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A Ovest di Thule
A Ovest di Thule
A Ovest di Thule
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A Ovest di Thule

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About this ebook

L’avventurosa storia romanzata di Publio Valerio Hirpus, il nobile Romano che varcando le Colonne d’Ercole, per primo raggiunse il Nuovo Mondo. Un romanzo storico di impareggiabile bellezza, l’ucronia capolavoro del due volte vincitore del “Premio Urania” Alberto Costantini. Imperdibile!

“Ma Colombo è stato veramente il primo a varcare l’Atlantico?” alla domanda, sono state date dalla storia e dall’archeologia diverse risposte. Oggi sappiamo che prima di lui i vichinghi e probabilmente anche altri popoli dell’antichità misero piede in quella terra che noi chiamiamo America. Ma i Romani, che cosa sapevano dell’altra sponda di questo mare e delle terre che si estendevano a ovest di Thule, tradizionalmente considerata l’ultima terra protesa verso il tramonto? Ben poco, si direbbe, eppure, scandagliando bene le poche fonti rimaste su questo insidioso e sfuggente argomento, si sarebbe portati a dire invece che qualcosa avevano saputo, o almeno intuito. Forse qualche “navigatore involontario” ebbe la ventura di riportare agli scettici abitanti del Mediterraneo scampoli di una incredibile verità?

Il romanzo A ovest di Thule racconta la vicenda di Publio Valerio Hirpus, nobile romano di parte pompeiana, che per sfuggire alla persecuzione dei cesariani sceglie la via di fuga più insolita e rischiosa: il braccio di mare che separa la Spagna dalle mitiche Isole Fortunate. Ma anche i suoi implacabili nemici non temono di sfidare le acque del Padre Oceano, e la caccia continua, spingendo la nave Iside ed il suo equipaggio dove nessun europeo era mai giunto: l’Orbis Novus, il Nuovo Mondo...
LanguageItaliano
Release dateJul 7, 2015
ISBN9788868671013
A Ovest di Thule

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    A Ovest di Thule - Alberto Costantini

    1.

    Pare che il grande Giulio Cesare abbia confidato ai suoi che quella di Munda, fu l’unica volta in cui combatté non per la vittoria, ma per la vita.

    Il divo Giulio si sbaglia o ha la memoria corta: l’ho visto io, quel giorno, ed ero a non più di duecento passi da lui, battersi corpo a corpo con il gladio e uno scudo da cavalleria raccolto da un caduto: non combatte così chi vuole salvarsi la pelle, ma chi cerca di morire in battaglia; e credo di essere nel giusto affermando che Cesare, quel giorno, voleva farsi ammazzare perché sapeva di avere perso.

    Noi del partito di Pompeo, gli ultimi difensori della vecchia Repubblica, i ragazzini, come ci chiamava, avevamo tenuto duro per molte ore, senza lasciarci spaventare dal numero degli avversari né dalla fama di Cesare, e anzi in più punti i nostri legionari stavano contrattaccando: uno sforzo ancora e li avremmo ricacciati indietro, e poi, chissà? la storia avrebbe preso forse un corso diverso...

    Quando ritornai da Labieno, la prima cosa che notai fu mio fratello, adagiato sull’erba all’ombra di una vecchia quercia e il medico militare che lo stava fasciando. Mi sentii lo stomaco in gola, perché era la prima volta che portavo il ragazzo con me; sul viso di Aristonico, però, non c’era traccia di apprensione.

    «Fatto. La prossima volta che balzi giù dal tuo bianco destriero, accertati di dove metti i piedi. Ti potevi rompere una gamba, lo sai?»

    «Cos’ha?» domandai senza neppure scendere da cavallo.

    «Niente, una slogatura alla caviglia. Fa male, ma non è grave. È che voleva una ferita vera, in combattimento, invece quel dannato sasso ballerino l’ha fatto ruzzolare a terra.»

    Affidai il cavallo al mio servo Giasone e mi chinai su Lucio.

    «Coraggio, fratellino: cose che capitano.»

    «Lasciami stare, ti prego; mi sento già abbastanza umiliato per conto mio. Pensa che non sono neanche riuscito a vedere la prima linea; stavo portando un messaggio da parte di Pompeo, ho avuto fretta di scendere e…»

    «Fidati, non hai perso niente: ci sono solo bravi cittadini romani che si stanno ammazzando fra loro, e non è un bello spettacolo. Comunque, se ti può consolare, i cesariani, almeno fino a quando c’ero io, non avanzavano di un passo.»

    Lucio sembrava ora più sereno: dopo una grande vittoria, chi va a sindacare su come uno si è procurato la ferita di guerra? E poi, lo sanno tutti, chi porta in giro gli ordini non è meno importante di chi li esegue.

    Lucio, il mio fratellino.

    L’avevo lasciato adolescente tre anni prima, per ritrovarlo uomo fatto alla vigilia della prova più importante della nostra vita.

    «A proposito» mi disse alzandosi sui gomiti «Labieno ha mandato più volte a cercarti; forse faresti meglio a vedere che cosa vuole. Prendi il mio cavallo, tanto per oggi non mi serve più.»

