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Il liberale qualunque
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Il liberale qualunque

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Il libro di Chiarenza, giovane liberale che ha appena compiuto ottant’anni, è costituito da un dialogo tra l’autore e diversi anonimi ma reali “discussants” i quali attraverso le loro domande orientano i punti focali di un ampio dibattito sui problemi del liberalismo contemporaneo. Il libro inizia quindi analizzando abitudini, resistenze culturali, pregiudizi che caratterizzano i comportamenti degli italiani, e nel farlo tratta i diversi aspetti della politica e dell’economia, nella loro attualità e negli obiettivi che i liberali dovrebbero proporsi. Ma poiché ogni popolo non vive isolato in se stesso ma si misura necessariamente con la storia e la cultura delle altre società con cui entra in contatto, “il liberale qualunque” esplora i luoghi politici internazionali con i quali la sua cultura deve oggi confrontarsi. La parte finale del libro è dedicata a una lettura sintetica del liberalismo, inteso non come filosofia politica ma come il “dover essere” di un liberale dei nostri tempi. Una sintetica bibliografia ragionata conclude l’opera che, in qualche modo, va considerata una rassegna del pensiero politico dell’autore come si è formato in un lungo percorso non ancora concluso.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 20, 2015
ISBN9788891172372
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    Il liberale qualunque - Franco Chiarenza

    contemporanea.

    Parte prima – Chi è liberale (qualunque) e chi non lo è

    I – conformismo

    - La prima domanda che ci siamo posti e che le poniamo è: cosa dobbiamo intendere per liberali?

    - Capisco perché sia la prima domanda, ma purtroppo la risposta la troverete soltanto alla fine di questa lunga intervista, e non sono sicuro che la considererete esauriente. Posso intanto però fornire qualche indizio per riconoscere i liberali, a prescindere dalle dichiarazioni di appartenenza di cui è bene non fidarsi troppo. Forse conviene cominciare cercando di comprendere chi certamente non lo è, come, per esempio, i conformisti e i retori ingannatori. I conformisti sono tutti coloro che invece di pensare – e soprattutto di decidere – con la propria testa, fanno semplicemente come gli altri; rinunciano cioè alla propria autonomia di giudizio per rimettersi a quello che fa la massa o quanto meno si allineano acriticamente ai comportamenti di coloro che ritengono loro simili (per origine, per interessi, per identità territoriale, per convinzioni politiche o religiose, e quant’altro), come fanno gli animali quando si riuniscono in branco. Il conformismo nasce dall’insicurezza e dalla pigrizia. Quando non si è convinti delle proprie idee ci si rifugia in quelle degli altri, ci si conforma al loro pensiero, e talvolta nel farlo se ne danno interpretazioni talmente oltranziste da non essere riconosciute nemmeno dai loro ispiratori.

    Non essere conformisti è faticoso, richiede verifiche, confronti, disponibilità ad azzerare certezze che sembravano acquisite. Il rifugio dei conformisti è la retorica, cioè la ripetizione di concetti apparentemente incontestabili in cui nascondere scelte non sempre confessabili. Per esempio: cosa vuol dire desiderare la pace? Chi non la desidera? Anche coloro che fanno la guerra dicono di essere costretti a combattere per ottenere finalmente la pace (lo dissero pure Mussolini e Hitler). Gli antichi romani imposero la pax romana attraverso una serie interminabile di guerre. Il problema quindi non è l’evocazione retorica della pace, ma come garantirla, con quali strumenti, in funzione di quali modelli di convivenza civile; il che comporta approfondimenti e distinzioni ben diversi dalla genericità degli slogan ripetuti da pacifisti ingenui o in mala fede. Oppure: viva la giustizia! (ma quale giustizia ?). E così via per altri concetti generici privilegiati dalla retorica: l’uguaglianza, la sicurezza, il lavoro, ecc. Spesso anche la libertà finisce nel calderone dei luoghi comuni che riempiono il fiume inarrestabile della retorica. Dobbiamo sempre chiederci: di quale libertà parliamo?

    - Il conformismo tuttavia fa parte dei comportamenti quotidiani di tantissime persone anche al di fuori della politica; esso attiene alla personalità di ciascuno piuttosto che alla fermezza delle convinzioni.

    - E’ vero. Il conformismo è una forma di debolezza caratteriale e per questo si manifesta inizialmente nei comportamenti adolescenziali; ragazzi e ragazze cercano confusamente idoli e personaggi su cui modellare la propria personalità, operando le proprie scelte in un caotico mix di rifiuti generazionali, incapacità di autonomia di giudizio, adeguamento passivo alle tendenze di gruppo al cui interno soltanto trovano un minimo di sicurezza. Poi, di solito, superati i turbamenti adolescenziali, si acquista una capacità individuale di decisione, una più chiara visione delle opzioni possibili e ci si confronta con la realtà concreta, con le possibilità di lavoro e di insediamento sociale imposte dalla vita. Anche se non mancano coloro che, ormai adulti, restano eterni adolescenti, rifiutano la crescita e le responsabilità, cercano scorciatoie, vorrebbero che la montagna si abbassasse al loro livello per evitare la fatica di doverla scalare. Non essendo responsabili con se stessi non potranno mai esserlo con gli altri e quindi difficilmente potranno costituire una classe dirigente affidabile.

    - Dobbiamo quindi considerare il conformismo come la prima dimostrazione di non essere liberali?

    - Sì, e infatti raramente i giovani sono liberali e non a caso l’estremizzazione delle convinzioni rappresenta sovente un momento necessario della loro crescita. Quando di questo si tratta, poco male; è un punto di passaggio comprensibile. Diverso il caso quando il processo di maturazione si arresta, per i più diversi motivi, e il fanatismo prende il posto del ragionamento e si preferisce eliminare piuttosto che convincere chi la pensa diversamente. Credere, obbedire, combattere non è soltanto lo slogan demenziale che ha caratterizzato l’estremismo fascista, è anche la perfetta sintesi del modus operandi di chi decide di rinunciare alla propria autonomia intellettuale per conferire il proprio cervello all’ammasso del conformismo.

    - Esiste anche un conformismo liberale?

    - Da qualche tempo purtroppo tutti si dicono liberali, e anche questo rappresenta una evidente dimostrazione di conformismo. Alcuni hanno pensato al liberalismo come a una bibbia da sostituire ad altre che la storia aveva dimostrato inaffidabili, senza sapere che esso in realtà non ha testi sacri; un liberale non è mai in cerca della verità assoluta, si limita a verificare tante parziali verità contingenti, sempre disposto a rimetterle in discussione. Per essere liberali occorre soprattutto sapere ascoltare, e poi parlare tenendo conto di ciò che si è sentito. Molti invece fingono di ascoltare ma in realtà considerano il dialogo soltanto un'occasione per svolgere un soliloquio, come accade nei finti dibattiti di cui è piena la nostra televisione: comizi contrapposti, dialoghi tra sordi, che non fanno parte del costume liberale e che si alimentano di luoghi comuni. Anche le banalità possono avere diversa accoglienza, dipende da chi le dice: se si è personaggi importanti (o ritenuti tali) tutti le ascolteranno con rispetto, se non si è nessuno le stesse sciocchezze serviranno soltanto ad attribuirgli la patente di cretino.

    - Il conformismo politico è in qualche modo connesso con l’avvento e il consolidamento dei regimi autoritari?

    − Certamente. Consiglio a chi non lo conosce di leggere il capolavoro di George Orwell La fattoria degli animali, una satira amara sulle conseguenze del conformismo che non ha mai perso di attualità. Ma il conformismo è anche un nemico insidioso delle democrazie. Andare controcorrente rappresenta in molti casi un rischio che non tutti sono disposti a correre, e se non si fa attenzione, se qualcuno non avverte in tempo del pericolo, il conformismo può soffocare anche la migliore delle democrazie; come ci insegna Hannah Arendt, grande intellettuale ebrea uscita dal coro durante il processo instaurato dagli israeliani contro Eichmann.

    Il conformismo della parte più incolta della società è comprensibile. Ma in realtà il fenomeno riguarda anche il mondo della cultura che dovrebbe esserne esente. O questa nostra percezione è infondata?

