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Charis e economia del dono in terra greca.
In ambito greco classico, bisogna anche prendere in considerazione, il peso che la Peitho (persuasione, non solo logica ma anche
seduttiva) e la Charis (grazia, una delle tre grazie, ma anche benevolenza, amore, gratitudine) hanno nell’organizzazione del
sociale (dello scambio). La Charis designa in origine il dono che la donna fa di sé [1]all’uomo, la sua acquiescenza ai suoi
desideri[2], il dono di sé; e, per estensione, «designa la potenza divina che si manifesta in tutte le forme del dono e dello
scambio (nel circuito delle liberalità generose, dei doni gratuiti, che tesse, tra gruppi umani, tra uomini e dei, tra gli uomini e la
natura, nonostante tutte le barriere, una rete di obbligazioni reciproche).[3]» «La charis è una cosa complessa e varia: lo
splendore degli occhi, la bellezza luminosa di un corpo, il fascino dell’essere desiderabile, così come il dono della donna che cede
al desiderio dell’uomo nel matrimonio. Nei rapporti amorosi, però, questo dono dell’essere nella sua apparenza desiderabile non è
mai del tutto puro di ogni traccia di peitho [persuasione]»[4]. Unacharis, quindi una grazia, una dote estetica che, anche tramite
artifizi, diventa fascino: non una dote statica ma un impulso al moto. Un desiderio che mobilita l’altro. Che mobilita verso di sé.
Innamoramento che sarebbe fatto di una materia diversa dalla logica del sano e del saggio, ma una materia non disprezzabile
perché essa proviene dagli dei.
«Non è vero, dice Socrate, che si deve preferire (kharìzesthai ) chi non ama a chi ama, perché il primo sa controllare se stesso
(sophronei), mentre il secondo è pazzo (mainetai). Questo sarebbe ben detto, se fosse ovvio che la mania (follia) è un male; ma i
beni più grandi vengono a noi attraverso la follia, quando è data per un dono (dosis) divino.»[5]
Come ben notava Paolo Mulè la parola “preferire” traduce il verbo kharìzesthai che è connesso al concetto di
dono: kharìsma significa dono come grazia (permane nella parola eucarestia[6]) e non dôron che sta per regalo. Con
un’attenzione che poi Platone alla riga successiva per “dono divino” non usa come ci si aspetterebbe kharìsma, ma dosis: il dono
dose, il dono porzione (pozione). Qualcosa di dovuto: il dono divino elargisce con grazia e quindi a fin di bene dosi di sapienza
anche la dove esse sono ammantate di follia, una follia sapiente che è indispensabile accettare: un dono dovuto «alla cui
ricezione non ci si potrebbe sottrarre neppure volendolo (dòsis, infatti, è anche la dote testamentaria).»[7]«La prima edizione del
lessico dell’Accademia della Crusca (1612) spiega come il verbo ‘donare’ servisse per tradurre dal greco tanto il verbo ‘doreosthai’
(donare, regalare, far presente) quanto ‘kharìzesthai’ (gratificare, offrire graziosamente, ossia per grazia, gratis; ma pure
ingraziarsi)»[8] La connessione tra dono e grazia se da una parte passa per il concetto di carità, dall’altra instaura il concetto di
un’aurea che corrisponde all’atto della donazione, che viene acquisita da colui che dona. Colui che dona entra così nelle grazie
non solo del ricevente ma più in generale nelle grazie di tutti. Certamente la considerazione che gli altri hanno di te è un
plusvalore di codice che se non modifica il socius certo lo movimenta. «Sempre stando alla prima edizione del lessico della
Crusca, ‘dono’ è sinonimo tanto del termine ‘muno’ (derivante dal latino ‘munis’, indicante ‘scopo’, ‘prestazione’, ed innestato in
parole quali ‘comune’, ‘immune’, ‘comunicazione’, ‘municipio’, ‘remunerazione’), quanto del termine ‘dato’: senza mezzi termini,
