are as bright as decanter stands.- But I am wandering from the President.’
Lines(46-54)
In questo passaggio sono nominate per la prima volta le sputacchiere. Già traspare l’attenzione di Dickens
per questo articolo di arredamento. E tale è la distrazione causata che l’autore riconosce di essere stato
distolto dal motivo per cui ha scritto la lettera. Ma questi oggetti hanno colpito a tal punto Dickens che
‘They are everywhere. In hospitals, prisons, wathchouses, and courts of law – on the bench, in the witness
box, and in the gallery; in the stage coach, the steam boat, the rail road car, the hotel, the hall of a private
gentleman, and the chamber of Congress, where every two men have one of these conveniences between
them – and very unnecessarily for the flood the carpet while they talk to you. Of all things in this country,
this practice is to me the most insufferable.’ Lines (75-83)
L’invettiva è sentita. In un climax descrittivo abbiamo la sensazione di essere sommersi dalle sputacchiere,
di essere circondati. Senza dubbio le sputacchiere sono il punctum che Charles Dickens ha colto
dell’America. Tuttavia non è in senso positivo che attirano la sua attenzione. Esplicitamente, ammette di
trovarla un’usanza verso la quale è totalmente insofferente. Sarà questo uno dei motivi per i quali, da vero
Englishman, sentirà la mancanza degli usi e costumi inglesi.
A: Albany Fonblanque
Era il direttore della rivista The Examiner
Ho tenuto le notizie più interessanti per te fino a che non sono arrivato qui, pensando che avresti
desiderato particolarmente sapere qualcosa sulle peculiarità politiche di questa terra. Sono sicuro che tu sia
venuta a conoscenza dei punti fondamentali della mia avventura – come quando abbiamo avuto una brutta
traversata, di 18 giorni – come sono stato invitato a pranzo, ed a ballare(c’erano 3000 persone nella sala da
ballo) e festeggiato in tutti i modi – e come non potessi muovermi appena senza essere seguito da una
grande folla al mio seguito – e di conseguenza non sono per nulla nel mio ambiente. Perciò non dovrei
parlarti di queste esperienze e portarti direttamente alla Casa del Presidente (la Casa Bianca).
È una casa piacevole da guardare, ma – per seguire le opinioni comuni – decisamente spiacevole e scomoda
per uno che ci debba andare; perlomeno dovrei pensare così. Sono arrivato qui Mercoledì notte; e Giovedì
mattina sono stato accompagnato là dal Segretario del Senato: un mio omonimo, che John Tyler ha spedito
per portarmi da lui per una intervista privata, che è considerata un complimento più sincero di quello dei
pubblici spettatori. Siamo entrati in una grande sala e abbiamo suonato un notevole campanello – se posso
giudicare dalle dimensioni della maniglia. Dal momento che nessuno rispondeva al suono, abbiamo
camminato sul nostro percorso come svariati altri gentiluomini (la maggior parte dei quali con il cappello in
Edgar-Hilaire-Germaine de Gas (detto Degas) nasce il 19 luglio 1834 da una ricca e nobile famiglia a Parigi. Il
padre, conoscitore e amante di musica e arte, sensibilizza il figlio e non ostacola la decisione di
intraprendere gli studi pittorici. Incidono sulla sua formazione gli artisti del Rinascimento, dei quali poteva
ammirare le opere al Louvre. Frequenta per un breve periodo la scuola di Belle Arti e successivamente
intraprende lunghi e regolari soggiorni in Italia dove frequenta musei riempie di schizzi e notazioni i suoi
taccuini. Nel 1861 l’artista conosce Manet, il quale lo introdurrà all’ambiente impressionista del Cafè de
Guerbois. Tuttavia Degas si allontana per alcuni aspetti da questo nuovo gruppo pittorico. Non ama
dipingere paesaggi e soprattutto non ama il tipo di pittura en plein air, utilizzato dalla maggior parte degli
impressionisti. Preferisce le ambientazioni interne ed i ritratti. Inoltra, caratteristica che lo allontana
particolarmente dal movimento impressionista, è la predilezione per il lavoro in studio. Non ha la stessa
immediatezza che connota i pittori del Cafè De Guerbois. Secondo l’artista anche l’impressione di un istante
è così complessa e ricca di significati che l’immediatezza della pittura en plein air non può coglierla in modo
riduttivo e superficiale: “Va molto bene copiare quel che si vede, ma è assai preferibile disegnare quello che
non si vede più, se non nella memoria; è una trasformazione in cui l’immaginazione collabora con la
memoria, e così non si riproduce se non quello che vi ha colpiti, cioè l’essenziale.” Attraverso la memoria
sintetizza le immagini. A causa di questa caratteristica le sue opere sono realizzate in tempi molto lunghi, di
alcuni anni. Tutte le opere sono frutto di meditazione e studi preparatori; pertanto la natura di Degas non è
mai quella immediatamente derivante dalla sensazione visiva, come in Monet, ma il frutto complesso di
studi, riflessioni e accomodamenti successivi. Altra peculiarità delle opere di Degas è il disegno, rifiutato
totalmente dagli impressionisti. Fra i suoi soggetti preferiti sono di particolare rilievo le ballerine, che
stimolano l’attenzione del pittore per le difficili posizioni in cui devono rimanere senza mostrare lo sforzo
che ne rende possibile l’esecuzione. La maggior parte delle sue opere presenta un taglio fotografico.
