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Viaggio nel mondo del rischio
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Viaggio nel mondo del rischio

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Nella nostra vita siamo portati ad ammettere continuamente che il futuro sia prevedibile, ossia che la nostra vita sia caratterizzata da certezze. Poi al verificarsi del minimo imprevisto, di eventi più preoccupanti (malattia), più dolorosi (morte di un caro), più devastanti (terremoto o atto terroristico), prendiamo coscienza del fatto che la nostra vita si svolge in un contesto caratterizzato da rischi di differente natura, valenza (positiva o negativa) e portata. L’idea di questo libro nasce da queste riflessioni. In esso sviluppiamo un lungo e complesso viaggio - dai rischi della ricerca ai rischi catastrofali, dai rischi sanitari ai rischi giudiziari, dai rischi dell’inquinamento al rischio nell’Arte - ed analizziamoi differenti comportamenti delle persone, delle imprese edei governi in rapporto ad essi. Dopo la prima parte, nella quale diciamo dell’evoluzione dall’antichità sino all’attuale Società del Rischio, nelle parti successive dapprima analizziamo l’ampio, variegato e dinamico mondo del rischio, successivamente delineiamo i processi di gestione del rischio seguiti dalle persone, dalle imprese, dalle banche, dai Governi, e infine analizziamo la struttura e l’evoluzione del sistema mondiale dei rischi.Nel libro ci occupiamo dei rapporti tra l’etica ed il rischio e, in connessione, analizziamo alcuni eclatanti scandali aziendali di inizio secolo.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 16, 2015
ISBN9788891178961
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    Viaggio nel mondo del rischio - Luigi Selleri

    Bibliografia

    INTRODUZIONE

    Il rischio è onnipresente nelle attività umane, sia a livello personale che a livello di tutte le organizazioni alle quali l’uomo dà vita per raggiungerre i differenti fini legati alla sua esistenza. Nel tempo si è osservato e si continua ad osservare un continuo cambiamento dei rischi: alcuni di essi scompaiono, nuovi rischi emergono, la frequenza e la severità di alcuni rischi aumentano, quelle di altri rischi si riducono. Ma, soprattutto, nel tempo è aumentata la consapevolezza verso i rischi. Di fronte a questo scenario l’uomo da sempre ha avvertito l’esigenza di precedere, nei limiti del possibile, il verificarsi dei differenti rischi nell’intento di decidere tempestivamente come affrontarli. E se sino ad un certo tempo ha assunto un atteggiamento di passiva accettazione, non appena le condizioni glielo hanno consentito ha cercato di controllarlo in qualche modo ed in qualche misura e, ove possibile, di evitarlo, eliminarlo o ridurlo, trasferendolo in tutto o in parte a terzi. Soluzione, quest’ultima, alla quale si è fatto crescente ricorso a partire dal quattrocento, ossia in parallelo all’affermarsi delle condizioni che resero possibile il ricorso all’assicurazione ed al loro progressivo sviluppo nei secoli successivi. E’ chiaro che da quel momento in poi ci fu un profondo cambiamento nel rapporto dell’uomo con il rischio, atteso che egli cessò di essere un soggetto passivo, ossia rassegnato a subirne le conseguenze del suo verificarsi, tipicamente danni, per diventare un soggetto attivo e, quindi, sia pure ancora in fieri, un protagonista verso il rischio. E’ indubbio, infatti, che egli nell’assumere un atteggiamento attivo verso il rischio, ha inciso sulla sua frequenza di accadimento e sulle sua conseguenze, ossia ha contribuito al cambiamento del rischio. E questa posizione attiva nel tempo è cresciuta di spessore, atteso che egli è riuscito a controllare sempre di più il rischio ed a ridurne il costo della sua gestione.

    Quanto abbiamo esposto sopra riguarda i rischi esterni, ossia quei rischi in rapporto ai quali le persone, a livello singolo o in quanto membri a vario titolo di organizzazioni di differente natura e dimensioni, non hanno la possibilità di evitarli ma, nella maggior parte dei casi, di controllarli, sia pure in misura variabile, mentre in altri casi, sfuggono totalmente al loro controllo (rischi catastrofali naturali). Esistono altri rischi, quali, ad esempio, i rischi strategici delle imprese, con riguardo ai quali le persone responsabili della loro gestione possono solo decidere di assumerli, nella prospettiva di accrescere il vantaggio competitivo dell’impresa, e quindi la sua creazione di valore, ovvero di rifiutarli. Tuttavia, anche in questo caso c’è la possibilità di controllarli in una certa misura ricorrendo all’approccio delle opzioni reali.

    Quanto abbiamo esposto sopra ci ha permesso di chiarire come l’uomo, sia con riguardo ai rischi esterni, sia, e soprattutto, con riguardo ai rischi strategici, da soggetto passivo sia divenuto soggetto attivo, ossia un protagonista. Per essere più precisi, nel tempo l’uomo in rapporto al rischio, espressione diretta del cambiamento complesso e multiforme dell’ambiente in cui vive, è passato progressivamente dalla figura del soggetto esposto al rischio a quella del protagonista e, entro certi limiti, del proattore del rischio.

    Questo libro nasce dall’idea di compiere un viaggio intorno ai rischi, ossia a quegli eventi di possibile accadimento, che nelle loro multiformi e variabili manifestazioni, sin dalla creazione del mondo sono presenti nella vita dell’uomo e contribuiscono continuamente, da un lato, a sollecitare le sue azioni ed i modi nei quali realizzarle, e, dall’altro lato, a condizionarne i comportamenti a livello individuale e sociale.

    Il rischio è l’espressione più evidente del cambiamento dell’ambiente nel quale viviamo, il che rende particolarmente stimolante e coinvolgente approfondire la sua genesi e le forme nelle quali si manifesta, atteso che il cambiamento è connaturato alla nostra vita. Ogni nostro passo, ogni nostra azione, ogni nostra scelta è in definitiva un atto di fiducia. Per la maggior parte del tempo viviamo in un continuo senso di certezza. E questo, perché immaginiamo che il mondo che ci circonda sia abbastanza prevedibile e tale quindi da giustificare questo nostro convincimento. Poi, quando meno ce l’aspettiamo, ci troviamo a vivere momenti nei quali ogni cosa sembra crollarci addosso. Un incidente automobilistico, la perdita del posto di lavoro, l’insorgere di una malattia grave, la perdita di una persona cara ed il verificarsi di numerosi altri eventi imprevisti ci riportano bruscamente alla realtà e ci portano a riconoscere che nulla sarà mai certo. Ciononostante, dopo aver assorbito l’effetto di disorientamento, la ragione porta a convincerci che dobbiamo continuare a vivere, e quindi, ad agire come se questa certezza esistesse. E questo, perché l’alternativa sarebbe di vivere paralizzati dal dubbio.

    La vita umana è un rischio. Credere a tutto è un rischio, ma è anche un rischio non credere a nulla. Saremmo tentati a non credere a nulla ed a non far nulla per evitare qualsiasi rischio. Ma poi, riflettendo, siamo portati a riconoscere che comportandoci in questo modo correremmo un rischio molto più alto. Consapevoli di tanto, giungiamo a convincerci che è molto meglio credere ed agire generosamente, ed essere sempre pronti a ricominciare ed a cambiare le nostre idee.

    Proprio perché il rischio è strettamente legato alla nostra esistenza individuale e, di riflesso, all’operare delle diverse organizzazioni delle quali a differente titolo e con differenti ruoli facciamo parte, un viaggio intorno al rischio si presenta complesso ed impegnativo. Per questa ragione esso si snoderà in tappe successive, nelle quali ci occuperemo delle differenti dimensioni del rischio e dei sistemi, dei processi e delle organizzazioni che ne rendono possibile la sua individuazione, la sua analisi, la sua valutazione, il suo controllo, la sua mitigazione, il suo trasferimento, il suo monitoraggio.

    Nell’avviare l’esposizione abbiamo chiarito che l’ Astragalo rappresenta lo strumento presente nella civiltà antica al quale possono essere fatti risalire i primi rapporti dell’uomo con il rischio. In altro aspetto, nell’ultima parte dello scritto ci siamo occupati dell’ Antifragilità, ossia della teoria elaborata da N.N. Taleb che la denomina con questo termine perché è riferita a quelle realtà che traggono vantaggio dagli scossoni; prosperano e crescono quando sono esposte alla volatilità, al caso, al disordine e ai fattori di stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Ed è gestendo l’ Antifragilità, secondo Taleb, che riusciamo a vivere in un mondo che non comprendiamo. In un certo senso, i due termini delimitano l’origine e lo stadio più evoluto e complesso, e quindi più problematico, dello scenario del rischio entro il quale intendiamo realizzare il nostro viaggio.