l’Accademia indica per la traduzione del latino ‘donum’ la possibilità di utilizzare invariabilmente le parole ‘dato’, ‘dono’ e
‘muno’.»[9]
La charis (graziagratitudine) che, in quanto gratitudine si riferisce ad uno scambio, ad un ricevuto, e che la Grazia (questa grazia)
abbia una sua funzione nell’organizzazioni degli scambi e delle relazioni è anche testimoniato da Aristotele: «Gli uomini, infatti,
cercano di rendere o male per male (se no, pensano che la loro sia schiavitù), o bene perbene (se no, non c’è scambio, e, invece,
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è per lo scambio che stanno insieme). Ed è per questo che costruiscono un tempio alle Grazie in luogo dove sia sempre sotto gli
occhi, per stimolare alla restituzione, giacché questo è proprio della gratitudine: si deve rendere il contraccambio a chi è stato
gentile con noi, cioè prendere noi stessi l’iniziativa di essere a nostra volta gentili.[10]» Una charis garante il buon esito di uno
scambio costruito sul sistema del dono. Dove lo scambio stesso è la ragione della comunanza. Per capire il vasto campo
semantico coperto dalla Charis è anche utile un passo di Plutarco[11] nel quale l'amore per i ragazzi è
comunque akhàristos (senza khàris; senza grazia). requisito possibile invece con la donna che si concede di buon grado a un
rapporto di sesso ma anche d'affetto. Con la donna il piacere fisico si iscrive così nell'amicizia (dolcezza del consenso) e diviene
presupposto dell'affetto indispensabile per animare il legame coniugale. L'intesa sessuale diviene nel matrimonio rafforzamento del
legame. L'amore diviene reciproco e simmetrico. La corrispondenza affettiva, il di lei donarsi, è di nuovo una non_merce che
mobilita uno scambio sociale non commensurabile individualmente. Perdono (nell’accezione più strettamente etimologica che fa
del perdono un superlativo del dono) e gratitudine, con i loro sinonimi e derivati (senso di colpa e pena), fondano un sistema
della supplementarità dei termini diverso dal sistema polare dell’occidente moderno. Soltanto il perdono e la gratitudine (perdono
e charis) concedono di riflesso lo statuto esistenziale al concetto di dono che altrimenti, appena effettuato, nella sua essenza si
negherebbe. Il superlativo del dono, quando è donar_si, diviene effettuale, scivola di lato dalla sequenza soggetto predicato. Il
“per” del perdono (forgive, vorgeben) è il grado massimo, la pienezza, del dono, il donare tutto: il donar_si. Il dono ed il
perdono sono soltanto una gradazione dell’alleanza tra le parti (cioè il: khesed che in ebraico sta per perdono, clemenza e
misericordia). La grazia (charis) ha un’ulteriore connessione semantica con il concetto di dono e passa tramite la gratitudine che il
dono provoca, ma anche nella gratuitàche il dono comporta (con dà, con dona). La polisemia del termine “grazia” in qualche
modo si riflette sull’essenza del dono, ci gira intorno, connotandolo volta a volta. Indagare il senso di “grazia”, significa prendere
in considerazione l’alone semantico che gli aspetti polisemici del termine provocano. L’oscillazione del senso, dei sensi possibili,
aggiunge al termine possibilità di senso ulteriori. Così la “grazia” derivata dall’aggettivo latino gratus, rimanda in prima istanza ad
indagare i suoi derivati più diretti, come “grato” ed “ingrato”. Grato è un termine ambivalente: è colui che testimonia
riconoscenza, ma anche colui che è gradito. È questo un primo tassello del puzzle di concetti che girano e fondano la “grazia”
stessa. Da queste prime accezioni non emerge comunque il senso religioso di “grazia”. Per ritrovarlo occorre che si faccia presente
(che eserciti il proprio influsso) il termine greco kháris che vanta con “grazia” una parentela del tutto particolare.