Degas, oltre a servirsi di schizzi preparatori e appunti sulle condizioni luminose, era solito ricorrere anche
ad un ampio repertorio di fotografie che gli permettevano di rievocare nella memoria quello che veramente
aveva attirato la sua attenzione, l’essenzialità dell’immagine.
Si è soliti parlare di Degas come il pittore il cui rapporto con la fotografia, nel periodo impressionista, sia
stato più intenso e fecondo.
L’immagine fotografica e le ‘verità’ che essa registrava hanno formato le idee di Degas sui problemi della
natura e dell’arte. Non si abbandonava a un’imitazione superficiale delle forme poco chiare proposte
inizialmente dalla fotografia : si sforzava di trarre lezione dal tentativo di aderenza alla realtà dell’immagine
fotografica.
Sappiamo che per dipingere animali in movimento si è ispirato alle fotografie di Muybridge e da tempo si è
convinti che, a partire da un certo momento, l’elaborazione delle sue opere ha approfittato di abili
incursioni nella vasta riserva di fotografie di cui disponeva. Bisogna tuttavia considerare che questo
rapporto, va stabilito a livello strutturale, e non a quello dei dettagli, per quanto sorprendenti siano. A
questo proposito è interessante riflettere sul rapporto che Degas ha intrattenuto con il monotipo.
Il monotipo è un procedimento che, contrariamente a tutti gli altri metodi di riproduzione, non permette di
effettuare più stampe della stessa immagine. Le stampe da monotipo sono ottenute a partire da disegni
fatti a inchiostro di stampa su lastre di vetro o di metallo; il tratto non è inciso sulla lastra e pertanto è
impossibile ricostruire il disegno una volta che la carta della stampa ha assorbito tutto l’inchiostro.
Degas ha cominciato nel 1874 a realizzare monotipi. Tale procedimento è di importanza strategica per la
sua produzione: disegnatore istintivo, che moltiplicava ostinatamente i disegni a fini preparatori delle tele,
Degas poteva usare questa tecnica per imporsi un contatto preliminare con una superficie coperta di masse
brute e poco precise. Gli occorreva disegnare su una superficie già investita dall’opposizione bianco/nero,
ancor prima di aver avvicinato la matita al foglio.
Finché il monotipo gli offrì un modo di integrare veramente il messaggio della fotografia, Degas non fu
impressionista. Prima della metà degli anni ’70 dell’Ottocento era un talentuoso naturalista.
Ciò che la fotografia aveva rivelato a Degas è la distanza che esiste tra la percezione e la realtà.
La lezione di ballo è un dipinto che ben coniuga alcune delle peculiarità dello stile pittorico di Degas.
Realizzato tra il 1873 ed il 1875, dunque a cavallo della prima esposizione impressionista nello studio di
Nadar (1874), è un olio su tela di 85x75cm conservato a Parigi al Musée d’Orsay.
In quest’opera, come suo solito, Degas adotta un taglio fotografico e come in un’istantanea alcune figure
risultano fuoriuscire dall’inquadratura. Ciò è visibile anche nella prospettiva obliqua adottata, accentuata
nettamente dalle linee oblique della pavimentazione. La spazialità è aumentata significativamente dagli
specchi e dalle finestre; sullo specchio è possibile notare la luce riflessa della finestra.