    Labieno si trovava con i legati e alcuni giovanotti del seguito su una piccola altura, da dove si poteva seguire l’andamento della battaglia, in mezzo a un affaccendato viavai di messaggeri. Non ebbi neppure il tempo di smontare: appena mi vide, si staccò dal gruppo e mi venne incontro. Mi parve preoccupato, e ciò un poco mi sorprendeva, perché lo conoscevo come uomo dai nervi d’acciaio.

    «Ave, Publio Valerio!»

    « Pietas!» era la nostra parola d’ordine; «oggi gli dei hanno preparato una grande giornata per i figli di Pompeo e per te, Labieno.»

    «Non tentare gli dei, neanche con le parole» mi interruppe bruscamente, con una sorta di timore superstizioso: «sai bene che il nostro avversario ha spesso vinto l’intera posta con l’ultimo tiro di dadi.»

    Già, chi poteva conoscere Cesare meglio di lui, che ne era stato il braccio destro in tante campagne? Per quanto gli fosse nemico e forse lo odiasse, soprattutto dopo l’umiliante batosta ricevuta a Farsalo, non poteva fare a meno di ammirarlo come generale; ciò che soprattutto temeva era che tirasse fuori qualche numero - diceva proprio così - dei suoi, capace di rovesciare la situazione.

    «So che sei stanco e hai cavalcato tra le linee per tutta la giornata, ma ho bisogno ancora di te. Pare che i cesariani stiano minacciando il nostro accampamento, e di tutti gli esploratori che ho mandato, non ne è ancora ritornato uno. Non so cosa pensare... non vorrei che fosse una manovra per coglierci alle spalle, o magari invece è solo un diversivo per indurci a distogliere qualche coorte dalle prime linee; insomma, mi serve un ragazzo sveglio che vada, osservi e riferisca.»

    «Avrai quanto prima le notizie che cerchi» risposi orgoglioso per la fiducia che il mio comandante riponeva in me.

    «Sveglio e prudente, giovane Valerio: soprattutto prudente» disse Labieno guardandomi negli occhi.

    A mia giustificazione, posso solo dire che allora ero molto giovane e non meno presuntuoso. Nobile e ricco di famiglia, ero stato amico di Catone, confidente di Sesto Pompeo, ora uomo di fiducia di Labieno. Io e un po’ tutti i miei compagni ci sentivamo investiti della parte di restauratori della Repubblica, giustizieri del tiranno, vindici della romana libertà: sì, ci credevamo sinceramente a tutte le sciocchezze con cui ci riempivamo la testa l’un l’altro.

    Sulla strada, o per meglio dire, sulla pista di terra battuta che portava all’accampamento, comparvero all’improvviso in due: erano scuri di pelle e vestivano come i cavalieri mauri, con una leggera tunica, una spada a fianco e una zagaglia. Urlai che si togliessero dai piedi - sapevo che nell’armata pompeiana vi erano contingenti di truppe africane - ma quelli, senza nemmeno scendere, lanciarono due giavellotti con incredibile forza. Il primo mi passò a un palmo dall’elmetto, ma il secondo andò a conficcarsi nel petto del cavallo di Lucio.

    Dicono che certe sequenze della durata di pochi attimi si vedono come rallentate, diluite nel tempo, tanto che si riesce a coglierne tutti i particolari con straordinaria precisione e lucidità. Sarà. Per parte mia, non ricordo assolutamente nulla di come la bestia stramazzò a terra; so solo che mi ritrovai in mezzo alla polvere, sotto il peso del cavallo agonizzante che mi schiacciava. Con la coda dell’occhio potevo vedere i due mauri che si avvicinavano con inutile circospezione. Ero immobile, assolutamente inoffensivo, la schiena sembrava paralizzata e riuscivo a malapena a respirare.

    Stavo per morire. A ventiquattro anni, in una strada dell’Iberia meridionale, e morivo perché quei due erano senza dubbio cavalieri indigeni, ma appartenenti all’armata di Cesare; un errore che mi stava costando la vita.

    Uno dei due, altissimo e troppo scuro anche per un africano, mi slacciò la corazza, recidendo le corregge con un coltello. Sorrideva mostrando i suoi denti assurdamente bianchi. Il compagno cominciò a parlargli fitto fitto in una lingua incomprensibile. Dalla boscaglia intanto era spuntato un terzo individuo, molto più anziano, col volto tatuato di cicatrici, forse quelle bestiali scarnificazioni che i selvaggi compiono sui loro volti per rendersi ancora più orribili di quanto madre Natura li abbia fatti. Io continuavo a rimanere immobile, senza neppure tentare di scuotermi o di difendermi.

    Pensavo a cosa avrebbe detto mia madre quando...