Benveniste[12] rintraccia le più antiche parentele dell’aggettivo gratus, sanscrito: inno di lode da cui ‘dare lode, lodare’ poi :
‘elogio’. Qui funziona un primo spostamento (proprio dell’indoiranico) che porta ad «inno di “grazia”, per ‘rendere grazie (a un
dio)’.»[13]
«Il rapporto con le parole latine mostra che il processo, all’origine, consiste nel rendere un servizio gratuito, senza contro partita;
e questo servizio letteralmente ‘grazioso’ provoca in cambio la manifestazione che chiamiamo ‘riconoscenza’.»[14]
C’è poi una girandola di accostamenti dal greco al gotico, all’iranico e al persiano: essere riconoscente, essere grato, ringraziare,
favore, fortuna, favorevole, ben disposto, disposto a aiutare, aiuta, portare aiuto, soccorrere, soccorritore, colui che aiuta, amico,
canto di favore, inno di grazia, testimoniare la propria riconoscenza (la riconoscenza è espressa con un ‘canto’ che serve a
esternarla). La khárisgreca ed i suoi derivati, comportano anche khará ‘gioia’ e khaíro ‘rallegrarsi e rallegrare’. ‘Provare piacere’,
‘volere’, ‘far volere, incoraggiare’, ‘che ha voglia di’, ‘voglia’, ‘avere voglia, desiderare fortemente’. «‘Kháris’ valorizza la nozione di
piacere, di godimento (anche fisico) […] Il latino gratiosus può significare ‘che prova riconoscenza’ e ‘che è fatto per far piacere,
gratuitamente’ […] gratis […] vuol dire ‘senza pagare’.»[15] Alfine compare una componente del termine ‘grazia’ che rimanda al
concetto di fare a titolo gratuito, per fare piacere.
«In una civiltà già basata sul denaro, la “grazia” che si fa a qualcuno è quella di “fargli grazia” di quello che ci deve, di
sospendere in suo favore l’obbligo di pagare il servizio ricevuto. Qui è il punto di inserzione di un termine di sentimento nei valori
economici, senza tuttavia che questo provochi una rottura con le rappresentazioni religiose nel cui seno è nato.»[16]
Questo avviene perché i circuiti sono più di uno, sia per quanto riguarda il senso, sia per quanto riguarda l’istituzione sociale ed i
rapporti tra individui al suo interno.
Grazia e fede.
La parentela tra i due termini li lega come concause uno dell’altro. Godere della grazia divina (dell’amore divino) è frutto
della fede che si esplica attraverso l’amore verso la divinità stessa, dell’amore cioè che riversiamo verso il divino. L’atto di fede è
un atto d’amore che ci ritorna nella stessa veste. L’intercessione è egualmente divina, avviene per mezzo dell’incarnazione e del
sacrificio del figlio di dio.
«Come buoni amministratori della svariata grazia di Dio, ciascuno, secondo il carisma che ha ricevuto, lo metta a servizio degli
altri.»[17]
Il termine greco carisma (χάρισμα, "charisma") deriva dal sostantivo χάρις, "cháris" (grazia). Piuttosto raro nel greco
profano, dove significa “dono”.
In Atti[18] si afferma che la fede in Cristo è uno degli effetti della grazia di dio, un suo dono. Nell'epistola ai Romani il
binomio graziafede viene affermato contro il legalismo israelita. Grazia è l'intervento gratuito di Dio, non ha altra ragione che
l'amore di Dio:
«(…) ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù»[19]
«Perciò l'eredità è per fede, affinché sia per grazia»[20]
«(…) mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi; e ci gloriamo nella
speranza della gloria di Dio.»[21]
Il contrario del peccato non è la virtù ma la grazia.