È interessante notare che la realizzazione di questo dipinto, che copre una durata di circa due anni, è
contemporanea alla realizzazione del primo monotipo (1874) a opera di Degas. Non ancora pienamente
influenzato dal nuovo medium di rappresentazione è però presente una tendenza al realismo (solo più tardi
si avvicinerà alla pittura impressionista) e all’impostazione fotografica nel taglio che è solito dare alle sue
opere.
Il taglio fotografico suggerisce una velata spontaneità nella raffigurazione della scuola di ballo. Tuttavia
questa impressione è fortemente fuorviante circa il metodo di pittura di Degas. Quest’opera ha richiesto
una notevole mole di bozzetti preparatori e schizzi delle più svariate posture delle ballerine. L’immagine
finale è il frutto di una fittizia rielaborazione di anni di studi all’interno del proprio atelier. “Nessun’arte è
tanto poco spontanea quanto la mia e quando io faccio è il risultato della riflessione e dello studio dei
grandi maestri. Dell’ispirazione, della spontaneità, e del temperamento non so assolutamente nulla.” Così
commenta la propria attività di artista lo stesso Degas. Della meticolosità con cui ha raccolto schizzi
preparatori sono segni evidenti le posizioni della ballerine raffigurate in uno momento tipico di una lezione
di ballo. La tela introduce per la prima volta il tema, carissimo all’autore, delle ballerine. Su questo topos
produrrà intere serie di dipinti, mosso dall’ammirazione per le difficili posizioni in cui devono cimentarsi le
ballerine che realizzano senza tradire il minimo sforzo.
L’occhio vigile dell’anziano maestro osserva meticolosamente una ragazza che prova dei passi di danza,
mentre le altre ballerine, disposte a semicerchio, guardano la loro compagna aspettando a loro volta il
proprio turno di prova. Nella rappresentazione delle ragazze in attesa è apprezzabile l’estrema naturalezza
dei gesti: distrattamente si sventolano, si grattano la schiena, si accomodano gli orecchini, si sistemano
“Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera
d’arte.”
W. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, arte e società di massa”, p.22
Nell’analisi del rapporto fra la fotografia e la sua influenza sul modo di pensare, di agire, di produrre arte è
interessante soffermarsi sul pensiero di Walter Benjamin (1892-1940), filosofo tedesco attivo
intellettualmente nel periodo tra le due guerre mondiali. Tra i suoi numerosi scritti, uno dei più importanti
è quello che porta il titolo: “L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, arte e società di
massa”, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1936 (la prima edizione italiana è del 1966). In questo
saggio Benjamin sostiene che l’introduzione, all’inizio del XX secolo, di nuove tecniche per riprodurre a
livello di massa opere d’arte, ha radicalmente cambiato lo statuto stesso dell’arte. Tra queste tecniche, una
delle più importanti è proprio la fotografia. Il concetto di "riproducibilità" tecnica, ha, infatti, nella
fotografia un caso esemplare. Nel suo saggio, Benjamin entra nel merito della relazione che intercorre tra i
rivolgimenti introdotti dalla diffusione del mezzo fotografico, i cambiamenti nell’ambito della produzione
artistica e le conseguenti modalità in cui sono state influenzate le percezioni sensoriali delle masse.
La fotografia è un medium riproducibile tecnicamente: da questo suo statuto, che la distingue dalle altre
forme di rappresentazione e documentazione, prende avvio l’analisi di Benjamin. Il saggio di Benjamin
(“L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, arte e società di massa”, Einaudi, Torino 1966)
rappresenta un punto di riferimento fondamentale per l'indagine ontologica sulle immagini fotografiche.
In linea di principio l’opera d’arte è sempre stata riproducibile: ciò che è stato prodotto dalla mano umana
è stato anche riproducibile dalla mano umana. La riproducibilità tecnica è invece qualcosa di nuovo che si
afferma nella storia a ondate, in corrispondenza di altrettante invenzioni. È il caso della stampa come della
silografia e in particolar modo della fotografia. Con la fotografia “la mano si vide per la prima volta scaricata
delle più importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettanza dell’occhio che
guardava dentro l’obiettivo. Poiché l’occhio è più rapido ad afferrare che non la mano a disegnare, il
processo della riproduzione figurativa venne accelerato al punto da essere in grado di star dietro
all’eloquio.” (ivi, p.21). La fotografia è notevolmente più immediata di quanto lo può essere mai stato ogni
altro mezzo di rappresentazione e riproduzione. L’arte, ed in particolar modo la fotografia, nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica ha influenzato profondamente la società di massa.