    Il vecchio si chinò su di me e mi prese la mano, quasi con delicatezza, la rigirò con cautela, poi mi aprì la veste sotto l’armatura e mi guardò con attenzione. Volevo urlargli che la facesse finita, ma non riuscivo a muovere le labbra, e chiusi gli occhi come un bambino impaurito. Li sentii parlottare e da uno spiraglio fra le palpebre vidi il vecchio che scuoteva la testa e con pacche amichevoli date col piatto della spada, allontanava i due cavalieri. Qualcosa mi cadde vicino, ma non fui in grado di capire dal rumore cosa fosse. Quando aprii gli occhi, già il terzetto di africani galoppava lontano.

    Mentre cercavo un appoggio a cui afferrarmi per far forza sul cavallo morto e levarmelo di dosso, le mie dita sfiorarono un oggetto piccolo, duro, appuntito.

    Un dente di lupo.

    La spiegazione più razionale era che qualcosa o qualcuno li avesse spaventati, o che fossero stati colti dal dubbio di aver abbattuto il romano sbagliato. A meno che quel vecchio, per qualche misteriosa ragione, non avesse visto in me qualcosa che mi rendeva ai suoi occhi molto speciale.

    Dopo un tempo infinito, mi ritrovarono i legionari delle coorti inviate da Labieno, e un centurione mio amico, su una barella improvvisata, mi riportò dal buon Aristonico, che mi fece lavare le ferite e mi fasciò strettamente il busto.

    «Vi è andata di lusso oggi, giovani Valerii; con quello che ti è successo, potevi lasciarci le vertebre e finire i tuoi giorni da invalido. Non più tardi di mezz’ora fa, mi hanno portato un cavaliere che pareva avesse solo una botta, e invece...»

    «Per favore, amico mio, per favore. Abbi pietà di me e lavora a bocca chiusa; anzi, no: dimmi cosa sta succedendo in prima linea.»

    Il volto del medico si fece serio.

    «Io non ne capisco molto di cose militari, ma temo che tutta questa faccenda stia andando per il verso sbagliato: mezz’ora fa sono passati alcuni pezzi grossi, ma andavano tutti in direzione contraria al campo di battaglia. Ho anche sentito dire che Labieno è stato ferito.»

    Feci uno sforzo per rialzarmi; mi pareva di non soffrire molto e pretendevo a tutti i costi notizie fresche, possibilmente migliori.

    Aristonico scosse la testa:

    «Senti, ragazzo: sai cosa succede a un malato che non collabora col suo medico e vuol fare di testa sua?»

    « Domine, se rimaniamo qui, la salute l’avremo rovinata in modo definitivo» disse angosciato il mio servo parlando piano, perché gli altri feriti non lo sentissero.

    Mi feci mettere sotto la schiena un paio di mantelli militari, che mi tenessero sollevato; adesso potevo vedere anch’io l’incessante passaggio di soldati a piedi e a cavallo. Ma se i primi erano ancora in assetto di guerra, mano a mano che il tempo passava, i nuovi venuti sembravano sempre più laceri, stanchi e quel che è peggio, disarmati. Molti perdevano sangue o si trascinavano con difficoltà.

    «Publio Valerio, temo che non si possa più rimanere qui. Se te la senti, c’è ancora il tuo cavallo e sono riuscito a procurarmi altre cavalcature per tuo fratello e per Aristonico, ma ti scongiuro, facciamo presto!»

    Come ha ragione chi afferma che la fortuna obbliga ad avere bisogno anche degli individui più bassi della gerarchia sociale! In quella circostanza fu il mio schiavo Giasone a tirarmi fuori dai guai: a battaglia ormai finita, i cesariani vincitori si abbandonarono a una strage indegna, quasi che solo la morte di tanti loro concittadini potesse far dimenticare la vergogna provata sul campo. Due tribuni feriti furono inchiodati a terra con le lance e a lungo la soldataglia si accanì anche sui semplici legionari.

    Il combattimento stava ormai volgendo al suo epilogo: Labieno si era reso conto troppo tardi di aver inutilmente distolto dal fronte cinque preziosissime coorti, ma non fu in grado di rimediare in tempo all’errore, e fu ucciso mentre cercava di ristabilire la situazione con la sua presenza tra i soldati.

    Di Gneo Pompeo seppi soltanto che era morto, senza altri particolari.

    Quello che seguì non fu più un combattimento, ma solo una brutale resa dei conti.

    Un centurione, passando vicino all’infermeria, ci scongiurò di sgomberare immediatamente. Io e mio fratello non avevamo altra scelta. Fossimo anche stati moribondi, dovevamo salire in groppa e allontanarci di lì.

    Un nemico, di sicuro, ci stava cercando tra i morti e i feriti, interrogava i prigionieri, forse aveva già sguinzagliato i suoi cacciatori d’uomini, schiavi e gladiatori che gli dovevano tutto, e a tutto erano disposti per compiacerlo.

    E noi due, unici di tutto l’esercito repubblicano, non avevamo speranza di oblio e di misericordia. Somme favolose erano state promesse a chi ci avesse scovato, possibilmente vivi, e purtroppo le nostre facce erano conosciute nell’esercito di Cesare.