«La legge poi è intervenuta a moltiplicare la trasgressione; ma dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata (...) Che
diremo dunque? Rimarremo forse nel peccato affinché la grazia abbondi?»[22]
Grazia e fede (charis e pistis) sono così concatenate che in alcune accezioni i due termini si possono addirittura
confondere.Pistis, la ”fede”,«è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal
momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la fede è sostanza di cose sperate”»[23] Fede
è poi termine etimologicamente complesso, viene infatti dal latino FIDES derivato dal greco FEITHE che i latini resero dapprima
FEIDES, indi FIDES. La radice FID o FEID equivale al greco PEITH onde PEITHO persuado (e propriamente avvinco) PEITH
OMAI son persuaso, credo, PISTI per PITHTIS fede, PISTEYO mi fido, ed ambedue fan capo al sanscrito BANDH==BIBID, FID
legare, col noto fenomeno dell’invertimento dell’aspirata.[24] Fede dunque che ha a che fare con un credito che qualcuno ci ha
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concesso o che abbiamo richiesto in una stipula, o che abbiamo contratto come colpa; credito che comporta un debito, il debito
infinito che il dio cristiano ci ha imposto. Curiosa, nel senso che stimola la nostra curiosità, la parentela con la persuasione,
la peitho greca che è particolarmente legata alla persuasione amorosa, all’incantamento e alla fascinazione che è facile confrontare
con gli attributi della grazia, della charis. Una persuasione, una grazia, una credenza, un credito, un debito che, in ambito
cristiano, ci lega. Che lega in un rapporto che ci subordina, perché la sovranità è la concessionaria di ogni termine di fiducia.
Perché ci troviamo legati con un contratto che con la scusa di redimerci dal peccato originario, ci sottomette ad una dimensione
nella quale il godimento (quel godimento) è traslato in un futuro fuori da questo tempo e quindi trasceso. Il cristianesimo e
Agostino ce lo testimonia, distingue tra caritas e cupiditas, dove la prima corrisponde all’amore divino (per dio e di dio per
l’uomo) e la seconda per gli amori profani. Esse «si distinguono reciprocamente per l’oggetto del loro tendere, non per il come
del tendere medesimo.»[25] La trascendenza è evidente nel pensiero di Agostino, perché per Paolo, ad esempio, l’amore per il
divino, la caritas, «non è un appetitus, ma espressione dell’appartenenza a Dio e non “cessa mai”, perché in esso e solo in esso si
ha un reale superamento della creaturalità dell’uomo, del suo esseremondo.»[26] Se per Agostino la tensione amorosa è come
un annullamento del sé in essa, per Paolo si tratta di una trasfigurazione per la quale l’essere si trasforma in esso. « La negazione
di sé qui non è pertanto oblio di sé, bensì diventa reale e operante nella coscienza del peccato, nella coscienza del passato da cui
ciascuno è stato redento.»[27] In Agostino, invece, la tensione, l’appetitus, l’agape, si esauriscono nel loro adempimento, nel
quieto starepresso, l’amore cessa, si adempie. Il piacere non consegue all’amare, ma al fruire. C’è comunque uno spostamento,
spaziale in Paolo in cui tutta la tensione amorosa deve essere convogliata sull’unico oggetto esso stesso trascendente, con una
alternativa praticamente non praticabile che getterebbe il soggetto in pasto ai sensi di colpa, alla memoria del peccato. Temporale
in Agostino in cui la tensione, l’amore, lacaritas intesa come unica cupiditas realmente appagante, è però gioco forza dilazionata.
E se godere è essere presso la cosa bramata, avere cioè ottenuto l’oggetto della tensione, questa possibilità avviene nella
dilazione, è una possibilità posticipata, è affidata ad un divenire mai attualizzabile.