    PRIMA PARTE

    IL RISCHIO NEL TEMPO: DALL’ANTICHITA’ ALLA SOCIETA’ DEL RISCHIO

    1. Pericolo e Rischio nell’antichità

    Il rapporto dell’uomo con il rischio risale alle origini della civiltà, atteso che da sempre egli è chiamato a confrontarsi con l’ignoto. Nell’antichità il rischio, pur essendo presente, non veniva percepito a livello individuale come tale ma come pericolo, atteso che gli eventi imprevisti erano attribuiti al fato o alla fortuna, ossia a cause esterne, escludendo così che l’uomo potesse influire in qualche modo sul suo futuro. Le scelte che esso necessariamente doveva fare in connessione alle attività legate alla sua esistenza (coltivazione della terra, caccia e pesca) si ammetteva che fossero dettate dal suo istinto. In altro aspetto, gli eventi naturali generatori di danni (tempeste, eruzioni vulcaniche, terremoti) erano considerati eventi di origine esterna e, quindi, inevitabili. In questa logica, i Sumeri (4000 – 1500 circa A.C.), gli Egizi (3500 -2000 circa A.C.), gli Assiro-Babilonesi (2000 -1000 circa A.C.), gli Ebrei (2000 circa A.C. - 135 D.C.), i Fenici (2000 – 200 circa A.C.), gli Etruschi (800 – 200 circa A.C.), i Persiani (700 – 300 circa A.C.), i Greci (880 - 146 A.C.), i Romani (753 A.C. - 476 D.C.) erano fatalisti, perché erano ben lungi dal riconoscere la loro possibilità di influenzare, sia pure in qualche misura, il futuro.

    Anche se, per quanto esposto sopra, a livello di comportamento individuale il rischio non veniva percepito come un evento di possibile controllo, neppure parziale, le persone facenti parte delle popolazioni richiamate sopra conoscevano l’esistenza del rischio. Solo che esse la legavano principalmente al gioco. Infatti, numerose testimonianze storiche provano che quest’ultimo ha attratto l’attenzione dell’uomo sin dall’antichità. E questo, perché lo ha sollecitato a sfidare il fato, convinto di poter contare su un forte alleato: la fortuna.

    Le forme di gioco più antiche erano una sorta di gioco del dado, solo che quest’ultimo era costituito dall’ astragalo. La prova di ciò può essere tratta da numerosi dipinti delle tombe egizie (3500 AC) e dei vasi greci, nei quali sono raffigurati giocatori di astragalo (1).

    Anche se il rischio era noto, perché legato al gioco, esso non era oggetto di alcuna valutazione finalizzata a determinare la possibilità di vincita o di perdita. Questo, nonostante che nel greco antico figurasse il termine eikos, che aveva il significato di plausibile – probabile, ossia un significato che, dopo numerosi secoli, porterà al nostro termine probabilità.

    L’assenza delle valutazioni dei risultati ottenibili dal gioco nella civiltà antica non è da attribuire al fatto che quei popoli non disponessero di un sistema di numerazione, necessario a tale scopo, atteso che è stato provato, sulla base del ritrovamento di tavole di argilla risalenti al 3500 a.C., che, ad esempio, i Sumeri disponevano di un tale sistema, anche se di tipo posizionale e con base sessagesimale. Altrettanto dicasi dei greci, che nel 450 A.C. disponevano di un sistema di numerazione alfabetico. In esso, infatti, ogni numero da 1 a 9 era contraddistinto da una lettera ed i multipli di dieci erano contraddistinti anch’essi da una lettera. Così, la prima lettera del primo termine dell’alfabeto greco alfpha, α,rappresentava 1, la prima lettera del termine greco penta, ossia Π, rappresentava 5, la prima lettera della parola deca, ossia δ, rappresentava 10, la prima lettera della parola ro, ossia ς, rappresentava 100. Gli è, invece, che la ragione dell’assenza di qualsiasi valutazione del risultato del gioco è da attribuire ad altre circostanze, in particolare al fatto che le persone del tempo escludevano la loro possibilità di influenzare il futuro.

    Con particolare riferimento alla civiltà greca, l’assenza della valutazione dei risultati del gioco è da attribuire, da un lato, al fatto che per i filosofi greci i fondamenti del sapere erano le verità e non i risultati delle sperimentazioni empiriche, e, dall’altro lato, al fatto che essi disponevano sì di un sistema di numerazione – quello descritto sopra – che tuttavia risultava inadeguato ad effettuare dei calcoli. Sì che il sistema in oggetto poteva permettere solo la registrazione dei risultati dei calcoli effettuati con altri strumenti: in particolare l’abacus. Pertanto, anche se le sperimentazioni empiriche potevano portare a risultanti somiglianti al vero, per essi ciò non era rilevante. E questo, perché come chiarisce molto bene Socrate la somiglianza al vero non è la stessa cosa del vero. In ciò trovava conferma la posizione dominante dei filosofi greci del tempo, secondo la quale il vero è solo ciò che può essere provato per via logica ed assiomi. In questo contesto, pertanto, l’effettuazione del gioco e la valutazione dei suoi risultati rimanevano due attività separate e tali rimarranno ancora per molti secoli successivi (2).

    I Greci, sulla base delle loro conoscenze astronomiche, credevano che l’ordine dovesse essere fondato solo nel cielo, nel quale i pianeti e le stelle apparivano nelle loro posizioni e con precisa regolarità. Il riferimento alla perfezione del cielo veniva utilizzato da loro per evidenziare, in contrapposizione, la confusione che contraddistingueva la vita sulla terra. Nella civiltà greca, pertanto, le persone percepivano il futuro all’incirca come un insieme di situazioni legate alla fortuna o al risultato di variazioni dovute al caso(2). Una conferma di tanto può essere trovata anche nella posizione di Aristotele, il quale, pur riconoscendo che le persone nell’effettuare le scelte sono sollecitate dal desiderio e dal ragionamento diretto verso qualche fine, non dava alcuna linea guida sulla possibilità di conseguire un risultato positivo. Di conseguenza, esse erano convinte che la maggior parte delle loro scelte, necessariamente proiettate nel futuro, fosse guidata esclusivamente dall’istinto. Escluso, quindi, l’aiuto dei filosofi, l’unica possibilità di anticipare il futuro era costituita dal ricorso agli oracoli(2).

    E’ solo con l’avvento del Cristianesimo che il modo di guardare al futuro si modificherà profondamente. Secondo i primi cristiani, infatti, era la volontà di Dio che orientava e guidava il futuro. Ciò rappresentava un profondo cambiamento nel modo di percepire il futuro. Infatti, anche se per l’uomo il futuro continuava a rimanere un mistero, ora esso risultava prescritto da un Potere, il volere del quale era accessibile a tutti sol che fossero disposti a comprenderlo(3). E, visto che il cristianesimo riconosceva la libertà dell’individuo di aderire o meno al disegno divino, ecco che, in parallelo, emergeva la responsabilità della persona nel cercare di conformare la sua vita, e quindi le scelte che essa comporta, a detto disegno.

    Anche i filosofi cristiani escludevano il caso dal mondo ordinato della provvidenza divina e lo spiegavano con la limitatezza della ragione umana. La contemplazione del futuro diventava così una componente del comportamento morale legato alla fede. In questa logica, il futuro cessava dall’essere imperscrutabile, come invece era avvenuto in precedenza. Tuttavia anche in questo mutato contesto non aveva alcun senso prospettare la possibilità per l’uomo di fare qualsiasi calcolo riguardante il futuro.

    2. Il Rischio nel Medievo

    Nel Medioevo, ossia nel periodo compreso tra la caduta dell’Impero d’occidente (476 d.C.) e l’inizio dell’era moderna (la scoperta dell’America 1492), il termine rischio iniziò ad avere un’ampia diffusione, legata in particolare alla nascita delle imprese marittime dell’epoca ad ai pericoli legati alle loro attività. La parola rischio indicava unicamente la possibilità di un pericolo oggettivo: un atto di Dio, una forza maggiore, una tempesta o un qualche altro pericolo di mare imputabile ad un comportamento sbagliato. In pratica si escludeva che il rischio potesse derivare da un errore o da una responsabilità, atteso che veniva collegato unicamente ad eventi esterni o scarsamente controllabili.