    − Purtroppo il conformismo è largamente presente nel mondo degli intellettuali, i quali invece dovrebbero essere anti-conformisti per definizione, essendo la loro funzione sociale quella di dimostrare la propria libertà di coscienza sfidando le certezze acquisite e proponendosi come il sale che dà sapore alla vita quotidiana. Troppi maitre à penser, soprattutto italiani, si sono attribuiti il ruolo di custodi delle diverse ideologie, ripetendo male idee altrui invece di produrne di nuove; un vero intellettuale è completamente indipendente, contrario all’uso strumentale della cultura in funzione di schieramenti politici o di convinzioni ideologiche e religiose. Quelli che firmano manifesti a ogni piè sospinto sono illiberali per vocazione, hanno bisogno di schierarsi e di esibirsi, temono il silenzio e la riservatezza dei veri uomini di cultura. I manifesti segnano momenti solenni della storia della libertà quando la loro sottoscrizione comporta una sfida rischiosa per la propria esistenza, quando per esempio la democrazia sta per essere soppressa, come avvenne col manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce e Giovanni Amendola nel 1925.

    Se le cose stanno così bisogna rassegnarci al conformismo come un fenomeno inevitabile.

    − Il conformismo esisterà sempre, anche perché si coniuga bene con la pigrizia intellettuale (e, nei casi peggiori, con calcoli di convenienza). L’unico rimedio è non farsene coinvolgere e mantenere vigile lo spirito critico. Anche quando, con l’imperare dei mezzi di comunicazione di massa tendenzialmente omogeneizzanti, l’impresa non è facile. In questo contesto di vigilanza critica si pone il problema del cosiddetto politically correct, che per molti aspetti può essere considerato una forma di conformismo verniciato da una presunta rispettabilità.

    Cosa si intende, al di là della sua traduzione letterale, per politically correct?

    − Il concetto di correttezza politica, se interpretato nel senso di un’adozione acritica di opinioni e di atteggiamenti imposti da una èlite come parametri di credibilità, altro non è che la versione moderna di vecchie ipocrisie derivate da conformismi religiosi e ideologici. Il politically correct finisce così per generare modi di comportamento, valutazioni politiche e persino revisioni linguistiche che corrispondano al potere di legittimazione che alcuni gruppi di intellettuali si sono arrogati. Ne abbiamo una prova quando per esempio – come avviene da qualche tempo – esso si traduce in accanimenti puramente terminologici, linguistici, con eccessi che rasentano il ridicolo. Gli spazzini sono diventati operatori ecologici, i secondini agenti di custodia, i pompieri vigili del fuoco, i disabili diversamente abili, ecc.. Ma – come ha scritto crudamente Salvatore Carrubba – il punto non è come chiamiamo il prossimo, ma come lo trattiamo: essere rispettosi col cieco non significa, come reputa il conformista, definirlo ‘non vedente’, ma nel mantenergli il cammino libero da auto e mondo da cacche.. Qualche volta il politically correct altro non è che un'ambiguità di linguaggio che maschera le reali convinzioni ideologiche: si comincia con un'affermazione generica ampiamente condivisibile (la scuola deve consentire ai più meritevoli di emergere), per poi condizionarla (a patto che non si trasformi in uno strumento di selezione) e concluderla rovesciando sostanzialmente l'affermazione iniziale (che neghi il principio di uguaglianza costituzionalmente garantito). Il gioco è fatto: partendo dall'accettazione della meritocrazia si chiude poi la bocca a quanti intendono concretamente realizzarla. Ma è solo un esempio: di usi scorretti di affermazioni politicamente corrette è pieno il linguaggio dei politici nostrani, soprattutto quando si rivolgono al pubblico televisivo.

    La parità di genere, interpretata in modo rigido come spesso la intendono e la promuovono ambienti politicamente corretti prevalentemente di sinistra (ma non soltanto) rientra tra gli slogan retorici di cui abbiamo detto in precedenza o rappresenta invece un’esigenza reale in un paese, come il nostro, dove l’affermazione politica e sociale del genere femminile appare in grande ritardo?

    − Il fatto indiscutibile che l’obiettivo di pervenire a una concreta parità tra i sessi nelle istituzioni e in generale nella società sia giusto, non significa, in questo come in altri casi, che il problema debba e possa essere risolto a colpi di leggi e di decreti. Mi rendo conto di quanto politicamente scorretta possa essere considerata questa affermazione ma resto convinto che l’idea di proteggere fasce di popolazione considerate deboli stabilendo quote obbligatorie nelle assunzioni, nella rappresentanza politica, nei consigli d’amministrazione e persino nella concessione di borse di studio e fondi di ricerca, è balzana prima che illiberale. Non serve a correggere le differenti posizioni di partenza e rischia di limitare ulteriormente il principio del merito (e della sua valutazione). Se io fossi donna non mi piacerebbe sapere che il mio status (professionale, politico, ecc.) dipende non dalle mie capacità ma perché bisognava riempire una quota rosa. Occorre invece affrontare all’origine le ragioni per cui alcune parti della popolazione sono poco rappresentate negli assetti sociali più qualificati, e cercare di rimuoverle. Per intenderci: fate più asili nido e vedrete che il numero delle donne impegnate nelle attività lavorative aumenterà ed esse troveranno soddisfazione in base al loro merito senza bisogno di quote. Se invece la base da cui selezionare l’offerta femminile di capacità professionali resterà limitata per oggettivi condizionamenti di carattere sociale ed economico (e forse anche per qualche resistenza culturale) dubito che il sistema delle quote risolverà il problema; mentre con esso si rischia concretamente di compiere delle scelte che, invece di rispondere al principio di competenza e di credibilità, sono dettate da logiche forse politicamente corrette ma non adeguate alle esigenze funzionali che dovrebbero assolvere.

                                 ===========

    Uno strano uso è invalso nel nostro Paese da qualche tempo: la diffusione, ormai incontenibile, del titolo di emerito a tutti coloro che fino a ieri erano semplicemente ex. Perfino il papa che ha rinunciato alla Cattedra è diventato papa emerito.

    − A quanto mi risulta si tratta di una novità tutta italiana che risponde bene alla tendenza diffusa nel nostro Paese di dare molta importanza alle forme e poca alla sostanza. Ex-presidenti, ex magistrati e molti altri sono diventati emeriti senza che nulla cambi nella loro sostanza di ex; una ridicolaggine anche dannosa perché oltre a creare confusione nelle persone meno informate e poco avvedute, può rappresentare un pessimo precedente; immaginate cosa accadrebbe se dai presidenti emeriti si passasse ai ministri emeriti, ai deputati e senatori emeriti, ai sindaci emeriti, ai procuratori emeriti, e via....emeritando !!! Chi ha inventato questa emerita sciocchezza certamente non era romano; nel dialetto romanesco è frequente l’appellativo di emerito accompagnato ironicamente a un insulto (è un emerito coglione, ecc.) spesso abbreviato in un semplice è un emerito!. E’ sempre un po’ umiliante spiegare agli stranieri che i nostri presidenti emeriti non si chiamano così perché particolarmente insigni, ma soltanto perché presidenti non lo sono più. Sorridono garbatamente: delle stranezze italiane non si stupiscono più.

    I soli per i quali il titolo di emerito ha un preciso significato, consolidato da antiche tradizioni, sono quei docenti universitari che hanno lasciato l’insegnamento ma che per la considerazione e il prestigio di cui godono vengono ancora saltuariamente ricercati e utilizzati per qualche funzione accademica onoraria. Il termine è utilizzato anche per i vescovi che non esercitano più le loro funzioni, ma in questo caso la motivazione è dottrinale perché i vescovi sono consacrati a vita e, salvo casi eccezionali, non perdono mai la loro investitura religiosa; il che ne giustifica, almeno in parte, l’attribuzione al pontefice dimissionario per la sua qualifica di vescovo di Roma.

    D’altronde il nostro è il Paese in cui le qualifiche pro-tempore tendono a divenire permanenti; la metà degli italiani è presidente o ex-presidente di qualcosa e ciò li autorizza a fregiarsi del titolo presidenziale per tutta la vita. Se poi sia stato presidente di una cooperativa o di un consiglio regionale resta sempre da scoprire. L’altra metà è professore con lo stesso criterio estensivo. I parcheggiatori abusivi si sono già aggiornati: se vogliono esprimere la loro considerazione vi chiamano ingegnere (presumendo che siano ancora pochi) oppure professore; l’appellativo di dottore è decaduto quasi a livello di insulto. D’altronde si tratta di un vizio antico; ai tempi di Giolitti si diceva che un sigaro e una croce di cavaliere non si negano a nessuno e già nel 1918 Einaudi ironizzava su questa mania tutta italiana di esibire i titoli (a cominciare da quello di onorevole) confrontandola con la sobrietà prevalente altrove.

