Samarcanda
By Luigi Colla
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Samarcanda - Luigi Colla
saggezza.
Prefazione
La storia che mi accingo a raccontare, riassume, credo, il percorso ideologico di un giovane, che scopre attraverso una sua tumultuosa esperienza, la radicata convenzionalità delle idee.
Tutto periodicamente cambia, ma gli schemi sociali utilizzati sono sempre gli stessi rivoltati e stirati, e che magari appaiono moderni solo alle nuove generazioni che non hanno ancora avuto il tempo di rispolverare la storia.
Mi chiamo, Olmo Duranti, Olmo, perché dalle mie parti è un nome abbastanza diffuso, Duranti, beh…quello l’ ho ereditato pari, pari, da mio padre.
Eravamo all’inizio degli anni ottanta. In quel tempo lavoravo per un giornale di Milano. Il ruolo di corrispondente estero mi teneva per lungo tempo lontano di casa. Certe volte i viaggi duravano settimane o addirittura mesi. La relativa giovane età, 34 anni, mi era d’aiuto, cosicché, viaggiare non mi pesava molto, quella quotidianità un po’ bizzarra e piena d’imprevisti la trovavo congeniale.
Ricordo, che in quel periodo chiesi di fermarmi in sede, per via di una congiuntivite che avevo deciso di curare in maniera definitiva. Per quello, bighellonavo ormai da giorni in redazione portando certi occhiali neri alla Ray Charles.
Quando finalmente alle dieci e trenta mi presentai al giornale, Mara, mi annunciò che da circa un paio d’ore, il mio capo redattore mi stava cercando. Alla scrivania trovai un biglietto, anzi un cartello. A grandi lettere c’era scritto: Quando la signoria vostra sarà comoda, gradirei - anche breve - apparizione nel mio ufficio. Giunto alla porta di vetro smerigliato, bussai timidamente con due tocchi. Dall’interno mi giunse una specie di rantolo - di quelli che riescono a fare solo chi fuma più di venti sigarette al giorno.
< Alla buon ora >. Così, mi sembrò di capire dal ruggito di Carlo.
Carlo era il mio direttore, era lui che commissionava le trasferte estere, il lavoro consisteva nell’aggiornamento in tempo reale dei fatti salienti, relativi ai cambiamenti politici. Quella volta intuii che poteva trattarsi di una cosa importante. Senza tanti preamboli m’incalzò dicendo: < Preparati che le vacanze sono finite >.
< Ma…scusa…e i miei occhi? >.
< Non preoccuparti, con gli occhiali che ti ritrovi puoi andare in capo al mondo >. Sapevo che in quei frangenti non valeva la pena discutere, aveva già deciso tutto lui, dissi solo:
< dove si va stavolta? >
< Dove si va? Tu, vai! Io rimango qui a Milano a fumarmi le mie sigarette in santa pace >. Nel frattempo, prese una grossa busta e me la lanciò lungo la scrivania. < Leggi, è tutto dettagliato in quelle carte >. Presi la busta e mi accovacciai sulla poltrona di pelle sgualcita in fondo alla stanza. La missione stavolta era nientemeno che in Nicaragua. Sembrava prossimo il trentaquattresimo colpo di stato, ormai erano numerati come i festival di San Remo. Stavo ancora leggendo, quando Carlo, dopo un cavernoso colpo di tosse disse: < Stavolta portati i calzini di ricambio perché dovrai star via parecchio >.
< Scusa Carlo? Perché quando c’è da star via parecchio, mandate sempre me? >
< Mi sembra intuitivo! Non hai né cani, né gatti, né canarini, una ragazza seria, che io sappia, non l’ hai mai avuta, quindi l’unico che sentirà un po’ tua la mancanza, sarò io, ma sai… a tutto ci si abitua.
Ha! Dimenticavo…guarda che l’aereo parte fra sei ore, fai giusto in tempo a salutare la zia.>
Ormai conoscevo il suo cinico sarcasmo, ma sapevo che era un buon amico e nonostante tutto riusciva ancora a divertirmi.