    L’introduzione delle prime assicurazioni marittime risale al tardo medioevo. Queste assicurazioni si resero necessarie, in parallelo allo sviluppo dei traffici marittimi avvenuto in Europa in quel periodo, per fronteggiare gli alti rischi che i trasporti delle merci comportavano. Ciò avvenne soprattutto ad opera delle città marinare italiane, principalmente Venezia e Genova. Per la copertura di questi eventi, già nel 1225 a Venezia venivano utilizzate le assicurazioni marittime.

    Le assicurazioni marittime, introdotte inizialmente dagli imprenditori delle città marinare italiane, successivamente si estesero alla Francia, alla Spagna, all’Inghilterra ed agli altri paesi del Nord Europa.

    Nonostante l’importanza assunta dalle assicurazioni in quel tempo, esse non potevano ancora basarsi su calcoli attendibili dei loro prezzi, ossia dei premi. E questo, non già perché non si disponesse di un sistema di calcolo idoneo allo scopo. Gli è, infatti, che, sotto la sollecitazione del progresso sviluppatosi nei secoli precedenti, originato ed alimentato dalla ricerca del miglioramento delle condizioni di vita, a partire dall’anno 1000 i cristiani avevano avviato ed ampliato progressivamente i loro rapporti con popoli lontani, ai quali, in parallelo allo scambio di merci, avevano convogliato le loro conoscenze e dai quali avevano appreso nuove conoscenze. Ed è proprio nell’ambito dello sviluppo di queste nuove relazioni che furono programmate e realizzate le Crociate (XI – XII secolo), che portarono gli occidentali a scontrarsi con gli arabi. Questi ultimi, nei secoli precedenti, nell’ottica di estendere la loro area di influenza, avevano invaso l’India. In questo modo essi, in parallelo al conseguimento di importanti risultati politici e di numerosi vantaggi economici, avevano avuto la possibilità di apprendere il sistema di numerazione indiano, decisamente più progredito del loro(4).

    Nei cinque secoli successivi il nuovo sistema di numerazione si estese sostituendo il vecchio sistema di numerazione abacus, basato sul posizionamento, secondo regole predefinite, degli oggetti espressivi dei numeri, in precedenza ordinati in gruppi. L’innovazione realizzata dal nuovo sistema fu quella di permettere la numerazione scritta, il che rese estremamente agevole l’effettuazione dei calcoli. Questo cambiamento, pur se di importanza epocale, permise però di rimuovere solo uno degli ostacoli che avevano precluso sino a quel tempo l’introduzione del calcolo delle probabilità per valutare i risultati possibili del gioco. Calcolo, che, alla luce degli sviluppi successivi, sarebbe risultato utile per impostare su basi valide la determinazione dei premi delle assicurazioni marittime.

    Pur non esistendo le condizioni per procedere al calcolo delle probabilità, gli assicuratori del tempo dovevano ugualmente determinare i premi delle assicurazioni marittime riguardanti i rischi di mare (naufragio, incendio, pirateria). Ed anche se la lettura più semplice, ma anche più superficiale, di queste assicurazioni indurrebbe ad assimilarle a pure scommesse, le analisi storiche sui documenti degli assicuratori del tempo portano a darne un’interpretazione decisamente diversa. Gli è che da dette analisi è emerso che gli assicuratori del tempo prestavano una cura particolare nel predisporre le informazioni da condividere con gli altri mercanti. E questo impegno, ad evidenza, non sarebbe stato giustificato se uno scambio così fitto e dettagliato di informazioni fosse stato finalizzato a porre in essere operazioni assicurative aventi le caratteristiche di pure scommesse. Per converso, il pragmatismo dei mercanti del tempo li induceva a differenziare i rischi in base al loro grado di incertezza, adattando, in modo empirico, le tecniche di calcolo del premio ai diversi livelli di conoscenza del rischio. In questa logica, si può ragionevolmente ammettere che i mercanti medioevali per i rischi caratterizzati dalla ripetitività, e per i quali l’esperienza poteva fornire dati sul numero dei sinistri per tipi di imbarcazioni, fossero in grado di valutare, sia pure in modo approssimativo, la frequenza dei rischi da assicurare. Per converso, per i rischi riguardanti la pirateria, non disponendo di dati sulla loro frequenza, la valutazione era il risultato di un’analisi approfondita dei dati disponibili, mirata ad assicurare il più alto fondamento possibile alla stessa.

    Nella definizione del premio delle assicurazioni marittime del tempo una circostanza molto importante era originata dal fatto che non c’era una netta separazione tra mercanti ed assicuratori, atteso che era frequente lo scambio di ruoli. Questo indubbiamente contribuiva positivamente alla definizione del premio, atteso che sulla stessa si riflettevano le informazioni e le esperienze congiunte di assicurato e di assicuratore di entrambi i contraenti.

    Nel medioevo, quindi, l’impossibilità di determinare i premi delle assicurazioni marittime non dipendeva tanto dalla mancanza di un idoneo sistema di calcolo, quanto dal fatto che non si disponeva delle conoscenze necessarie per valutare i risultati delle operazioni aleatorie. E questo, perché non esistevano ancora le condizioni per guardare al futuro come ad una situazione suscettibile di essere controllata dall’uomo, sia pure entro certi limiti, e, in quanto tale, assoggettabile a qualche forma di previsione.

    3. Il Rischio nella Società moderna

    In parallelo all’avvio dell’era moderna il rischio assunse un nuovo significato, che contribuì a diffondere i nuovi modi di intendere e rappresentare la realtà, fatta di caos, di contingenze e di incertezze. In questo nuovo contesto il rischio prese il posto di ciò che in precedenza era stato attribuito alla fortuna, al fato e ad altre entità esterne. Ciò avvenne perché l’uomo iniziò a considerare gli imprevisti e gli eventi in grado di produrre danni catastrofali come possibili conseguenze dell’azione umana.

    E’ stato sostenuto che a determinare questo cambiamento contribuì la Riforma Protestante. L’etica protestante, infatti, prevedendo la predestinazione alla salvezza solo di alcune persone, sollecitava le stesse ad un particolare impegno nella vita terrena per rispondere nel modo più pieno possibile alla volontà di Dio. L’avvento del protestantesimo, quindi, modificando in profondità la focalizzazione dei comportamenti delle persone, fece emergere l’esigenza di confrontarsi col rischio e, di conseguenza, di cercare i modi nei quali prevederlo in vista di poterlo controllare in qualche misura. E questo, perché si riconosceva che alla base del comportamento umano ci fossero delle scelte riguardanti il futuro che, in dati aspetti, potevano prospettare conseguenze negative, ossia danni, ma, in altri aspetti, potevano prospettare conseguenze positive, ossia offrire delle opportunità.

    Questa tesi è stata confutata da più autori (5). Kauder, in particolare, rifiuta l’interpretazione ampiamente diffusa, secondo la quale il superamento dell’autorità della Chiesa condusse all’individualismo generalizzato in tutti i campi, in parallelo all’affermarsi dell’etica e dello spirito calvinista che, enfatizzando il valore positivo del duro lavoro, del risparmio e dell’arricchimento, condussero alla fioritura del capitalismo (6). A sua volta Robertson ha mostrato come il capitalismo cominciò a fiorire non in Gran Bretagna, ma nelle città italiane del quattordicesimo secolo, cioè in zone decisamente cattoliche (7). E ad avviso di Rothbard è vero che l’enfasi sui valori soggettivi individuali e sull’utilità venne portata avanti dai grandi filosofi della politica protestanti, Grozio e Pufendorf, ma è altrettanto vero che furono direttamente influenzati dalla scolastica spagnola (8). Secondo detto Autore molti storici avrebbero ignorato la tardo-Scolastica spagnola della fine del sedicesimo e dell’inizio del diciassettesimo secolo e la sua influenza sugli sviluppi della teoria economica. Ed in questo modo essi avrebbero avallato la tesi, non rispondente al vero, secondo la quale la Scolastica sarebbe scomparsa con il Medioevo(9). Il punto principale della critica revisionista è la continuità del fatto che il capitalismo, il liberalismo, il razionalismo ed il pensiero economico iniziarono molto prima di A. Smith e sotto gli auspici cattolici (10). L’apporto degli economisti cattolici alla teoria del rischio è ulteriormente riconosciuto da Schumpeter quando nota che l’economista cattolico J. de Lugo (1583-1660) sviluppò nella metà del diciassettesimo secolo una teoria del rischio del profitto d’impresa, che venne pienamente sviluppata all’inizio del ventesimo secolo e oltre (11). Rothbard sostiene che la teoria a favore del cattolicesimo sia riassumibile nel modo seguente: 1) il laissez-faire di Smith e le concezioni della legge naturale discendono dai tardo-scolastici e dai fisiocratici cattolici; 2) i cattolici hanno sviluppato l’economia basata sull’utilità marginale e il valore soggettivo, insieme all’idea che il giusto prezzo fosse il prezzo di mercato, mentre i protestanti inglesi vi innestarono la pericolosa, e in ultima analisi decisamente statalista, teoria del valore-lavoro, influenzata dal calvinismo; 3) alcuni dei più dogmatici teorici del laissez-faire furono cattolici: dai fisiocrati a Bastiat; 4) il capitalismo nacque nelle cattoliche città italiane del quattordicesimo secolo (12).