    Un nuovo singolare conformismo diffuso nell’opinione pubblica occidentale è quello delle richieste di perdono: la Chiesa chiede perdono per l’Inquisizione, per Galilei, e quant’altro; l’Italia chiede perdono per l’occupazione della Libia; gli Stati Uniti per il trattamento inflitto ai nativi indiani. Si tratta di gesti simbolici che hanno un profondo significato morale, come sostengono molti, o invece di una moda che lascia il tempo che trova?

    − Ogni pagina di storia sembra avere i suoi torti da farsi perdonare e questo lo sapevamo – ma ciò che colpisce è il modo retorico ed enfatico con cui questo perdonismo viene esercitato. Certo, i mass media hanno le loro esigenze: se i gesti non sono spettacolarizzati non vengono quasi percepiti. Non mi stupisco quindi degli eccessi retorici che accompagnano queste tardive domande di perdono, ma per ciò che riguarda la sostanza della questione ritengo che il perdono non dovrebbe essere motivato da considerazioni politiche, quasi si trattasse di una correzione della storia per farla rientrare nei canoni odierni del politically correct. La condanna di Galilei non è stato un incidente della storia del cristianesimo, al contrario era perfettamente coerente con la dottrina cattolica, per cui il cardinale Bellarmino non avrebbe nulla di cui pentirsi. Lo sterminio degli ebrei non è stato una degenerazione del nazismo, ma il suo sbocco obbligato. Lo stesso discorso vale per il colonialismo, per lo schiavismo, fenomeni che presupponevano una concezione della civiltà occidentale e della superiorità (anche razziale) dei popoli europei largamente condivisa (anche da eminenti liberali) e da cui i protagonisti di allora si sentivano perfettamente legittimati. Il perdono va riferito ai comportamenti individuali e riguarda le colpe personali non quelle dei propri antenati, familiari, nazionali o religiosi; è una facoltà da esercitarsi senza esibizioni e che comunque non sempre assolve dalla responsabilità dei fatti contestati. Per i liberali il perdono non cancella il peccato. Insomma, guardiamoci da questi perdoni, spettacolari quanto inutili; potrebbero rappresentare un modo per liberarsi in un colpo solo di vestiti vecchi non più presentabili. Il problema è di capire se quelli nuovi, al di là delle apparenze, sono diversi nella sostanza.

    - A proposito di vestiti vecchi e nuovi, uno dei luoghi comuni più diffusi è che gli italiani sono fatti in un certo modo e che quindi sia impossibile cambiarli; convinzione profonda che ha sempre alimentato le diverse forme di qualunquismo che si sono succedute nel Paese.

    - Premesso che gli italiani in generale non esistono perché ci sono italiani intelligenti e stupidi, colti e ignoranti, superficiali e seri, attivi e pigri, come in tutte le comunità, e che possiamo rilevare tutt'al più attitudini caratteriali prevalenti che derivano dalla storia, dalla cultura dominante, dalla tradizione, come avviene in ogni altra nazione, la domanda è se il certo modo in cui ci riconosciamo è compatibile con una cultura liberale, e la risposta non è facile. Io penso che molti nostri connazionali siano tendenzialmente complicati, spesso tortuosi nel tentativo di conciliare sempre gli opposti; Ennio Flaiano diceva che l’Italia è il paese dove la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Questa caratteristica deriva – credo – dalla sua storia, tanto diversa da luogo a luogo eppure tanto uguale perché sempre caratterizzata (almeno da un certo momento in poi) da una condizione di dipendenza che ha costretto i suoi abitanti a sommergersi per resistere a un potere non soltanto indifferente rispetto ai loro reali interessi ma spesso anche accompagnato da rigidità ideologiche e religiose che calavano su di loro come una cappa di piombo. Così, per superare le intollerabili costrizioni cui sono stati sottoposti, molti italiani hanno imparato, piuttosto che opporsi apertamente, ad aggirare prescrizioni e divieti svuotandoli di contenuto. La fama di ambiguità e inaffidabilità che spesso ci accompagna è dovuta probabilmente a questa antica strategia difensiva che metteva al primo posto la propria salvaguardia personale. Osservava Goethe, sconsolato, al termine del suo viaggio in Italia due secoli addietro: qui c'è vita, animazione, non ordine e disciplina; ciascuno pensa solo a sé e diffida degli altri, e i reggitori dello Stato, anche loro, pensano a sé soli..

    Sorge spontanea a questo punto una domanda: come vedono gli italiani se stessi? Le poche ricerche realizzate per tentare una risposta sembrano convergere sul fatto che ci vediamo migliori di quello che siamo.

    Al di là di una generica propensione a ironizzare sui difetti più evidenti (spesso poco più che luoghi comuni) gli italiani sono complessivamente molto soddisfatti di sé e si considerano superiori (non in senso razziale) a molti altri popoli. Sono convinti di essere mediamente più colti, ma i dati ci dicono che un italiano su tre non è in grado di comprendere il senso di una frase poco più che banale; ritengono di essere informati, ma leggono meno che in qualsiasi altro paese industrialmente avanzato; affermano che è giusto pagare le tasse, ma non le pagano ogni qualvolta è possibile; credono di essere democratici perché vanno a votare, ma si scopre che l’80 per cento non si preoccupa dei problemi politici ed economici tra un’elezione e l’altra. In generale hanno una percezione di sé stessi sopravalutata e si vedono quindi come vorrebbero essere invece di come sono in realtà. Se ne potrebbe sorridere se questo eccesso di autostima non comportasse una grave conseguenza: l’incapacità di sottoporsi a un’autentica autocritica. Quando i fatti diventano evidenti e costringono gli italiani a chiedersi perché troppe cose non vadano per il verso giusto, la colpa è sempre di altri.

    II - sentimenti

    La politica non è fatta soltanto di scelte razionali. I sentimenti hanno sempre svolto un ruolo importante nella storia e lo stesso concetto di libertà può essere considerato un nobile sentimento. Che rapporto c’è tra sentimenti e liberalismo?

    I sentimenti sono stati uno dei motori della storia (l’altro è rappresentato dagli interessi). Ma l’argomento è delicato perché se è vero che non c’è storia senza sentimenti collettivi, è altrettanto certo che non c’è nella storia negazione della libertà che non utilizzi e strumentalizzi i sentimenti (politici o religiosi che siano).

    Cosa intendiamo per sentimenti? Se con questo termine si definiscono persuasioni e comportamenti non razionali derivati da attrazioni che prescindono da qualsiasi motivazione logica, il loro rapporto con la politica è abbastanza chiaro: si tratta di emozioni (talvolta collettive) provocate da eventi di varia natura e che spesso la politica utilizza a proprio vantaggio. Se invece per sentimento intendiamo le simpatie politiche o sociali, come quando si dice di una persona che ha sentimenti socialisti o cattolici, ciò significa soltanto che la sua adesione al socialismo o al cattolicesimo non è fondata tanto su una motivazione razionale quanto piuttosto su altre ragioni (per esempio tradizioni familiari, ambiente sociale o territoriale di riferimento, ecc.), come spesso accade. In tale significato possiamo anche parlare di sentimenti liberali quando all’amore per la libertà, pur genericamente inteso, si sacrificano considerazioni di opportunità e di prudenza, fino talvolta al sacrificio della vita. Il pensiero corre allo studente Jan Palach che si brucia vivo a Praga per protestare contro l'occupazione sovietica, o al giovane che fronteggia i carri armati nelle manifestazioni cinesi di piazza Tien An Men. O, per restare nel nostro Paese, ai martiri del Risorgimento e della Resistenza che hanno affrontato la morte rivendicando il diritto degli italiani alla loro libertà, contribuendo col loro sacrificio volontario a rafforzare le radici liberali della Nazione.

    Il cosiddetto populismo non deriva anch’esso da sentimenti diffusi? Eppure viene sempre menzionato con una connotazione negativa.