Per fare luce su questi meccanismi di influenza della fotografia sull’arte e sulla società di massa, è
innanzitutto necessario comprendere il sottile e raffinato concetto di aura che Benjamin nel suo scritto
descrive. L’aura secondo Benjamin è una sorta di carattere mistico, religioso, sacrale in senso lato, presente
nell’originale di un’opera d’arte; carattere che è in relazione con la stessa unicità dell’opera d’arte.
In ogni riproduzione viene a mancare l’hic et nunc dell’opera d’arte, “la sua esistenza unica è irripetibile nel
luogo in cui si trova” (ivi. P.22). Proprio l’hic et nunc costituisce il concetto dell’autenticità del’opera. Nel
caso della riproduzione tecnica tuttavia subentra una differenza: se l‘autentico mantiene la sua piena
Appare chiara, senza considerare alcune attenuanti come le circostanze nelle quali il prodotto della
riproduzione tecnica viene a trovarsi, la svalutazione dell’hic et nunc. Questo tipo di processo interessa il
nucleo stesso dell’opera d’arte: la sua autenticità. Essa è tutto ciò che può essere tramandato di una cosa,
includendo la sua durata materiale e la sua virtù di testimonianza storica. Quest’ultima è fondata sulla
prima, ma la prima, nella riproduzione, è sottratta all’uomo. Ne consegue che anche la seconda sia instabile
e insicura. In tal modo ciò che vacilla è l’autorità della cosa.
Quello che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’”aura” dell’opera d’arte.
Attraverso la tecnica della riproducibilità si assiste ad una moltiplicazione delle riproduzioni e ad un evento
unico si sostituiscono una serie quantitativa di eventi che permettono alla riproduzione di incontrare il
fruitore e quindi di attualizzare il prodotto. Tale duplice processo porta ad un forte rivolgimento della
tradizione.
Secondo Benjamin, nell’arco di lunghi periodi di tempo i modi di esistenza della collettività umana si
modificano parallelamente ai modi e generi della percezione sensoriale. Queste modalità di
riorganizzazione della percezione sono infatti influenzate sia dal senso naturale sia da quello storico (si
parla di medium in cui esse hanno luogo). Non è mai stato tentato di collegare i mutamenti della
percezione ai rivolgimenti sociali, ma nella contemporaneità se ne possono indicare i presupposti sociali.
Ciò è effettuabile poiché le modificazioni del medium della percezione possono essere intese come una
decadenza dell’ “aura”. Tale decadenza si fonda su due circostanze strettamente collegate alla crescente
importanza delle masse nella vita attuale: “rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine è per le
masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato
mediante la ricezione della sua riproduzione” (ivi. P. 25). Per Benjamin, infatti, nell’epoca di affermazione
delle masse si fa valere in modo sempre forte l’esigenza ad impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più
possibile ravvicinata nell’immagine e nella riproduzione. Questo naturalmente comporta un inevitabile
decadimento dell’aura. Ed inoltre per l’autore la distruzione dell’aura è anche il segno di una percezione
che attinge l’uguaglianza di genere in ciò che è unico. Da queste riflessione consegue che l’adeguamento
della realtà alle masse e delle masse alla realtà sia un processo di portata illimitata, sia per il pensiero sia
per l’intuizione.
Nel suo saggio Benjamin sviluppa e articola il suo discorso sull’arte e sull’aura distinguendo due tipi di
valore dell'opera d'arte: quello cultuale e quello espositivo. Il primo - anche cronologicamente - è il valore
dell'opera d'arte in quanto questa è al servizio del culto e deriva dal fatto che l'opera d'arte non è
accessibile a tutti in ogni momento e in ogni luogo: "la riproduzione artistica comincia con figurazioni che
sono al servizio del culto. Di queste figurazioni si può ammettere che il fatto che esistano è più importante
del fatto che vengano viste. *…+. Il valore cultuale come tale induce a mantenere l'opera d'arte nascosta:
certe statue degli dei sono accessibili soltanto al sacerdote nella sua cella. Certe immagini della Madonna
rimangono invisibili tutto l'anno" (ivi, p.27). In Benjamin il valore cultuale coincide, perciò, con il carattere
L’invenzione della fotografia e la sua peculiarità di riproducibilità tecnica ha introdotto notevoli rivolgimenti
di pensiero, costituendo un punto cardine nella costruzione del rapporto che intercorre tra le masse e la
fruizione dell’arte.
Appare chiaro il rapporto fra scienza e fotografia, la quale è un prodotto dell’innovazione tecnologica
permessa dall’epoca illuministica.