    Il cinquecento ed il seicento furono i secoli delle grandi esplorazioni geografiche, in parallelo alle quali si svilupparono intensi volumi di scambi commerciali. Questi ultimi per loro natura erano caratterizzati dal rischio. Ecco allora emergere l’importanza della sua valutazione e della sua gestione. Attività, queste ultime, rese possibili dal sistema di numerazione che alcuni secoli prima gli occidentali avevano appreso dagli arabi. E’ in questo nuovo contesto che vede la genesi il calcolo delle probabilità, che da allora in poi costituirà la base dell’analisi delle decisioni.

    E’ solo a partire dal Rinascimento che il rischio comincia ad essere percepito. Ciò avviene in parallelo all’affermarsi nelle persone del convincimento di essere in grado di poter influenzare in qualche misura il futuro. Epigoni di questo cambiamento furono Gerolamo Cardano (1501-1576) col suo libro Liber de Luodo Aleae(13) e Galileo Galilei (1564- 1642) con la sua opera Sopra la scoperta de li dadi(14), che a ragione vengono riconosciuti come gli studiosi che hanno posto le basi per lo sviluppo della teoria della probabilità. I veri fondatori del calcolo delle probabilità furono però B. Pascal (1623-1662) e P. de Fermat (1661-1665). Tuttavia si deve a J. Bernoulli (1654-1705) la formulazione del teorema che porta il suo nome, meglio noto come Legge dei grandi numeri, presentato nella sua opera Ars Conjectandi, pubblicata postuma nel 1713 (15). In detto teorema si formula per la prima volta il concetto di frequenza, inteso come la stima della probabilità e, in stretta connessione, si riconosce che per poter stimare la probabilità tramite la frequenza è necessario accertare preliminarmente l’esistenza della verosimiglianza delle cause. Il chiarimento di questo principio, sul quale si basa la legge dei grandi numeri, avremo modo di darlo nel corso dell’esposizione che segue.

    E’ unanimemente riconosciuto che fino al settecento l’attenzione degli studiosi della probabilità si era focalizzata sul Problema classico, concernente la valutazione per via deduttiva della Probabilità. Infatti lo schema di riferimento era stato sempre quello del gioco aleatorio legato all’estrazione delle palline da un’urna, della quale era noto il contenuto in termini di numero delle palline di due differenti colori, e con riguardo alla quale era possibile calcolare il risultato ottenibile da ciascuna estrazione o da più estrazioni (pallina o palline dello stesso colore). Si deve a T. Bayes (1702-1761) la soluzione del Problema inverso, presentata nel suo saggio Risk Premium for Decision Regret(16). In termini semplici, il problema può essere così prospettato: data un’urna contenente n palline di due colori – ad esempio, rosso e nero – estraendo n palline delle quali solo k sono di colore rosso, quale valutazione possiamo dare del contenuto dell’urna? Secondo Bayes il risultato può essere calcolato in base al rapporto k/n, espressivo della presenza delle palline di colore rosso nell’urna. A questo risultato, quindi, si poteva giungere per via induttiva, atteso che noto l’effetto (estrazione delle palline dall’urna) era possibile calcolare la causa (contenuto dell’urna).

    Negli anni successivi, P.S. Laplace (1749-1827) riscoprirà, dimostrando di non esserne stato a conoscenza, il risultato al quale era giunto in precedenza Bayes e lo estenderà giungendo a formulare il Principio di verosimiglianza delle cause(17). Secondo questo principio, la stima della probabilità di un evento aleatorio tramite la frequenza richiede che le osservazioni dell’evento, utilizzate per effettuarla, riflettano condizioni di accadimento uniformi.

    Nel 1921 F. Knight (1885-1962) pubblicò la sua principale opera Risk, Uncertainty and Profit, che divenne il testo fondamentale di riferimento per tutti gli sviluppi successivi sia delle ricerche sul rischio che dei modelli utilizzabili per la sua gestione(18). In quest’opera, infatti, per la prima volta venne definita in termini chiari la differenza tra il Rischio e l’ Incertezza, che resterà l’assunto teorico fondamentale di riferimento per tutte le ricerche e le applicazioni successive in materia di gestione del rischio. Knight differenzia l’ Incertezza, che non è misurabile a motivo dell’assenza o della limitatezza delle informazioni a disposizione che si hanno di un dato evento aleatorio, dal Rischio, che è misurabile perché si dispone di conoscenze adeguate a permettere la valutazione della probabilità di accadimento di un dato evento aleatorio. Nella sua opera Knight evidenzia la rilevanza della Sorpresa nelle valutazioni dei fenomeni aleatori e sottolinea l’esigenza di essere particolarmente prudenti nell’effettuazione delle stesse. Questo, onde evitare l’errore di riconoscere una rilevanza ingiustificata al risultato ottenuto dall’estrapolazione al futuro delle frequenze osservate nel passato.

    Nel quadro dell’impostazione Knightiana è possibile cogliere la portata ed i limiti dei differenti concetti di probabilità formulati dagli studiosi.

    Il concetto di Probabilità classica può essere riferito all’esperimento casuale del quale sono noti gli n esiti, ugualmente possibili ed escludentisi a vicenda, e nel quale nk sono i risultati possibili che hanno l’attributo k. Con riferimento a questo esperimento è possibile calcolare la probabilità del risultato, che sarà compresa tra 0 (evento impossibile) e 1 (evento certo).

    Come abbiamo avuto modo di chiarire in precedenza, al concetto di probabilità classica ha fatto seguito nel tempo il concetto di Probabilità frequentistica. Quest’ultima, pur facendo riferimento ad un evento aleatorio del quale viene postulata la probabilità di verificarsi p, è calcolata tramite una serie di esperimenti, effettuati in presenza di condizioni uniformi (verosimiglianza delle cause), che permettono di determinare un valore approssimato della stessa. La stima così ottenuta è la Frequenza dell’evento aleatorio considerato.

    Non sempre, però, le situazioni osservabili possono essere ricondotte allo schema di eventi ripetuti in condizioni simili. Quando ciò accade non è possibile calcolare né la probabilità classica né la sua stima tramite la frequenza relativa. In queste condizioni si rende necessario il ricorso alla Probabilità soggettiva. Alla sua base c’è l’assunto che ogni persona sia sempre in grado di esprimere in termini numerici la sua aspettativa circa il verificarsi o meno di un determinato evento. Uno dei maggiori studiosi della probabilità soggettiva è stato B. De Finetti (1906-1985) (19).

    La Probabilità classica e la Probabilità frequentistica sono utilizzabili per la valutazione del rischio, atteso che quest’ultimo è riferito agli eventi aleatori dei quali è possibile calcolare la probabilità. Per la Probabilità soggettiva, invece, la distinzione tra la situazione di rischio e la situazione di incertezza non ha significato, atteso che essa fa riferimento a situazioni che non possono essere ricondotte entro lo schema di eventi casuali ripetuti in condizioni abbastanza simili.

    4. Dalla Società moderna alla Società post-moderna: la Società del rischio

    Una delle dimensioni rilevanti della società attuale è il rischio. Quest’ultimo è sempre stato presente nella società sin dall’antichità, come abbiamo avuto modo di chiarire in precedenza, solo che attualmente, in parallelo all’aumento del numero dei rischi specifici, della loro complessità e della loro portata, delle numerose interconnessioni che corrono tra gli stessi ci sono stati due cambiamenti fondamentali. Da un lato è aumentata la consapevolezza, la sensibilità e la paura degli individui, dei gruppi, delle aziende e più in generale degli enti, delle organizzazioni e della società verso il rischio. Dall’altro lato è diminuita progressivamente la tolleranza verso lo stesso. Sono queste le caratteristiche di fondo di quella che ormai da tempo si denomina la Società del rischio.

