Sí, se puede! Viaggio nell'Andalusia della speranza oltre la crisi
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Sí, se puede! Viaggio nell'Andalusia della speranza oltre la crisi - Elvira Corona
Elvira Corona
Sí, SE PUEDE!
Viaggio nell'Andalusia della speranza oltre la crisi
prefazione di
Maurizio Torrealta
A Paolo
Prefazione
Elvira Corona è una di quelle poche giornaliste che ha capito il privilegio di non avere capi che le ordinano di cosa occuparsi e di non avere impegni che le ipotecano il futuro. Qualcuno potrebbe definire questa situazione disoccupazione
. Tecnicamente si potrebbe anche chiamare in questo modo, ma sarebbe terribilmente riduttivo. Quale giornata migliore di quella in cui ci si sveglia e si cerca una storia, si annusa il misterioso percorso che ci porta a seguirla anche senza conoscerla, si usano tutti i libri letti, i giornali, sopratutto gli amici, le loro chiacchiere i loro ricordi, per capire il luogo dove siamo destinati ad andare per conoscere meglio la storia che vogliamo raccontare? Per quanto sia piacevole non crediate che sia una operazione semplice da organizzare.
Deve essere una storia con particolari caratteristiche: non deve ancora essere conosciuta nei dettagli, almeno in Italia, deve avere al proprio interno diverse interpretazioni, diverse letture, un suo evolversi che deve essere seguito nel tempo e poi deve coinvolgerci, deve interessarci, deve convincerci, ma nello stesso tempo porci delle domande, insomma deve farci fare quello che io chiamo impropriamente un salto quantico-cognitivo.
Ma torniamo ad Elvira. Quale è la storia che vuole raccontare?
La sua storia inizia da Marinaleda, una piccola cittadina spagnola fatta di case bianche di due piani, dove abitano circa 2800 persone, nel mezzo della campagna andalusa a un centinaio di chilometri da Siviglia. Nel 2009 ha avuto qualche minuto sui telegiornali spagnoli e qualche decina di righe sul New York Times perché è stata considerata l'unica città della Spagna, (ma mi verrebbe da scrivere, dell'intera Europa), che non ha risentito della crisi economica. La storia di questa città è particolare: dal 1751 e' stata abitata prevalentemente da braccianti pagati ad ora che lavoravano dall'alba al tramonto per i nobili locali. La cittadina rimase sotto i marchesi di Estepa fino al diciannovesimo secolo quando furono proibiti i domini di vassallaggio medievale, clericali o nobiliari. Ora da circa trent'anni la città è governata dal sindaco Juan Manuel Sánchez Gordillo appartenente al partito Sinistra Unita. Il vero motivo per cui questo paesino è diventato famoso in tutta la Spagna è perché proprio mentre scoppiava la cosiddetta bolla dell'edilizia, il sindaco di Marinaleda ha offerto a chiunque volesse tornare nel paese (molti erano partiti a lavorare proprio nell'edilizia sulla costa) una casa per 15 euro al mese.
Non era demagogia, ma un serio progetto politico. In un paese di 3000 abitanti circa, più di 350 case sono state costruite in questo modo. Come leggerete nel libro questa non è stata la sola iniziativa del comune. Nel corso degli anni '80, i residenti di Marinaleda hanno occupato i terreni dei latifondisti e dopo una dura lotta che ha visto l'intero paese partecipare ad un lungo sciopero della fame, sono riusciti a farsi assegnare 3.000 ettari di terra di proprietà del duca dell'Infantado, che sono stati poi resi disponibili per le coltivazioni stagionali. Poco dopo è stata creata la cooperativa di produzione e la fabbrica di conserve. Il lavoro nella cooperative garantisce un salario a tutti i lavoratori e che almeno un persona in ogni famiglia abbia un lavoro. Nel comune sono stati aboliti i vigili che costavano circa 350 mila euro e ogni 3 o 4 settimane vengono organizzate domeniche di lavoro collettivo per ripulire le strade del paese.
Quando nel 2009 il New York Times raccontò per la prima volta la storia di Marinaleda, forse sembrò a tutti una sorta di esperimento anacronistico, che aveva ottenuto un discreto successo in un piccolo paese fuori dal mondo grazie ad un ristretto gruppo di persone che la pensavano nello stesso modo. Però nel retro-pensiero di ogni giornalista che raccontò questa storia rimaneva la certezza che il futuro dell'Andalusia non sarebbe mai stato nei campi, ma nell'industria e nei servizi.
Oggi forse la stessa storia può offrire un insegnamento diverso e più radicale. La recessione che sta colpendo tutta l'Europa non lascia troppe speranze per un nuovo sviluppo dell'industria e dei servizi. Strati sempre più larghi della popolazione, con la scadenza degli ammortizzatori sociali, vengono abbandonati alla disoccupazione. In Italia esiste ormai la segreta consapevolezza che per le generazioni più giovani non sarà possibile l'accesso ad una attività produttiva vera e propria. Ma nello stesso tempo è diffusa la consapevolezza che sia necessario comunque mantenere in funzione un contratto sociale con le giovani generazioni, anche solo fornendo un salario di disoccupazione che potrebbe aggirarsi sui 500 euro mensili, senza che sia necessaria una vera e propria attività lavorativa.