“La luce è infatti il mezzo con cui si realizzava il transfert apparentemente magico operato dalla fotografia,
il mezzo, per usare la terminologia di Nadar, per ‘fare una cosa dal niente’ “
R. Krauss, “Teoria e storia della fotografia”, p.15
Premessa
La scienza ha fornito le basi tecniche e metodologiche per poter fare della fotografia una delle innumerevoli
espressioni dell’arte e il primo metodo di rappresentazione che fornisse una prova certa e oggettiva di ciò
che è stato. Tuttavia l’intersezione e lo sviluppo correlato di tecniche fotografiche e scienza ha consentito a
quest’ultima un ritorno di interessi, in particolar modo nel campo della ricerca e dell’innovazione. Il corso
seguito dall’evoluzione della tecnologia ha permesso di sviluppare una fotografia di indagine scientifica che
in tempi recenti ha, per esempio, dimostrato il suo valore nella documentazione visiva della superficie del
pianeta Marte. La fotografia consta di una dualismo esistenziale che la rende oggetto di numerose dispute
di ordine filosofico: la duplice natura di metodo di rappresentazione che può essere semplicemente ma non
banalmente arte oppure medium di documentazione, anche se con diversi gradi di oggettività, del reale.
Nell’epoca della riproducibilità tecnica (W.Benjamin) la fotografia estende la percezione sensoriale
dell’uomo, oltrepassando i limiti visivi e di irripetibilità temporale che contraddistinguono le capacità
umane.
Per comprendere l’andamento e la propagazione delle onde elettromagnetiche nel vuoto è necessario
richiamare le equazioni fondamentali che descrivono il comportamento dei campi elettrici e magnetici.
James Clerk Maxwell (1831-1879), fisico scozzese, sintetizzò nelle quattro seguenti equazioni i campi
elettrici e magnetici: le leggi di Gauss per il campo elettrico e magnetico, la legge di Faraday-Neumann e la
legge di Ampère.
Secondo la legge di Gauss il flusso del campo elettrico attraverso una superficie 𝑆 chiusa è proporzionale
alla carica netta in essa racchiusa:
𝑞
ΦS (E) =
𝜀0
In forma integrale:
𝑞
𝐸 ∙ 𝑑𝑠 =
𝜀0
𝑠
Secondo la legge di Gauss il flusso del campo magnetico attraverso una superficie 𝑆 chiusa è proporzionale
alla carica netta in essa racchiusa; non esistendo monopoli magnetici, la somma delle cariche è nulla:
𝑞
Φ(B) = =0
𝜇0
In forma integrale:
𝐵 ∙ 𝑑𝑠 = 0
𝑠
La legge di Faraday afferma che la circuitazione del campo elettrico lungo la curva 𝛾, che fisicamente
rappresenta il lavoro fatto dal campo elettrico per spostare una carica lungo l’intera curva 𝛾 (ossia la f.e.m,
𝜀), è uguale all’opposto della derivata del flusso magnetico rispetto al tempo:
𝑑𝜙(𝐵)
𝜀=−
𝑑𝑡
𝑑𝜙(𝐵)
𝐸 ∙ 𝑑𝑙 = −
𝑑𝑡
𝛾
La legge di Ampère afferma, in modo analogo, che la circuitazione lungo 𝛾 del campo magnetico è uguale
alla somma del prodotto fra la corrente concatenata e la costante di permeabilità magnetica del vuoto e la
corrente di spostamento:
Se consideriamo uno spazio vuoto (in assenza di cariche statiche o in movimento) le quattro leggi
assumono il seguente comportamento:
𝐸 ∙ 𝑑𝑠 = 0
𝑠
𝐵 ∙ 𝑑𝑠 = 0
𝑠
𝑑𝜙(𝐵)
𝐸 ∙ 𝑑𝑙 = −
𝑑𝑡
𝛾
𝑑𝜙(𝐸)
𝐵 ∙ 𝑑𝑙 = 𝜇0 𝜀0
𝑑𝑡
𝛾
𝑑𝜙 (𝐸)
Dall’esistenza della corrente di spostamento (𝐼𝑠 = 𝜇0 𝜀0 ) è stata provata l’esistenza delle onde
𝑑𝑡
elettromagnetiche. Se consideriamo una situazione sperimentale in cui supponiamo di essere nel vuoto,
non ci dovrebbero essere né cariche né correnti. Solamente in forza della corrente di spostamento, che
esprime il comportamento del campo magnetico in presenza di una variazione nel tempo del campo
elettrico, è stato possibile supporre l’esistenza di onde che si propagassero anche nel vuoto. Infatti, in forza
della IV legge di Maxwell, ad una variazione del campo elettrico (nel vuoto) corrisponde una variazione del
campo magnetico, al quale, per la III equazione sussegue una variazione del campo elettrico. L’interazione
reciproca tra campo elettrico e campo magnetico è il principio di genesi e trasmissione delle onde
elettromagnetiche.
