Conflitti - Istruzioni per l'uso: Come riconoscerli, come imparare a liberarsi dalla loro trappola, come farli diventare uno strumento di apprendimento
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Si tratta di accettare l’esistenza del conflitto e trasformarlo in una sfida: farlo diventare uno strumento di conoscenza, di noi stessi e degli altri con i quali entriamo in relazione, imparando così a gestirlo costruttivamente e a costruire esiti differenti rispetto alla sterile contrapposizione.
Quattro storie, realmente vissute dall’autrice, dove comprendere cosa succede quando si è implicati in un conflitto, quali sono le nostre premesse implicite, quali le nostre possibili distorsioni percettive, le nostre dinamiche di interpretazione e identificazione, i nostri pregiudizi e preconcetti. Un percorso che si snoda
dall’ignoranza inconsapevole (non so di avere un conflitto), all’ignoranza consapevole (so di avere un conflitto ma non so come affrontarlo), per passare alla conoscenza inconsapevole (ho compreso le dinamiche del conflitto e ho appreso la conoscenza degli strumenti, ma non sono ancora capace di scegliere consapevolmente quali atteggiamenti adottare) e infine alla conoscenza consapevole (ho compreso come funziona un conflitto, conosco gli strumenti per gestirlo e sono capace di scegliere consapevolmente quali atteggiamenti adottare), per dimostrare che è possibile imparare a gestire costruttivamente i conflitti, riconoscendo e modificando i blocchi interiori.
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Conflitti - Istruzioni per l'uso - Tiziana Fragomeni
gratitudine.
INTRODUZIONE
Che cosa succede quando siamo coinvolti in un conflitto? Che cosa ci spinge a sostenere la nostra posizione contro quella del nostro contendente? Che cosa scatena un conflitto e quali sono i suoi possibili esiti? Quali emozioni proviamo?
Poche cose hanno lo stesso potere di coinvolgerci quanto il conflitto.
Esso ci costringe a riflettere sul fatto che quando ne siamo coinvolti spesso siamo incapaci di liberarci dalla sua trappola e ne restiamo presi come mosche nella ragnatela.
Nessuno ci ha mai insegnato a riconoscere quando sta per nascere un conflitto, come comportarci quando ne siamo coinvolti, né tantomeno, figuriamoci, a prevenirlo.
Esiste però un’interessante possibilità, insita nel conflitto stesso: quella di utilizzarlo come strumento di conoscenza, innanzitutto di se stessi. La premessa da cui intendo partire è dunque quella di considerare il conflitto come un mezzo di conoscenza di se stessi.
Si tratta di accettare la sua esistenza e trasformarlo in una sfida, al fine di comprendere quali siano le possibilità che il conflitto contiene, cosa dallo stesso possiamo imparare, quanto il conflitto alla fine ci parli di noi e quanto esso possa diventare la migliore occasione per conoscerci, e conoscere meglio anche l’altro. Il conflitto può rappresentare uno strumento di apprendimento su come funzioniamo quando ne siamo coinvolti, cosa ci accade, quali emozioni proviamo e quali sono le alternative al rimanere imbrigliati nella sua trappola.
Conoscersi attraverso i propri conflitti significa alimentare la consapevolezza che spesso i conflitti che incontriamo fuori sono i conflitti che abbiamo dentro di noi e che non è combattendo il nostro antagonista che li risolviamo ma comprendendo invero, proprio attraverso colui che si oppone a noi, facendoci da specchio, chi siamo e in quale relazione possibile vogliamo stare.
Io non esisto senza di te, tu non esisti senza di me, ciò che conta è la nostra relazione.
Questo significa diventare consapevoli che i conflitti che ci accadono non sono eventi casuali nella nostra vita, anzi, spesso siamo noi stessi ad attrarli.
Acquisire consapevolezza significa riconoscere le premesse implicite delle loro trappole, che ci conducono a schemi fondati sull’aut/aut: arrendersi o cedere, persuadere o prevaricare, combattere o rinunciare; imparando a muoversi in altri mondi possibili dove apprendere una differente e costruttiva gestione dei conflitti, trasformandoli anche in una risorsa relazionale.
