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ARTE: Il Caravaggio e Saulo che diventa Paolo

di Maria Paola Forlani

La Conversione di Saulo di Caravaggio, della Collezione Odescalchi (unico esempio su


tavola del grande maestro) è esposta a Milano fino al 14 dicembre nella sala Alessi di Palazzo Marino. La
mostra è curata da Valeria Merlini e Daniela Storti, le restauratrici dell’opera (catalogo Skira). All’ingresso
38 minuti di video con un viaggio “dentro l’opera” interpretato da Neri Marcorè.

Tra i quadri più misteriosi e difficili della storia della pittura italiana, la “Conversione di Saulo” è
prevalentemente riconosciuta come una prima versione di una delle due tele di Caravaggio per la cappella
Cerasi in Santa Maria del Popolo, come ricordano attendibili fonti biografiche come Mancini e il Baglione. Il
dipinto è ricordato già nel 1701 nel testamento di Francesco Maria Baldi, a Genova, e più tardi è citato in
numerose guide della stessa città. Soltanto agli inizi del Novecento ritorna a Roma, nell’attuale collezione.

La sua fortuna critica inizia abbastanza tardi. Fu Giulio Carlo Argan a pubblicarlo nel 1943, con una proposta
di datazione molto avanzata 1606. Curiosamente in quel tempo lo studioso più solerte di Caravaggio,
Roberto Longhi, su fotografia, giudicava il quadro “cosa fiamminga del 1620”. Più tardi, nel 1947, come il
Morassi, lo riconosce autografo dopo averlo visto in originale nella mostra “Pittura del Seicento in Liguria”.
La lenta ma definitiva acquisizione tra le opere autografe non scioglie alcune clamorose contraddizioni,
come quella sulla cronologia del dipinto. Se da un lato, infatti, l’esecuzione di molti particolari corrisponde
perfettamente al Caravaggio della prima maturità, verso il 1600 – 01, la composizione sembra appartenere
a un modello formale più antico, ancora manieristico.

Talchè lo stesso Argan, in un secondo momento, propose una datazione molto precoce, al 1588 circa. Per
Longhi, più logicamente, potrebbe cadere verso il 1590 – 92, e lo conferma la riflessione sui rapporti con la
pittura lombarda del Cinquecento: un dipinto “molto giovanile e strettamente legato alla crisi dei maestri
lombardi del Caravaggio… miscuglio di moderno e di archeologico (il santo corazzato è ancora sul piano di
un Antonio Campi o di un Camillo Procaccino)”. L’opera è esagerata nella composizione, tumultuosa, con
quello spazio compresso in cui si affollano le figure, intersecandosi e piegando l’una contro l’altra: il cavallo
imbizzarrito, il vecchio armigero che si difende rivolgendo la spada contro una minaccia per lui invisibile, e
quel Cristo che sbuca da uno squarcio di cielo striato da nubi violacee, irrompendo in modo così tangibile
da spezzare il ramo di un albero e atterrare Saulo che, abbacinato, si copre il volto con le mani.

”Nessun dubbio – afferma Vittorio Sgarbi - che l’opera parli, come nessuna di Caravaggio, il linguaggio del
Manierismo, nella nuovissima “maniera” del Merisi che “fotografa” la realtà ed estremizza i contrasti di
luce e ombra. Caravaggio sigilla definitivamente la dialettica di natura e maniera, ne esalta la
contraddizione con un teorema estremo e irrisolto, un’opera aperta. Chiude un epoca e ne apre una nuova,
di cui i caratteri profondamente diversi saranno dichiarati platealmente, come in un manifesto, nella
versione su tela per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo”. Quando Tiberio Cerasi, Tesoriere
Generale della Camera apostolica, nel settembre del 1600 commissiona a Caravaggio due dipinti per la sua
cappella in Santa Maria del Popolo, rivolge il suo sguardo all’artista che incarna al tempo l’innovazione, ma
lo vincola nell’esecuzione a scelte tradizionali dal punto di vista tecnico. Nel suo dettagliato contratto Cerasi
indica infatti che le opere devono essere eseguite su legno di cipresso composte in sette assi secondo
dimensioni precise e per le quali si riservava di valutare disegni e bozzetti.

La “Conversione di Saulo” della collezione Odescalchi, oltre ad essere la sola delle due prime versioni di
Santa Maria del Popolo ad essere sopravvissuta alla storia è anche l’unico dipinto di dimensioni rilevanti
(237 x 189 cm.) che Caravaggio esegue su tavola, avendo come la quasi totalità degli artisti del suo tempo,
trovato nell’uso della tela una serie di grandi vantaggi sia dal punto di vista pratico, sia da quello tecnico-
luministico. Nella pulitura le due restauratrici hanno recuperato la sensibilità alle tonalità delle terre e dei
bruni, ritrovando un grande impiego da parte del Merisi di una notevole gamma di verdi, indotto anche
dalla presenza del raro scorcio paesaggistico incorniciato da piante di diversa natura. Dalla terra vede, alla
malachite, al resinato di rame il pittore si concede anche un’insolita nota di frivolezza, applicando una
doppia lamina in oro ed argento sul bordo e sulla mezzaluna dello scudo del soldato ai piedi di Saulo, così
come aveva fatto per la Medusa.

L’opera, insomma, svela, in ogni suo dettaglio, dopo questo analitico restauro, gli elementi strutturali, le
aggiunte settecentesche ormai smascherate, ai consolidamenti eseguiti nel’ 67 sul retro delle tavole in
legno. Ma soprattutto, sono messi a nudo i segreti della pittura di Caravaggio inaspettatamente luminoso,
che qui stupisce per la dovizia di particolari godibili come l’elmo rivestito di cuoio, la schiuma sul morso del
cavallo e il braccio del Cristo, teso, in cui risalta l’effetto cangiante che conferisce alla manica dell’abito in
una suggestiva trasparenza i cui toni azzurrini vengono esaltate da evidenti pennellate di cinabro e
lumeggiature di lacca rossa.

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