    I sentimenti possono risultare dannosi per un corretto svolgimento della dialettica politica quando, nella vita pubblica come in quella privata, vengono lasciati a sé stessi e non temperati da convinzioni razionali. Il fenomeno politico ricorrente che chiamiamo populismo, per esempio, fa spesso leva su sentimenti elementari che non richiedono ragionamenti complessi e si prestano a semplificazioni quasi sempre ingannevoli. Certi sentimenti come quello dell’amor di patria o della giustizia proletaria, conditi con appropriate simbologie emozionanti (bandiere, inni, marce, ecc.) sono stati spesso l’anticamera di regimi autoritari a destra come a sinistra. In questo senso i liberali non dovrebbero mai farsi sedurre dai sentimenti tenendo sempre dritta la barra della ragione; ma anche i liberali sono uomini, e come tali esposti talvolta a suggestioni irragionevoli ed emotive.

    - D’altronde si può vivere senza sentimenti? L'amore, l’amicizia, la paura, l’orgoglio, sono sentimenti forti da cui non si può prescindere.

    - Viene in mente la battuta di un personaggio di un film di Woody Allen: Il mio cuore e il mio cervello non vanno molto d'accordo. Non si danno nemmeno del tu. Per la vita degli uomini i sentimenti rappresentano un momento non eludibile anche quando sappiamo che essi rischiano di appannare o alterare la realtà. Lo vediamo con l’innamoramento: cosa sarebbe la vita senza quella follia calcolata che è l’amore? Anche in politica una certa dose di sentimenti irrazionali è inevitabile; l’importante è che non superi il livello di guardia e che il momento del disincanto per reazione non provochi danni equivalenti a quelli dell’innamoramento: i divorzi in politica possono produrre frutti avvelenati anche peggiori dei matrimoni falliti. L'antidoto dei liberali consiste nelle pause di riflessione, nel far scorrere il tempo necessario per meglio distinguere tra emozioni legittime e reazioni pericolose, una sorta di filtro di decantazione da attivare prima di porre in essere azioni politiche, ricordando quanto diceva Alexander Hamilton due secoli fa: gli uomini spesso si oppongono a qualcosa soltanto perché non è stata proposta da loro, ovvero perché è stata proposta da persone che essi non amano.

    - Qual è il rapporto tra carisma, leadership e sentimenti?

    - Si parla di leadership carismatica quando un esponente politico riesce ad assicurarsi un’adesione profonda e irrazionale, la quale quasi sempre suscita per reazione un odio opposto e contrario, altrettanto insensato. Se il sentimento prevale sul ragionamento possono verificarsi distorsioni pericolose che mettono a rischio gli equilibri democratici; si determina infatti un antagonismo oltranzista per il quale tutto ciò che può favorire il nemico è da rifiutare, a prescindere da una obiettiva considerazione dei contenuti, perché la regola del "cui prodest" prevale su ogni ricerca della verità. Gli antagonisti – ha scritto il sociologo Giuseppe De Rita – sono una forza della natura: sono pervicacemente convinti di avere ragione, esprimono un’intenzionalità fuori misura, chiamano allo schieramento senza se e senza ma, coltivano il gusto dell’inimicizia, qualche volta aspirano alla distruzione dell’odiato nemico.

    - E’ possibile immaginare una leadership, anche carismatica, più razionale che sentimentale?

    - Certamente sì. Si tratta però di un carisma che si forma inizialmente sul consenso di ceti ristretti (intellettuali, militari, politici, economici) e da questi viene poi riversato in forme semplificate su settori molto più ampi della società crescendo come cerchi concentrici sempre più larghi. Esempi? Cavour nel Risorgimento italiano, Giolitti nel primo decennio del XX secolo, Churchill nella seconda guerra mondiale, De Gaulle in Francia, De Gasperi da noi e, per certi versi, grandi imprenditori che hanno svolto un ruolo anche politico, come Gianni Agnelli. .

    - Quando si evoca il sentimento nazionale lo si fa di solito in un’accezione sostanzialmente positiva.

    - Se per sentimento nazionale intendiamo un forte senso di appartenenza al proprio paese che deriva dalle sue caratteristiche tradizionali, da una lingua comune, da comportamenti riconoscibili anche nella loro diversità, se produce un orgoglio non retorico delle proprie origini e se viene coniugato verso l’inclusione e non utilizzato per giustificare le esclusioni, possiamo considerarlo una componente essenziale dell’essere nazione. Insomma è come voler bene alla famiglia; anche quando ci si rende conto dei suoi difetti resta sempre una realtà da difendere; quello che gli inglesi hanno sintetizzato nel famoso motto right or wrong, that is my country.

    In molti paesi il sentimento nazionale esercita una funzione unificante, sana, corretta, liberale; basti riflettere all’esempio francese (la grandeur, su cui, talvolta anche giustamente, si ironizza), in cui esso ha svolto un ruolo determinante nell’accelerare la modernizzazione, coinvolgendo partiti e ceti sociali diversi e ottenendo risultati straordinari in settori cruciali come l’energia, i trasporti, le tecnologie informatiche, e realizzando opere pubbliche epocali come il tunnel sotto la Manica, il nuovo Louvre, la nuova biblioteca nazionale di Parigi e la costruzione di biblioteche e case della cultura che coprono tutto il territorio. Iniziative di cui i cittadini sono fieri e che l'opinione pubblica considera nazionali in quanto vantaggiose per l'intero sistema-Paese, senza remore e riserve di tipo localistico. L'Italia, a confronto, dà di sé l'immagine di un paese in crisi di identità, assediato da convenienze elettorali di basso profilo, incapace di immaginare progetti generosi che producano i loro effetti al di là della generazione che li ha decisi. Il che rende legittimo il dubbio che un sentimento nazionale esista ancora, e che comunque sia in grado di tradursi in una capacità di scelte e di priorità condivise per la loro valenza di interesse generale, a prescindere da chi le fa e da dove vengono realizzate

    - Eppure l'immagine dell'Italia, almeno osservata dall'estero, appare sostanzialmente unitaria: quando viaggiamo ci rendiamo conto che ci vedono come italiani, non come lombardi o siciliani.

    - E’ vero. La percezione che molti stranieri hanno di noi è fondamentalmente unitaria e per certi aspetti, legati soprattutto alla qualità della vita, è, malgrado tutto, positiva; come scrive Aldo Cazzullo ovunque avrete trovato persone che vorrebbero vivere come noi, adottare il nostro stile, vestirsi con i nostri vestiti, mangiare i nostri cibi, bere i nostri vini, comprare le nostre merci. Per questo, nonostante tutto, ci ritroviamo, quando dimentichiamo per un attimo le nostre beghe e le risse di sempre, più uniti, più simili, più legati all'idea di essere italiani, di quanto vogliamo ammettere; i campanili, le diversità municipali, lo sfottimento reciproco, fanno parte del nostro carattere, ma non sono mai stati incompatibili con l'amore di patria che ritroviamo sempre quando, in pace o in guerra, il calabrese si è trovato accanto al veneziano ed entrambi hanno fatto quanto era necessario per l'interesse nazionale, o per lo meno per ciò che in quel momento tale si intendeva. Credo che esista ancora – nonostante molte apparenze contrarie – un forte senso di appartenenza che emerge nei momenti di difficoltà, quando spontaneamente la maggioranza degli italiani si riconosce nel principio fondante delle XII tavole dell’antica Roma: Salus publica suprema lex esto. Quello che manca forse non è il sentimento nazionale ma una classe dirigente capace di interpretarlo correttamente.

    III - sessualità

    - La sessualità è troppo importante per non coinvolgere il modo di essere dei liberali; anche perché nel corso dei secoli essa ha interessato e caratterizzato religioni, filosofie e conseguentemente la legislazione. Vogliamo provare a fare il punto sulla questione?