Consideriamo ora un generatore che produce un campo elettrico con andamento ondulatorio in direzione
di 𝑦 positiva. Secondo quanto afferma la legge di Ampère, ad una variazione temporale del flusso del
campo elettrico corrisponde una circuitazione del campo magnetico non nulla. La variazione nel tempo del
flusso di quest’ultimo, in forza della legge di Faraday-Neumann, provoca un’alterazione del campo
elettrico. 𝐸 𝑒 𝐵 sono perpendicolari tra loro e con la direzione di propagazione (le onde elettromagnetiche
sono onde trasversali in cui l’oscillazione delle particelle avviene perpendicolarmente alla direzione di
propagazione) in ogni istante. Inoltre sono in fase: quando il valore di 𝐸 è massimo, lo è anche quello di 𝐵.
Analizziamo più approfonditamente la relazione che intercorre fra il campo elettrico ed il campo magnetico
nella propagazione di un’onda elettromagnetica.
e si supponga che 𝐸 𝑒 𝐵 siano dipendenti soltanto dalla loro distanza dal piano 𝑦𝑧, quindi dalla componente
𝑥.
𝑞 𝑞
Φ(B) = =0 1. Φ(E) = =0 2.
𝜇0 𝜀0
Prendiamo in considerazione le facce del cubo a due a due e calcoliamo il contributo del flusso del campo
magnetico attraverso di esse.
Ogni punto della faccia 𝐵𝐵′𝐶′𝐶 ha un punto corrispondente sulla faccia 𝐴𝐴′ 𝐷′𝐷 avente la medesima
distanza 𝑥 dal piano 𝑦𝑧. Pertanto, per ogni punto con un certo valore di flusso entrante, ne esiste uno
avente lo stesso valore di flusso uscente: la somma dei flussi attraversanti le due facce è globalmente nulla.
Ragionamento analogo può essere svolto per le facce 𝐷𝐶𝐶 ′ 𝐷′ e 𝐴𝐵𝐵′𝐴′: essendo il valore del flusso
dipendente soltanto dalla distanza 𝑥 dal piano 𝑦𝑧, il flusso di una faccia annulla quello dell’altra (il numero
di linee per unità di superficie entrante in una faccia è uguale a quello uscente dall’altra secondo il modello
di Faraday), non contribuendo al flusso totale.
Essendo valida la relazione 1. , il numero di linee di campo per unità di superficie sulla faccia 𝐴𝐵𝐶𝐷 deve
essere uguale a quello della faccia 𝐴′𝐵′𝐶′𝐷′. Il flusso totale risulta essere:
I dettagli sono riportati in Appendice. Raccogliendo il termine 𝑑𝑦𝑑𝑧 e poi moltiplicando e dividendo per il
termine 𝑑𝑥 si può riscrivere l’equazione 3. in questo modo:
𝐵𝑥 𝑥 + 𝑑𝑥 − 𝐵𝑥 𝑥
Φ(B) = 𝑑𝑥𝑑𝑦𝑑𝑧 =0
𝑑𝑥
Si noti che 𝑑𝑥𝑑𝑦𝑑𝑧 rappresenta il volume del cubo (non potrà mai essere nullo) mentre il rapporto è la
derivata del campo magnetico rispetto ad 𝑥. L’unica possibilità che il risultato sia nullo si ha quando la
derivata vale 0. Considerando che il valore di 𝐵 è in funzione di 𝑥, si deduce che il campo magnetico è
costante nella sua componente 𝑥, può variare solo nelle direzioni 𝑦 e 𝑧.
Lo stesso ragionamento può essere portato avanti con il campo elettrico arrivando alla conclusione che
lungo 𝑥 il campo elettrico non varia.
Entriamo ora più approfonditamente nel merito delle relazioni che legano il campo elettrico con quello
magnetico.