    La Società del rischio è un concetto difficile da definire, atteso che essa, lungi dal caratterizzarsi solo per la presenza di un numero crescente di rischi, si presenta complessa a motivo delle differenti dimensioni che concorrono a definirla e delle rilevanti interazioni che corrono tra le stesse. Dimensioni, che possiamo ricondurre, oltre che a quella dei rischi naturali, a quelle dei rischi economici, dei rischi politici, dei rischi sociali, dei rischi originati dai progressi della scienza, dai rischi tecnologici, dei rischi culturali, dei rischi dell’informazione.

    In via preliminare, va chiarito che la Società del rischio non è la risultante di un processo continuo di aumento dei rischi. Questo, perché se è indubbio che nel tempo sono emersi nuovi rischi è altrettanto vero che rispetto al passato numerosi rischi di notevole portata sono stati eliminati. Così, facendo riferimento alle società dell’occidente, da tempo sono stati debellati alcuni rischi sanitari ed in particolare i rischi di alcune malattie infettive, quali la tubercolosi, la malaria, ed altre malattie invalidanti, quali la poliomelite.

    Le ricerche sui rapporti tra la società ed il rischio sono state numerose negli ultimi anni, in particolare negli ultimi tre decenni, ed hanno portato ad evidenziare l’esistenza di una stretta relazione tra la produzione economica e l’aumento della produzione dei rischi (20).

    In passato nella teoria economica neoclassica i rischi sono stati spiegati fondamentalmente come imperfezioni temporanee dei mercati, destinate ad essere superate tramite il ripristino della concorrenza sugli stessi. È a questa impostazione teorica che implicitamente fanno riferimento alcuni studiosi quando riconoscono ai rischi la natura di effetti collaterali (21).

    L’aumento dei rischi nella società sicuramente è avvenuto a seguito dello sviluppo della produzione economica, sì che in parallelo ai problemi della distribuzione della ricchezza prodotta è emerso ed è cresciuto d’importanza il problema della distribuzione dei rischi (22). È da questa evoluzione parallela della produzione economica e della produzione dei rischi che scaturisce la crescente consapevolezza della società verso i rischi (23).

    Aspetto rilevante dei rischi che minacciano la società è la crescente rilevanza dei rischi aventi portata catastrofale. Questo perché i rischi che minano la sua sicurezza sono caratterizzati da una bassa frequenza di accadimento e da un’alta severità dei danni prodotti al loro verificarsi (24).

    Poiché una delle fonti principali dei rischi che minacciano la società è costituita dalla produzione industriale, è evidente il coinvolgimento delle imprese nella produzione di detti rischi. In connessione, la società è diventata critica verso le stesse ed in particolare verso il loro management, al quale attribuisce la responsabilità dell’inadeguato controllo dei rischi connessi ai processi produttivi. Ma, in parallelo al riconoscimento della rilevanza sociale dei rischi catastrofali connessi allo svolgimento di date attività produttive, emerge la rilevanza politica degli stessi(25).

    Se, dunque, in parallelo allo sviluppo della produzione economica, si è accresciuta anche la produzione dei rischi, necessariamente alla logica della distribuzione della prima ha dovuto correlarsi la logica di distribuzione dei secondi. Solo che, mentre la prima è contraddistinta dalla valenza positiva dell’appropriazione, la seconda è contraddistinta dalla valenza negativa del rifiuto (26).

    Le caratteristiche proprie dei rischi che gravano attualmente sulla società, fanno emergere responsabilità di complessa e difficile definizione, nell’ambito delle quali spesso si presenta estremamente problematica la definizione della responsabilità della singola impresa. Questo, anche perché per talune categorie di rischi a valenza catastrofale, quali sono i rischi ambientali, le responsabilità dell’impresa sono strettamente legate alla regolamentazione, che definisce gli standard di elementi inquinanti ammissibili, a loro volta definiti in funzione dello stato delle tecnologie al momento dell’emanazione o dell’aggiornamento della stessa. E, visto che la regolamentazione trova aggiornamento con un certo ritardo rispetto ai progressi della tecnologia, si possono verificare situazioni di inquinamento autorizzato, fonti di notevoli controversie tra imprese e terzi danneggiati, nelle quali risulta estremamente arduo comporre il contrasto tra le responsabilità contestate alle imprese e il comportamento posto in essere dalle stesse nel rispetto della regolamentazione esistente.

    Certamente il progresso scientifico ed il progresso tecnologico hanno contribuito in modo determinante all’affermarsi ed allo sviluppo della società del rischio. Ma questo è avvenuto non già in modo unidirezionale, come correntemente e semplicisticamente si crede, ma in modi pluridirezionali ed integrati tra loro.

    Il progresso scientifico ed il progresso tecnologico, in parallelo allo sviluppo delle conoscenze, delle metodologie e degli strumenti, che hanno permesso di individuare, localizzare, valutare, prevedere e monitorare il rischio, hanno prodotto un risultato particolarmente rilevante, atteso che hanno permesso di rendere visibili rischi in precedenza invisibili. La trasformazione dei rischi invisibili in rischi visibili è stata resa possibile dai progressi della scienza e della tecnologia, perchè gli stessi hanno reso disponibili le conoscenze e gli strumenti richiesti a tale scopo. E’ significativo, al riguardo, lo sviluppo delle conoscenze in materia di rischi microscopici o sub-atomici, reso possibile dalla disponibilità dei potenti microscopi elettronici e dai contatori geiger, utilizzando i quali è stato possibile, rispettivamente, rendere visibili gli agenti patogeni di dimensioni inaccessibili sia all’occhio umano che a questo assistito dai normali microscopi, e rendere analizzabili gli stessi tramite le radiazioni emesse dai radioisotopi.

    Ma i progressi della scienza e della tecnologia sono andati ben oltre. Essi, tramite le simulazioni tridimensionali effettuate al computer, e l’elaborazione elettronica globale dei dati, hanno reso possibile la trasformazione dei rischi invisibili in rischi virtuali. Negli stadi più avanzati dei progressi in esame, poi, si è passati dai rischi virtuali all’ iper-realtà dei rischi virtuali. Quest’ultima è una realtà costruita e, in quanto tale, non fa riferimento ad una realtà originale. Essa infatti è il risultato della mediazione tecnologica dell’esperienza, nella quale ciò che viene assunto come realtà è una serie di immagini e di segni senza alcun referente esterno, sì che ciò che essa esprime è una rappresentazione in sé (27). L’iper-realtà molto spesso viene amplificata dai media, con la conseguenza di produrre un rischio addizionale, ossia il rischio che le persone finiscano con il confondere la realtà con l’iper-realtà ed alimentino preoccupazioni esagerate su scenari di rischi ipotetici. Ciò indubbiamente ha avuto conseguenze sociali di notevole rilevanza, atteso che ha portato la società ad accrescere la sua consapevolezza verso il rischio ed all’affermarsi nel suo ambito di una coscienza collettiva del rischio. Per quanto detto ora, nel tempo la società del rischio si è venuta configurando sempre più come una società, al tempo stesso, determinata e dipendente dalla scienza e dalla tecnologia. E, visto che i progressi di queste ultime si traducono in progressi delle conoscenze e dell’informazione, la società del rischio ha finito col legarsi sempre più alla Società della conoscenza ed alla Società dell’informazione, che caratterizzano la società postmoderna(28).

    Ma i rapporti tra la società del rischio e la tecnologia sono molto più complessi di quanto abbiamo avuto modo di chiarire in precedenza. In vero, i notevoli progressi della tecnologia hanno contribuito a spostare l’enfasi dai rischi naturali ai rischi tecnologici. Questo è avvenuto perchè la scienza e la tecnologia hanno contribuito ad aumentare i rischi, non solo rendendo visibili numerosi rischi in precedenza invisibili, ma anche perché direttamente hanno prodotto nuovi rischi. Le società dei secoli precedenti erano vulnerabili ai pericoli naturali, quali le alluvioni, gli incendi, i cicloni e le epidemie, rischi ai quali continua ad essere esposta anche la società attuale. Gli è però che quest’ultima, ossia la Società del rischio, è vulnerabile, in aggiunta, anche ai rischi tecnologici, quali, ad esempio, i rischi legati agli sviluppi dell’energia nucleare, della chimica, delle tecnologie biomedicali, delle nanotecnologie. Paradossalmente, i rischi tecnologici non sono effetti prodotti dagli insuccessi della scienza, della tecnica e della tecnologia, come correntemente, ma erroneamente, si tende a credere, ma sono conseguenze non ricercate, e quindi non previste, del grande successo dei progressi realizzati nelle stesse (29).