La fede, che ha a che fare con la persuasione della peitho che è diversa da quella della retorica, non è un
convincimento, non usa gli espedienti della logica, ma fa appello a valori e promesse appetibili; figlie del desiderio, del desiderio
per l’altro, del desiderio che l’altro possa anche avere per te, di te. Della grazia (charis) dell’altro, del riconoscimento della tua
grazia (charis), del debito/credito che lega i membri delle relazioni e delle comunità. Per debiti che non si estinguono, perché si
rinnovano e non perché inestinguibili. Per debiti/crediti immanenti all’essere. Lo sforzo di Agostino di mettere al centro del
desiderare umano la sua trascendenza, non ci deve sviare da quello che è un altro possibile connubio tra fede e grazia che
(tramite il debito contratto) è una scansione delle possibilità di relazione e di donazione. Quando il sé diviene il pegno stesso della
relazione (il darsi, il sacrificio,il donarsi), un atto di fede del quale essere grati, la sottoscrizione di un debitocredito che
rappresentano la tensione desiderante, la cupiditas graziosa che trova i suoi oggetti ma che non si esaurisce in essi, perché il
rinnovo del credito (della fede e della grazia) riproduce gli appetiti. Forse, questo sistema, questo meccanismo non garantisce il
quieto godimento del possesso del bene appetito (per Agostino a questo punto subentrerebbe il timore della perdita[28] oltre a
non saziare l’anima la cui dimora non è terrena ma eterna[29]) ma, in questo contesto, forse la sazietà non è il godimento
cercato, non è l’oggetto dell’appetire.
Issione re dei Lapiti sposa Dia che è soltanto un altro nome di Ebe figlia di Era (oppure Era stessa nella sua qualità di olimpica o
“celeste” poiché questo è il significato di Dia). Issione aveva promesso una ricca dote al suocero Diomede, ma, quando questi si
reca da Issione per riscuotere la dote, cade nella trappola costruita da Issione stesso che aveva mascherato con terra e rami la
bocca di un pozzo pieno di fuoco. Qui non solo Issione non rispetta la parola data e non consegna i doni di nozze, ma anche
uccide un proprio parente divenendo il primo assassino di congiunti. Per questo nessun uomo o dio voleva purificarlo del proprio
delitto. Alla fine Zeus ebbe pietà di lui e, non soltanto lo purificò, ma lo assunse all’olimpo facendolo quindi divenire immortale.
Qui Issione incontra Era, se ne innamora e le confessa il suo interesse, in qualche modo la concupisce. Era racconta tutto a Zeus
il quale , allora, mette alla prova Issione. Con la nebbia, materia della quale sono costituite le nuvole, Zeus crea un’immagine di
Era con la quale Issione si accoppia e dalla cui unione nascono i centauri (o il loro capostipite). Si dice che Issione procreò senza
Cariti[30], cioè senza Afrodite: non c’è dunque rispetto per la charisintesa in tutto il suo ampio spettro polisemico, in definitiva
cioè, sia come grazia (accettazione e ricambio amoroso), sia come dote. Zeus allora fa legare Issione ad una ruota di fuoco che
ruoterà nei cieli all’infinto, trasportando un Issione costretto a dire: «devi riconoscenza al tuo benefattore». Con questo ben si
capisce il delitto fondamentale di Issione che è un delitto sociale che va contro il sistema stesso del dono; è cioè un delitto di
irriconoscenza (doppiamente commesso, nei confronti di Dia e di suo padre e nei confronti di Zeus) che nel misconoscere il
debito, annulla tutto il senso e l’equilibrio sociale ad esso connessi. La ruota di Issione è poi una specie di Iynx al quale è anche
un po’ apparentato. Iynx era una Ninfa o una maga, figlia di Echo, di questo fantasma sonoro, o secondo altri, figlia di Peitho, la
persuasione amorosa[31]. Con, probabilmente un incantesimo, fece innamorare Zeus di Io, scatenando la gelosia di Era che
trasformòIynx nell’uccello Torcicollo che in greco si chiama egualmente Iynx, come, d'altronde anche un gioco sonoro che ha
affinità con le movenze del Torcicollo, porta anch’esso lo stesso nome. Si tratta di un cerchio con due fori nei quali si fa passare
una corda che poi ruotata vorticosamente produce un suono particolare.
La dea delle frecce veloci
Cipride, per prima portò dall”Olimpo
agli uomini, legato sui quattro
raggi di una solida ruota, il torcicollo variopinto,
l”uccello che suscita il delirio.