    Con fatica e stringendo i denti, salii a cavallo aiutato dal servo e dal nostro medico. Fu Lelio Paolo, un ufficiale romano amico nostro, a guidarci fuori della zona di guerra. Evitando i sentieri battuti, passando per i campi e infilandoci nel fitto della macchia, riuscimmo infine a sfuggire all’accerchiamento. Sulla strada di Hispalis trovammo altri cavalieri che si unirono a noi, mentre i pochi fanti arrivati fino lì ci lanciavano dietro invocazioni di aiuto, maledizioni e zolle di terra.

    Cavalcammo tutta la notte e buona parte del giorno successivo, sfiancando i cavalli, senza quasi fermarci e senza avere il coraggio di scambiarci una parola o anche solo di guardarci in viso. La vergogna della sconfitta e il rimorso per i tanti compagni abbandonati al loro destino ci serravano la bocca.

    Come gli dei vollero, verso sera, cominciammo a vedere le prime case di Hispalis.

    2.

    L’ampio viale alberato che portava alla villa di nostra madre era ancora ingombro di contadini e servi con i loro animali e i carri; dovevano essere appena tornati dal lavoro in città e nei campi: avrebbero ricevuto gli ordini per il giorno seguente, poi sarebbero andati nei loro tuguri, a godere il meritato riposo della gente umile, quella che non compare negli annali della storia. Toccava invece a noi, nobili di Roma e di Spagna, di essere inseguiti e braccati come bestie selvatiche.

    Nessuno, all’apparenza, sapeva ancora nulla della battaglia, ma i nostri visi erano abbastanza eloquenti: di lì a poco si sarebbe sparsa la notizia, da Corduba a Gades, che il Grande Cesare aveva vinto ancora una volta.

    Mia madre, sentendo lo scalpitare degli zoccoli, si fece sull’uscio circondata dalle ancelle della casa; il suo aspetto, alla luce delle fiaccole, era quello di una vera aristocratica spagnola: fiera, padrona gelosa di se stessa, degli uomini che da lei dipendevano e delle sue cose. Non lasciò trapelare i suoi sentimenti neppure quando gli occhi si posarono sulle vistose fasciature di Lucio e sulle chiazze di sangue del mio mantello. Ed eravamo i suoi soli figli.

    I servi aiutarono mio fratello a scendere, io invece mi sforzai di farlo da solo. Gli altri si lasciarono cadere sfiniti sul selciato, e solo dopo molte insistenze fu possibile convincerli ad alzarsi e farsi condurre al bagno. I contadini e i pastori di mia madre ci guardavano e scuotevano la testa; per quanto fossero fedeli e non avessero motivi particolari per amare i cesariani, difficilmente avrebbero tenuto la lingua tra i denti, e la notizia della nostra presenza nella villa, di bocca in bocca, da una taverna a una capanna, sarebbe arrivata agli orecchi di lui.

    Io e Lucio fummo affidati agli schiavi domestici che ci cambiarono le fasciature, ci lavarono e ci ripulirono con la massima cura.

    Nella sala grande era stato preparato per una trentina di persone, ma ci ritrovammo in pochi: quasi tutti i compagni di fuga avevano preferito riposare sui letti o anche su mucchi di paglia stesi a terra.

    La cena fu lugubre. Mia madre non proferiva parola, e noi non osavamo rompere il silenzio. Arrivai addirittura a pensare che dentro di lei ci disprezzasse per non essere morti in battaglia, come avevano fatto suo padre e suo fratello tanti anni prima, ma mi sbagliavo. Più semplicemente, stava esaminando mentalmente le soluzioni possibili, e in quei momenti la sua concentrazione non dava spazio a null’altro, fossero pure i suoi figli .

    «Tenervi qui è fuori discussione» concluse: «è il primo luogo dove tuo zio verrà a cercarvi, e la mia autorità non è tale da impedirgli di perquisire la casa e le capanne dei miei lavoranti. No, escluso. Forse potrei nascondervi da qualche amico, ma con l’aria che tira, temo non ci si possa fidare di nessuno. Dovrei trovare il modo di farvi partire, ma tutto attorno sarà già pieno di pattuglie o di spie.»

    «Perdonami, madre» la fermò mio fratello «ormai non è più solo questione di noi due. A parte i servi e gli amici, abbiamo una trentina di compagni che ci hanno seguito: sinceramente, non me la sento di perdere anche loro...»

    «Lucio ha ragione» dissi guardando intorno a me i volti disfatti dei miei commilitoni; «già dovrò vivere col rimorso di avere abbandonato i nostri capi. Comunque, non credo che il fratello di mio padre avrebbe il coraggio...»

    «Di ammazzarvi? Oh, io invece direi di sì, figliolo. Anzi, su questo non ho proprio dubbi» mi interruppe mia madre senza enfatizzare il tono, anzi, con una sorta di amara ironia. «Credimi» riprese facendosi seria: «lo conosco, mio cognato, e non puoi, non potete neppure concepire il carico di odio che pesa nel cuore di quell’uomo. Non solo nella nostra casa, ma in tutta la Spagna, oserei dire in tutto il mondo, non esiste un luogo dove non frugherebbe per trovarti.»

