La rivolta dei cittadini gladiatori
By Aquilino
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La rivolta dei cittadini gladiatori - Aquilino
show
Trace
Ti pare che ti lascio uscire vestito così?
Mi pare sì.
Tu non vai da nessuna parte.
Scostati, Emma, che non è il momento.
Il momento di che cosa?
Di dirmi che cosa devo o non devo fare. Basta. Non me lo dice più nessuno.
Io sono tua moglie.
Scostati, Emma.
Ci sono i tuoi figli, di là.
Come se l’avesse toccato con la corrente elettrica. Un lampo negli occhi. Le labbra strette, i muscoli tesi. Le labbra tanto strette perché dice a sé stesso: basta parole. Lei gli si attacca al braccio. Lui la spinge da parte, con forza. Lei resiste. E lui le fa perdere l’equilibrio e la butta a terra, poi esce sul ballatoio e svelto giù dalle scale, sembra che voli.
Un volo sghembo, di corvo con l’ala ferita. Emma dietro: no no no. Sente i suoi passi come un respiro di moribondo. Tu non vai. Ma lui vola giù, chi lo ferma?
A pianterreno incontra la signora anziana del primo piano, quella che ci mette quindici minuti a fare le due rampe di scale e che ha detto all’amministratore: tutti ce l’hanno un ascensore, tutti meno noi. Si blocca intimorita e fissa perplessa e diffidente l’uomo che le passa davanti in affanno. Lo riconosce, è quello del quarto piano con la moglie gentile che le porta sempre su la spesa. Ma è il modo di vestirsi? Ha voglia ancora di divertirsi a fare le mascherate, con la miseria che si affaccia da ogni porta? Non l’hanno licenziato anche lui, che vengono le signore della San Vincenzo a portare un po’ di carità?
Emma si ferma senza fiato, scuote il capo, un nodo in gola grosso come l’incubo che sovrasta la famiglia. Sa dove va il suo uomo, e che cosa va a fare. Sa che la loro vita s’interrompe lì, sull’asfalto del parcheggio che si scioglie e si appiccica agli pneumatici e alle suole dei sandaletti dei figli. I figli. Sa che la vita dei figli così com’era finisce lì, con la sagoma del papà vestito da gladiatore che si fa sempre più piccola in direzione della metropolitana.
Sa dove va e che cosa va a fare.
Una cosa maledetta.
Sa che non torna più.
E lei lì, perché lì ci sono i bambini. Risale lenta. Raggiunge l’anziana che si è fermata per aspettarla, le prende il sacchetto che contiene pochi involti, insieme fanno le scale come se non salissero, ma scendessero giù, all’inferno.
Ma dove va suo marito conciato così?
Non sa che cosa rispondere e non ha voglia di rispondere, e nemmeno può, un singhiozzo che è un sasso in gola non va né su né giù. È il momento di piangere, ma lei non può. Si limita a un sospiro. Deve finire di stirare la roba dei bambini. Su con loro c’è Pinuccia, la sua amica. L’aspetta con gli occhi sbarrati: è andato?
È andato, addio.
Cena con Spartaco
E non è la prima volta che glielo dico.
Giulia, renditi conto, sarai sua amica, ma quando loro…
Per l’ennesima volta mia sorella si rabbuia, fa l’occhio cattivo, mi liquida con una smorfia che incorona la mia piccineria: gli amici sono sacri, e gli ospiti anche. Loro sono Francesca e Roberto, baby pensionata lei e dirigente lui di una delle società misteriose che hanno a che fare con l’import-export, lo sfruttamento del lavoro minorile, l’evasione fiscale e la corruzione. Belli, arroganti, benestanti. E anche razzisti e ignoranti. Cose che devo tenere per me; lo sforzo della dissimulazione mi fa il dente ancora più avvelenato; e questo non mi piace.