Capitolo primo
Sull’isola
Era circa mezzanotte, quando il mio aereo s’alzava dall’aeroporto di Malpensa diretto a Managua. Seduto sulla poltroncina di seconda classe vicino al finestrino, osservavo il gioco delle nuvole scorrere di sotto le ali. Non so perché, ma i viaggi in aereo hanno - per me- un effetto rilassante. Posso meglio pensare a certe remote cose e tralasciare quelle ordinarie del lavoro. Mi venne tuttavia in mente, che stavo andando in un paese di cui non conoscevo ancora nulla o quasi. Le uniche notizie, le avevo apprese con la documentazione passatami dal giornale o lette su alcuni articoli d’archivio trovati in fretta prima di partire. Sapevo che Augusto César Sandino - uno dei simboli della resistenza contro l’egemonia statunitense di quelle regioni, prese il potere nel 33 ma fu ucciso dopo poco tempo dai membri della Guardia Nacional, allora guidata d’Anastasio Somoza Garcìa, che divenne capo indiscusso dello stato fino nel 56 quando fu ucciso dal marxista Lòpez Pérez.
Lopez, rimase pochissimo al governo del Nicaragua, anch’egli fu ucciso e ritornò al potere il figlio d’Anastasio: Luis Somoza Debayle. Morendo anch’egli nel 67, lasciò il potere al fratello. Praticamente, la famiglia Somoza guidò per quasi mezzo secolo il Nicaragua, insidiata -per quanto si potesse- da una guerriglia Sandinista che voleva riformare il paese.
Ecco la ragione del mio viaggio. Sembrava che gli Stati Uniti avessero definitivamente tolto l’appoggio a Somoza, anche a causa delle continue atrocità commesse contro i civili. Quindi i Sandinisti, dopo mezzo secolo di guerriglia stavano in quei giorni riprendendo il potere.
Scendendo la scaletta dell’aereo lo scenario che trovai era a dir poco allucinante, l’aeroporto rappresentava per migliaia di persone l’ultima opportunità per fuggire da Managua. Famiglie intere, rimanevano accalcate cercando di salire sul primo aereo che fosse riuscito a partire, non importava per quale destinazione, a loro, bastava allontanarsi il più possibile da uno stato con soluzioni incerte. Cera gente che alzava le braccia sventolando mazzette di dollari offrendoli al primo ufficiale che portava una divisa, con la speranza di avere un passaggio di fortuna su qualche aereo. Altri, si spingevano agli sportelli per acquistare biglietti per aerei ormai inesistenti. Era la prima volta che mi trovavo spettatore di uno scenario del genere. Avevo la netta impressione che tutta quella gente, per una ragione o per l’altra, avesse validi motivi per sottrarsi a dei probabili processi sommari che certo non sarebbero mancati.
Tutto sommato, quel clima era avvincente, la sensazione, era d’esser un corrispondente di guerra e questo mi faceva sentire importante.
La redazione mi aveva prenotato una stanza al Rivas hotel, una costruzione moderna a cinque piani in zona centrale, frequentato per lo più da giornalisti e uomini d’affari, quando giunsi col taxi, nessuno, naturalmente, si premurò di prendermi la valigia, i pochi fattorini rimasti erano già troppo impegnati nel portare messaggi a destra e sinistra, proprio, come fossero in stato d’assedio. Il clima abbastanza caotico non m’impedì d’arrivare all’accettazione dove trovai quasi subito un uomo con la cravatta allentata, che dopo aver rovistato fugacemente il registro mi assegnò la stanza, 34, non mi sfuggi la coincidenza. Si scusò per il disservizio dovuto alle condizioni d’emergenza e m’indicò il terzo piano. La mia stanza era proprio all’inizio di un lungo corridoio all’uscita dell’ascensore. L’interno era abbastanza spazioso: un solido letto matrimoniale, una scrivania e due sedie imbottite. Solamente il bagno con la doccia era un po’ angusto, in compenso la stanza era dotata di un’ampia finestra, attraverso la quale si poteva osservare il convulso traffico che ancora si aggrovigliava nella piazza sottostante.