E insegnò gli scongiuri e gli incantesimi
all”Esonide accorto
per soffocare in Medea il rispetto di figlia
affinché il desiderio dell”Ellade
tormentasse il suo cuore ardente
sotto la sferza della Persuasione amorosa.
Pindaro, Pitica IV.
Si dice che l’iynx (la ruota vorticosa) abbia proprietà di fascinazione erotica e che il suono da esso prodotto abbia la capacità di
incantare e avvincere la persona amata, anche suo malgrado, trascinandola ”nel cuore della ruota magica”(Pindaro). L’iynx era,
dunque, lo strumento usato da maghe e mezzane per suscitare un’attrazione fatale e irresistibile. Fu proprio un iynx che Afrodite
dette a Giasone per “circuire” Medea. In alcune attestazioni lo strumento di seduzione è l’uccello stesso che viene legato ad una
ruota. Le somiglianze sono: la ruota sonora, l’inganno seduttivo ( la peitho), la persuasione seduttrice che entrambi gli interpreti
mettono in atto, e con essa l’atto blasfemo nei confronti del rapporto tra Zeus ed Era. Nel racconto di Issione, c’era una
mancanza di charis, in quello di Iynx un eccesso dipeitho, per altro presente anche nell’altro racconto; eccesso di peitho che
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provoca un circuito di plusvalore simbolico: «Quando l’equilibrio tra charis e peitho è rotto a favore di quest’ultima, i rapporti di
tipo coniugale cedono il posto ai rapporti di seduzione.»[32]
Il sistema del dono ha un rapporto particolare con il concetto di tornaconto, perché il tornaconto stesso si misura in confronto
all’altro: è relativo, nel senso che è sia riflessivo che transitivo, verso di se e verso l’altro. Manca il senso dell’accumulo, perché è
possibile soltanto la circolarità degli scambi, flussi spettacolari e ostentativi. Manca, oppure ha poco senso, è meno appetibile, la
appropriazione, la propriazione tutta, ha meno materia per essere pensata, ed il sistema, anche se patriarcale, non pensa la
proprietà dell’altro, l’appropriarsi dell’altro. Il sistema del dono non prevede principalmente la cessione delle cose (cessione
mercantile = merce) , ma la loro circolazione. Il nascente mercato si sta però dotando di tutta una serie di strumenti, anche di
pensiero, atti a metter al centro interessi individuali, per i quali nei rapporti tra i generi diviene pensabile il possesso patriarcale
che si compra (si impossessa, diviene il proprietario) la moglie e le sue prestazioni di sesso e di gola, precedentemente (con lei)
condivise. La parola araba sadaqa oltre a significare elemosina e giustizia (vedi qui, l’elemosina come nemesi) significa: il “prezzo
della fidanzata”. Così come la charis designa in origine il dono che la donna fa di sé all’uomo. «Secondo Malinowwski il tipo di
dono puro sarebbe il dono tra sposi.»[33] C’è un termine (mapula) presso le Trobriand che designa il “dono” in relazione allo
scambio sessuale, ed è “dono” in quanto non interviene la moneta che per altri commerci i Trobriandesi usano.[34] In questo
limite, in questa opposizione, dove il dono di sé, il donarsi, fonda l’essenza stessa del dono, ma dove appena l’oggetto del dono
comincia ad essere prezzato, prende valore, e nel prenderlo annulla il senso stesso del donare. Qui, in questo al di qua, l’alterità,
la differenza, può essere pensata in termini più efficaci. Un universo simbolico estremo dove il di lei donarsi, la sua charis, la
presenza della charis, della donazione stessa, tiene sul versante del sacro ogni possibile considerazione, ogni pensiero.