    «Purtroppo, non abbiamo altri mondi a disposizione» concluse Aristonico stancamente.

    «Già, così sembrerebbe» mormorò mia madre socchiudendo gli occhi in un’espressione che per noi era familiare, ma che poteva imbarazzare e intimidire gli altri. Dopo un lungo silenzio che nessuno osò interrompere, riprese: «il tuo amico filosofo ha detto involontariamente qualcosa di giusto. Ora ascoltatemi, vi racconterò una strana storia, che apparentemente non ha attinenza con la caccia di vostro zio, ma… beh, ascoltate.»

    Nella grande stanza cadde un silenzio profondo. Poi mia madre si scosse, come avesse richiamato dal fondo oscuro del passato una memoria, o un frammento di memoria.

    «Naturalmente, avrete sentito parlare di Sertorio.»

    «Chi non ne ha sentito parlare?» risposi cercando di capire dove volesse arrivare. «Non credo che ci sia una sola persona, in Spagna come a Roma, che lo abbia dimenticato. Un grandissimo generale, un abile uomo politico, un eccellente oratore...»

    «E un traditore di Roma.»

    Chi aveva parlato era Terenzio, ma aveva espresso un parere largamente condiviso.

    «Sertorio» proseguì mia madre dardeggiando il mio amico con un’occhiata di fuoco «fu per noi il grande capo della rivolta iberica. Era un romano come vostro padre, ma migliaia di spagnoli corsero ad arruolarsi nelle sue file. Poi fu tradito da un uomo ambizioso, ma il suo ricordo è tuttora vivo tra di noi.»

    Le sue parole, ma soprattutto la passione con cui le pronunciava, ci fecero scivolare un brivido lungo la schiena: eravamo romani, certo, ma il sangue iberico che scorreva abbondante nelle nostre vene ribolliva d’orgoglio al ricordo di quei fatti tragici e gloriosi.

    «Sapete» riprese «che io l’ho conosciuto. Era un uomo eccezionale, secondo alcuni anche qualcosa di più di un semplice mortale. Ad ogni modo, non è di questo che voglio parlarvi, ma di una cosa che mi disse vostro nonno. Quando Sertorio era perseguitato e, incalzato dai suoi nemici, cercava un luogo in cui nascondersi per preparare la rivincita, gli fu proposto, non so da chi, di cercare la salvezza in mare e di far vela verso le Isole Fortunate. Lì sicuramente, dicevano i suoi fedeli, nessuno l’avrebbe mai trovato...»

    «Credevo che le Isole Fortunate fossero un’invenzione dei poeti» osservò mio fratello.

    «No» lo corresse Aristonico «per esistere, esistono veramente. Fenici e Cartaginesi le hanno toccate più volte, e probabilmente anche i marinai gaditani ne conoscono l’ubicazione e le rotte.»

    «Dunque, se capisco il senso del tuo discorso, tu proponi di imbarcarci di nascosto, raggiungere queste famose Isole Fortunate, restarvi finché le acque si placano in Spagna e a Roma, e poi tornare tranquillamente a casa.»

    Mi accorsi che le mie parole, o almeno il loro tono, potevano apparire venate di scetticismo, e farfugliai le mie scuse. Ma mia madre s’era ormai infervorata:

    «Fossi in voi valuterei con attenzione questa possibilità. Per quanto lunghe siano le mani di vostro zio, non gli verrà mai in mente di cercarvi in mezzo all’Oceano. Una nave non è poi difficile da trovare, e l’argento spagnolo può chiudere molte bocche. Quanto al resto, hai ragione tu, figliolo: sono momenti tragici, per la Repubblica, ma proprio per questo le cose si evolvono in fretta, e gli scenari mutano quasi di giorno in giorno. Di qui a un anno o anche meno, tante cose potrebbero essere cambiate.»

    «Un anno? Dovremmo fare i naufraghi in un’isola deserta per un anno della nostra unica e preziosissima vita?»

    Terenzio era sconvolto: sedicente seguace di Epicuro, colto e raffinato, non avrebbe rinunciato alla vita sociale e alle sue piccole comodità per nulla al mondo, forse nemmeno per salvarsi la pelle.

    «Non è detto che sia deserta» rimarcò Paolo con una punta di cattiveria: «raramente le isole di una certa dimensione rimangono disabitate.»

    «Magnifico, per Ercole! splendido!» sbottò Terenzio. «Udite udite: la miglior gioventù di Spagna e di Roma quest’anno va a trascorrere le ferie in mezzo al mare Oceano, in un’isola abitata da selvaggi antropofagi. No grazie. A costo di chiedere in ginocchio perdono al Tiranno in persona, io le vacanze me le faccio a Formia o a Baia, e potendo scegliere, preferisco mangiare che essere mangiato.»

    L’espressione scandalizzata che aveva assunto il viso di Terenzio risollevò un poco l’umore generale.

    «Conosci qualcuno che potrebbe consigliarci in proposito?» chiesi a mia madre.