    A differenziare i rischi prodotti dal progresso tecnologico dai rischi prodotti dalle forze della natura è la responsabilità collettiva della loro presenza. I rischi della società del rischio sono un prodotto degli agenti e delle istituzioni della società, in particolare dei ricercatori e dei tecnologi e dei risultati dei loro studi e delle innovazioni tecnologiche da essi prodotte. E’ per questo che i sociologi descrivono i rischi della società del rischio come rischi socialmente costruiti. Paradossalmente, sebbene siamo collettivamente responsabili della creazione dei rischi prodotti dalla scienza e dalla tecnologia, nello stadio più avanzato della società moderna e nella prima fase della società post-moderna abbiamo assistito ad una fuga di responsabilità nella gestione e nella governance dei rischi. Questa irresponsabilità organizzata riflette il fatto che, sebbene i rischi della società del rischio siano prodotti da molte persone ed organizzazioni, separate nel tempo e nello spazio, la responsabilità per il monitoraggio dei loro livelli, per evitare l’accadimento degli eventi che li causano, per sviluppare le politiche volte ad evitarli e per indennizzare le vittime degli stessi, spesso è negata, ritardata, differita o evitata (30). Ad avviso di Beck, l’irresponsabilità organizzata spiega perché le istituzioni della società debbono inevitabilmente conoscere la realtà delle catastrofi ma, al tempo stesso, negarne l’esistenza, coprendo le loro origini e precludendo l’indennizzo o il controllo (31). Ma c’è di più. Per i rischi che, a motivo delle loro caratteristiche, superano i confini nazionali e diventano rischi globali, risulta problematico individuare l’autorità o l’organizzazione responsabile del loro governo. Rientrano tra questi rischi le piogge acide, l’inquinamento atmosferico ed il buco dell’ozono (32).

    Adams non condivide la posizione di Beck sull’ irresponsabilità organizzata. A suo avviso, infatti, la società del rischio si caratterizza per l’eccesso di regolamentazione e di legislazione. Questo è avvenuto e continua ad avvenire perchè, sotto la minaccia del rischio crescente di litigiosità, i governi, le imprese e la scienza debbono destinare rilevanti volumi di risorse alla definizione di protocolli di regolamentazione ed attenersi a precisi standard per evitare i rischi di salute pubblica e di sicurezza, nonché i rischi di integrità e di reputazione professionale (33). E’ per questa ragione che attualmente alcune professioni, in particolare quelle mediche, sono a rischio di collasso, a motivo degli enormi indennizzi richiesti a chi le esercita. Ad avviso di Luhman il ricorso esagerato alle tecnologie di sicurezza, alla regolamentazione ed ai sistemi di preallarme può creare un rischio di compiacenza, atteso che le persone, in parallelo, tendono a sviluppare un senso di falsa sicurezza, di dipendenza dalla tecnologia ed una fuga dalla responsabilità personale negli ambienti a rischio(34).

    Un’altra dimensione molto importante della società del rischio riguarda il fatto che i rischi attraversano in continuazione una serie di confini. Così, vengono in continuazione attraversati i confini esistenti tra le valutazioni dei rischi effettuate dagli esperti e le percezioni dei rischi da parte dei membri della società. In altro aspetto, c’è l’attraversamento sistematico del confine tra i rischi invisibili ed i rischi visibili, tra la realtà, l’hyper-realtà e la realtà virtuale. Ed ancora. I rischi inevitabili della società del rischio attraversano le classi, i generi ed i confini razziali, facendoli emergere come rischi ugualitari o rischi democratici. I rischi casuali ed imprevedibili della ricerca scientifica attraversano i confini dell’impossibile, del possibile e del probabile, aumentando così la probabilità di quelli che Perrow ha descritto come incidenti normali. Secondo questo autore, infatti, ciò che è stato accertato scientificamente come impossibile o improbabile, prevedibilmente può accadere (35). Ed ancora. Secondo Weinberg i rischi della società del rischio attraversano i confini tra la scienza e la Trascienza. Quest’ultima da intendere, a suo avviso, come l’insieme delle domande che possono essere rivolte alla scienza ma alle quali essa non sa dare risposta(36). In altri termini, i rischi della società del rischio non sono solamente problemi di tecnologia, ma anche problemi per la tecnologia.

    A caratterizzare la società del rischio concorre anche la dimensione politica. In vero, a ben osservare la società del rischio è il risultato di una serie di decisioni politiche, che sono il prodotto di relazioni di potere. Già la definizione di un rischio è una decisione politica, atteso che comporta la definizione della linea di separazione tra rischi accettabili e rischi che non possono essere accettati. In altro aspetto, è una decisione politica quella riguardante l’allocazione delle risorse disponibili tra la ricerca sul rischio e la loro destinazione alle politiche di eliminazione del rischio, quando ciò sia possibile, o di riduzione del rischio (prevenzione e protezione). Ma la dimensione politica della società del rischio è ben più ampia, atteso che, secondo Irwin, i rischi in essa presenti rappresentano una nuova minaccia ai nostri valori politici fondamentali di libertà, di uguaglianza, di giustizia, di diritti e di democrazia. Infatti, quest’ultima è a rischio quando i cittadini non possono partecipare alle decisioni che determinano la qualità della loro vita (37). Questo avviene, ad esempio, quando ai cittadini è impedito di partecipare alle decisioni riguardanti il contenuto della scienza o la condotta degli scienziati. Va rilevato, poi, che il processo di decisione democratico è a rischio di essere eclissato da un processo di decisione tecnocratico. Analogamente la democrazia è a rischio quando ai cittadini viene impedito di partecipare alle decisioni di rilevante importanza, quali sono quelle finalizzate a definire gli interventi a difesa del suolo, gli interventi per il potenziamento degli argini e la regolazione dei corsi d’acqua, la localizzazione delle attività industriali nocive. Nel caso dei rischi ambientali particolarmente alti la libertà dei cittadini è a rischio. Infatti, in assenza di interventi di protezione e di sicurezza, anche la libertà viene messa in discussione. In vero, uno dei ruoli che legittimano il governo in una democrazia liberale è quello di proteggere la libertà dei cittadini salvaguardando la loro sicurezza.

    Sotto un altro profilo, la dimensione politica della società del rischio può essere colta facendo riferimento ai gruppi di azione che si mobilitano, secondo i casi, per sostenere o per contrastare le soluzioni proposte per alcuni problemi riguardanti i rischi. Rientrano tra questi i gruppi quali Greenpeace, Friends of the Earth, orientati ad accrescere la consapevolezza del rischio, ad aumentare l’ostilità verso i produttori di rischi ed a ridurre le conseguenze negative dei rischi sulla società.

    Una delle dimensioni più rilevanti della società del rischio riguarda l’aumento dell’importanza della percezione del rischio rispetto al rischio effettivo.

    Secondo Sofsky il modo in cui le persone affrontano i rischi non è affatto razionale, atteso che esse si basano sulla loro percezione anziché sulla loro consistenza effettiva. Percezione, che non è influenzata tanto dalla situazione oggettiva quanto dal bisogno di equilibrio interiore (38). Si spiega così perché le persone tendano a dare minore importanza ai rischi ai quali si espongono volontariamente (fumo, alcool, tabacco, droga, ecc.) mentre attribuiscono maggiore importanza ai rischi prodotti da altri. Ne consegue, che le persone non si comportano in base alla conoscenza che hanno dei rischi ma in base alle informazioni delle quali dispongono sugli stessi, selezionate in funzione dei loro orientamenti e dei loro convincimenti. Ciò sta a significare che l’aumento delle conoscenze sui rischi non sempre ha una valenza positiva, atteso che quando lo stesso avviene tramite informazioni distorte può generare insicurezza e bloccare la decisione, atteso che, in parallelo, aumenta la consapevolezza verso gli stessi.

    Sulla percezione dei rischi influisce più l’immaginazione che non la conoscenza. Questo spiega l’allarmismo diffuso per il verificarsi di nuove catastrofi di portata mondiale, che genera paura e, come conseguenza di questa, altera ingiustificatamente la consapevolezza sulla loro bassa probabilità di verificarsi. L’insicurezza e la paura non dipendono tanto dalle informazioni che si hanno sulla possibilità che dati eventi possano accadere o meno quanto dalle percezioni che gli stessi possano verificarsi. E spesso accade che si crei un circolo vizioso, vale a dire che l’insicurezza generi paura e che quest’ultima concorra ad accrescere l’insicurezza. Molto opportunamente è stato rilevato al riguardo che benchè il benessere e la durata della vita umana abbiano raggiunto i livelli massimi, dilaga un senso generale di insicurezza e di caducità che rasenta l’isteria (39).