Sistemai la poca roba che avevo portato e feci una doccia. Il caldo e l’umidità erano soffocanti, riposai poi qualche ora, il fuso orario mi aveva proprio frastornato.
Quando mi svegliai erano le sette di sera e già iniziava ad imbrunire, il sole cala presto ai tropici. Dalla mia finestra vedevo - all’estremità opposta della piazza - la sede dell’alcalde, (il municipio). Sporgendomi, sulla destra, potevo distinguere in lontananza, il palacio nacional, (il palazzo del governo) un grande edificio in stile liberty con colonnato frontale e la scalinata di marmo che raggiungeva una maestosa entrata principale.
I piccoli lampioni esterni al palazzo erano accesi, ma le finestre erano quasi tutte oscurate. Il trambusto nelle strade era ancora notevole. Si diceva che il grosso dei guerriglieri, con i loro mezzi, non sarebbero entrati fino all’alba del giorno successivo, anche se notoriamente, qualche sparuto gruppo si era già da tempo infiltrato in città.
Alle diciannove e trenta, scesi nell’hold dell’albergo. La sala ristorante era gremita. Un cameriere, anziano, mi accompagnò ad un tavolo già occupato da due persone. Dopo le presentazioni seppi che il più robusto era corrispondente del settimanale tedesco Der Spiegel.
L’altro, biondo, allampanato, era un giornalista del quotidiano Le monde
, anche loro, venuti per il previsto e imminente capovolgimento di regime. Non ci misi molto a simpatizzare col tedesco, forse perché si sforzava di parlare in italiano con la classica pronuncia di Germania. Il Francese, sembrava più impegnato a finire la sua bistecca, alzava poco la testa, e quando lo faceva, era per farsi passare qualche aggeggio fuori portata. In tutti i tavoli i discorsi erano simili, ognuno faceva pronostici nell’individuare l’ora in cui i Sandinisti sarebbero entrati in città; era molto probabile che quel tempo fosse già stato concordato fra le parti dopo la dichiarazione del cessate il fuoco. Purtroppo dal punto di vista giornalistico quella svolta era vissuta come la normale storia dell’ennesimo capovolgimento di un regime, ma i morti c’erano stati…e come. Infatti, di ben altro avviso sembravano essere gli abitanti di Managua, una città continuamente maltrattata e sottomessa da una dittatura a volte violenta e sanguinaria.
Conoscevano tutti, il capo dei guerriglieri Sandinisti, Daniel Ortega. Era lui che aspettavano l’indomani gloriosamente in testa alla parata per raggiungere i palazzi delle istituzioni.
Ai tavoli non si parlava d’altro, Addirittura si facevano pronostici su quanto sarebbe durato il nuovo regime.
Io, seduto a fianco dei miei due occasionali commensali, me ne stavo in disparte da questo lugubre cinismo, sapevo poco di quella storia e avevo troppo rispetto per il dolore di chi per questi giochi di potere subiscono lutti e miserie.
Giunti al caffé, finalmente il Francese alzò il capo dal piatto su cui da tempo era concentrato e mi rivolse la parola.
< Per quale giornale a detto che lavora? >. In realtà non l’avevo ancora detto e anche se per natura detesto la sufficienza di chi pone le domande a quel sistema, non volli in quel momento essere sgarbato e gli comunicai la testata del giornale per il quale lavoravo. < ah! > esclamò. < cinquecentomila copie!>. Già di per sé quella risposta m’indisponeva, era come dire: il mio ne fa molte di più. Per quel tipo di giornalisti un giornale si valuta in funzione delle copie vendute e non per la qualità degli articoli prodotti. Tuttavia ero ormai vaccinato alle uscite degli imbecilli e non era certo quello un motivo per indispettirmi più di tanto. Non volli in ogni modo seguirlo in quella sterile conversazione, senza dire altro, chiesi scusa e mi alzai dal tavolo, adducendo che il caffè lo avrei preso al banco.