    «Io no, ma ho sottomano chi vi può aiutare. Conosci Basan, il banchiere siriano? Ha un mucchio di conoscenze in tutti gli ambienti, e non vorrà scontentare la sua cliente più importante. Certo, siete liberi di fare come volete, ma se decidete di seguire il mio consiglio, posso condurvelo qui già domattina, se non ci sarà troppo trambusto.»

    Compresi che la decisione andava messa ai voti.

    «Compagni» dissi «ci sono solo tre possibilità per noi: la prima è cercare di arrenderci direttamente a Cesare e sperare nella sua famosa clemenza. La seconda è tentare di raggiungere Sesto Pompeo e proseguire la lotta, ma ammetto che, al momento, non so neppure se sia vivo. La terza è la vacanza, chiamiamola così, che ci propone mia madre. Sinceramente, non so quale delle tre richieda più coraggio.»

    Il primo a parlare fu Paolo:

    «Lo sapete tutti, io Cesare non l’ho mai voluto vedere neppure in effigie, ma sono anche stanco di combattere. La guerra è perduta, e la causa della Repubblica con essa. A questo punto, ostinarsi a combattere sarebbe una sfida alla volontà degli dei che nella giornata di oggi si sono chiaramente espressi a suo favore. Per cui, vada per la crociera. Da molto tempo desidero prendermi un po’ di riposo: qualche buon libro, l’ombra di una palma, tante belle scorpacciate di pesce... insomma, ci sto. Sono stufo di fare la guerra, amici, sono dieci anni che non faccio altro, e mi pareva di essere nato per qualcosa di meglio che sbudellare i miei concittadini.»

    «Per me va bene» disse Lucio quando fu la sua volta; «io e mio fratello siamo in una situazione che non ci dà molte possibilità di scelta; ha ragione mia madre, se gli uomini di nostro zio dovessero metterci le unghie addosso, neanche Giulio Cesare in persona ci potrebbe salvare. Forse, se scomparissimo dalla circolazione per un po’, al nostro ritorno tante cose potrebbero essere cambiate: dopo tutto, nostro zio ha i suoi anni, e la vita che ha condotto l’avrà senz’altro logorato.»

    «Ora tocca a te, mio buon medico. Tu che sei uomo di cultura e di scienza, cosa proponi?» dissi rivolgendomi ad Aristonico che stava fremendo dalla voglia di dire la sua.

    «Se è per me, giovanotti, partiamo anche subito. Non ho alcun interesse che mi tenga legato a questo o a qualsiasi altro luogo. Niente famiglia, niente moglie o figli, gli unici amici che ho siete voi. E poi, vi dirò, è da un pezzo che sono tentato di riprendere a viaggiare. Da giovane sono stato in Battriana e in Scizia, ma ormai da troppo tempo non faccio altro che fasciare ferite e steccare gambe.»

    La discussione si stava avviando in una direzione imprevista: con sgomento, mi accorsi che più cercavo di suscitare timide obiezioni contro quel folle viaggio, più l’idea guadagnava favore. Di apertamente contrario ormai non c’era che il solo Terenzio, anche lui disposto però a seguire la decisione della maggioranza.

    Mi sentii obbligato a muovere qualche rilievo, anche a costo di far aggrottare le ciglia a mia madre. Ricordai la nostra situazione di perseguitati, incalzati da vicino dal nemico: preparare una spedizione avrebbe richiesto tempo, e noi di tempo ne avevamo poco o punto. E poi, come fidarsi dei marinai? Chi ci garantiva che non ci avrebbero gettati in mare o traditi? E se non fossimo riusciti a raggiungerle, queste famose isole, perdendoci nell’Oceano? E i barbari? Anche se non erano proprio antropofagi, potevano essere comunque ostili. Prima di prendere una decisione del genere, dovevamo valutare attentamente tutte le alternative e tutti i rischi.

    « Domina!» gridò un servo irrompendo nella sala «ci sono delle luci sulla strada per Corduba. Molte fiaccole e rumori di zoccoli.»

    «Sono gli uomini di Cesare» disse Paolo: «dobbiamo cercare subito un buco per nasconderci, o almeno non facciamoci trovare qui.»

    «Se hai paura di compromettermi» lo rimbeccò subito mia madre «sappi nessuno oserebbe mancare di rispetto a me, neanche Giulio Cesare. È vero però che se vi scoprissero, neppure io riuscirei a proteggervi. I servi hanno l’ordine di riferire che siete passati di qui, ripartendo subito, così giustificheremo le tracce che potreste aver lasciato in giro. Quanto al nascondiglio...» qui si interruppe e, per la prima volta, la vidi sorridere «beh, perquisiscano pure la casa: io conosco un posto dove potrete restare al sicuro, almeno per un po’.»

    Mentre Lucio radunava i compagni dispersi per la casa, mia madre ci illustrò il suo piano.

    «Come sapete, per tradizione di famiglia sono sacerdotessa della Gran Madre e nel tempio» beh, questo non dovreste saperlo «nel tempio, dicevo, c’è un’ampia sala dove io sola posso entrare; chiunque la violasse, commetterebbe un sacrilegio. Vi accompagnerò io, e potete stare tranquilli che lì i sicari di mio cognato non arriveranno. Ah, occorreranno dei viveri, acqua, qualche coperta...»