Il conflitto ha più poteri, può, attraverso gli schemi fondati sull’aut/aut, perturbarci e accecarci, così da renderci preda della sua trappola, oppure trasformarsi in uno strumento di conoscenza di noi stessi e degli altri con cui entriamo in relazione. Conoscersi attraverso i propri conflitti significa sapersi ascoltare per imparare ad ascoltare veramente gli altri, sviluppare la capacità di osservazione sia fuori che dentro di noi, comprendere i nostri bisogni, paure, timori, desideri, speranze, aspettative (che appartengono anche ai nostri confliggenti), sviluppare autoconsapevolezza emozionale per entrare in risonanza con il mondo degli altri.
Tale conoscenza conduce ad acquisire potere, anziché cederlo nel conflitto al nostro antagonista; solo chi conosce se stesso può governare il conflitto e non esserne governato, comprendendo che cosa fare e decidendo quali nuovi atteggiamenti assumere, al fine di trasformare ciò che sembrava incompatibile e bloccato, e aprire così la strada ad una nuova prospettiva e ad un esito differente e produttivo.
Pur essendo i dati teorici la base necessaria per lo studio del conflitto, nessun sapere teorico sullo stesso, seppure in parte necessario per la comprensione del suo funzionamento, può portarci ad uscire dalla sua trappola e a trasformarlo in una sfida per costruire esiti differenti rispetto alla sterile contrapposizione.
Si tratta qui di invertire l’ordine dei fattori di un processo di apprendimento: anziché esporre la teoria del conflitto per poi applicare i concetti nella pratica, si partirà dall’esperienza per entrare poi nella disamina della teoria.
Il testo dunque si fonda sulla narrazione di conflitti realmente vissuti nel corso della mia vita, i quali verranno esaminati al fine di costruire, partendo dunque da esperienze concrete, la teoria.
Il punto di partenza, ricordiamoci, è lavorare sui propri conflitti, accettare la sfida che questi ci pongono e utilizzarli come strumenti di conoscenza di noi stessi, per conoscere meglio anche colui/colei con il quale entriamo in relazione conflittuale: il conflitto come maestro di conoscenza.
Il primo passo, dunque, è riconoscere di avere un conflitto, uscendo quindi dall’ignoranza inconsapevole (non so di avere un conflitto), e decidere di volerlo affrontare acquisendo degli strumenti che differiscano dal codice binario che prevede l’attacco o la fuga; passare ad un’ignoranza consapevole (so di avere un conflitto ma non so come affrontarlo). Le domande importanti da porsi in questo primo passo saranno: che cosa conosco di me nel conflitto? Che cosa mi hanno insegnato sul conflitto? Quando vivo un conflitto, che cosa è importante per me?
A partire dalla narrazione di situazioni conflittuali da me vissute, il lettore potrà così comprendere, anche ritrovandosi nelle dinamiche conflittuali narrate, cosa succede quando si è implicati in un conflitto, quali sono le nostre premesse che implicitamente permeano la nostra cultura basata sulla competizione, sullo scontro, sul metodo avversariale, sull’incapacità di ascoltare e sulla quasi totale mancanza di autoconsapevolezza emozionale, quali sono le nostre possibili distorsioni percettive, le nostre dinamiche di interpretazione e identificazione, i nostri pregiudizi e preconcetti, per affrontare i quali occorre lavorare sulle eventuali resistenze al cambiamento, così da modificare i blocchi interiori.
Il passo successivo sarà conoscere gli strumenti di gestione costruttiva del conflitto e praticarli nella nostra vita. Si tratta di partire da una conoscenza inconsapevole (ho compreso le dinamiche del conflitto e ho appreso la conoscenza degli strumenti, ma non sono ancora capace di scegliere consapevolmente quali atteggiamenti adottare). Il lettore verrà dunque invitato a dare le risposte alle domande: quando sono in un conflitto, che ascoltatore sono? Cosa sono capace di osservare? Sono consapevole delle mie emozioni? Si tratta qui di decidere se aprirsi al cambiamento, se accettare la sfida del conflitto come strumento di apprendimento dove, a partire da noi stessi, dai nostri conflitti, possiamo entrare in un nuovo mondo possibile che contiene nuove conoscenze che possono essere praticate: apertura alla "verità dell’altro e al suo punto di vista, accoglienza empatica, capacità di usare un linguaggio positivo e propositivo, ascolto attivo, capacità di lettura delle
parole chiave", capacità di fare domande esplorative e assenza di giudizio.