    - I comportamenti sessuali rappresentano, ovviamente, una parte molto importante della vita di ciascuno di noi. Le religioni e le ideologie che si sono succedute nei secoli non sono mai state indifferenti rispetto ad essi e spesso sono intervenute a regolarli con prescrizioni quasi sempre finalizzate a obiettivi sociali. Nella civiltà greco-romana i costumi sessuali erano abbastanza liberi e il matrimonio aveva lo scopo di tutelare le parti deboli del rapporto (le donne e i figli) attraverso un contratto che vincolava le famiglie di origine; per questa ragione il legame coniugale era fondato sulla monogamia, ma poteva essere sciolto attraverso accordi tra le parti o sentenze dei giudici. Altre civiltà, come quella islamica (ma non solo) hanno consentito e spesso ancora permettono all’uomo di avere più mogli, ma impongono a suo carico obblighi di mantenimento e di tutela della famiglia allargata che ne risulta. Col sopravvenire del cristianesimo, anche per l’influenza determinante della tradizione biblica giudaica, le prescrizioni religiose (fatte proprie dal potere civile) hanno privilegiato la stabilità della famiglia, dando al matrimonio un significato sacrale che doveva rappresentare il suggello del presupposto contrattuale. Il cristianesimo però andò oltre le preoccupazioni di ordine sociale, introducendo una concezione morale per la quale l’astinenza sessuale assumeva un valore etico superiore (come dimostrano le diverse regole monastiche e religiose, considerate esemplari). In sostanza per il cristianesimo il sesso è peccato di per sé e, per converso, la castità è virtuosa e apre le porte del paradiso; gli scritti di Paolo di Tarso e di Agostino da Ippona sono in proposito inequivocabili. Le esigenze imprescindibili di riproduzione della specie hanno naturalmente costretto anche il cristianesimo a fare i conti con la sessualità, ma soltanto nei limiti in cui, nell’ambito di un matrimonio indissolubile, essa servisse a questo scopo; tanto è vero che anche all’interno del rapporto matrimoniale forme di erotismo diverse dalla copulazione erano considerate peccaminose. La questione è collegata con il concetto di peccato che non è possibile riassumere in poche parole; ricordiamo però che il peccato originale compiuto da Adamo ed Eva nella tradizione biblica si collega alla seduzione sessuale, e possiamo dire che l’idea dell’uomo peccatore per natura, destinato quindi all’inferno se non è in grado di affrancarsi dal peccato originale, ha prodotto in concreto una visione dell’esistenza in cui la sofferenza e il dolore (e quindi l’astinenza dal piacere anche sessuale) hanno avuto il significato di una rinuncia, di un sacrificio gradito a Dio, che avrebbe trovato il suo compenso dopo la morte (giudizio universale). Le ricadute politiche e sociali di questa concezione sono evidenti.

    Molti potrebbero osservare che trattare il tema della sessualità senza tenere conto dei sentimenti può apparire deviante; non è sull’amore che – da sempre – si regge il rapporto di convivenza?

    − Oggi può parere strano, ma in realtà amore e matrimonio sono sempre stati in passato cose distinte e separate, che naturalmente potevano coincidere (come di fatto spesso avveniva), però non necessariamente; Seneca nel II secolo ammoniva i giovani: non devi amare tua moglie come se fosse la tua amante. Solo con il romanticismo nel XIX secolo (e solo in parte) il sentimento amoroso si trasformò in un rapporto che doveva diventare definitivo attraverso il matrimonio, e tutte le testimonianze di quell’epoca stanno a dimostrare quanto questa novità fosse ostacolata e si scontrasse inesorabilmente con esigenze sociali considerate prioritarie; ancora oggi tutta la letteratura sentimentale – dai libri al cinema, dai rotocalchi alla televisione – si alimenta di questo conflitto romantico e passionale. Si devono certamente all’influenza della cultura liberale le trasformazioni di costume che hanno modificato il rapporto di convivenza nell’ultimo secolo: in particolare l’emancipazione femminile e la libertà di coscienza nelle questioni etiche e morali, da cui deriva l’idea che il matrimonio debba rappresentare la certificazione giuridica di un reciproco consenso. E quale miglior consenso di quello fondato sull'amore?

    Non risulta peraltro che i progenitori liberali si distinguessero in questa materia dalle comuni convenzioni sociali che scaturivano dalla morale cristiana.

    − E’ vero. I primi liberali che si sono occupati dell’argomento furono tutt’altro che libertini; al contrario, salvo qualche eccezione, furono sostenitori di una società ordinata e fondata sulla famiglia come quella tramandata dalla tradizione cristiana, nel cui ambito anche il problema del consenso appariva secondario. L’indissolubilità del matrimonio rappresentava una garanzia di stabilità sociale e la rigidità dell'obbligo di fedeltà veniva di fatto temperata da una diffusa tolleranza nei confronti dell’infedeltà maschile e della prostituzione femminile. La situazione è mutata soltanto nel XX secolo con le conquiste femminili della parità, con l’urbanizzazione e il venir meno del controllo sociale esercitato dal clero, con il miglioramento dei livelli di istruzione, con la diffusione di innovazioni tecnologiche (come i contraccettivi). Faremo un giorno un monumento al preservativo, strumento di liberazione sessuale (soprattutto delle donne) senza il quale molti cambiamenti non sarebbero stati possibili. Come scrive – con qualche esagerazione – il filosofo Umberto Galimberti grazie alla pillola anti-concezionale che ha permesso alla donna di mettere la testa fuori casa senza incresciose conseguenze, venuta meno la funzione obbligata di angelo del focolare, la famiglia si è rivoluzionata e "la potenza maschile, tradizionalmente riconosciuta dalla nostra cultura, si è tradotta in impotenza, in patetica rassegnazione, e in un’immagine di sé più consona a intraprendere itinerari depressivi piuttosto che performance di vitalità".

    Per coerenza ideologica i liberali sono favorevoli ad ogni trasformazione sociale che accresce la libertà individuale. Tuttavia molti si domandano se la libertà sessuale rappresenti sempre un fatto positivo e se la spregiudicatezza eccessiva, anche quando non si trasforma in comportamenti illeciti, non produca lo sfilacciamento di ogni senso morale.

    − Il fatto è che i cambiamenti non conoscono giudizi di valore assoluti; si sviluppano spesso in forme differenti dal previsto e non sempre le conseguenze sono quelle che avremmo voluto. Non vi è dubbio che col venir meno dell’obbligo dell’uomo di proteggere la famiglia verranno rimescolati i tradizionali ruoli di genere, anche per effetto della nuova posizione sociale delle donne; è inevitabile perciò che le occasioni di trasgressione aumentino. La famiglia già oggi nelle realtà metropolitane più avanzate rappresenta spesso niente di più che un rapporto di coesistenza accettato da entrambi i conviventi, all’interno del quale si regolano comportamenti e conflitti nella coppia e tra essa e i figli (e quanti altri partecipano alla coabitazione); la soddisfazione sessuale può prescinderne e ciò avverrà sempre più spesso. La regolarizzazione dei rapporti di coppia mediante il matrimonio mi pare ancora fondata su una reciproca convenienza, su una crescente domanda di sicurezza sociale, e si scioglie quando queste ragioni vengono meno. Si tratta di mutazioni quasi genetiche delle società (almeno di quelle più evolute) che si collegano al superamento definitivo dei ruoli di genere predeterminati.

    Il tema della sessualità porta inevitabilmente a prendere di petto la dibattuta questione della prostituzione, spesso definita il più vecchio mestiere del mondo. Come si pone la cultura liberale nei confronti di un fenomeno che, lungi dall’esaurirsi, sembra invece diffondersi sempre di più?

    − La prostituzione consiste – come è a tutti noto – nell’esercizio di prestazioni sessuali a pagamento. Può essere moralmente condannata, ma se è libera essa fa parte di quella più ampia libertà di disporre del proprio corpo che rientra tra i diritti individuali. Il problema sta tutto nell’inciso se è libera, perché molto spesso non lo è e dà luogo a fenomeni di sfruttamento e di vera e propria riduzione in schiavitù; in questi casi è evidente che ci troviamo di fronte a crimini da perseguire con la massima fermezza.

    Ma sulla prostituzione permangono ambiguità ed imbarazzo, probabilmente ereditati dalla cultura cristiana che da un lato la condannava considerandola peccaminosa, ma d’altra parte la tollerava come fattore di stabilità sociale, quasi come compensazione alle rigidità connesse all’indissolubilità del matrimonio: togli le meretrici dal mondo – scrisse Sant’Agostino – e tutto sarà sconvolto dalla lussuria.. Non a caso i postriboli venivano chiamati case di tolleranza che anche in epoca moderna hanno continuato a prosperare, spesso controllate e regolamentate dai pubblici poteri che ne ricavavano rilevanti vantaggi fiscali; ne derivava l’incredibile ipocrisia che le stesse prestazioni sessuali venivano penalizzate o ammesse secondo che si svolgessero all’interno delle case chiuse o al di fuori del loro contesto. Per questa ragione quella della senatrice socialista Angelina Merlin nel 1958 fu una battaglia liberale per fare cessare una vergogna incompatibile con una società civile; pensare di tornare indietro – come talvolta si sente proporre – è inaccettabile. Capisco il fastidio per lo spettacolo, spesso indecoroso, della prostituzione nelle strade, e trovo giusto reprimerla, ma per questo bastano i regolamenti di polizia oppure realizzare – come si fa all’estero – degli eros centre, zone protette in cui la prostituzione possa essere liberamente esercitata. Ma anche in questo caso pesa su di noi l’influenza della cultura cattolica controriformista per la quale ciò che importa è che certi fenomeni (considerati immorali ma inevitabili) non si vedano, non che non avvengano. Molti italiani infatti ritengono che la legalizzazione dei vizi sia moralmente inaccettabile, anche quando può concretamente risolvere un problema sociale; si preferiscono provvedimenti iniqui, inapplicabili, illiberali (come la punizione dei consumatori) a un esplicito riconoscimento del sesso a pagamento come una legittima espressione di libertà individuale.