[1] Le negoziazioni matrimoniali che implicano il pagamento del prezzo della sposa sono diffuse in tutte le parti del mondo. In
esse va ricercato lo scopo della creazione di un legame sociale tra gruppi diversi, piuttosto che il valore economico dei
beni donati. La valenza simbolica di questi scambi è evidenziata anche dal fatto che in molti casi venga impiegata una "valuta
simbolica" esclusiva delle transazioni matrimoniali, tanto che spesso i beni ricevuti come prezzo della sposa sono utilizzati da uno
dei membri maschi del lignaggio femminile per acquisire a sua volta una moglie. «Si ricordi inoltre che quel simbolo per
eccellenza costituito dalla “moneta” arcaica non è altro che un riconoscimento del debito di vita che si contrae prendendo al suo
clan la sposa che porterà la vita nel proprio.» Alain Caillé, Il terzo paradigma, Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri,
Torino, 1998, pag. 72
[2] Marcel Detienne, I Giardini di Adone, I miti della seduzione erotica, Einaudi, Torino , 1975, pag. 91 e nota64 a pag.96.
[3] J.P. Vernant, Mito… , op. cit., pag. 155.
[5] Platone, Fedro, (244 a)
[6] Nella religione dei brahamani le animelle che si distribuiscono nei templi portano il nome di prajadam che significa grazia
divina.
[7] Paolo Mulè, Pensare il dono,Figure dell’impossibile in Jacques Derrida, tesi di dottorato dell’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA
TRE, Dipartimento di Filosofia, 2007, pag. 76
[8] Ivi., pag. 183184.
[9] Ivi., pag.189.
[10] Aristotele, Etica Nicomachea, [1133a]
[11] Plutarco, Erotico 751 d
[12] Emile Benveniste, Il vocabolario …, op. cit, pag. 151153.
[13] Ivi., pag. 152.
[14] Ivi.
[15] Ivi., pag. 152153.
[16] Ivi., pag. 153.
[17] 1 Pietro 4,10.
[18] Atti 18,27.
[19] Romani 3,24.
[20] Romani 14,16.
[21] Romani 5,2.
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[22] Romani 5,20, 6,1.
[23] Giorgio Agamben, Se la feroce religione del denaro divora il futuro, La Repubblica, 16 febbraio 2012
[24] http://www.etimo.it/?term=fede
[25] Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, SE, Milano, 2004, pag. 31. «ma come si ama la vita temporale da quanti
sono ad essa profondamente attaccati, così noi amiamo la vita eterna, del cui amore il cristiano fa professione.»
Agostino, Epistolae,127, 4.
[26] Ivi, pag. 42
[27] Ibidem.
[28] «La vita umana sulla terra non è indipendente neppure nella caritas in quanto tendere, poiché permane nella paura di
perdere ilsummum bonum a cui aspira. Ogni vita umana qui sulla terra è determinata insieme da amor e timor.» Ivi, pag. 46
[29] «Certo tra i beni temporali e i beni eterni c’è questa differenza: un bene temporale lo si ama di più prima di possederlo…
poiché non sazia l’anima, la cui vera e sicura dimora è l’eternità». Agostino, De doctrina cristiana, I, 42
[30] K. Kerenyi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia, Il Saggiatore, Milano 1963, qui in edizione economica della Garzanti, pag. 150.
[31] Figlia quindi di parole o discorsi sussurrati o riflessi.
Non diritti e veritieri (della Alétheia)
[32] M. Detienne, I Giardini …, op. cit., pag. 114. Detienne sottolinea l’appartenenza del mito ad una cultura del dono: «Nella
Grecia arcaica, come nelle società dello stesso tipo, lo scambio delle donne è inseparabile dallo scambio e dalla circolazione ; la
regola assoluta del dono e del contraccambio del dono s’impone a tutti i livelli della vita sociale, tanto tra i diversi gruppi umani
che tra gli uomini e gli dei, e gli uomini e la natura.» Ivi.
[33] In M. Mauss, Saggio sul dono…, op. cit., pag.279.
[34] Bronislaw Malinowski, La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nordoccidentale, Raffaello Cortina, Milano, 2005, Citato
da M. Mauss, Saggio…, op. cit., pag.279.
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