Per chi poi volesse arrivare fino in fondo, all’obiettivo più ambizioso, l’ultimo passo è giungere ad una conoscenza consapevole (ho compreso come funziona un conflitto, conosco gli strumenti per gestirlo e sono capace di scegliere consapevolmente quali atteggiamenti adottare per una gestione costruttiva). Si tratta qui di diventare coerenti con ciò che abbiamo appreso, con ciò che abbiamo imparato partendo dalla nostra esperienza personale, arrivando a trasformare noi stessi e le nostre relazioni. Il conflitto diventa quindi una via, un sentiero che porta a una meta che si può raggiungere solo se ci si mette personalmente in cammino.
Percorrere la via significa trasferire sin da subito nella realtà le conoscenze acquisite, significa modificare costantemente la propria vita e la propria esperienza, il proprio comportamento, diventare sempre diversi, essere sempre nuovi: in breve, decidere di imparare dai propri conflitti ed evolversi, passare da un paradigma di partenza dove il conflitto è concepito come scontro, attacco alla nostra personale identità, ad un nuovo paradigma dove il conflitto possa diventare veramente un’opportunità di conoscenza, conoscenza dell’essere più importante della nostra vita: noi stessi. Il testo è dunque costruito invertendo l’ordine dei fattori di un processo di apprendimento: attraverso la narrazione di vere storie il lettore potrà comprendere cosa succede quando si è implicati in un conflitto, che cosa sia possibile fare alternativamente all’attacco o alla fuga, quali strumenti ci possano aiutare per gestirlo costruttivamente.
Le storie sono narrate partendo dagli step indicati: ignoranza inconsapevole, ignoranza consapevole, conoscenza inconsapevole, conoscenza consapevole, i quali costituiscono anche i quattro capitoli in cui è diviso il testo. Nei capitoli I e II, dopo le narrazioni viene effettuata la disamina della teoria e poi la disamina della storia narrata, per infine offrire le istruzioni per l’uso del conflitto
, ovvero la mappa degli strumenti che possono essere utilizzati per la sua gestione costruttiva. Nei capitoli III e IV le storie narrate sono invece precedute da una premessa che fornisce gli elementi teorici necessari per rendere meglio comprensibile la disamina delle storie, a cui comunque seguono le istruzioni per l’uso del conflitto
.
CAPITOLO 1
IGNORANZA INCONSAPEVOLE
DA CHE PARTE STAI?
Era il 1979, avevo 14 anni e iniziavo il liceo classico. Ricordo bene che la prima domanda che un ragazzo mi fece non appena varcai la soglia dell’ingresso del liceo fu: Tu da che parte stai?
Poiché mi vide abbastanza frastornata dalla domanda, pensando di aiutarmi, mi diede una serie di possibilità. Avrei potuto scegliere se stare dalla parte del Collettivo Donne, del Collettivo Che Guevara, del FDG, ecc. Ignara del fatto che la mia risposta avrebbe dovuto catalogarmi e rendere visibile le mie idee attraverso l’appartenenza ad un gruppo contro un altro, molto ingenuamente risposi: Ma perché, devo stare da qualche parte? E soprattutto perché dovrei essere contro qualcuno?
Il ragazzo mi guardò con aria schifata e mi rispose che se non fossi stata da nessuna parte allora sarei stata una sporca qualunquista e che sarebbe stato necessario avere le idee chiare sul proprio schieramento per sapere chi fosse il tuo nemico.