    Molti anni fa mi trovai ad Amburgo per lavoro con alcuni colleghi giornalisti; la curiosità ci spinse a visitare le famose strade dove in vetrina si propongono le prostitute. Un collega volle assolutamente prendere contatto con una di loro e fissare un successivo appuntamento in albergo. Il giorno dopo comparve puntuale questa signora e, per farla breve, nella chiacchierata che precedette l’incontro intimo, apprendemmo che la prostituta era in realtà una funzionaria di una città abbastanza lontana da Amburgo che ogni week end veniva nella metropoli anseatica a prostituirsi, ricavandone soldi, relazioni ed esperienze interessanti. Era molto soddisfatta del suo doppio lavoro, (peraltro redditizio, tanto che il collega interessato vacillò). Credevamo si trattasse di un caso limite e comunque inimmaginabile in Italia; poi scoprimmo che il fenomeno di giovani e non più giovani donne (e uomini) che si prostituiscono a pagamento riempiendo così una parte nascosta della propria vita, rappresenta una realtà diffusa. Pudicamente le chiamiamo escort.

    Parlare di sesso conduce inevitabilmente ad affrontare il tema scabroso delle deviazioni sessuali, su cui la cultura liberale vanta una posizione molto netta in quanto ritiene che esse non esistano, o meglio vadano considerate in relazione ai tempi, ai luoghi, alle tradizioni, ai costumi predominanti.

    − I liberali hanno sempre sostenuto la legittimità di qualsiasi relazione sessuale tra maggiorenni, purché fondata sul consenso. Il codice penale Zanardelli, promulgato in piena epoca liberale nel 1891, fu tra le prime legislazioni europee che esclusero rilevanza penale ai rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso. Altrove, anche nella civilissima Inghilterra, l’omosessualità maschile (di quella femminile non si parla mai) era vietata fino ad anni recenti dalla legge, pur essendone praticamente caduta in desuetudine l'applicazione. D’altronde è opportuno ricordare che l’omosessualità è sempre esistita (soprattutto tra gli adolescenti) e non suscitava particolari emozioni finché non disturbava la tranquillità sociale, essendo nascosta e spesso mascherata; crea invece sgomento quando ne viene riconosciuta la legittimità (e quindi il diritto alla visibilità), permanendo nei suoi confronti ancora una vasta area di pregiudizio negativo che la considera una sessualità deviata. Questa convinzione deriva anche da una visione caricaturale dell’omosessualità (che spesso i militanti gay contribuiscono a diffondere) non corrispondente alla realtà; ricordo ancora lo stupore che accompagnò, anche in ambienti culturalmente avanzati, un film di Ozpetek (Le fate ignoranti) dove si rappresentava un’immagine disinvolta e distesa di una convivenza fondata sul rispetto delle diversità sessuali.

    Naturalmente anche su questo tema (come su tutti quelli che hanno rilevanza etica) bisogna fare i conti con la cultura cristiana per la quale, come abbiamo detto, ogni forma di sessualità non finalizzata alla procreazione è considerata peccaminosa; ne deriva ovviamente l’opposizione ai rapporti omosessuali. Peraltro la Chiesa cattolica vive sul problema della sessualità una contraddizione che risale ai primi secoli della sua egemonia, perché, promuovendo nel clero attraverso il voto di castità una rigorosa separazione sessuale, ha finito per favorire di fatto comportamenti omosessuali. Le recenti denunce contro la pedofilia imperante negli istituti religiosi rappresentano la classica scoperta dell’acqua calda. Da sempre si è saputo che l’omosessualità, anche nella sua dimensione pederastica, era diffusa nelle istituzioni ecclesiastiche, e nei confronti di questo fenomeno vigeva una tolleranza di fatto purché non emergesse all’esterno e non rappresentasse scandalo. La stessa pubblica opinione, cattolica e laica, non se ne curava più di tanto: una grande ipocrisia, accolta anche nella società anglosassone vittoriana dell’800. Oscar Wilde non fu condannato ai lavori forzati perché omosessuale ma perché si era rivelato tale in un pubblico scandalo. La regola era quella del si fa ma non si dice.

    Oggi la situazione è molto cambiata e la legislazione dei paesi occidentali sembra orientarsi verso la repressione non più dell’omosessualità ma invece di chi ne contesta la piena legittimità. Anche in Italia si sta varando una legge contro l’omofobia. Non si sta esagerando?

    − In Italia si passa sempre da un estremo all’altro, senza mai cercare (almeno a livello legislativo) punti ragionevoli di equilibrio. La cosiddetta legge contro l’omofobia ha suscitato molte polemiche: Piero Ostellino per esempio si è dichiarato contrario a una legge fatta per proteggere gli omosessuali da comportamenti discriminatori. Stabilire per legge ciò che è ‘politicamente corretto’ da ciò che non lo è significa teorizzare, e codificare, il reato di opinione. Così in maniera sintetica e precisa il giornalista milanese esprime la posizione di ogni autentico liberale nei confronti di leggi che invece di punire eventuali reati chiaramente definiti si propone di rendere buoni e virtuosi i cittadini, cadendo così inevitabilmente nella concezione di uno stato etico. L’omofobia, cioè l’avversione nei confronti degli omosessuali, rappresenta sicuramente – per le ragioni già dette – un comportamento sbagliato e eticamente riprovevole, ma non è un reato, almeno finché non trascende in atti penalmente rilevanti (offese, violenze, discriminazioni pubbliche, ecc.) che già sono puniti dalle leggi vigenti. Non vedo alcuna ragione per cui insultare un omosessuale debba essere considerato più grave che farlo con un eterosessuale: si tratta comunque di un fatto inaccettabile commesso nei confronti di un essere umano.

    Passiamo a parlare di pedofilia; da qualche tempo è la perversione sessuale più gettonata e viene considerata il più spregevole dei crimini perché coinvolge i minori, anche per la convinzione che essa abbia raggiunto oggi una diffusione senza precedenti.

    Non vi è dubbio che l’allarme sociale nei confronti di questa degenerazione sessuale abbia raggiunto negli ultimi anni un livello molto elevato: come ha scritto ironicamente Riccardo Chiaberge, nell’Occidente della crescita zero il bambino è diventato una specie di totem intoccabile. Non puoi più accarezzare un pargoletto senza che la madre chiami la forza pubblica. Si è arrivati, per combatterla, a formulare disposizioni giuridiche di assai dubbia legittimità come quella che consente di perseguire tale reato anche al di fuori del territorio nazionale di competenza. Quando si parla o si scrive di pedofilia gli aggettivi spregiativi si sprecano, si invoca la castrazione o addirittura la pena di morte. Ma in tanta – qualche volta ipocrita – indignazione si finiscono per confondere ed accomunare fenomeni tra loro diversi, mentre anche in questo caso, come sempre, le distinzioni sono importanti.

    Intanto non è vero che la cosiddetta pedofilia sia aumentata con i moderni mezzi di comunicazione; sappiamo che è sempre esistita e non possiamo conoscerne l’estensione proprio per le sue caratteristiche clandestine (anche perché si praticava, ieri come oggi, prevalentemente in ambito familiare oppure all'interno di strutture educative impenetrabili come gli orfanatrofi e i collegi).

    Quando la pedofilia si rivela in comportamenti sadici criminali nei confronti di bambini impuberi essa va senz’altro accomunata alle tante degenerazioni delittuose che da sempre accompagnano la convivenza umana e che comportano senza esitazione l’esclusione dal consorzio civile di quanti vi ricorrono e un’attenta vigilanza affinché creature indifese non divengano preda della loro follia; da sempre infatti questi atti criminali sono puniti severamente dalle leggi e respinti dalle consuetudini sociali in ogni parte del mondo.