Interventi di politica assistenziale sganciati da progetti produttivi continueranno a creare squilibri non solo economici ma sociali sempre più difficilmente controllabili. Si deve cambiare apparato concettuale. Si deve abbandonare l'ideologia di uno sviluppo economico e finanziario continuo ed intensivo. Si può e si deve organizzare - non solo a livello di comunità periferiche ma anche a livello nazionale - una economia della decrescita. Una nuova vita dei comuni della campagna connessi in rete con unità economiche legate alla terra ed alla sua produttività alimentare. Un funzionamento del ciclo alimentare a chilometro zero inserito in una economia sociale che non sia dominata da meccanismi di profitto. La qualità della vita ha un valore: recuperare quel valore e distribuirlo in modo intelligente e sociale può essere il vero arricchimento che la vecchia Europa può offrire al mercato internazionale. Il valore immateriale di una vita bella, il valore immateriale della liberazione della vita dal tempo lavoro, con una diversa valutazione e condivisione dei beni comuni.
Il prezzo da pagare per questa rivoluzione pacifica sarà pesante solo per i nostri ceti politici, che hanno vissuto fino ad ora sull'ideologia dello sviluppo dell'indebitamento e della corruzione. Quei tempi sono finiti, è ora di rendercene conto e non deve stupirci che la nostra università si trasferisca a Marinaleda e i primi nostri visiting professors siano persone come Elvira Corona che senza aspettare contratti da nessuno vi sono già andate diverse volte per il puro piacere di studiare, di conoscere e di raccontare.
Maurizio Torrealta
direttore di Left
Introduzione
Questo lavoro è frutto di più viaggi in Spagna, uno a ottobre 2012, uno a marzo e l'ultimo nel maggio 2013. L'idea iniziale era quella di raccontare Marinaleda, comune andaluso di 2800 anime a un centinaio di chilometri da Siviglia. Nei mesi che hanno preceduto il primo viaggio la lettura di alcuni articoli su questo paesino mi aveva incuriosito al punto da decidere di visitarlo, provare ad incontrare il sindaco e fare qualche intervista agli abitanti. Da alcuni giornali viene descritto come un enclave dove tutto funziona, dove tutti lavorano e dove tutti hanno una casa, da altri come una piccola Cuba con un sindaco che concentra tutto il potere su di sé. La maggior parte sembra propendere per una sorta di città del sole o di utopia contemporanea, e ai tempi della crisi ha attirato l'attenzione mediatica anche se in realtà le cronache iniziano più di trent'anni fa. Marinaleda si fa conoscere ai più per uno storico sciopero della fame nell'agosto del 1980 e successivamente per le occupazioni di terra incolta.
Nei mesi tra un viaggio e l'altro mi sono però resa conto che Marinaleda è solo una delle esperienze alternative in Andalusia. In realtà altre occupazioni di terre si sono succedute, sopratutto nell'ultimo anno. Senza dubbio Marinaleda è stata di ispirazione, anche perché il suo sindaco è anche uno dei dirigenti del SAT (il sindacato andaluso dei lavoratori) e siede nella Junta de Andalucia con i voti del CUT BAI (Colectivo de Unidad de los Trabajadores – Bloque Andaluz de Izquierdas). Tutte le esperienze di occupazione di terre hanno lo slogan più che mai attuale che era di Emiliano Zapata la terra a chi la lavora
. Occupare è diventato un modo per rispondere a una situazione di disagio per la mancanza di risposte, ci si rende conto che manifestare non è più sufficiente, non serve e non porta a soluzioni concrete. L'occupazione mette invece le istituzioni davanti al fatto compiuto, porta anche alla soluzione dei problemi, non tutti certo, ma quelli più immediati sì. I disoccupati chiedono terra da coltivare in una zona d'Europa dove la riforma agraria risale al 1932, per questo ancora oggi il 2% dei proprietari terrieri possiede il 50% delle terre andaluse. Ma c'è di più, oggi si sta svendendo la terra pubblica alle multinazionali che stanno tentando di accaparrarsela perché una tra le più fertili. Dal 2008 quando è iniziata la crisi, le multinazionali hanno ripreso a comprare grandi appezzamenti di terre per poter controllare quello che è il grande buisness dell'agroalimentare. Come denuncia La Via Campesina nel suo ultimo rapporto del coordinamento europeo, la concentrazione e l’accaparramento di terre non avviene solo nei paesi in via di sviluppo, questi due fenomeni si verificano oggi anche in Europa. Nel documento si mostrano anche le varie implicazioni che possono avere il sistema delle sovvenzioni e le altre misure della PAC, la politica agricola comune. Secondo la Via Campesina il 3% dei proprietari terrieri sono giunti a controllare la metà delle terre coltivabili di tutto il continente europeo. In Spagna