All’epoca non capii perché non stare da una parte
mi dovesse qualificare come una qualunquista, peraltro pure sporca; ma soprattutto era completamente lontano dalla mia visione il dover avere per forza un nemico da combattere. Così vissi quell’anno, il 1979, che rappresentava la coda di importanti movimenti politici che avevano preceduto quegli anni, osservando ciò che gravitava intorno a me senza schierarmi da nessuna parte, senza costruirmi l’immagine di nemici che la pensassero diversamente da me e di conseguenza senza partecipare alle manifestazioni, alle occupazioni e in genere alla vita politica della scuola e così avallando il giudizio che mi venne appiccicato dal primo giorno di ginnasio: ovvero che io fossi una qualunquista. Non ero affatto consapevole di essere finita in un conflitto. Ero in una situazione di ignoranza inconsapevole.
Fu difficile per me comprendere a 14 anni l’importanza che tutti attribuivano agli schieramenti: sei di destra o sei di sinistra, sei fascista o sei comunista, sei femminista o sei maschilista. Non esisteva alternativa alla logica dello schieramento. Ricordo di aver vissuto quell’anno in solitudine, osservando in disparte la forza, il coraggio, il credo delle persone che, così sicure di sé, sapevano benissimo da che parte bisognava stare.
Subii molto i giudizi dei miei compagni di scuola che, nonostante non frequentassi alcuna discoteca, avevano aggiunto a qualunquista anche lo sprezzante giudizio di discotecara, quasi a volere umiliare ancora di più la mia incapacità di stare da una parte contro un’altra. La mia però non era incapacità, ma solo incomprensione. Non riuscivo a comprendere perché tutti avessero bisogno di catalogare, distinguere, sapere con certezza chi tu fossi, semplicemente distinguendo per credo e appartenenza politica e soprattutto mi risultava alquanto difficile comprendere come il motore di tutto ciò stesse nella lotta di un gruppo contro un altro.
Nelle mie elucubrazioni di adolescente ritenevo che gli esseri umani non potessero così semplicisticamente concepirsi solo per opposizioni. C’era qualcosa che non mi quadrava, sentivo che la lotta, la contrapposizione, le battaglie erano necessarie per favorire certi cambiamenti; certamente il mondo contiene delle battaglie, la primavera lotta contro l’inverno, gli uccelli lottano contro i vermi, i ragni contro gli insetti, ma queste battaglie sono contenute, ovvero sono controllate, per cui nessuna specie vince in senso definitivo.
Soltanto l’uomo combatte i suoi simili nella convinzione di avere dalla sua parte la verità
, di essere nel giusto e di pensare di conseguenza che chi sta dalla parte opposta sia dalla parte del torto, senza rendersi conto che dall’altra parte ci sono altrettante verità
, altrettante persone che ritengono di essere nel giusto e che di conseguenza ritengono corretto combattere la loro controparte.
Ciò che all’epoca mi mancava era l’acquisizione di una visione più ampia, che potesse cioè contenere entrambe le visioni senza il vincolo del giudizio. Ma non ero ancora in grado di concettualizzare ciò a 14 anni.
Mi ritrovavo in un conflitto senza esserne consapevole e pagavo il prezzo con il giudizio e l’ostracismo dei miei compagni.
Un ulteriore conflitto, anch’esso non riconosciuto, fu quello con l’insegnamento della filosofia, materia peraltro che ho sempre amato tantissimo.
Ciò che non capivo e che mi poneva in un atteggiamento contraddittorio con lo studio di questa materia, al punto che i miei voti oscillavano dalla insufficienza al massimo del punteggio ottenibile, senza un benché minimo ragionevole motivo, era perché al liceo si studiasse solo la filosofia occidentale, senza minimamente accennare all’esistenza di quella orientale.
Le domande che mi ponevo erano: come posso capire il pensiero dell’uomo studiando solo una parte del mondo? E se conosco solo una parte, non è che questo mi induce ad attaccarmi alle mie convinzioni di verità e giustezza fino al punto di arrivare a sostenere che il mio pensiero, la mia posizione, è migliore della tua e quindi a legittimarmi a combatterti?
Questa scelta di un programma scolastico che limiti la conoscenza ad un emisfero, senza conoscere l’altro, non mi piaceva.