Per fare ciò prendiamo in esame una piccola superficie rettangolare di dimensioni 𝑑𝑥𝑑𝑦, posta nelle stesse
condizioni sperimentali descritte per la dimostrazione soprastante, come è visibile in figura:
Essendo la componente lungo 𝑥 del campo elettrico costante, come sopra dimostrato, si possono elidere
dalla somma totale i contributi nulli dei lati BC e DA. La circuitazione risulta pertanto uguale a:
𝐸 ∙ 𝑑𝑙 = 𝐸𝑦 𝑥 + 𝑑𝑥 𝑑𝑦 − 𝐸𝑦 𝑥 𝑑𝑦 = 𝑑𝑦( 𝐸𝑦 𝑥 + 𝑑𝑥 − 𝐸𝑦 𝑥 )
𝐴𝐵𝐶𝐷
Dividendo e moltiplicando il membro a destra per il termine 𝑑𝑥 si ottiene:
(𝐸𝑦 𝑥 + 𝑑𝑥 − 𝐸𝑦 𝑥 )
𝐸 ∙ 𝑑𝑙 = 𝑑𝑦(𝐸𝑦 𝑥 + 𝑑𝑥 − 𝐸𝑦 𝑥 ) = 𝑑𝑥𝑑𝑦
𝑑𝑥
𝐴𝐵𝐶𝐷
e poiché stiamo trattando grandezze infinitesimali il rapporto è il rapporto incrementale, che può essere
riscritto come la derivata del campo elettrico lungo la direzione x:
𝑑𝐸𝑦
𝐸 ∙ 𝑑𝑙 = 𝑑𝑥𝑑𝑦
𝑑𝑥
𝐴𝐵𝐶𝐷
𝑑𝜙(𝐵) 𝑑𝐸𝑦 4.
− = 𝑑𝑥𝑑𝑦
𝑑𝑡 𝑑𝑥
Tuttavia il flusso del campo magnetico è il prodotto di area a cui è riferito e campo magnetico. Pertanto:
𝑑𝐸𝑦 𝑑𝐵𝑧
𝑑𝑥𝑑𝑦 = −𝑑𝑥𝑑𝑦
𝑑𝑥 𝑑𝑡
𝑑𝐸𝑦 𝑑𝐵𝑧 1.
=−
𝑑𝑥 𝑑𝑡
Calcoliamo ora la circuitazione del campo magnetico lungo il rettangolo 𝐴𝐵𝐶𝐷 in senso antiorario. Ogni
lato contribuisce alla circuitazione nella quantità riportata in tabella:
Come dimostrato, la componente del campo magnetico lungo l’asse 𝑥 è costante, quindi ai fini della
circuitazione i lati BC e DA non apportano nessun contributo:
(𝐵𝑧 𝑥 + 𝑑𝑥 − 𝐵𝑧 𝑥 )
𝐵 ∙ 𝑑𝑙 = 𝑑𝑧(𝐵𝑧 𝑥 −𝐵𝑧 𝑥 + 𝑑𝑥 ) = 𝑑𝑥𝑑𝑧
𝑑𝑥
𝐴𝐵𝐶𝐷
e poiché stiamo trattando grandezze infinitesimali il rapporto è il rapporto incrementale, che può essere
riscritto come la derivata del campo magnetico rispetto allo spazio
𝑑𝐵𝑧 5.
𝐵 ∙ 𝑑𝑙 = − 𝑑𝑥𝑑𝑧
𝑑𝑥
𝐴𝐵𝐶𝐷
𝑑𝜙(𝐸) 𝑑𝐵𝑧
𝜇0 𝜀0 = −𝑑𝑥𝑑𝑧
𝑑𝑡 𝑑𝑥
Il flusso del campo elettrico è il prodotto dell’area di interesse per il campo elettrico:
𝑑 𝐸𝑦 𝑑𝐵𝑧
𝜇0 𝜀0 𝑑𝑥𝑑𝑧 = −𝑑𝑥𝑑𝑧
𝑑𝑡 𝑑𝑥
Infine, semplificando per il fattore 𝑑𝑥𝑑𝑧, si ottiene l’equazione nella sua forma completa:
𝑑 𝐸𝑦 𝑑𝐵𝑧 2.
𝜇0 𝜀0 =−
𝑑𝑡 𝑑𝑥
Dalle equazioni 1. e 2. si può vedere come esistano due rapidità di cambiamento, una rispetto al tempo ed
una rispetto allo spazio. Per rapportare le rapidità di cambiamento allo stesso campo si fa ricorso alla
proprietà secondo la quale: se una funzione dipende da due variabili, non cambia il risultato
indipendentemente se la si deriva prima rispetto ad una e poi rispetto all’altra variabile o viceversa.