    Ma sotto l’ormai dominante denominazione di pedofilia si intendono oggi anche realtà diverse come i rapporti sessuali con minori puberi, quelli che comunemente si definiscono adolescenti e che – secondo le diverse latitudini e consuetudini – vanno dal tredicesimo/quattordicesimo anno di età alla fatidica soglia dei 18 anni, oggi quasi ovunque riconosciuta come limite minimo per divenire maggiorenni e responsabili delle proprie azioni (e quindi anche dei propri comportamenti sessuali). Non bisogna mai dimenticare che si tratta di una soglia convenzionale che tiene conto della necessità di fissare giuridicamente un confine ma che non può riflettere la reale condizione di maturità dei singoli soggetti la quale naturalmente deriva da molti fattori, diversi da individuo a individuo, e da contesti sociali molto differenziati. Come per ogni formalizzazione legale di sfuggenti realtà personali essa rappresenta un compromesso sempre modificabile secondo le differenti situazioni e le variabili sensibilità sociali. Avere fatto coincidere il momento della piena responsabilità sessuale con la riduzione della maggiore età al diciottesimo anno è stata una scelta recente che presenta non pochi motivi di criticità; essa infatti non tiene sufficientemente conto – al di là delle convenzioni giuridiche – che dopo la pubertà lo stimolo sessuale aumenta e può ricercare soddisfazione anche in rapporti consenzienti con adulti per un complesso di ragioni che gli esperti di psicologia dell’età evolutiva conoscono bene. Anche la mitizzazione di alcuni personaggi di riferimento (come campioni sportivi, divi dello spettacolo, educatori carismatici, ecc.) spesso nasconde pulsioni sessuali sublimate. Il mondo adulto, pur avendo attraversato a suo tempo identiche sensazioni, generalmente rimuove questi ricordi di esperienze assolutamente naturali perché le ritiene incompatibili con l’ordine sociale e con le regole morali in cui più tardi si è riconosciuto. Ma le disposizioni legislative sempre più rigorose che tendono a una protezione totale degli adolescenti fino al conseguimento della maggiore età producono talvolta effetti paradossali (diciassettenni che ricattano adulti, ecc.); si scopre che molti ragazzi sono assai meno ingenui di quanto si creda, il che è comprensibile considerando l'estensione incontrollata delle informazioni sessuali (le quali peraltro, da che mondo è mondo, sono sempre state molto più precoci di quanto i genitori sospettassero). In realtà non solo le informazioni ma anche la pratica sessuale interessano oggi fasce di età sempre più basse, per cui la convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia promulgata dall’ONU nel 1989, approvata da quasi tutti gli stati (con l’importante eccezione degli Stati Uniti) la quale stabilisce che tutti i giovani da zero a diciotto anni sono da considerare giuridicamente bambini, rappresenta una scelta assai opinabile dal punto di vista scientifico e morale, determinando situazioni grottesche soprattutto in quei paesi del terzo e del quarto mondo dove, da sempre, l’età del consenso (anche per i matrimoni) è molto più bassa.

    Probabilmente le vere ragioni che hanno prodotto questa severa legislazione sono da ricercare nella difficoltà di molte famiglie di controllare i comportamenti dei loro ragazzi, oggi molto più liberi e disinibiti di un tempo, e nella persistente convinzione che spetti all’autorità pubblica intervenire su una materia che dovrebbe restare di esclusiva competenza delle famiglie; forse anche perché molte di esse non sembrano preparate a consentire un’autonomia sessuale ai figli al momento del raggiungimento della loro pubertà ed evocano rischi, pericoli di ogni sorta (oggi in realtà assai minori di un tempo) ottenendo in concreto come unico risultato quello di favorire l’ipocrisia, i comportamenti clandestini e un rapporto familiare insincero e pieno di riserve. Ma molti genitori preferiscono così: meglio non sapere.

    Pedofilia chiama inevitabilmente un altro grave fenomeno, questo sì legato ai nostri tempi e alla diffusione di nuove tecnologie: la pedopornografia. Si tratta di una questione delicatissima perché rischia di sconfinare nella libertà di espressione.

    − Anche in questo caso bisogna fare delle distinzioni: altro è un video porno che vede l’utilizzazione di minori (sulla cui condanna non occorre spendere troppe parole), altro sono pubblicazioni erotiche di contenuto artistico, romanzi hard, disegni e fotografie di autori famosi, quadri, ecc. Si rischia in questi casi di censurare opere che hanno un valore intrinseco che va oltre il loro contenuto; già in passato abbiamo avuto i mutandoni aggiunti al Giudizio Universale di Michelangelo fino alla persecuzione dei libri e dei film di Pasolini in tempi recentissimi. Fin dove deve arrivare la tutela dell’infanzia?

    La legge italiana che recepisce la Convenzione di Lanzarote (sottoscritta nel 2007 da alcuni governi europei) nell’intenzione di accentuare il rigore nei confronti di ogni forma di pedofilia, ha introdotto figure di reato come la pedopornografia culturale (che il testo originale della convenzione non prevedeva), creando una normativa che rischia di intaccare la libertà di opinione e di espressione, come quando punisce l’apologia della pedofilia anche se deriva da ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume.

    L’apologia di reato è una disposizione illiberale in sé, qualunque ne siano le motivazioni, sia perché il concetto di apologia è generico e suscettibile di estensioni censorie illimitate, sia soprattutto perché in una società liberale si puniscono i comportamenti non le intenzioni. Applicata a manifestazioni culturali essa può trasformarsi in una caccia alle streghe di tipo inquisitorio di cui non sentiamo alcuna necessità. Il vero problema della pedofilia è quello di prendere quegli autentici criminali che abusano dei bambini (per i quali le leggi esistenti sono più che sufficienti) non di inventare normative inutilmente persecutorie che, col pretesto di proteggere la sessualità dei diciassettenni, si propongono di rendere puri e virtuosi i minorenni per legge. Sarò denunciato per apologia di reato per avere espresso queste opinioni ? In caso affermativo chiamerò come correi i giudici della Corte Suprema americana che in una famosa sentenza del 1997, annullando una legge che prevedeva controlli preventivi per contrastare la pedopornografia su internet, ribadì l’intangibilità del principio di libertà di espressione contenuto nel primo emendamento della loro Costituzione.

    Trovare un giusto equilibrio tra l’esigenza di tutelare l’infanzia e quella non meno importante di salvaguardare la libertà di espressione rappresenta, con l’affermazione dei nuovi mezzi di comunicazione digitali, un esercizio difficile in cui si sono misurati organismi legislativi e di garanzia costituzionale in tutto il mondo; per la cultura liberale è in ogni caso indispensabile evitare che eventuali misure limitative della libertà di espressione, comunque motivate, introducano forme surrettizie di censura preventiva. Perché la censura si sa dove comincia ma mai dove va a finire.

    Paradossalmente lo scandalo della pedofilia ha colpito il tempio della moralità cattolica, le istituzioni di quella Chiesa tanto intransigente a parole nei confronti di ogni relazione sessuale al di fuori del matrimonio.

    − Attenzione: lo scandalo dei preti pedofili non va confuso con i rapporti consensuali. Nei casi che hanno coinvolto la Chiesa infatti vi è un abuso derivante dalla posizione di autorità (insegnanti, sacerdoti, prefetti di disciplina) dei responsabili di collegi, chiese, istituti, che le leggi penali puniscono giustamente anche quando si verifica nei confronti di adulti (come può avvenire nelle carceri o nelle caserme). Detto ciò debbo ammettere tuttavia che l'ondata di scandali improvvisamente esplosa negli ultimi anni mi lascia perplesso. Il fatto che i rapporti omosessuali e pedofili siano frequenti in tutte le strutture chiuse (scuole, convitti, seminari, riformatori, ecc.) è cosa risaputa da sempre, e non provocava in passato particolari reazioni fin quando non superava i limiti di una ipocrita discrezione; era considerato assolutamente normale che i casi che emergevano venissero trattati e risolti all’interno delle istituzioni interessate. Ciò che sta avvenendo oggi ha qualcosa di sospetto, specialmente quando le denunce arrivano dopo molti, troppi anni e si accompagnano (come avviene negli Stati Uniti) a risarcimenti milionari. Ma la colpa è anche della Chiesa, che – come ha scritto Sergio Romano – "per molto tempo ha pensato che il miglior modo di affrontare il problema fosse quello di nasconderlo sotto il tappeto. Oggi ha interesse a trarre ispirazione da un detto evangelico: oportet ut scandala eveniant", come ha capito benissimo papa Bergoglio.