    A caratterizzare la società del rischio concorre, da un lato, l’aumento dell’allarmismo e, dall’altro, il tentativo diffuso, ma purtroppo illusorio, oltre che costoso, di eliminazione del rischio.

    Secondo Slovic i pregiudizi e gli errori di valutazione, presenti nella percezione dei rischi a livello individuale, tendono ad amplificarsi a seguito delle iterazioni delle persone tra loro (40). Tra i meccanismi che contribuiscono all’amplificazione sociale della percezione del rischio ha indubbiamente un ruolo importante quello dell’informazione. In vero, sulla percezione del rischio incide il volume delle informazioni disponibili, il livello di drammatizzazione nel quale sono presentate, il grado di incertezza che le caratterizza, il loro valore simbolico. A loro volta, l’interpretazione e le risposte del pubblico al flusso di informazioni disponibili dipendono da una serie di fattori, tra i quali vanno ricordati i valori individuali e sociali, il fatto che il rischio considerato sia presente nell’agenda dei gruppi sociali e politici, il livello di allarme che il rischio presenta, la stigmatizzazione morale del rischio considerato da parte di un gruppo sociale (41).

    Sulla percezione dei rischi incidono alcuni meccanismi psicologici, che possono indurre le persone in errore nel valutarne la portata. Questi meccanismi, denominati euristiche, consistono in scorciatoie utilizzate per valutare i rischi in tempi brevi e che, per non tenere conto di tutte le loro dimensioni rilevanti, possono indurre in errore. Il primo di questi meccanismi è l’ euristica della disponibilità. Questa euristica induce le persone a ritenere un rischio più probabile se, sulla base delle esperienze precedenti, hanno memoria delle conseguenze che esso può produrre quando si verifica. Per quanto detto, il meccanismo in esame induce le persone ad attribuire una probabilità maggiore di accadimento ad un dato evento quanto più agevolmente esse possono richiamare alla mente un evento dannoso che rappresenti l’avverarsi del rischio. Al riguardo, sarà sufficiente richiamare l’incidente di Chernobyl per spiegare la paura verso le centrali nucleari.

    E’ agevole comprendere come l’utilizzo dell’euristica della disponibilità possa distorcere la percezione del rischio. Incidenti catastrofici o spettacolari, anche se isolati, alimentano un’alta attenzione dei media e sono destinati a rimanere impressi a lungo nella nostra mente. Accade così che rischi molto pubblicizzati, anche se verificatisi in numero esiguo, siano valutati come rischi altamente dannosi e, per converso, che rischi più frequenti e in grado di produrre danni rilevanti, ma poco pubblicizzati, vengano percepiti come rischi non particolarmente dannosi.

    Un’ altra euristica che contribuisce a distorcere la percezione del rischio è la scarsa attenzione alla probabilità. Questo, perché le persone, nella valutazione individuale dei rischi ai quali sono esposte, tendono ad attribuire maggiore importanza all’emozione provata nel vedere le immagini di un incidente catastrofico che non alla sua probabilità di verificarsi.

    Ad influenzare la percezione del rischio concorre anche il sentimento più diffuso dell’avversione alla perdita rispetto a quello dell’avversione al rischio.

    In altro aspetto, la percezione del rischio da parte delle persone è influenzata dal pregiudizio della benevolenza della natura. In generale, infatti, le persone sono convinte che le sostanze chimiche presenti nella natura siano meno pericolose di quelle prodotte dall’industria. Questo, però, non sempre risponde al vero. Cosi, gli OGM, secondo le posizioni più progredite della scienza, non producono rischi per l’alimentazione, e di conseguenza per la salute umana. Al contrario, il tabacco, tipico prodotto naturale, è scientificamente provato che può produrre numerosi e seri danni alla salute umana.

    A distorcere la percezione dei rischi a livello individuale concorre anche e con peso rilevante l’omissione della considerazione degli effetti sistemici. Ciò accade perché i rischi molto spesso sono valutati isolatamente, ossia senza considerare, da un lato, i benefici originati dalla loro assunzione sugli altri rischi e, dall’altro, le conseguenze che possono derivare dalla loro eliminazione sugli altri rischi.

    Il riferimento ai meccanismi psicologici se, da un lato, spiega la diversa valutazione di dati rischi da parte del pubblico rispetto a quella degli esperti, dall’altra, però, non spiega perché numerosissime persone possano incorrere contemporaneamente negli stessi errori. Questo accade, secondo Sustein, perché gli individui definiscono le loro percezioni in modo interdipendente: le percezioni di ciascuno aiutano a definire quelle degli altri. Accade così che, spesso, l’errata percezione della gravità di un rischio non venga messa in discussione dal confronto tra differenti persone, ma anzi ne risulti rafforzata(42).

    I meccanismi sociali che concorrono a rendere possibili questi rafforzamenti delle percezioni errate sono fondamentalmente due: la cascata di disponibilità e la polarizzazione di gruppo(43).

    La cascata di disponibilità fa sì che gli eventi dannosi, che hanno colpito profondamente la nostra sensibilità, siamo portati a comunicarli agli altri, innescando così un effetto a cascata, atteso che l’evento negativo ed impressionante diventa disponibile ad un numero di persone via via crescente. Accade così che milioni di individui possano formarsi convinzioni errate, ossia temere l’incidenza sulla loro vita quotidiana di rischi che difficilmente potranno colpirli (ad esempio, la SARS, l’attacco terroristico, l’HIV) (44).

    La polarizzazione di gruppo riflette il fatto che persone con convinzioni simili, dialogando tra loro, possano rafforzare la loro posizione di partenza. Può accadere così che le persone, dialogando tra loro, possano aumentare in misura ingiustificata le loro preoccupazioni per rischi che, per le conseguenze attese, risultano sopravvalutati (45).

    La polarizzazione di gruppo al presente è potenziata dalle nuove tecnologie ed in particolare da internet e dai social net-work. Questi mezzi, quindi, possono contribuire a rafforzare sentimenti di paura o a generare panico ingiustificato tra il pubblico.

    A caratterizzare la società del rischio concorre con peso rilevante la cultura. I valori culturali sono le componenti determinanti della percezione del rischio a livello individuale e della propensione a correrlo o ad evitarlo. I fattori culturali concorrono a determinare, non solo quali rischi le persone siano disposte a correre, ma anche quali informazioni sull’esistenza dei rischi possano essere riconosciute credibili (46).

    La cultura sta alla base della risposta emotiva ai rischi. Essa, pertanto, permette di spiegare i meccanismi psicologici, quali il disinteresse per la probabilità o l’ euristica della disponibilità, dei quali abbiamo detto in precedenza. Gli è che le valutazioni dei rischi da parte delle persone dipendono dai valori di riferimento di chi valuta il rischio e che lo portano a distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Quanto ora detto sta a significare che le emozioni contengono giudizi di valore modellati dalle norme sociali. In altri termini, le persone conformano la percezione dei rischi e dei benefici di una determinata attività al significato positivo o negativo che le norme culturali portano ad attribuire alla stessa (47).

    Anche i meccanismi sociali di amplificazione del rischio dipendono dai valori culturali. Infatti, nella realtà le persone, quando non sanno valutare se una data attività sia rischiosa, si affidano al giudizio degli altri e sono portati a fidarsi di coloro che condividono con loro un sistema di valori comuni. Ne consegue, che la percezione dei rischi tende ad essere uniforme all’interno di ciascun gruppo che condivide valori comuni e, di riflesso, a differenziarsi tra i vari gruppi che hanno diversi valori di riferimento. Corre l’occasione per osservare che i meccanismi della polarizzazione di gruppo e delle cascate di disponibilità sono endogeni alla cultura.

    Secondo Douglas e Wildavsky, fondatori della Teoria culturale del rischio, dai dibattiti riguardanti il rischio nelle società occidentali emergono tre evidenze particolari. In primo luogo, è dato di rilevare un sostanziale disaccordo su cosa sia rischioso, su quanto lo sia e su cosa fare al riguardo. In secondo luogo, è dato di rilevare che persone diverse si preoccupano di rischi diversi. In terzo luogo, non sempre c’è una correlazione tra la conoscenza e l’azione (48). A loro avviso, a livello delle politiche pubbliche è dato di rilevare una polarizzazione verso i rischi legati agli affari esteri (guerra, perdita di prestigio internazionale), i rischi legati alla criminalità, i rischi legati all’inquinamento, i rischi legati alla crisi economica. Secondo questi studiosi, le persone non si preoccupano allo stesso modo dei quattro tipi di rischi considerati. Questo, perché, a loro avviso, esse, nello scegliere quali rischi considerare accettabili, fanno leva sui valori, sulle preferenze e sulle alternative considerate. Sì che la selezione ha una natura politica(49).