Applicando questa proprietà alle equazioni 1. e 2. e successivamente eguagliando i risultati si ricavano le
seguenti due equazioni:
𝜕 2 𝐵𝑧 𝜕 2 𝐵𝑧 3.
= 𝜇0 𝜀0
𝜕𝑥 2 𝜕𝑡 2
𝜕 2 𝐸𝑦 𝜕 2 𝐸𝑦 4.
= 𝜇0 𝜀0
𝜕𝑥 2 𝜕𝑡 2
Conclusioni
Da queste considerazioni si evince lo stretto legame che intercorre tra campo magnetico e campo elettrico.
Dall’equaz. 1 si ricava che la rapidità di variazione del campo elettrico nello spazio corrisponde all’opposto
della variazione del campo magnetico nel tempo. Dall’equaz. 2 invece si ottiene che la rapidità di variazione
del campo magnetico nello spazio è corrispondente all’opposto della variazione del campo elettrico nel
tempo, moltiplicato per il reciproco del quadrato della velocità della luce.
Dalle equazioni 3. e 4. si nota come l’accelerazione spaziale sia direttamente proporzionale
all’accelerazione temporale.
I campi elettrico e magnetico non possono dunque essere più considerati singolarmente, ma soltanto
insieme: da questo momento in poi, in fisica, si parla di campo elettromagnetico.
La propagazione delle onde elettromagnetiche avviene in forza di questa intima connessione fra campo
La luce è anche’essa un’onda elettromagnetica, come dimostrò Maxwell. Ovviamente non tutte le onde
elettromagnetiche sono uguali fra loro. Differiscono, in particolare, per lunghezza d’onda e frequenza
(𝑣 = 𝑓𝜆). L’insieme di tutte le onde elettromagnetiche costituisce lo spettro elettromagnetico. La luce
visibile occupa una piccolissima porzione di tale spettro, precisamente quella caratterizzata da una
lunghezza d’onda compresa fra i 400 ed i 700 nanometri circa.
Appendice
1. Il flusso del campo magnetico è dato da Φ(B) = BA cos α. Considerando un sistema di assi
cartesiani a tre dimensioni e una superficie rettangolare sul piano descritto da due assi, il flusso del
campo magnetico è il prodotto dell’area per la componente del campo sull’asse che non identifica il
piano su cui giace la superficie. Se consideriamo la situazione rappresentata in figura, si può notare
che moltiplicando l’intensità di 𝐵 per il coseno dell’angolo che essa forma con la normale alla
superficie si ottiene la componente lungo la normale del campo stesso. Pertanto:
Φ(B) = BA cos α = 𝐵𝑑𝑥𝑑𝑦 cos α = Bz dxdy
Ragionamento analogo è valido per il campo elettrico
Φ(E) = EA cos α = 𝐸𝑑𝑥𝑑𝑦 cos α = Ez dxdy
Questo accorgimento è stato utilizzato nelle dimostrazioni effettuate.
𝐶2
2. 𝜀0 è la costante dielettrica del vuoto. Vale circa 8,85 ∙ 10−12 𝑁∙𝑚 2
𝑁
3. 𝜇0 è la costante di permeabilità magnetica del vuoto. Vale circa 4𝜋 ∙ 10−7 𝐴2
4. Trattandosi di equazioni differenziali a più incognite la dicitura corretta prevede l’utilizzo della
lettera greca 𝜕 in sostituzione della 𝑑 per indicare le derivate.
“It’s part of the photographer’s job to see more intensely than most people do. He must have and keep in
him something of the receptiveness of the child who looks at the world for the first time or of the traveler
who enters a strange country” Bill Brandt (1904-1983)
(“è parte del lavoro del fotografo vedere più intensamente di quanto la maggior parte usi fare. Deve
mantenere in sé la traccia della recettività del bambino che guarda per la prima volta il mondo o del
viaggiatore che si avventura in una terra straniera”)
“Non penso che la fotografia possa cambiare il mondo, ma può aiutare le persone a comprendersi l’un
l’altra. Attraverso la mia fotografia cerco di esprimere il mio interesse per il mondo. Spero in continuazione
di imparare qualcosa di nuovo da chiunque incontri” Simone Donati
Fonti
ROLAND BARTHES, “ La camera chiara”, Einaudi