Le prime volte mi sono detto: ma sì, tutti i giorni ho a che fare con gente così, due ore di cena passano in fretta, ho imparato a non reagire alle provocazioni, so fingere di non avere sentito, e so anche sorridere ipocrita.
Non è facile, però. Di mestiere faccio il regista di teatro. C’è chi pensa: teatro, finzione, faccia di bronzo… Invece il teatro è il luogo della verità anche quando è spiacevole. Sono stimato, lavoro con continuità, ma certo non mi posso considerare ricco. Un mestiere che non è una professione seria, mi ha detto una sera Roberto. Tu ti diverti, giochi, mi ha detto, ma il lavoro è un’altra cosa. Facessi il cinema di cassetta… (è un esperto di cinepanettoni). Il teatro è da morti di fame. Le due volte che ci è andato, si è annoiato a morte. Nemmeno una gag
è stato il suo commento.
Una cenetta informale
mi blandisce Giulia. La pasta con le zucchine che ti piace.
Quella con tanto pecorino; che poi m’ingrassa e mi fa bere vino; e se bevo sciolgo la lingua; e Roberto gode perché più parlo più mi attacca; e mi spinge in difesa, dato che non posso litigare per via della maledetta amicizia tra Giulia e Francesca. Francesca la cinica. Quando annegano i migranti: Nemmeno a nuotare gli insegnano?
Io non ci resto solo male. Mi sento rimescolare dentro. Umiliato. Le mie convinzioni, i miei valori (ci ho messo quarant’anni a collezionarli, scelti uno per uno con rigetti conflittuali) e perfino le cose belle della vita, il teatro per esempio, tutto scaraventato in un pentolone di derisione e disprezzo. Quante volte ho sentito in me l’indignazione armare il pugno e tendere i muscoli per farmi scattare! E dopo? Dopo con Giulia è un disastro.
Non mi resta che fare il coniglio bastonato.
E poi di fronte a mio figlio Michele (undici anni) non mi lascio andare a gesti aggressivi; nemmeno alzo la voce, quando c’è lui. Michele se lo merita. Sindrome di Down. Anche Giulia, per fortuna, lo adora. Mi sono spaventato, alla nascita. Poi lui ci ha conquistati, poi si fa l’abitudine a tutto, poi ogni bambino è unico e gran parte delle cose lette sui down bisogna rivederle di fronte a lui e alla sua storia. Un down di undici anni vale come un normodotato di cinque, scrivono gli esperti. La domanda è: fino a che punto un bambino è misurabile? Ho smesso di preoccuparmi delle tabelle di crescita alcuni anni fa, svegliandomi dall’incubo di genitore perfezionista per coltivare il sogno di fare il genitore e basta, attento al benessere e non al Q.I.
A un certo punto, però, mi sono ritrovato solo. La madre di Michele non se l’è più sentita di stare con un uomo con il quale da tempo c’era solo un tepore fastidioso da scialletto senile. Non ha abbandonato Michele, ne sono certo, ha solo trovato il vero amore
e l’ha seguito in Cina dove dirige un’azienda di materiale sportivo. Giulia si è fatta subito avanti. Giulia la sfortunata. Sterile e vedova. Venendo ad abitare con noi si è sentita un poco moglie (e anche badante) e un poco madre (e anche sorella maggiore).
Michele è Michele. È unico, tanto semplice nella verità dello sguardo e tanto complesso nel labirinto dell’anima che o lo si prende con affetto e basta o si avvia un percorso di paranoia e nevrosi.
Quest’anno ha cambiato scuola. Ha lasciato le maestre con abbracci intensi, ma senza lacrime. Per giorni abbiamo discusso di perdite e distacchi. Ora ha quasi concluso il primo anno di scuola media e siamo stati fortunati. Gli insegnanti, con qualche trascurabile eccezione, gli sono stati vicini senza farne un caso. Michele fa sport, ha molti amici, partecipa a feste, impara parolacce che lo fanno ridere.
Viene Alessio?
"Sì, ma non sei obbligato a giocare con lui.