    Prima che potessimo avanzare qualsiasi obiezione, la stanza fu piena di servi e ancelle pronti agli ordini.

    Non fu facile convincere i miei compagni a partire, ma si comportarono tutti da uomini d’onore: sapendo il rischio che correvamo noi due e temendo che qualche danno potesse venire anche a chi ci stava ospitando, si fecero forza e ci seguirono.

    Guidati da mia madre, attraversammo il boschetto sacro seguendo tortuosi sentieri; per confondere le tracce, risalimmo il greto del torrente fino al ponticello di pietra costruito da mio padre. Dopo un paio d’ore, eravamo giunti al santuario e, con l’aiuto dei servi ci sistemammo nella sala interna.

    Io non mi consideravo una persona molto religiosa, ma la santità di quel luogo, così sfacciatamente violata, mi metteva a disagio; sentivo, forse temevo, che in qualche modo questa nostra involontaria intrusione in uno spazio riservato agli dei non sarebbe rimasta impunita.

    Nel buio più completo, depositammo le nostre cose e ci stringemmo; la sala non misurava più di venti piedi in lunghezza e ancor meno in larghezza. Raccomandandoci di evitare rumori inutili, mia madre richiuse il pesante portone di legno e sentii che ordinava alle ancelle di spazzare bene il pavimento per cancellare ogni traccia di fango secco dal vestibolo.

    La notte fu orribile: per quanto fossero esausti, i miei compagni non poterono prendere sonno, né ci riuscivo io. A parte il dolore per le ferite e l’atroce stanchezza che ci pugnalava le membra, essere rinchiusi in un antro buio e scarsamente aerato dava a tutti un’angoscia mortale. Solo verso mattina riuscii a chiudere gli occhi, ma non fu un sonno ristoratore, era piuttosto un delirio di incubi: soldati, armi, corse a perdifiato e poi un mare scuro e minaccioso, assurdamente ricoperto di neve...

    3.

    Il rumore secco del catenaccio ci fece balzare il cuore in gola.

    La luce accecante del giorno penetrò nella stanza, costringendoci a serrare le palpebre. Entrarono due serve con una pesante cesta e due grossi fagotti; sorridendo deposero il canestro, che risultò contenere un otre di vino, del formaggio di capra e della pancetta. Quasi miracoloso: v’era anche del pane appena sfornato e ancora tiepido. I compagni fecero festa, oltre che alle vivande, alla luce del sole che si faceva largo tra le nuvole ancora cariche di pioggia.

    Eutiche (riconobbi subito la vecchia nutrice di Lucio) mi fece segno di uscire; aveva con sé un messaggio da parte di mia madre e un sacco di vestiti. Sorrisi quando mi accorsi che erano di foggia vagamente orientale, di quella roba un po’ ridicola che portano i mercanti giudei e siriaci. Rientrai nella sala e lessi ad alta voce la lettera ai compagni: in breve, mi esortava caldamente a recarmi subito dal banchiere Basan, cercando di non dare sospetto, e per il resto di affidarmi completamente a lui.

    Gli amici si offersero di venire con me, ma non volevo rischiare più del dovuto: avrei preso come compagno il solo Giasone.

    «Che ne dici, mio buon Giasone, ripassiamo assieme un po’ di aramaico per strada?»

    «Come desideri, domine. Da piccolo ti piaceva giocare al principe orientale, ricordi?»

    «Sì, è meglio passare inosservati: per questo ti raccomando, se vorrai dirmi qualcosa o vorrò io dire qualcosa a te, niente latino.»

    Probabilmente la precauzione era eccessiva: anche se le strade erano intasate di militari, c’erano poche probabilità che qualcuno ci fermasse, e se fosse successo, era ben difficile che mi riconoscessero: avrei giurato su tutti gli dei dell’Oriente che ero solo un povero viaggiatore straniero, vittima della guerra civile. Certo, se qualcuno conosceva la lingua, mi avrebbe smascherato dopo poche battute, ma accidenti, perché avremmo dovuto incontrare un legionario cesariano poliglotta?

    A parte qualche trasporto di feriti e una coorte in marcia, comunque, non trovammo molti militari per strada, e del resto, l’abitazione del banchiere distava solo poche miglia dal bosco sacro.

    Non fu difficile, con le indicazioni forniteci da Eutiche, trovare la casa del siriano. Fu Basan in persona ad aprirci; era l’orientale come uno se l’aspetterebbe: pancione enorme, barbetta appuntita, due occhietti neri e vispi. La sua abitazione, vista dal di fuori, sembrava alquanto modesta, quasi povera, sicuramente indegna di un banchiere.

    «Pace a voi, nobili signori; la mia casa sarà la vostra casa per tutto il tempo che vorrete essere ospiti del vostro umile servo.»

    Risposi nel modo più cerimonioso che ricordavo, inchinandomi più volte ed esagerando un po’ nei complimenti.