Le persone ai tavoli si stavano già spostando verso la veranda dove si poteva seguire da vicino l’evoluzione convulsa degli ultimi fuggitivi.
E’ stupefacente osservare come le persone che abusano del potere, pensano di mantenerlo per sempre. A costoro, la storia - se ben ripetitiva - non ha ancora insegnato nulla, così ora, è la stessa storia che gli presenta il conto.
Quella sera, però, le sorprese non erano proprio finite. Ad un tratto si vide giungere a velocità sostenuta un camion militare che dopo una brusca frenata, si fermò proprio davanti all’ingresso dell’hotel. Dal mezzo scesero tre soldati della guardia nazionale, armati di tutto punto, entrarono a grandi passi e spararono all’impazzata alcune raffiche di mitra verso il soffitto colpendo i lampadari. Poi uno di loro corse all’accettazione, strappò dal suo posto l’addetto e chiese irruentemente di una certa persona. Quello, intimorito, fece segno verso un tavolo nella sala da pranzo. Al tavolo indicato, c’erano due uomini, alti, di taglia robusta e una giovane ragazza dai capelli scuri. Ignari di quello che stava per accadere, rimasero immobili, ma quando videro le guardie procedere a grandi passi verso di loro, uno dei due che stavano con la ragazza, cercò di mettere la mano all’interno della giacca ma fu subito colpito poderosamente con il calcio del fucile e cadde a terra.
Inutile affermare che dal mio punto di vista tutto questo stava prendendo una piega inaspettata, ma al tempo stesso mi recava un fascino mai provato, come dire, mi pareva di assistere alla scena di un film, con però emozioni cento volte amplificate. Anche la gente rimasta in sala ebbe un sussulto e credo il diffuso timore di soggiacere alle stesse violenze.
I tre soldati, senza battere ciglio, presero con una certa irruenza la ragazza, la trascinarono nervosamente verso l’uscita e la caricarono nella cabina del mezzo militare che sostava all’ingresso.
Sembrava tutto finito, quando improvvisamente i tre in divisa entrarono nuovamente nell’albergo e dopo aver sparato altri colpi in aria, domandarono a gran voce chi di noi era giornalista; come un imbecille, alzai la mano, altri quattro o cinque, dopo di me fecero lo stesso gesto, tra cui il tedesco che mi era compagno al tavolo. Non ci volle molto per capire quanto poco opportuna fosse stata quell’esibita qualifica. Subito dopo ci spinsero tutti e sei nel retro del camion. Facemmo appena in tempo a sederci su delle casse di fortuna poste sull’assito, che il mezzo militare ripartì a grande velocità lungo la statale 14, destinazione, ignota.
In quel momento non riuscivo a raccapezzarmi. Anch’io come gli altri mi sentivo smarrito e preoccupato. Il camion viaggiava veloce incurante dei passanti che per la stessa strada cercavano di uscire dalla città. Infatti secondo l’accordo tutti erano autorizzati – qualora lo desiderassero – a lasciare l’abitato, anche i soldati, purché disarmati e non belligeranti. Era proprio questo il punto, quei soldati sul camion avrebbero potuto evacuare come tutti se solo avessero lasciato le armi e non avessero portato con se quelle tre casse che noi stavamo utilizzando come sgabelli, ma probabilmente era proprio il trasporto di quelle, che gli creava non poche difficoltà. Di questo e d’altro ci rendemmo conto giungendo al primo posto di blocco.