    - La tolleranza (o addirittura l’indifferenza) nei confronti delle diversità sessuali nel mondo antico viene spesso evocata dagli omosessuali come dimostrazione della legittimità storica del loro modo di essere.

    - Non vi è dubbio che basterebbero le opere immortali di Saffo e di Alceo a provare quanto antica sia la tradizione omosessuale e quanto essa abbia contribuito alla poesia e al sentimento amoroso. Ma non bisogna esagerare con paragoni impropri che non tengono conto della diversità di costumi di società tanto lontane dalla nostra. Nel mondo di allora, paradossalmente, era ritenuta lecita non l'omosessualità come oggi l'intendiamo (tra adulti consenzienti) ma invece proprio la pederastia, cioè le relazioni sessuali tra adulti e adolescenti. Secondo la cultura di quel tempo questo complesso rapporto, conosciuto in Grecia col nome di paidèia, era considerato positivamente per il profilo pedagogico che l’accompagnava, dove l’iniziazione sessuale coincideva con lo sviluppo del processo formativo nel rispetto della personalità dei più giovani (il rapporto doveva essere rigorosamente consensuale). Si trattava quindi di una relazione non violenta motivata soprattutto da ragioni culturali, spirituali ed estetiche; gli esempi sono troppo numerosi per ricordarli tutti, ma basterà rammentare Achille e Patroclo, Socrate e Alcibiade, l’imperatore Adriano e Antinoo. In questa dimensione culturale (ma anche fisica) l’omosessualità non suscitava particolari problemi neanche nel Medioevo, come è dimostrato, tra tanti, dall’esempio di Anselmo d’Aosta – considerato santo dalla Chiesa – che ebbe rapporti sentimentali con i suoi allievi tra cui un certo Gilberto cui dedicò un intero epistolario amoroso. Di questa concezione si trovano ancora oggi numerose tracce nelle società orientali e nel mondo musulmano, dove si registra una forte riprovazione per i rapporti omosessuali tra adulti (considerati perversioni innaturali) e una sostanziale tolleranza invece per quelli che intercorrono tra adolescenti e persone mature.

    - Per concludere: libertà sessuale e liberalismo coincidono?

    - Sì e no. Se libertà sessuale significa liberazione dai tabù che abbiamo ereditato da una visione storica e religiosa irragionevole, certamente sì; se vuole giustificare qualsiasi comportamento sessuale, vale la regola che la propria libertà si arresta al confine di quella altrui.

    IV - droghe

    Un altro tema ineludibile per la cultura liberale è il consumo di droghe; una questione che coinvolge aspetti legislativi e di costume e riguarda anche i limiti della libertà individuale. C’è qualche contraddizione tra il liberalismo dei comportamenti e la proibizione di consumare droghe?

    - Comportarsi da liberali in materia di droga significa porsi coraggiosamente in contro-tendenza rispetto agli orientamenti attuali della legislazione e alle convinzioni di una parte forse maggioritaria dell’opinione pubblica. In linea di principio non si capisce infatti perché in un regime liberale non debba essere consentito a ciascuno di regolarsi liberamente per ciò che riguarda il proprio corpo, almeno fin quando ciò non implichi un danno per gli altri.

    La questione è strettamente collegata alla definizione del termine droga. Se con esso intendiamo qualsiasi sostanza che, immessa nel corpo umano, ne altera il funzionamento naturale, riconoscere ai pubblici poteri un diritto a vietarne il consumo rappresenta una violazione del principio liberale di responsabilità individuale che non sarebbe condivisa dalla maggior parte della pubblica opinione: mettere in galera chi beve alcolici o fuma tabacco, per esempio, non sarebbe considerato ammissibile, al di là di ogni valutazione del danno che provocano. Se per droghe si intendono – come avviene generalmente nella pubblicistica dei mass-media – le sostanze stupefacenti, l'intervento proibitivo dello Stato viene invece giustificato per la particolare dannosità del loro uso, allo stesso modo in cui vengono controllati farmaci e altre sostanze nocivi alla salute; si ritiene in questi casi che un'azione preventiva e repressiva per impedirne l'assunzione possa essere compatibile con una concezione liberale. Ma la linea di confine tra le due classificazioni è assai sottile; anche l’assunzione di stupefacenti, a prescindere dal fatto che siano o no dannosi alla salute, riguarda la sfera della libertà individuale, e nulla può autorizzare i poteri pubblici a intervenire reprimendone la vendita e il consumo senza cadere pesantemente nella concezione di stato etico, di uno Stato cioè che si arroga il diritto di decidere quale sia il bene o il male per i cittadini, imponendo così una propria visione morale anche ai dissenzienti. Tutt’al più si può riconoscere la possibilità – e forse il dovere – di informare i cittadini dei rischi che l’uso delle droghe comporta per la salute (come si fa infatti per il fumo, per certi medicinali, per i veleni, ecc.).

    Sta di fatto però che quasi tutti gli Stati attuano politiche repressive variamente graduate nei confronti dell’uso e del commercio delle droghe.

    − Il che vuol dire che esiste una prevenzione culturale nei confronti degli stupefacenti la quale non si estende ad altre forme di dipendenza come quelle che derivano dall’uso di sostanze alcoliche o del tabacco, altrettanto nocive alla salute (in Italia nel 2012 i morti per droga sono stati 390, contro gli oltre 20.000 connessi all’abuso di alcool e i 90.000 da attribuire a conseguenze derivate dal fumo). La ragione di questa evidente contraddizione è legata soprattutto all'allarme sociale che la diffusione delle droghe (a torto considerato un fenomeno prevalentemente giovanile) determina nelle famiglie, e alle ricadute che essa avrebbe sull'ordine pubblico, più gravi di quelle che provengono da altre dipendenze: effetti negativi sulle facoltà mentali, assuefazione, delinquenza, azioni criminose. Se davvero fosse dimostrabile una connessione molto stretta tra queste conseguenze e il consumo di droghe, l’evidente danno che ne deriva alla collettività potrebbe far venir meno gli scrupoli dei liberali; ma tale legame è dimostrabile? Si direbbe di no, stando a una ricerca pubblicata nel 2008 dall’OMS. E se lo fosse, sarebbe maggiore che per altri vizi come l’assunzione di bevande alcoliche? Altrimenti, almeno per quanto riguarda gli adulti, le scelte individuali, per discutibili che possano apparire, non dovrebbero incontrare divieti legislativi.

    Al di là delle questioni di principio esiste comunque un problema di diffusione di droghe, spesso incontrollabili nella loro stessa composizione, che va contrastato. Un punto questo su cui non dovrebbero esserci dubbi.

    E’ sui modi di operare la politica di contrasto che la cultura liberale propone metodi assai diversi da quelli comunemente adottati, a cominciare da una distinzione preliminare tra chi ha conseguito la maggiore età e chi invece è ancora adolescente. Per questi ultimi infatti proibizioni e limiti, anche severi, si giustificano, spettando alla famiglia, (e, per sua delega, allo Stato), difendere la loro integrità fisica e morale; tanto è vero che, coerentemente con questo principio, negli Stati Uniti, per esempio, la proibizione ai minori di consumare stupefacenti si accompagna a quella delle bevande alcoliche e spesso anche di fumare tabacco. Tutti peraltro concordano sulla scarsa efficacia di questi divieti; per i minorenni la proibizione di consumare alcolici si è tradotta in una sfida nella quale essi si impegnano con grande solerzia e dalla quale escono regolarmente vincenti. La sbornia sistematica (fino al crollo) è la piaga delle università americane, rendere illegale un bicchiere di birra è stata la spinta più sicura per indurre i ragazzi a bere, l’ebbrezza dell’alcool non è niente rispetto alla goduria dell’infrazione, come ha scritto Beppe Severgnini. Lo stesso accade in Scozia piuttosto che in Svezia, dove si è scelta la strada del proibizionismo e dove ciò nonostante circolareil venerdì e il sabato sera senza inciampare in

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