    Una volta entrato, rimasi impietrito di fronte alla ricchezza delle stanze: c’erano tappeti, sicuramente di gran pregio, e le suppellettili erano d’argento, alcune persino d’oro.

    Basan si giustificò, quasi avesse letto nel mio pensiero:

    «Che vuoi farci, nobile Publio, da un po’ di tempo voi romani, sia detto con il dovuto rispetto, avete perso la testa; tutti vogliono comandare e così finisce che non comanda più nessuno. E quando non comanda nessuno, quale legge tutela un povero mercante che sgobba da mattina a sera per racimolare un po’ di sudato profitto? Sono passati di qui i pompeiani, poi i cesariani, poi ancora i pompeiani, e poi i mauri, gli iberi, gli schiavi fuggiti dai campi... insomma, se vivessi in una di quelle vostre sfarzose ville, il mio modesto benessere e la mia stessa vita sarebbero in pericolo. Così invece passo inosservato: pochi mi conoscono e fra quei pochi mi onoro di annoverare la tua illustre genitrice.»

    «Basan, grazie agli dei non ho mai avuto bisogno di favori da nessuno, almeno finora, ma come capirai, mi trovo in una situazione molto, molto difficile, e aiutarmi potrebbe essere pericoloso anche per te.»

    Il viso del siriano si illuminò:

    «Ti prego, Publio Valerio, ti prego. La politica non è il mio mestiere, quindi non chiedermi se tu e i tuoi avete ragione o torto, ma per me l’amicizia è sacra, e ancor più la riconoscenza. Se anche dovessi sacrificare la metà di tutto quello che posseggo, non arriverei ugualmente a ripagare il mio debito verso la tua famiglia. Tua madre mi ha riferito dei vostri problemi, e il tuo leale amico Basan ha forse già trovato una soluzione; se quello che vi serve è un uomo di mare, credo di avere chi fa per voi.»

    Confesso - e me ne dispiace - che per un attimo ebbi il dubbio che il siriano mi stesse vendendo a Cesare: era impossibile che in così poco tempo avesse già architettato un piano; ma Basan era uomo dalle notevoli possibilità e dalle vaste conoscenze.

    «Nobile Valerio» riprese «e caro amico che ancora non conosco, vi prego di pazientare fino a questa sera: quando sarà buio, ci recheremo di persona dal mio uomo, e vi assicuro che non resterete delusi. Intanto, spero gradirete quanto offre la mia povera mensa.»

    Compresi il senso del garbato rimprovero di Basan:

    «Scusami, non ti ho presentato Giasone; quest’uomo è un mio schiavo, un giudeo, e sta con me dai tempi della spedizione di Pompeo in Siria. Apparteneva a mio padre, ma è nato libero. Dico questo anche perché ti regoli col mangiare...»

    «Non me ne parlare» esclamò ridendo Basan; «ho avuto una volta due soci, due ebrei di Cirene. Bravissime persone, per carità, ma non ho mai potuto fare un pranzo come si deve con loro: avevano sempre qualcosa da ridire su quello che gli mettevo davanti, così finiva che si pranzava a pane e legumi.»

    Giasone rise anche lui di gusto; benché fosse un ebreo abbastanza osservante, non si adombrava quando scherzavamo su di lui e sulle sue convinzioni religiose. Più volte avrei voluto affrancarlo, ma finché fosse durata la guerra civile avrebbe rischiato meno da schiavo che da uomo libero.

    Il pranzo fu piacevole e la conversazione, in cui alternavamo il greco a quel poco di aramaico che ricordavo, lo fu ancora di più: veramente, gli orientali conoscono l’arte di far sentire un ospite a casa sua.

    «Basan, cosa ti fa pensare che il nostro uomo accetterà le tue proposte?» gli domandai tornando all’argomento del nostro incontro.

    Il siriano depose la tazza di Falerno e, alzatosi con qualche difficoltà, andò al suo tavolo di lavoro, per ritornare con un papiro.

    «Questa è la chiave che aprirà il cuore del duro capitano. Senti un po’ cos’ha firmato il mio cliente:

    Io, Iona di Alessandria, cedo ogni diritto sulla mia nave e la mia casa di Gades, se non renderò entro le idi di aprile la cifra di denari dodicimila a Babhai figlio di Namaan detto Basan.

    «Capito, amici? Il capitano Iona voleva farsi l’ultimo viaggio e guadagnare abbastanza da maritare le figlie; ahimè, purtroppo è andato a finire nel mercato giusto ma nel periodo sbagliato, e ha dovuto svendere la merce senza neppure rifarsi delle spese. Così le figlie sono rimaste zitelle, e il capitano ha perso nave e casa. Che te ne pare?»

    «Mi sembra» osservai «che il nostro amico non valga molto come uomo d’affari.»

    «In effetti» confermò Basan ridendo «è molto migliore come marinaio. Del resto, a ciascuno il suo: io con la spada in mano saprei al massimo affettare il pane.»

    Al calar della sera uscimmo tutti e tre per la porta di servizio,

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