La dinamica, fu semplice: dopo che ebbero intimato l’arresto del camion su cui eravamo traspostati, un graduato si avvicinò al finestrino e intimò all’autista di scendere. Per tutta risposta, l’autista puntò perentoriamente la pistola alla tempia della ragazza rapita che le stava seduta accanto e gridò a gran voce che la stessa era prigioniera del movimento repubblicano indipendentista e che l’avrebbero uccisa se non fossero state osservate punto per punto le clausole specificate nel foglio che proprio in quel momento gli stava passando.
Alcuni guerriglieri del blocco, all’ertati da questo imprevisto, impugnarono subito le armi, ma con un drastico gesto della mano, l’ufficiale capoposto richiamò tutti alla calma.
Rivolgendosi poi all’autista disse: < Chi è la ragazza che tenete in ostaggio? > Vi furono alcuni attimi d’esitazione, poi, finalmente la voce sicura del conducente disse: < Abbiamo in ostaggio la figlia di Daniel Ortega.> Una barriera di silenzio calò di colpo in mezzo ai soldati della guardia. Com’era possibile? Per quel che si sapeva, la figlia di Ortega studiava in incognito in Europa, e nessuno poteva sapere dove si trovasse. Purtroppo non era così. Sapemmo poi, che il padre, Daniel, appena dichiarata la fine delle belligeranze armate, volle che anche la figlia lontana, potesse assistere all’entrata ufficiale a Managua del valoroso esercito Sandinista. Fu così che Ortega, ritenne di organizzare il ritorno della figlia pensando di garantirne l’incolumità facendola scortare da due delle sue guardie, ma qualcuno si lasciò corrompere e la notizia venne opportuna ad un generale della vecchia guardia nazionale, che pensò di trarre da questo fatto, un sicuro lasciapassare per fuggire all’estero col bottino che si era procurato. C’erano cinquanta milioni di dollari racchiusi nelle casse dietro il camion, con le quali non sarebbe certamente potuto andare lontano se non avesse adottato qualche stratagemma.
La notizia del rapimento della figlia di Ortega, fece presto il giro delle pattuglie, Ortega stesso, dopo alcuni minuti, fu messo a conoscenza del fatto. Ciò che sembrava ormai solo una parata militare, si presentava ora con un risvolto imprevisto che andava risolto al più presto. Le clausole per salvaguardare la vita della figlia di Ortega, erano molto Chiare: il Generale Almovar, i tre soldati della guardia, ed i sei giornalisti presi in ostaggio, dovevano essere scortati senza intoppi fino al vicino aeroporto. Pronto sulla pista di decollo, doveva trovarsi un bimotore con il pieno di carburante per intraprendere il viaggio sino a Miami. Completato il carico, i giornalisti avrebbero proseguito la traversata fino in Florida con il commando, mentre la figlia di Ortega, sarebbe stata rilasciata al momento della partenza.
Poche clausole ma molto concise, osservando le quali, si sarebbe risolto tutto in breve tempo.
Il comandante Sandinista, non era tanto ingenuo da pensare che giunto al potere avrebbe trovato il patrimonio di stato intatto. Quindi, anche la perdita dei cinquanta milioni di dollari era in parte scontata, Quello che però non gli andava giù, era la furbata d’Almovar, e soprattutto d’avergli coinvolto la figlia. No! Quello non l’aveva gradito.
Ortega, accetto tutte le clausole richieste da Almovar, tuttavia, pensò di mettere in atto uno stratagemma. Anzitutto cercò di guadagnare tempo, poi, prima che il commandos arrivasse all’aeroporto, fece manomettere il condotto del carburante, praticandovi un foro e facendolo richiudere con un tappo mobile, cosicché una volta in volo quella specie di fungo con l’enorme pressione dell’aria si sarebbe sganciato disperdendo il carburante nell’atmosfera. Questo fatto, naturalmente, non avrebbe permesso ad Almovar di compiere l’intera traversata, ma lo avrebbe costretto ad un atterraggio di fortuna.
Ma le cose, si sa, non vanno sempre come si vorrebbe. Almovar, che in quanto