    Ogni società genera il suo tipo di responsabilità e si concentra su particolari rischi. La teoria culturale della percezione dei rischi sostiene che è il contesto sociale e culturale che condiziona la selezione dei rischi da correre o da evitare. In questa logica, alcuni rischi sono temuti più di altri perché per essi c’è un giudizio negativo su un piano morale. Così, per fare un esempio, il rischio di tumore legato all’amianto è più temuto di quello dell’esposizione ai raggi solari, perché per il primo c’è una condanna da parte della società, mentre per il secondo la stessa è assente.

    Ad avviso di Dougals e Wilasvsky sia il calcolo delle probabilità che le teorie soggettivistiche della percezione del rischio non permettono di spiegare perché le persone decidono di ignorare la maggior parte dei rischi che le circondano per concentrarsi solo su alcuni di essi. Secondo questi studiosi, per trovare la spiegazione di tanto è necessario tenere presente che quando si calcola la probabilità di un danno prodotto dalla tecnologia si fa riferimento a rischi che stanno al nostro esterno, ossia nell’ambiente che ci circonda, mentre quando si valuta l’accettabilità di un rischio si fa riferimento ad un giudizio interno alla mente della persona. Per attraversare il confine tra l’ esterno e l’ interno è necessario realizzare una connessione tra i rischi prodotti dalla tecnologia e la loro percezione da parte delle persone. A tale scopo, s’impone il ricorso all’ approccio culturale, l’unico in grado di integrare il giudizio morale sul come si dovrebbe vivere con il giudizio empirico su come il mondo è (50).

    Secondo gli studiosi citati, ogni cultura, ossia ogni gruppo di persone che condivide un sistema di valori e sostiene determinate istituzioni, è portata dal pregiudizio a sopravvalutare determinati rischi ed a sottovalutarne altri. In altri termini, le persone sono portate a selezionare i rischi sulla base di giudizi morali e politici (51).

    Sulle decisioni dei rischi che si intendono correre nella vita reale i valori condivisi hanno un peso maggiore dei risultati ottenuti dal calcolo dei rischi. In altro aspetto, nella selezione del rischio da parte delle persone e della società è rilevante l’orizzonte futuro al quale si fa riferimento. Questo, perché quanto più lontano è l’orizzonte tanto maggiore sarà l’incertezza percepita. Ed in rapporto a quest’ultima diventa rilevante la fiducia nel futuro, nelle persone, nella società, nelle istituzioni e nelle loro capacità di affrontare e risolvere i problemi (52).

    La Teoria culturale permette di spiegare perché gli esperti con le loro ricerche possano giungere a differenti risultati nell’affrontare la valutazione degli stessi rischi. Gli è che anch’essi nelle loro valutazioni sono condizionati da pregiudizi culturali e dai particolari valori condivisi. Ciò spiega anche perché la comunità scientifica in materia di valutazione di rischi di notevole portata sia divisa e politicizzata (53).

    Secondo gli studiosi citati, nella società contemporanea i rischi più temuti sono quelli derivanti dalla violenza umana (guerra, terrorismo, crimine), dalla tecnologia e dalla crisi economica. Questa scelta non è frutto di una valutazione diretta ma è mediata dal riferimento al tipo di società ideale, che tende a modificarsi nel corso del tempo. Di conseguenza, a loro avviso, chi è inserito in un contesto culturale non può che leggere la realtà attraverso le lenti costruite dalla cultura prevalente nello stesso(54).

    Con riguardo alla gestione del rischio gli studiosi citati sostengono che l’avversione al rischio porta ad anticipare i pericoli ed a creare organizzazioni di notevoli dimensioni, caratterizzate da un potere centralizzato, allo scopo di utilizzare ingenti volumi di risorse per proteggere la società dai possibili danni che la minacciano. Come conseguenza delle misure anticipatorie le probabilità che i rischi conosciuti si verifichino diminuiscono. In parallelo, però, aumentano le probabilità che rischi non previsti si verifichino e causino conseguenze catastrofiche, sia perché le risorse disponibili sono state già impiegate in misure preventive, sia perché il falso senso di sicurezza indotto dalle misure preventive compromette il fronteggiamento dell’emergenza. Molto opportunamente i due studiosi sostengono che per la sopravvivenza, ancor più della protezione, è fondamentale la resilienza, intesa come la capacità di usare il cambiamento per fronteggiare ciò che non si conosce (55).

    In rapporto alla gestione del rischio si pone quindi l’alternativa tra il ricorso alla prevenzione, che fa leva sull’uniformità, ed il ricorso alla resilienza, che fa leva sulla varietà. Infatti, una politica di gestione del rischio improntata alla resilienza, invece di tentare di affrontare tutti i rischi in anticipo, si concentra su quelli più rilevanti, facendo affidamento sul fatto che il sistema considerato sarà in grado di rispondere anticipatamente agli imprevisti e di correggere gli eventuali errori. In altri termini, dal momento che non si può prevedere il futuro, se non entro certi limiti, la migliore difesa contro i rischi è la diversità e la flessibilità. Tentare di contenere il rischio riducendo la varietà può avere l’effetto opposto a quello cercato, ossia accrescerlo. Questo, sia perché chi dovrà fronteggiare i nuovi rischi potrebbe trovarsi impreparato, sia perché chi non affronta più i vecchi rischi può diventare più vulnerabile quando la situazione cambia. Pertanto, a loro avviso, se la selezione del rischio è una questione di organizzazione sociale, la sua gestione è un problema organizzativo. Poiché ci è difficile anticipare con fondamento quali rischi dovremo affrontare in futuro, il modo migliore per far fronte al rischio è quello di organizzare le istituzioni in modo tale che al suo verificarsi sappiano reagire in modo flessibile ed efficace (56).

    SECONDA PARTE

    L’AMPIO E VARIEGATO MONDO DEL RISCHIO

    1. L’ampio, variegato e dinamico mondo del rischio: dal micro- rischio alle grandi catastrofi

    In precedenza abbiamo utilizzato semplicemente il termine Rischio. Nella realtà esistono numerosi e differenti tipi di rischio, che, nel loro insieme, lungi dal presentarsi come una realtà statica, sono in continua evoluzione e riflettono il cambiamento che caratterizza e contraddistingue le attività umane. Rientrano nel mondo del rischio rischi di differente natura e di differente portata. Si va dai microrischi (ad esempio, il rischio legato ad un virus) ai rischi di dimensioni via via crescenti (ad esempio, gli incendi di notevole portata), ai rischi epidemici, ai rischi catastrofali (terremoti, uragani, disastri ambientali ed altri), agli attacchi terroristici, dai rischi riguardanti le persone ai rischi riguardanti i beni, dai rischi puri ai rischi speculativi, dai rischi operativi ai rischi strategici, dai rischi sanitari ai rischi pandemici, dai rischi privati ai rischi pubblici, dal rischio paese ai rischi mondiali.

    In questa parte del nostro scritto ci proponiamo di dire della differenziazione e dell’evoluzione dei rischi e di approfondire in particolare alcune categorie di rischi.

    Prima di addentrarci nella differenziazione dei rischi riteniamo utile richiamare l’deogramma utilizzato dai cinesi per descrivere il rischio:

    com’è possibile rilevare esso si compone di due parti, delle quali la prima fa riferimento al pericolo, al quale si lega il rischio a valenza negativa, e la seconda fa riferimento alle opportunità, ossia al rischio a valenza positiva. Per quanto detto, i cinesi, con maggiore coerenza alla realtà, attribuiscono al termine rischio un significato più ampio di quello che noi correntemente attribuiamo allo stesso, limitandolo al rischio a valenza negativa.

    Nell’affrontare l’esposizione finalizzata all’individuazione delle differenti tipologie di rischi dobbiamo dire in primo luogo dell’importante differenziazione tra i Rischi puri ed i Rischi speculativi. I primi sono i rischi che al loro verificarsi possono generare solo conseguenze economiche negative, ossia danni o perdite. Così, ad esempio, il verificarsi di un incendio può generare solo danni. I secondi sono i rischi che al loro verificarsi possono generare conseguenze economiche negative o conseguenze economiche

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